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Overstep di Marion Seals

OVERSTEP

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MARION SEALS

Trovai i miei limiti ma non i miei confini. Taras Mithrandir

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10 dicembre

Iceman

Lo osservo mentre dorme. Sempre. Lui ovviamente non lo sa, altrimenti mi ritroverei davanti a un ego planetario, invece che solo gigantesco.

Allungo una mano per rimettere a posto una ciocca che gli è caduta sugli occhi e sorrido di fronte al suo borbottio indistinto. Non mi azzarderei mai a farlo se fosse sveglio, sono cambiato molto in questi ultimi mesi, ma non così tanto.

Mi alzo dal letto per andare a farmi una doccia. Io mi sveglio all’alba per abitudine, ma Randy risorgerà solo tra un paio di ore. Non faccio nemmeno due passi che inciampo e riprendo a stento l’equilibrio. Abbasso lo sguardo e fisso l’oggetto sferoidale e colorato che ha appena attentato alla mia vita. Deve essere “misteriosamente” evaso dalla scatola vicino al letto che ne contiene decine tutte uguali. Non riesco a trattenere un basso borbottio, più somigliante a un ringhio, a dir il vero. Trova sempre posti del cazzo per sistemare le sue stronzate! Nello specifico caso, un assortimento di palle di Natale, frutto del suo shopping natalizio compulsivo, che sono avanzate dopo che ha allestito un albero che sembra una sequoia gigante. Prendo un cambio ed entro bagno. Dicembre… In passato, odiavo questo mese, mi faceva sentire sempre fuori posto, mi costringeva a fare i conti con la mia solitudine, con quello che ero. Non che adesso lo ami, certe cose non possono cambiare in così poco tempo, ma il fatto è che ora sono legato a un uomo che, guarda caso, è una specie di maniaco di questa festività e sono costretto ad adeguarmi, almeno un po’, se voglio sopravvivere.

Sono quasi sei mesi che mi sono trasferito da Randy e le cose sembra che stiano andando bene, anche se ogni tanto devo fare sforzi sovraumani per non ucciderlo. Alla fine, dopo lunghe discussioni, abbiamo scelto il suo appartamento. Lui aveva proposto di comprarne uno nuovo assieme, ma io mi sono rifiutato di vendere casa mia, e alla fine si è dovuto rassegnare.

Come diretta conseguenza, ho dovuto negoziare con le unghie e con i denti per ogni spazio conquistato. Dormiamo nella sua camera – sostiene che le coppie devono fare così – ma in cambio ho ottenuto che quella degli ospiti diventasse il mio santuario, nel quale lui sarebbe stato ammesso solo in via del tutto eccezionale. Ci tengo le armi e l’ho sistemata con gli attrezzi da palestra e, soprattutto, posso rinchiudermi lì, isolarmi, quando il vecchio me ogni tanto fa capolino.

Entro dentro la doccia e l’acqua fredda mi strappa un sospiro di soddisfazione. La faccio calda solo quando lui decide di raggiungermi, il che capita molto spesso, ma mai la mattina così presto, per cui riesco a godermi questo momento tutto mio. Stare con Randy significa scordarsi la privacy e vedere la propria capacità di adattamento messa a dura prova e per uno come me è stato difficile. Sono felice? Più di quanto mi aspettassi, meno di quanto potrei. O almeno è quello che mi ripete la dottoressa Campbell. Si chiama proprio così, come la zuppa, e la incontro una volta alla settimana. Mi sta aiutando a ricostruire un nuovo me stesso sulle ceneri del vecchio. Dopo che le cose con Randy si sono sistemate, sono stato tentato di non seguire il consiglio della dottoressa Boucher, ma poi ha prevalso il buon senso. Ho ancora così tanta strada da percorrere e ho bisogno di una guida che mi aiuti a non deragliare.

Quando rientro nella camera alla ricerca di un cambio, lui ha scalciato le coperte lontano ed è a pancia in giù, come al solito. Mi riempio gli occhi alla vista del suo corpo nudo, mentre i ricordi del

sesso di ieri notte si fanno subito vivi. Per un istante sono quasi tentato di svegliarlo e ottenere ben più di una semplice occhiata, poi, come sempre, mi trattengo. Non sono mai io a iniziare, a chiedere, un’altra cosa su cui sto lavorando sodo con la terapeuta.

Mi avvicino e afferro il lembo del piumone per coprirlo, non voglio che prenda freddo, ma lui mi agguanta per un braccio ridacchiando. «Preso!» esclama con voce allegra, voltandosi a guardarmi. Non posso fare a meno di sorridere. «Buongiorno» lo saluto, sedendomi sul letto. Lui mi abbraccia con quello slancio di allegra spontaneità che gli invidio da sempre, e la sua bocca sul mio collo è qualcosa che non si può descrivere a parole, per cui neanche ci provo. «Il mio bestione» mormora sulla mia pelle. «Mhmm... sai di buono.» E subito si fa vivo il solito brivido di aspettativa, quella sensazione di precipitare che mi coglie ogni volta che sono con lui.

Mi fa sdraiare e mi strappa l’asciugamano, gettandolo a terra; poi si butta letteralmente su di me. La sua bocca che cerca la mia è come sempre esigente; è strano, anche se oramai mi sono abituato alle maratone di sesso, baciarlo resta una di quelle cose che riescono a trasformarmi in burro fuso. Ma questa è un’altra confessione che non gli farò mai.

La sua mano scende dalla mia spalla al braccio, fino alla curva del fianco, e la mia reazione non si fa attendere. «Cucciolo, sei sempre una garanzia» mi prende in giro. «Randy» borbotto. Protesto sempre in risposta a quell’assurdo nomignolo del cazzo, ma non sono ancora riuscito a impedirgli di usarlo, naturalmente. «Hai ragione, scusa» ribatte serio, facendosi un po’ indietro. Poi mi osserva malizioso. «Ora devo farmi perdonare, vero?» chiede, prima di scivolare rapido lungo il mio corpo e prenderlo in bocca. Sobbalzo e quasi mi mordo la lingua per la sorpresa. Lo lascio fare, chiudendo gli occhi e inarcando i fianchi. Gli metto una mano sulla testa per indicargli il ritmo che preferisco e lui non si fa di certo pregare. Dopo un po’ solleva la testa e mi chiede con voce roca: «Ti piace?» Randy ama parlare anche in certe circostanze, naturalmente. «O magari ti piace più così» mormora e poi lo prende tutto, fino in fondo. «Zitto!» esclamo inarcandomi ancora di più «Mi sa che ti piace più così» continua, ignorandomi e leccandolo dalla base alla punta. «Randy!» Appoggia il mento sul mio ombelico e mi guarda dritto negli occhi. «Lo faccio per te, prendilo come una specie di training» dice malizioso. «Posso continuare?» Faccio una smorfia rassegnata che gli strappa un sorriso enorme: è il segnale che gli lascia campo libero. Riprende a darsi da fare e, se possibile, con più entusiasmo. Io prendo un bel respiro e mi godo il momento. Quando sono quasi al punto di non ritorno, lo afferro per i capelli e gli faccio capire che voglio che si fermi. Obbedisce subito e risale piano lungo il mio corpo, non staccando i suoi occhi carichi di aspettativa dai miei. Dalla sua espressione capisco che sarà una di quelle volte, e questo perché Randy non si arrende. Mai.

So che cosa vuole. È da un po’ che cerca di dirmi in tutti i modi che gradirebbe che io… che lui… insomma… reciprocità. Si sta dimostrando incredibilmente paziente con me, non mi forza mai in realtà e mi lascia sempre una via di fuga, la possibilità di dire no. A volte, il fatto che mi conosca così bene mi terrorizza. Vorrei davvero accontentarlo, ma non ci riesco, non ancora. È più forte il senso di disagio che continua a restare ostinatamente ancorato in un angolo del mio cervello.

La Campbell ha detto che sono restio a concedermi perché ho un problema con il controllo e perché, quando succederà, dovrò ammettere definitivamente che sono gay. Quando ho protestato ribattendo che sono del tutto consapevole di essere già gay, prima mi ha guardato con un’espressione scettica e poi ha sorriso. Proprio come faceva la Boucher. Maledetti strizzacervelli! Con un colpo di reni, porto Randy sotto di me e in un attimo recupero il lubrificante.

Il difficile è sempre iniziare, ma non appena lo penetro, mi perdo; la sua mano sulla nuca, il suo sapore nella mia bocca, io che lo tocco, i sensi che vanno in sovraccarico e fanno quasi male.

Non ero abituato a dare, non ero abituato a ricevere, mi limitavo a prendere. Con Randy sto sperimentando la condivisione, anche se, talvolta, percepisco ancora un rigurgito acido di intolleranza verso me stesso.

Un bel po’ di tempo dopo, quando si distende su di me e appoggia la testa sul mio petto, ha un sorriso enorme stampato in faccia. «Parola mia, Cucciolo, diventi ogni giorno più bravo.» «Randy...» lo ammonisco. Sbuffa. «Ma sei proprio allergico ai complimenti, Cucciolo!» e ridacchia senza pudore. Lo guardo di traverso, anche se so che non servirà a niente. Per un po’ si limita ad accarezzarmi. Naturalmente, dopo il sesso ama le coccole e, per strani meccanismi della mente, mi sto quasi abituando anche a questo. «Iceman, con chi lavori oggi?» chiede con tono solo in apparenza casuale. Merda… Ho già capito dove vuole andare a parare, perciò mi limito a borbottare un verso incomprensibile. Mi tira forte i peli del petto e io sobbalzo. «Ahi, Randy!» «Rispondi!» Ecco, ci siamo. Chissà come l’avrà scoperto? Forse da qualche maledetta rivista. «Oggi sono solo». Alza la testa di scatto. «Quindi lei è già arrivata in città?» «Può darsi» rispondo cercando di tenerlo sulle spine. Mi lancia un’occhiata di fuoco. «Icy!» «Sì.» «Ti prego, ti prego, ti pregooo, fammi venire con te! Andiamo a prenderla e poi mi accompagnate alla maison e…» «Lo sai bene che è contrario alle regole della Black!» ribatto severo. «E tu lo sai bene che io e lei siamo diventati amiconi!»

«Amiconi? Sembravi un dannato stalker! Ti ricordo che ti ho trovato davanti al SUV della Black di fronte all’entrata del Four Seasons, e che hai cercato di farti passare per un mio collega! Avrebbe potuto denunciarti!»

Sbuffa. «Sono solo stato creativo! Volevo un autografo e, parlando, abbiamo scoperto di avere molto in comune, succede tra esseri umani. Poi, mi pare che abbia apprezzato, altrimenti non mi avrebbe permesso di trascorre l’intero pomeriggio con lei e di accompagnarla a fare shopping. Quando due persone condividono la scelta di un paio di Manolo Blahnik, si creano dei legami fortissimi. Mi ha anche detto che una volta tornata a New York le avrebbe fatto piacere rivedermi! Magari oggi ti chiederà di me, quindi perché non anticiparla?»

«E perché non ti ha dato il suo numero di telefono? Avrebbe potuto usarlo per dirti che oggi sarebbe stata qui, se avesse voluto davvero rivederti.» Usare la logica con Randy è inutile, ma io mi ostino ogni volta. «Non me l’ha dato solo perché non gliel’ho chiesto!» sbotta. «Non ho voluto invadere la sua privacy!» Gesù! Quando è in città, vengo sempre assegnato alla protezione di Kymera, la cantante che Randy adora.

Ryons ha sempre un occhio di riguardo per lei e mi ha chiesto di occuparmene personalmente. «No, Randy», ripeto, provando a resistere. Mi guarda in tralice. Poi con deliberata lentezza si china sul mio petto e passa la lingua su uno dei miei capezzoli. «Posso essere molto persuasivo, come ben sai.» Esattamente un secondo dopo si ritrova supino sul letto, da solo, perché io sono già in piedi e fuori dalla sua portata. «Errore strategico, Bennett, in guerra il tempismo è tutto. Dovevi chiedermelo prima.»

Si solleva sui gomiti e allarga le gambe. «Sicuro, sicuro?» domanda passandosi la lingua sulle labbra. Sorrido e ribatto, con voce ferma e controllata: «Certo». Dentro di me però è tutta un’altra storia. Ci fissiamo per alcuni secondi e spero davvero di riuscire a non dargliela vinta. Maledizione, ero abituato a trovarmi in mezzo al nemico armato fino ai denti… me la posso cavare. Spero... Quando Randy capisce che la “strategia della seduzione” non sta funzionando, sgancia la bomba:

«Potrai tenere la tua poltrona in soggiorno.»

- 2 -

10 dicembre

Randy

In macchina, seduto accanto a lui, penso che incontrare Kymera mi costerà la perdita dell’armonia del mio soggiorno. La sua vecchia poltrona nera, in pelle, logora e rabberciata in un paio di punti con dell’orribile nastro adesivo, color grigio topo, troneggerà a fianco del mio divano; un insulto alla bellezza e all’eleganza.

La verità è che stavo aspettando solo l’occasione giusta per fargliela mettere ugualmente senza perdere la dignità e, soprattutto, senza fargli capire che sarei disposto a concedergli qualunque cosa, qualunque. Perché lui è il mio personale miracolo e tutte le volte che lo guardo capisco quanto ogni momento bello della mia vita, in questi ultimi mesi, sia dipeso da lui. E mi sto godendo davvero ogni istante, perché quello che voglio è lui, tutto il pacchetto, petali e spine compresi. Lo aspetto sul SUV mentre lui entra dentro il Four Seasons, dove Kymera risiede quando è in città. Quando lo vedo uscire accanto a lei e guardarsi intorno circospetto come gli ho visto fare centinaia di volte, è così sexy che gli vorrei saltare addosso seduta stante. E anche confezionato in un elegante completo, anni luce migliore dei precedenti visto che questo l’ho disegnato apposta per lui, resta pur sempre un selvaggio vestito bene. Il mio selvaggio. Iceman le apre la portiera e Kymera sale, accomodandosi sui sedili posteriori. Appena si accorge della mia presenza emette un gridolino di contentezza. «Il mio stilista preferito! Se mi vestissi ancora da uomo» dice allungando una mano per toccarmi una spalla. «Ciao, bellissima!» la saluto con affetto. «Non hai idea di quanto sia contenta di vederti» asserisce, mentre Iceman parte. «La cosa è reciproca» ribatto sorridendo felice. Poi getto un’occhiata a Iceman e resisto alla tentazione di urlargli: “Te lo avevo detto!”, limitandomi a dargli un buffetto che gli strappa un verso per niente rassicurante. Adoro Kymera, adoro la sua musica e vorrei conoscerla meglio anche come persona, perché ho come la sensazione che potremmo davvero avere molto in comune. «Randy, hai da fare qualcosa di fondamentale oggi?» chiede con gli occhi che le brillano. «Perché?» chiedo incuriosito. «Te la senti di accompagnarmi a fare shopping?» «Bambina! Formula magica, che apre le porte del mio cuore come poche altre. Forse superata solo da “succhialo più forte, Randy!”» ridacchio, lanciando un’occhiata allusiva all’uomo che guida accanto a me.

La pacca, molto forte, che Iceman mi dà sul braccio strappa un gemito a me e una risata di cuore a Kymera.

Afferro il cellulare e mi preparo agli insulti di Margot, che arrivano puntuali non appena le comunico che per un paio di ore, o forse più, dovrà fare a meno di me. Si calma solo quando le dico con chi sono, perché il suo arido cuore, votato al marketing, sta già elaborando l’impaginazione delle testate di gossip se mai dovessero avvistarci e fotografarci assieme, cosa che succederà senza ombra di dubbio.

Un’ora dopo, negli eleganti camerini di Armani, Kymera sta provando un vestito favoloso con il quale vorrebbe andare ospite a Good Morning America. Iceman è in attesa, non molto distante da noi, vigile e discreto. A un tratto la sento imprecare attraverso la porta. «Kymera, tutto bene?» Quello che riesco a capire è “fanculo” e “cerniera”. Ridacchio. «Ti chiamo la commessa?»

La porta si spalanca e lei mi afferra per un braccio, trascinandomi dentro. «Non riesco a uscire da questo maledetto vestito» dice sconsolata, girandosi e indicandomi la cerniera dell’abito rosso fiamma, senza spalline.

«Sembri Jessica Rabbit, tesoro, sei bellissima. Lascia che il tuo Roger ti aiuti.» Le sorrido. «Ora girati, non è il mio campo specifico, a parte la zona della patta dei pantaloni, ma sono piuttosto sicuro di potercela fare comunque.»

La mia battuta le strappa una risata. Mi dà le spalle e, dopo qualche tentativo, riesco a disincastrare il pezzo di stoffa che si era impigliato e ad abbassare la cerniera fino alla fine.

Per l’inevitabile legge di gravità, il vestito scivola fino alle caviglie, mostrando il suo corpo coperto solo da un minuscolo tanga.

I miei occhi vanno in automatico alla sua immagine allo specchio e… qualcosa non quadra. No, no, no! Là sotto, qualcosa non quadra proprio. Allungo un po’ la testa per osservare meglio: o è il tucking più perfetto che io abbia mai visto, oppure...

«Colonvaginoplastica» spiega. «Sono già un paio di anni» aggiunge, mentre torno a guardare il suo volto, riflesso nello specchio. «Wooow!» esclamo, decisamente sorpreso. Questa sì che è una notiziona! Qualcosa a metà strada tra l’ubicazione del Santo Graal e la vera ragione per cui esistono i pantaloni corti con il risvolto. Si gira e mi fissa con fare determinato. «Randy, inutile dirti che lo devi tenere per te.» «Inutile dirti che con me è al sicuro.» Sorrido e lancio un’occhiata al suo petto. «Belle tette, comunque, non sembrano neanche rifatte.» «Il mio chirurgo è un artista nel campo» ribatte, facendomi l’occhiolino. «Lo vedo!» Ridacchio. «Senti, non per farmi gli affari tuoi, ma perché non lo riveli?» «Farebbe male agli affari o, almeno, così sostiene il mio manager» risponde con un’alzata di spalle.

«Quindi lo sanno pochissime persone fidate.» «E quelli con cui fai sesso? Tengono la bocca cucita senza problemi?» chiedo sinceramente incuriosito. Mi guarda con un’espressione eloquente e poi allarga le braccia. Per la miseria! «Nooo!» esclamo. «Non hai fatto sesso con nessuno negli ultimi due anni?» Per un attimo abbassa lo sguardo. «Che ti devo dire? Non è semplice fidarsi. Al di là della “questione affari”, io stessa non sono ancora pronta a dirlo al mondo e poi…» Si passa una mano tra i capelli, nervosamente. «Insomma, ho sempre interagito con uomini che avevano delle inclinazioni particolari. Adesso dovrei avere a che fare con maschi eterosessuali e sono letteralmente terrorizzata. Non so se ho reso l’idea.»

Ci fissiamo per qualche istante con una specie di intesa consapevole e poi, con tutta l’ammirazione di cui sono capace, le dico: «Sono più che sicuro che saprai cavartela. Non ti conosco ancora bene, anche se vorrei rimediare, ma da quel poco che so di te, anche se te le sei fatte asportare, sei una delle persone con più palle che conosca.»

Mi guadagno una carezza su una guancia e uno sguardo pieno di gratitudine. Poi indica il vestito rosso. «Prendo questo, cosa ne pensi?» «Approvo. Assolutamente.» Mentre si riveste, mi chiede: «E a te come vanno le cose?» e lancia uno sguardo significativo verso la porta. Ovviamente allude a Iceman. Valuto per un momento che cosa sia il caso di rivelare, ma poi penso

“al diavolo” meglio fuori che dentro. Sbuffo. «Difficile. Molto. Però è l’uomo che amo, temo di dovermelo tenere così, con tutti i difetti.» «Per me è perfetto e tu sei un fortunato figlio di puttana» ribatte. «Diciamo che mancano ancora due particolari perché tutto sia come dovrebbe essere» mormoro, quasi a me stesso. «E cioè?» domanda incuriosita. È il mio turno di allargare le braccia.

«Una certa riottosità verso i pompini» dico alzando l’indice.

«Nel senso che non gli piace farselo succhiare?» chiede con finta ingenuità. Alzo gli occhi al cielo e lei ridacchia. «Dai, Randy, non un problema insormontabile, quando si sentirà pronto lo farà. Succede sempre così» afferma sicura. «No, certo» confermo cercando di essere ottimista. «E poi?» Alzo l’altro dito. «Io sono sempre stato attivo.» «Ah...» «Eh...» Ci guardiamo per qualche istante, prima di scoppiare a ridere. «Parola mia, Randy, sei incasinato quanto o, forse, più di me. Però sono sicura che riuscirai a far breccia. Da come Finnigan ti guarda, ti ama. E se ne accorgerebbe anche un cieco.» «Lo so, però non riesco a togliermi dalla testa che potrebbe non fidarsi mai abbastanza di me, e di se stesso, per lasciarsi andare. È un uomo abituato ad avere sempre il controllo.» Finito di vestirsi, afferra l’abito rosso e mi guarda. «Lo sai qual è la cosa bella, Randy?» «C’è una cosa bella?» «Certo. Quando perderà il controllo, farà di te l’uomo più felice del mondo. Non esistono conquiste facili nella vita, quando sono gratis capisci che non ne valeva la pena.» Vero... «Ora devo andare. Tornerò a New York per il concerto di Capodanno. Ci vediamo?» «Mi piacerebbe molto. Magari ci scambiamo i numeri di telefono, così non dovrò negoziare con quel bestione e perdere altri metri quadri» borbotto. «In che senso?» chiede perplessa. «Lascia perdere, ma ricordati che convivere è una guerra» ridacchio. Lei mi dà il suo numero e io le faccio uno squillo perché possa salvarsi il mio. Quando usciamo a braccetto, ridacchiando, Iceman ci guarda perplesso. «Mio guardiano,» esordisce Kymera «accompagniamo questo rompipalle al lavoro e poi andiamo a spaccare un po’ di culi, mi sento in forma per quella demo.» Questo strappa anche a lui un breve sorriso. Più una smorfia, in effetti.

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15 dicembre

Iceman

Rientrare a casa e trovare qualcuno ad attendermi; questa è una delle cose che mi piacciono di più, sorprendentemente.

«Randy?» chiamo, togliendomi il cappotto e allentando la cravatta che mi ha torturato per tutto il giorno. «Sono tornato.» Sono distrutto, ma per fortuna ho il fine settimana libero. Lui si fionda fuori dalla zona notte e si precipita su di me, avvolgendomi in uno di quegli abbracci totali, che definisco “abbracci alla Randy”. «Il mio bestione» dice baciandomi sul collo. «Non vedo l’ora di passare il week-end con te, solo noi due.» Sorrido davanti al suo entusiasmo. «Che cosa stai preparando?» chiedo, annusando il profumo che arriva dalla cucina. Lui si scosta e mi guarda malizioso. «Che cosa mi porta, di solito, più vicino al tuo cuore?» «Bistecca al sangue con patatine», rispondo senza esitare neanche un secondo. «E, signore e signori, abbiamo un vincitore! Per fortuna hai gusti semplici, Cucciolo, così questo ci consente di dedicare più tempo ad attività di ben altro genere. Prima cibo o sesso?» chiede accarezzandomi attraverso il tessuto dei pantaloni.

«Doccia, cibo e poi si vedrà» borbotto. Ancora mi imbarazza questo suo modo diretto di alludere a certe cose, non ci posso fare niente.

Alza gli occhi al cielo. «Perché non riesco mai a negarti nulla? Fila a toglierti la giornata di dosso, io intanto apparecchio e finisco di cucinare.» Non me lo faccio ripetere: in meno di due minuti sono sotto la doccia. Sto morendo di fame. Una volta fuori, lasciando i capelli umidi, indosso una T-shirt e i pantaloni della tuta, prima di andare in cucina

«Siediti, o mio guerriero!» dice mettendo sul tavolo un piatto con una bistecca enorme, inondata da croccanti patate al forno. «Ho procacciato questo cibo per nutrirti e tenerti sempre in forma, senza secondi e turpi fini, ovviamente.»

Mangiamo, mentre mi racconta la sua giornata, con quegli aneddoti divertenti che mi fanno sempre sorridere.

«Alla maison oggi è passato Johnny Deep, un delirio. Voleva uno smoking per non so quale première. Ovviamente, qualcosa che ricalcasse il suo stile e ha bocciato tutti i bozzetti che piacevano a me, optando per un orribile modello che avevo disegnato solo perché oramai credo di aver inquadrato la sua patologia. Il bello però è arrivato quando si è trattato di prendere le ultime misure, ci è voluta tutta la mia diplomazia per fargli credere di essere ancora una taglia media. Devo ricordarmi di non mettere l’etichetta L, altrimenti si farà venire una crisi su qualche red carpet. Misashi gli ha palpato il culo con la scusa che ci fosse una imperfezione nei pantaloni. Prima o poi lo denunceranno per molestie, me lo sento.» È circondato da pazzi psicopatici con i quali non lavorerei neanche sotto tortura. «Margot dice che il nostro fatturato è triplicato dalla sfilata di inizio anno e il proprietario della maison oggi girava con una faccia da ebete felice. Cucciolo, credo che potremo proprio permetterci il pranzo di Natale, noi due» ridacchia. Quel “noi due” mi colpisce, come tutte le volte in cui lo usa: mi piace, ma ancora mi spaventa. Prende un sorso di vino e mi fissa con sospetto. «A proposito, l’hai già scritta la letterina per Babbo

Natale?» Merda!

Il mio problema più grosso, al momento, è pensare a un regalo per lui. È il nostro primo Natale insieme e, per quanto io me ne fotta di queste cose, so che lui ci tiene, e parecchio, visto che me lo ha fatto capire in tutti i modi. E non avendo la minima idea di cosa regalargli, so che dovrò scendere a compromessi con me stesso e chiedere aiuto a qualcuno. I primi nomi della lista sono quelli di Dora e Misashi. In entrambi i casi sarà un incubo, penso rassegnato.

«Bennett, qualcuno si deve essere dimenticato di dirti che Babbo Natale non esiste» ribatto tergiversando.

«Tu sei peggio del Grinch!» esclama, con una mano sul petto, fingendo orrore e indignazione. Alla mia occhiataccia, cambia strategicamente argomento: «Com’era la bistecca?» «Eccezionale» borbotto. «Come sempre.» Sbuffa. «Icy, guarda che i complimenti sono gratis.» «No, non è vero. Con te niente è gratis.» Ridacchia e mi manda un bacio schioccando platealmente le labbra. Lo ignoro e mi alzo per sistemare i piatti nella lavastoviglie. Chi cucina non pulisce, una di quelle regole già negoziate e consolidate.

Una volta finito, mi ricordo che c’è una cosa molto importante che devo ancora fare. Vado nella vecchia stanza degli ospiti e afferro la mia poltrona per portarla in soggiorno; adesso potrò guardare la televisione, o leggere, comodamente seduto su questa vecchia signora. La sistemo accanto al divano e la guardo con soddisfazione. Sì, adesso è un po’ più casa... Quando le sue braccia mi stringono da dietro, non sono sorpreso: si muove come un elefante e lo avevo sentito avvicinarsi. «Cucciolo, adesso tu mi spieghi come riesci a far diventare eccitante anche un trasloco» sussurra, baciandomi la nuca. «Talento» riesco ad articolare, mentre la sua mano si è già spostata sul davanti, infilandosi nella mia tuta.

Chiudo gli occhi e lascio che il mio respiro segua il ritmo delle sue carezze e la mia mente anticipi quello che succederà tra un po’. Appena il solito brivido mi attraversa la spina dorsale, lo fermo e mi giro, caricandomelo sulle spalle per portarlo in camera. «Bestione» dice con affetto, accarezzandomi la schiena. Lo metto a terra e, come sempre, lui inizia a spogliarsi con rapidità. Io, come sempre, vado molto più piano, anche se so che questo lo esaspera. Ho appena finito di piegare la maglietta e sto passando ai pantaloni, quando fa un verso esasperato. «Icy!» Ok, i pantaloni possono aspettare. Mi avvicino e mi avvolge tra le braccia, e mi bacia a lungo e io… io mi perdo, come accade ogni volta. È come tuffarsi in lui, smarrire qualunque contatto con la realtà.

Poi la sua bocca scende sempre più in basso, fino a quando lui non si inginocchia ai miei piedi e inizia a succhiarmelo. Mi spedisce dritto in orbita e devo fare dei respiri profondi per mantenere il controllo.

Dopo qualche minuto, si rialza e mi spinge gentilmente verso il letto, facendomi mettere a pancia in giù. Chiudo gli occhi e lascio che baci e lecchi il mio corpo in un lento viaggio. Quando arriva all’altezza del sedere e lo morde, io sobbalzo. «Rilassati» sussurra. Si allunga su di me, strusciando l’erezione nel solco delle mie natiche e trattenendomi per i polsi. Anche se so bene che non farebbe mai niente senza il mio permesso, il cuore inizia a pompare e le prime fitte di panico si irradiano ovunque.

Quando le sue dita tentano di penetrarmi, gli do una leggera spinta, quel tanto che basta a liberarmi e costringere lui sul materasso, di schiena.

Mi guarda con la solita espressione che ha quando ci prova e io mi rifiuto – un misto di delusione, di insoddisfazione e, forse, anche di rabbia – ma io sono diventato bravo a ignorare certi segnali.

Sposto un braccio verso il comodino e recupero il lubrificante. Mentre con le dita inizio a prepararlo per me, lui si allunga alla ricerca di un bacio. Cerca sempre il contatto. Sempre. A volte mi piace, a volte, come stasera, ancora mi disturba. Lui vuole fare le cose in modo lento, mentre io sento l’impulso di finire il prima possibile. Un altro punto su cui devo lavorare, secondo la Campbell.

Ignoro la sua bocca e lo guardo dritto negli occhi. Lui annuisce e, tentando di contenermi, entro piano in lui. Non riesco a trattenere un qualcosa a metà tra un sospiro e un ringhio. Quando capisco che si è adattato, mi lascio andare e inizio a pompare, mentre con una mano lo masturbo: almeno ho imparato a fare quello.

Quando è al culmine mormora, come sempre, parole senza senso e io lascio che la natura segua il suo corso, venendo subito dopo di lui. Come finisco, esco immediatamente e mi lascio cadere al suo fianco, ansimando. Mi preparo al suo abbraccio, sperando di riuscire a mascherare il fatto che vorrei non mi toccasse in questo momento. Odio quando mi chiede qualcosa che non sono capace di dargli. La colpa non è sua, ma io sento comunque le vecchie saracinesche che scendono di schianto e mi isolano. Da lui, da tutto. Invece, si solleva e resta qualche secondo seduto sul letto, come se non sapesse bene cosa fare. Poi si alza e io lo osservo mentre va verso il bagno, la schiena rigida e i pugni stretti. Da quando viviamo assieme è la prima volta che si allontana da me senza neanche toccarmi, dopo il sesso, e questa consapevolezza mi mozza il respiro. Sento il rumore della doccia e, ancora una volta, mi sento sporco e inadeguato. Quando torna in camera, si avvicina alla cassettiera e prende un pigiama. Se lo infila, restando in totale silenzio ed evitando di guardarmi, e questo fa davvero male.

Mi alzo anche io, sempre in silenzio, e vado a darmi una ripulita. Poi mi lavo i denti e, quando ho finito, resto a osservare la mia immagine allo specchio. Vorrei cancellare quello sguardo rassegnato, vorrei reagire e riprendere in mano la mia esistenza, vorrei riuscire a rendere felice Randy. Con un’imprecazione colpisco la superficie di marmo di fianco al lavandino. Maledizione! Quante volte ancora dovrò fare i conti con la mia vita sbagliata? Ci metto un po’ a calmarmi e a ritornare in camera: quando entro, la luce dal suo lato è già spenta. Mi muovo piano, recuperando i boxer e la maglietta che indossavo; una volta infilati, raggiungo la mia parte di letto. Mi sdraio sotto le coperte e spengo la lampada sul mio comodino. Sento che il suo è respiro irregolare, segno che è ancora sveglio. Non so cosa fare, non lo so mai. Vorrei abbracciarlo e trovare le parole per fargli capire quanto, a volte, tutto sia troppo per me, ma non ci riesco perché non sono in grado di promettergli che passerà, che sarò capace di essere l’uomo che lui si merita. «Mi dispiace» mormoro, infine. Ed è l’unica cosa di cui sono sicuro. Passano diversi secondi e poi percepisco che si muove verso di me, e sento la sua testa sulla mia spalla. Non dice niente, so bene di averlo deluso. Andrà meglio, penso. Sì, deve andare meglio. Per forza…

- 4 -

15 dicembre

Randy

Non riesco a prendere sonno. Lui, invece, sì. Quando ho messo la testa sulla sua spalla, si è come calmato, addormentandosi poco dopo. Nel sonno, ha anche posato un braccio sul mio fianco, un gesto che non farebbe mai da sveglio, perché sono sempre io a cercare un contatto, sono sempre io a prendere l’iniziativa e sono sempre io quello che deve far i conti con i suoi rifiuti. Devo sempre camminare in punta di piedi, soppesare ogni gesto e ogni parola, per non farlo sentire “costretto”. Lo amo da impazzire, ma anche io sono umano e inizio a percepire un peso nel petto difficile da ignorare. Per la prima volta, stasera, dopo aver fatto l’amore con lui, non ho avuto voglia di abbracciarlo e non è un buon segno. Per niente... Qualche giorno fa mi ha detto che la sorella ci aspetta per il ventidue dicembre, perché vorrebbe che passassimo il Natale con lei e la sua famiglia a Shreveport, e la cosa mi ha reso felice. Poi però ha subito aggiunto che non devo sentirmi obbligato a tornare in Louisiana con lui. Come lo devo interpretare? Lo ha detto per darmi la possibilità di rifiutare, ma vorrebbe che andassi con lui, oppure era un modo per dirmi che ci vuole andare da solo?

Stavo quasi per rispondergli in malo modo e mi sono trattenuto a fatica: in certi momenti lo strozzerei molto, molto volentieri. Intanto, ho comunque acquistato i biglietti per il viaggio, perché un uomo deve pur mantenere viva la speranza in qualche modo.

Vorrei che lui si fidasse di me, che mi facesse entrare in ogni modo possibile. Lo vorrei tanto. Vorrei fargli capire quanto è bello abbandonarsi. Non è solo una questione di egoistico piacere sessuale, è che davvero non lo sento del tutto mio, senza l’ultimo atto in grado di cancellare qualunque barriera tra noi.

So che dovrò avere tanta pazienza, ma ogni volta che mi sembra di fare un passo avanti, lui ne fa tre indietro. Per quanto io lo ami, e per quanto lui abbia dimostrato di amare me, non sono uno stupido. Ho conosciuto coppie molto meglio assortite di noi che sono state incapaci di superare le piccole diversità e alle quali l’amore non è bastato. Io non voglio che ci accada una cosa del genere perché noi due ci meritiamo di essere felici. Cazzo, se ce lo meritiamo! Convincerlo a restare con me è stato come scalare un montagna ripidissima, e ho affrontato tempeste e insidie di ogni tipo. E solo quando sono arrivato in cima, nonostante abbia visto tutto quello che ancora mi aspettava, ho capito che avrei rifatto quello stesso percorso mille e mille volte. Avevo una sola certezza: per Iceman varrà sempre la pena provarci, perché oramai è una di quelle persone senza le quali la mia vita non avrebbe senso. Soltanto se dovessi mai capire che è infelice e che le mie esigenze dovessero rischiare di fargli perdere ciò che ha così faticosamente conquistato, so già che rinuncerei alla mia di felicità, in favore della sua. E lui non lo dovrebbe mai sapere perché, se ho imparato a conoscerlo, tenterebbe di fare lo stesso ed entreremmo in un circolo vizioso dal quale sarebbe impossibile uscire, finendo solo per farci del male e odiarci. Alla fine, cullato dal suo respiro, mi assopisco. Mi risveglia una specie di terremoto, o qualunque cosa stia facendo tremare il letto. Capisco subito che è lui in preda a uno dei suoi incubi. Quando l’ho convinto a trasferirsi da me, non voleva che dividessimo la stessa stanza da letto, ma io sono stato irremovibile su quel punto. Che senso ha vivere assieme se non si condivide uno degli aspetti più intimi come il dormire? Qualche giorno più tardi ho capito perché fosse così restio. Fa spesso sogni agitati, molto agitati, durante i quali di solito borbotta nomi o canta strane cantilene. Quando gli ho chiesto spiegazioni su quelle canzoncine si è limitato a rispondere: “Roba da cecchini” e io non ho insistito.

Mentre continua a muoversi, mormora qualcosa a fior di labbra e io lo abbraccio stretto. Dopo qualche minuto si calma e mi stringe a sua volta, senza svegliarsi.

So che si sta facendo aiutare da qualcuno, come aveva già fatto quando era stato in Louisiana lo scorso anno, ma non mi ha voluto fornire altri particolari. In certe cose resta blindato, inaccessibile. Speravo in cuor mio che lo psicologo mi coinvolgesse, ma forse è troppo presto. Sarei disposto a tutto pur di aiutarlo, anche andare da uno di quegli odiosi impiccioni.

La cosa tristemente buffa, in tutta questa storia, è che è stato così difficile conquistarlo che non mi ero molto preoccupato del “dopo” a dire il vero. Quando si dice l’ottimismo. Avevo la stupida speranza che le cose si sarebbero aggiustate da sole, che dopo il suo coming out tutto sarebbe tornato nella giusta prospettiva, senza grandi sforzi. E invece… Io però sono sicuro che le cose miglioreranno, devono farlo, magari domani, o magari un altro giorno, ma lo faranno. Mi riaddormento con il sorriso sulle labbra. Mi sento tanto Rossella O’Hara, in certi momenti.

- 5 -

18 dicembre

Iceman

Lo guardo valutare le scarpe che il commesso ha tirato fuori per lui come farebbe un animale predatore. Non comprenderò mai questo suo interesse, ma se lo rende felice non è necessario che io capisca. Probabilmente dentro un’armeria mi comporterei in modo del tutto simile.

«Randy, tesoro, abbiamo anche questo modello. Sono assolutamente divine, te lo posso assicurare. Edizione limitata e dopo che le indossi ti dimentichi di averle ai piedi. Niente da dire, gli italiani sono i migliori.»

Il commesso che ci sta servendo è proprio il genere di uomo che ho imparato a detestare negli ultimi mesi. Non perché sia effemminato o snob, ma perché, mentre si rivolge a Randy, passa una mano sul suo braccio in un gesto fin troppo intimo Il fatto è che Randy piace. Qualunque omosessuale nel raggio di chilometri sembra inevitabilmente attratto da lui. Non che la cosa mi sorprenda, mi dà solo fastidio, un fastidio che comincia a diventare insopportabile.

Osservo di nuovo il tizio, che ora in pratica gli si sta strusciando addosso, e tento di ricordarmi la pena per le lesioni gravi, mentre incrocio il dato con la bravura dell’avvocato della BLACK. Potrei cavarmela. Non so se le confidenze che il coglione si sta prendendo siano normali, perché sto ancora imparando a muovermi nel “mondo” di Randy.

Mi rendo conto che il mio atteggiamento di indifferenza autorizza chiunque a credere di poter mettere le mani su ciò che è mio. Una parte di me vorrebbe andare lì e far capire a quello stronzo come stanno le cose, invece, è più forte di me, continuo a comportarmi con freddo distacco. So che questo non piace a Randy, ma, sorprendentemente, mi sta lasciando libero di gestire le cose a modo mio. Il tizio sistema il nuovo paio di scarpe vicino al divanetto e gli dice: «Perché non le provi, Randy?» Hanno un prezzo talmente scandaloso che dovrebbe essere illegale venderle. Lui si siede e l’altro si piega sulle ginocchia per aiutarlo a indossarle e, mentre lo fa, la sua mano resta appiccicata con insistenza al polpaccio di Randy. Un colpo ben assestato alla nuca e potrà dire addio al midollo allungato e alle funzioni respiratorie.

Non ci vorrebbe poi molto. Quando ha finito di provare le scarpe, Randy si rivolge a me con un sorriso. «Tu non vuoi niente?» Lo guardo per qualche istante e poi prendo una decisione. «Tesoro,» dico restituendogli il sorriso «pensavo mi preferissi con gli anfibi. Qui non c’è molto per me.» «Se è per quello, Cucciolo, ti preferirei con niente addosso, ma sarebbe inopportuno portarti in giro come mamma ti ha fatto» replica tutto felice. Merda… Non perde mai l’occasione di essere sopra le righe e di mettermi in imbarazzo! «Bellezza,» interviene il tizio squadrandomi «se tu andassi in giro nudo, io non avrei nulla da ridire.

Ma non è che vi andrebbe una cosa a tre?» chiede poi guardando alternativamente me e Randy. Gesù! Ma li attira tutti lui? «Felipe, attento,» lo ammonisce Randy. «Lui ha modi decisamente poco ortodossi di dimostrare il suo disappunto. Comunque le prendo entrambe, fammele consegnare al solito indirizzo e mettile sul mio conto.»

Il tipo si alza, con le scatole in mano, e mi lancia una lunga occhiata di apprezzamento. «Peccato, sarebbe stato un gran bel giro.» Poi se ne va verso la cassa.

Randy ridacchia e mi si avvicina, cingendomi con le braccia. «Non dirmi che eri davvero geloso di quel frocetto?»

«Se usassi io la parola frocio mi metteresti alla gogna» replico a denti stretti, evitando di rispondere alla sua domanda per non fargli capire che ha ragione.

«Primo, frocetto è un vezzeggiativo, per me. Secondo, posso usarla quanto voglio perché sono frocio da più tempo di te» ribatte, accarezzandomi la schiena. «Credi sempre di poter avere l’ultima parola?» «Non è che lo credo, è la realtà delle cose. Senti, lo so che mi hai già detto che non sei abituato a festeggiare il Natale, ma perché non mi dai un indizio su quello che vorresti? Uno piccolo, al resto ci penso io.»

Già, manca poco al giorno X e se avevo un dubbio sul perché oggi mi volesse con lui per una maratona di shopping, costringendomi a prendere un giorno libero, ora è stato fugato. «Randy, non mi serve niente, perché vuoi sprecare i tuoi soldi?» Smette di abbracciarmi e fa una faccia triste, e io mi pento subito delle mie parole. Lui ama il Natale e io gli sto rovinando la festa. «Ok, scusami» borbotto. «Senti, perché non pensi a qualcosa che mi tenga al caldo, ma senza spendere quanto il fatturato di una multinazionale?» Anche se questa non sembra un’indicazione difficile, so già che mi comprerà qualcosa di costoso ed elegante da indossare che metterò soltanto per lui, forse, e solo un paio di volte nella vita. Il suo viso si illumina in un istante. «Ce l’ho! Ora lo andiamo a prendere.» «Cosa andiamo a prendere?» chiedo preso in contropiede. «Il tuo regalo!» esclama contento. «Ora?» «Sì, ora! Ti ho fatto prendere un giorno di ferie, non possiamo sprecarlo così, non trovi?» «Ma… ma non dovrebbe essere una sorpresa?» dico, tentando un’ultima, disperata, manovra tattica. «E lo sarà! Te lo assicuro!» Un’ora dopo siamo nell’Upper East Side, di fronte a un edificio di quattro piani in mattoncini rossi, sul quale svettano delle bandiere, e con la scritta in verticale su un lato: ASPCA Adoption Center. Mi sono appena pentito del mio momento di debolezza, ma prima che possa impedirglielo o anche soltanto dirgli qualcosa, Randy entra e a me non resta che seguirlo. Ci accoglie una donna sorridente che recita una formula di benvenuto e poi ci chiede in cosa può aiutarci. «Vorremmo vedere qualcuno dei cuccioli» spiega Randy e la sicurezza con cui risponde mi conferma che è già stato qui e che tutto questo fa parte di un altro dei suoi piani ben architettati. Merda! La donna ci invita a seguirla e ci porta in un altro locale, dove veniamo accolti da una babele di latrati. Ci sono delle stanzette pulite e delimitate da un vetro, nelle quali scodinzolano allegri decine di cani. Li guardo e questa volta non riesco a trattenermi. Non voglio. «Randy, no. Assolutamente no. Fine della discussione.» Si volta con un sorriso radioso. «Lo sai, vero, che potrei convincerti facilmente?» Non ci posso credere. La sta buttando di nuovo sul sesso? Crede davvero di potermi manipolare a suo piacimento? Ora gli dimostrerò che non è così. «Ho detto di no» ripeto secco. «Spiegami perché sei così contrario all’idea» dice, assumendo quell’atteggiamento di finta pazienza che odio. «Dove eri negli ultimi mesi, Bennett? Quando mai ti ho dato l’impressione di volere un cane?» «Daiii! Hai detto che vuoi qualcosa che ti tenga al caldo. I cuccioli scaldano il cuore e sono così morbidi, non trovi?» «No» ribadisco. Lui mi ignora e si avvicina a uno dei vetri nel quale c’è un “coso”, più lungo che alto, e piuttosto rotondo, infila due dita attraverso un foro nel vetro e il cane gliele lecca subito, scodinzolando. «Icy, ma guarda quanto è carino!» ridacchia. «Lo possiamo chiamare Salsiccia?» Questo strappa un sorriso alla donna.

Faccio un profondo respiro. «Io non lo voglio un cane.» «E io voglio sapere il perché» insiste. «Ti accontento subito. I cani non sono giocattoli, richiedono impegno: devi portarli fuori, devi curarli, devi far attenzione al loro benessere. Noi siamo al lavoro tutto il giorno e viviamo in un appartamento. Inoltre, come pensi di fare se dovessimo decidere di partire?»

Dalla bocca gli esce uno sbuffo prolungato. «Hai appena usato più luoghi comuni di Trump, te ne sei accorto? Se tutti ragionassero così, queste creature non troverebbero mai una casa! Sì, ci sono dei problemi pratici e li affronteremo in qualche modo, quando si presenteranno. Io posso anche portare il cucciolo al lavoro con me e se andremo in vacanza o viene con noi, quando possibile, o lo lasceremo in una pensione per cani. Quindi, marinaio, dimmi la vera ragione per la quale non vuoi un cane e io ti prometto che prenderò in considerazione l’idea di ascoltarti.» «Non ho altro da aggiungere, Randy. E considero chiusa la questione. Definitivamente.» Mi lancia uno sguardo feroce. «Guarda che non ti sto mica chiedendo di sposarmi o di adottare un bambino. È solo un cane. Potrebbe anche aiutarci.» È a quel punto che la tizia si schiarisce la gola e si allontana di qualche metro, fingendosi intenta a controllare qualcosa. Mi avvicino a lui. «Non pensavo avessimo bisogno di aiuto, ma evidentemente tu sì. Ti ringrazio.» Adesso nei suoi occhi c’è dolore, misto a rabbia e tristezza. Odio vederlo così, ma odio ancora di più sentirmi messo all’angolo, senza possibilità di scelta. «È solo un cane» ripete. «Non è solo un cane! È l’ennesimo braccio di ferro che tu vuoi vincere per dimostrare che ti stai impegnando per rendermi felice, mentre io resto quello sbagliato! Inizio a essere stanco dei tuoi capricci da primadonna, Bennett.» Se lo avessi schiaffeggiato lo avrei di sicuro ferito di meno. «Scusami, non pensavo che le mie attenzioni fossero imposizioni, ma evidentemente tu sì. Ti ringrazio» dice usando le mie stesse parole. Basta! Mi dirigo verso l’uscita, senza guardarmi indietro. Dopo aver camminato per circa centro metri in direzione del SUV, mi volto e lui non c’è. No, questa volta non cederò. Entro in macchina e guido verso la sede della BLACK. Una volta nella sala comune, mi sto versando del caffè bollente, quando entrano Ryons e Littlefoot. Merda! Era troppo pretendere di avere un momento di solitudine? «Littlefoot, spiegami perché vuoi rifiutare questo incarico?» chiede Ryons, facendomi un cenno con la testa. «C’è qualcosa che dovrei sapere?» «Niente che non ti abbia già spiegato» risponde l’altro, salutandomi nello stesso modo. «Non amo gli uomini politici, tutto qui.»

«Non è un uomo politico, non più almeno» continua Ryons. «Ora è solo un altro riccone paranoico che vuole essere protetto e paga davvero molto, molto bene. È una richiesta dell’ultimo momento e non ho nessun altro disponibile. Te lo chiedo come favore personale.» Littlefoot lo osserva serio e alla fine annuisce, ma con un’espressione molto poco felice. «Grazie», gli dice Ryons con evidente sollievo. «Ti devo un favore. Ora, se vuoi passare da Taylor ti darà tutte le informazioni, nel dettaglio.» L’altro borbotta qualcosa in risposta e si dilegua. Ryons si volta e indica la caraffa. «C’è ancora del caffè?» Ha l’aria stanca e mi guarda con gratitudine quando gliene verso una tazza, allungandogliela. «Finn, ma non avevi chiesto un giorno libero?» chiede dopo qualche sorso. Mi limito ad alzare le spalle. Resta in silenzio qualche istante e poi dice: «Premesso che quando la fanno a me questa domanda mi incazzo, tento comunque la sorte. Tutto bene?» Tutto bene?

Non so perché, ma inizio a ridere. Una di quelle risate che arrivano da non si sa dove, che esplodono improvvise e che non ingannano nessuno. «Ok» borbotta Ryons. «Ho bisogno di sedermi.» Poggia la tazza sul tavolo e si accomoda, aspettando che mi sia del tutto calmato. Poi mi siedo anche io e restiamo in silenzio per un bel po’, mentre lui sorseggia il suo caffè. Quando non reggo più, sbotto: «Vuole regalarmi un cane per Natale». Sputo fuori quelle parole come se fossero un grumo di acido che mi era rimasto incastrato in gola. «Sembra un’idea...» esita cercando la parola «... gentile.» Lo guardo e resto in silenzio. Anche lui mi guarda. «Ok, diciamo che per come ti conosco è un’idea del cazzo» ammette. «Tu che cosa gli hai detto?» Allargo le braccia. «Non si parla con Randy, ci si deve limitare a fare quello che vuole lui.» «Stronzate» ribatte alzandosi e andando fino al lavandino per lavare la tazza. «Da che ti conosco non hai mai fatto niente che alla fine non volessi. Che cosa non va davvero nell’idea di un cane?» «I cani necessitano cure, bisogna portarli fuori e se...» «E se hai intenzione di rispondermi davvero, resto» mi interrompe serio. «Altrimenti ho mille cose da fare.» Sapevo che non se la sarebbe bevuta. «Lui vuole tutto, cazzo!» sbotto. «Non si accontenta mai! Non si arrende mai! Faccio un passo avanti e lui ne vorrebbe altri cinque. Non capisce.» «Cosa non capisce?» domanda pacato. «Non capisce che per certe cose non sono ancora… pronto.» «Ok, ma non è che stai facendo di un granello una montagna? È solo un cane, dopotutto» sottolinea. A questo punto il vecchio me se ne andrebbe a gambe levate pur di non aggiungere altro. Però la dottoressa Campbell sostiene che uno dei miei problemi è la mancanza di condivisione con le persone per me significative, il che, tradotto, vuol dire che non mi confido con un cazzo di nessuno. Ok, Finn, prendi un bel respiro e fallo. «No, Ryons, non è solo un cane. Il cane non c’entra niente. Il cane è un messaggio. Un cazzo di dannato messaggio! Lui vuole che gli dimostri di esserci al cento per cento. Lui vuole che sia disposto a dargli… tutto.» Metto particolare enfasi sull’ultima parola, sperando che capisca. Sta per aprire bocca, poi la richiude di scatto. Aggrotta la fronte e poi il suo sguardo si illumina di consapevolezza. Ha capito. «Oh...» mormora. Ora, per come conosco Ryons o farà una manovra elusiva e fuggirà, oppure tenterà di razionalizzare. «Finn, sono sicuro che troverai il modo di risolvere la situazione. Ora mi devi scusare, ma devo... andare.» Appunto... Arriva fino alla porta e poi si ferma, imprecando. Senza voltarsi dice: «Finn, dannazione, non siamo più soli! Quella che sembrava una conquista definitiva, è solo l’inizio della guerra. Credo che Charlotte non sia del tutto contraria all’idea di avere un bambino. Non lo ha detto esplicitamente, forse non se ne rende neanche conto, sai com’è fatta, ma i messaggi sono chiari. Io sono terrorizzato alla sola prospettiva. Ma sai che cosa farò se dovesse chiedermelo? Farò l’amore con lei e le darò quello che desidera. Perché? La risposta è una sola e la conosci.» Detto questo esce. La risposta è una sola...

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19 dicembre

Randy

«Ho esaurito le domande!» dico arrabbiato. «E perché te la stai prendendo con me?» replica Dora, sorridendo. La guardo di sbieco. «Non me la sto prendendo con te! Ti ho solo chiesto che regalo vuoi per Natale, non mi sembra così difficile darmi un indizio! O forse hanno abolito la buona educazione e la gentilezza in questa merda di Paese?»

Continua a sorridere. «Mai stata educata e tantomeno gentile. Io dico che hai un rospo di dieci chili nella gola e che, prima lo sputi, prima sarò in grado di farti vedere le cose nella giusta prospettiva, come al solito. Stai battendo il tuo record personale di acidità, nonché frantumando tutti gli stereotipi di genere conosciuti. Contrariamente alla maggior parte delle donne, io rivendico il mio sacrosanto diritto di essere irrazionale e mal tollero l’appropriazione indebita di utero da parte di chi non detiene il possesso di tale organo.» «Ti rendi conto che hai appena ucciso decenni di emancipazione femminile?» sbuffo irritato. «Io non temo di apparire donna perché è questo che mi rende superiore» conclude addentando un cioccolatino e mugolando per il piacere. «Ma come cazzo fai a non ingrassare di un grammo mangiando tutte quelle schifezze?» chiedo esasperato. «Hai appena finito di cenare!» «Randy, ti vuoi decidere a parlare o devo ricorrere alle maniere forti?» Allargo le braccia. «La mia vita è un totale, irrimediabile disastro!» «Ma non mi dire! E quando è successo? Due settimane fa sembravi disgustosamente felice, come una Mary Poppins sotto psicofarmaci. Ora sei nel baratro della disperazione. È imbarazzante.» Mi alzo di scatto e percorro nervosamente la sala da pranzo, cercando di trovare un modo per spiegarle la cosa.

«Fedora, cara,» interviene Lex, spuntando da dietro il giornale che sta leggendo «potresti dire al nostro gentile ospite che è già un peso quando rimane dentro gli standard della sua discutibile normalità, ora che li ha oltrepassati è decisamente insopportabile?» «Sì, tesoro» risponde lei ridacchiando. «Dora, come faccio a confidarmi se lui è sempre in mezzo?» sbuffo irritato, indicando Lex. Lui mi guarda con ostilità. «Senti, tu, questa sarebbe casa mia e ti sei anche autoinvitato a cena. Così, giusto per puntualizzare.» Dora si alza e mi raggiunge. «Andiamo in uno dei salotti.» Poi si volta verso il marito. «Lex, ti dispiace mettere a letto Judith?»

Lui solleva gli occhi al cielo, poggia il giornale e si alza, ma prima di andarsene mi guarda e dice: «Questa casa è grande, Randy, molto grande. Conto sul fatto che potrebbe capitare di non rivederti. Nel qual caso sappi che ne sarei davvero rattristato.» «E pensare che un tempo ti trovavo persino sexy!» ribatto. «Se anche io fossi omosessuale, tu saresti l’ultimo essere umano che frequenterei» replica lui ridendo, prima di sparire. Questo mi fa solo venire ancor più voglia di picchiarlo. Seguo Dora in uno dei salotti e, mentre chiude la porta, mi lascio cadere platealmente su un divanetto. Mi raggiunge, sedendomisi accanto. «Hai circa quindici minuti di tempo per esporre l’ennesimo dramma, prima che Judith mi reclami per il bacio della buonanotte. Parla subito o taci per sempre.» «Non vuole un cane per Natale» esalo le parole come se fossero il mio ultimo respiro. «Ah...» si limita a dire. «Eh...» le faccio eco.

«Però te le vai proprio a cercare, Randy. Ti ha spiegato perché?» «I cani vanno portati fuori, curati e resterebbe solo tutto il giorno e blablabla» rispondo sarcastico. «La vera ragione? O meglio il film che ti sei fatto in quella mente paranoica?» domanda incrociando le gambe sul divano. Odio quando fa così, quando mi provoca solo per ottenere prima le informazioni. E ci riesce tutte le volte. «Non sono paranoico!» ribatto indispettito. «Il cane simboleggia l’impegno, la sua reale voglia di costruire qualcosa insieme, mentre lui...» «Ti ha già fatto un pompino?» mi interrompe. «Quando ho decretato che eri in assoluto la mia migliore amica, ero forse ubriaco?» ribatto acido. «No, eri sobrio e lo hai fatto quando hai capito che senza di me non potevi vivere. Rispondi.» Tento di tergiversare, meglio che posso. «Non capisco che cosa c’entri questo con...» «Ok, non lo ha fatto. Devo dedurre pertanto che tu non ti sia neanche avvicinato all’altro obiettivo strategico, giusto?» chiede con quel tono di sufficienza per cui a volte la picchierei. «Torniamo al cane, per cortesia?» Aggrotta la fronte. «Perché dobbiamo parlare del cane quando il vero problema è il c...» inizia. «Dora!» sbraito. «... uore» termina con aria innocente. La guardo storto, anche se so che mi sta prendendo bonariamente in giro. «Ammettiamo per un istante, solo uno, che Iceman non faccia alcune cose tra le coltri del nostro talamo» le concedo. «Cose per me importanti, cose che mi dimostrerebbero quanto accetti senza riserve se stesso e me.» «Sei un vero artista degli eufemismi» ridacchia. «Ti va di provare a essere seria?» ribatto con rabbia. «Ok, ok, potrei sforzarmi. Senti, Randy, lo sapevi che ci sarebbero state delle resistenze. Il fatto che ancora non sia pronto a condividere alcuni aspetti di una sessualità che ha sempre rifiutato non dovrebbe stupirti. Perché tutta questa fretta?» chiede, questa volta davvero seria.

Mi alzo in piedi e comincio a passeggiare per il salone. «Ho paura che non sia una questione di tempo, ho paura che Iceman non sarà mai...» «... come lo vorresti tu?» conclude con dolcezza. La guardo malissimo, ma in fondo so che ha ragione. «È così sbagliato?» domando a voce bassa. Si alza anche lei e mi abbraccia. «No,» sussurra nel mio orecchio «è solo umano. Quello che voglio è vederti felice e se c’è qualcuno che può stanare Finnigan quello sei tu, ma vacci piano. Odio essere banale, ma le corde troppo tese hanno la brutta abitudine di spezzarsi.»

«Lo so» mormoro stringendola. «È che speravo che tu mi dicessi cosa fare. Mi vedevo già prendere appunti, illuminato dalla tua saggezza.»

Mi lascia andare e sorride. «Lo dirò soltanto una volta e mai più. Tu sai già che cosa fare, hai solo rimandato l’inevitabile. Finnigan non è tipo da messaggi impliciti e suggerimenti oscuri. Digli quello di cui hai bisogno. Forse potrebbe essere considerato ingiusto da molti fargli pressione, me compresa, ma quei molti non sono te. Solo tu puoi sapere che cosa ti renderebbe felice e glielo devi dire, altrimenti continuerete a logorarvi nel regno del non detto e, quando vi ritroverete al punto di partenza, avrete il rimpianto di non essere stati chiari.»

La guardo con intensità. «Quindi, secondo te, dovrei dirgli che voglio che la nostra relazione si evolva e che lui prenda in considerazione almeno l’idea di darmi qualc...» «Oh, porca puttana, Randy!» mi interrompe. «Non ti riconosco più!» «In che senso?» domando circospetto. «Digli che gradiresti ti succhiasse il cazzo e che tu gradiresti altresì penetrarlo con il suddetto cazzo. Ci vuole così tanto? Due amanti dovrebbero essere in grado di dirsi quello che desiderano, altrimenti non è una relazione.»

Le sue ultime parole si incidono a fuoco nella mia mente: “Due amanti dovrebbero essere in grado di dirsi quello che desiderano, altrimenti non è una relazione.” Per la miseria! Lei deve aver notato il mio cambio di espressione perché si affretta a rimediare: «Non intendevo in quel senso, volevo dire che senza sincerità e fiducia... No, no! Aspetta, mi è uscita male di nuovo, scusami, quello che intendevo davvero...» Alzo una mano per fermarla. «Ho capito» mormoro. In quel momento Judith fa irruzione nel salotto, seguita da Lex. «Saluta la mamma» dice lui. «E dopo: subito a letto, signorina!» Dora la prende in braccio e Judith comincia a riempirle il viso di baci. Nel frattempo, Lex le guarda con un’espressione che mal si concilia con la sua fama da squalo. Poi si avvicina e deposita un bacio sul nasino della bimba e uno sulle labbra della moglie.

Questo è quello che dovrebbe succedere sempre: persone che si amano e che non hanno paura di dimostrarlo.

Infine, Judith si lascia portare via dal papà e manda anche a me un bacio, che io faccio finta di afferrare e mangiare, cosa che la fa ridere.

Io e Dora parliamo ancora un po’, poi visto che si sta facendo tardi, mi tolgo dalle palle e la lascio tornare dalla sua famiglia.

Una volta fuori, mi dirigo subito verso la fermata della metropolitana. Il vecchio maggiolino mi sta dando problemi ed è dal meccanico, per cui ultimamente mi ha quasi sempre accompagnato Iceman, ovunque volessi andare.

In attesa sulla banchina, all’improvviso vengo assalito dai ricordi e sorrido. Solo io posso considerare romantica la sera del mio tentato omicidio, eppure è così. È come se sentissi di nuovo le braccia di Iceman che mi spingono lontano dalla stretta mortale del treno, che mi riportano al sicuro, e ricordo ancora la delicatezza con cui ha curato le mie ferite. Rammento tutto, ogni singolo particolare della serata che ci ha dato una possibilità.

Quando finalmente rimetto piede a casa, vedo il suo cappotto sull’appendiabiti e capisco che è rientrato. Già ieri, quando è tornato a casa dopo la disastrosa piega che ha preso il “progetto cane”, mi ha ignorato e si è rintanato nell’altra stanza, il suo “luogo di ritiro”, rimanendoci anche a dormire, preferendo il pavimento a me.

Vorrei andare da lui e scuoterlo, parlare con sincerità e a cuore aperto della nostra situazione e seguire i consigli di Dora, magari con un linguaggio un po’ più ricco di metafore. Invece mi infilo sotto la doccia nella patetica speranza che decida di dormire con me stanotte, cosa di cui dubito molto. Una volta a letto, avvolto nelle coperte, fisso al buio la debole luce che proviene dal corridoio. Ho lasciato la porta aperta, perché sono un testardo ottimista, in fondo.

- 7 -

20 dicembre

Iceman

Presentarmi alla maison è una delle cose più difficili che abbia mai dovuto fare nella vita. Bussare all’ufficio di Misashi è la seconda.

In questo cazzo di posto le stanze non hanno pareti in muratura, non garantiscono una qualche parvenza di privacy, ma sono delimitate da una vetrata con una lunga striscia opacizzata nel mezzo. «Entrate a vostro rischio e pericolo, se siete maschi» urla lui. Gesù! Spingo il battente quel tanto che basta per affacciarmi. Lui è chinato sul computer e, senza neanche guardarmi, agita la mano invitandomi a entrare. Quando finalmente alza la testa, il suo viso si illumina. «Ma guarda chi c’è! Ragazzone, non essere timido, vieni a salutare come si deve lo zio Misashi!»

Mi avvicino con circospezione e prima che possa anche solo fare il gesto di allungare la mano per stringere la sua – unica modalità di contatto sociale che considero accettabile – lui mi è addosso e mi abbraccia, stringendomi forte, con tanto di movimento ondulatorio che assomiglia allo scodinzolare di un cane felice di vederti.

Ricordo a me stesso che sono qui per ottenere il suo aiuto, per cui faccio durare il tutto ben quattro secondi, dopodiché lo scosto con decisione. «Ragazzone, cosa ti porta nel mio antro?» chiede appoggiandosi alla scrivania. «Ho bisogno di te» gli dico, cercando di non farmi distrarre dai pantaloni che indossa, celesti e… pelosi. Socchiude gli occhi e mi guarda sornione. «Ma guarda! Eppure la letterina a Babbo Natale non l’ho ancora scritta, si vede che mi ha letto nel pensiero. Ti sei finalmente stancato di Randy?» «Divertente» commento con sarcasmo. Ridacchia. «Io lo sono sempre. Ok, sentiamo. Per tua fortuna sono in “modalità bontà” e potrei non farti pagare troppo caro il favore.» «Si tratta del regalo per Randy» gli spiego. «Certo che tu pensi alle cose con largo anticipo!» ribatte ironico. «Mancano cinque giorni a Natale» sottolineo. «I regali si fanno almeno quattro mesi prima» replica sprezzante. Resto concentrato sull’obiettivo e non ribatto nulla: devo riuscire a fare un regalo a Randy che gli faccia capire quanto tenga a lui e ho bisogno che Misashi mi dia delle indicazioni precise.

Dal giorno in cui siamo andati al canile, ci parliamo a malapena, incrociandoci la mattina e la sera, ciascuno impegnato a comportarsi come un perfetto estraneo. E sto dormendo nella vecchia stanza degli ospiti, in un sacco a pelo. La Campbell è in vacanza in Alaska dalla sua famiglia e quindi non ho potuto parlarle perché mi aiutasse. Sono senza bussola, anzi, peggio, senza rotta. E se penso che la mia ultima speranza è Misashi, mi viene voglia di spaccare qualcosa.

«Ragazzone, sai già che cosa ti regalerà lui?» chiede guardandosi le unghie delle mani e solo ora mi accorgo che sono dipinte di azzurro. «Che cosa c’entra?» ribatto diffidente. «Sei un esperto di regali?» domanda con aria innocente. «No» ammetto con voce cupa. «Benissimo, abbiamo stabilito la gerarchia in questa stanza. Io invece sono bravo, anzi sono un autentico, fottuto genio.» Lo guardo e stringo i denti. Ridacchia. «Hai intenzione di rispondere alla domanda o stai per estrarre una pistola e uccidermi?» «Un cane» borbotto.

Batte le mani ed emette un piccolo grido. «Ma che bello! Io adoro i cani. Lo avete già scelto? Che razza è? Come lo avete chiamato? Conosco un veterinario bravissimo, se volete posso...»

Scatto verso di lui e gli tappo la bocca con una mano. «Ascoltami. Quando toglierò questa mano l’unica parola che dovrà uscire dalla tua bocca indicherà senza ombra di dubbio il regalo perfetto per Randy. Annuisci se hai capito.» Annuisce. Scosto la mano e lui sorride. «Ok, ora parla» ordino. Lui si indica la bocca e alza le spalle, facendo una smorfia degna di un bambino. «Misashi, adesso ti picchio» ringhio. «Ragazzone, ti devi decidere! Io sono incapace di sintesi, tu mi permetti di pronunciare una sola parola, quindi sto zitto. Comunque spero che in quei corsi che fate, con quelle divise così sexy, pieni di fango, vi insegnino anche il controllo della rabbia. Se prometti di non uccidermi, ti dico quello che Randy desidera più di ogni altra cosa. A parole mie, però.»

Non mi piace. Per niente. Sa di trappola e io ero il migliore quando si trattava di capire se potevamo avanzare senza rischiare di saltare in aria. Mi volto e mi muovo verso la porta. «Come ho potuto pensare che tu fossi utile è un mistero.» «Ragazzone...» È il tono che mi fa bloccare e voltare perché, per la prima volta da quando lo conosco, è serio. «Puoi fuggire e sono sicuro che saresti capace di essere fuori da questo edificio in meno di un minuto. Ma è inutile e tu lo sai. Sei tu il regalo di Randy, ma non gli hai ancora permesso di scartarlo. Un minuto di silenzio per la delicatezza e sobrietà della metafora. Nessuno è obbligato a fare quello che non vuole, non mi fraintendere, sono le ragioni per cui non lo fa che contano. Non c’è niente di sbagliato tra due che si amano e, oserei dire, non c’è niente che non possono fare se si amano.» Detto questo, si avvicina alla porta, passandomi accanto; la apre e si gira a guardarmi. «Per rispondere alla tua precedente domanda con un’unica parola: fiducia, questo gli devi regalare.» Poi esce, lasciandomi lì da solo.

Per qualche istante, resto fermo in piedi, senza riuscire a pensare; infine mi trascino verso una poltrona e mi siedo. Finirà mai? Ci sarà mai un momento in cui potrò provare un singolo istante di pace con me stesso? So che probabilmente succederà, magari dopo anni di terapia. Peccato che, per allora, avrò poco da salvare. Quando penso che non potrebbe andare peggio, la porta si apre e Randy entra a testa bassa reggendo un tablet. «Misashi, non so che cosa avevi in mente quando hai scritto quelle cazzate, ma è tutto da cambiare e...» Alza lo sguardo e si blocca. «Non dovresti essere a quella conferenza?» chiedo aggressivo. «E tu non dovresti essere in qualsiasi altro posto tranne che qui?» ribatte con lo stesso tono. Mi alzo e arrivo fino alla porta. Fuggire mi riesce sempre bene, un punto fermo nella mia vita. «Iceman, dobbiamo continuare così per molto o la facciamo finita?» chiede a voce bassa. Mi fermo come se avessi messo il piede su una mina antiuomo e mi giro. «Se è quello che vuoi, per me nessun problema.» «Non ho detto che è quello che voglio io, ma credo che sia quello che vuoi tu» precisa. «E tu sai sempre quello che voglio, giusto?» ribatto sarcastico. Si appoggia alla scrivania. «Oh certo! Sempre detto che sei un libro aperto» replica acido. «Se vuoi che levi le tende da casa tua, basta una tua parola.» Di nuovo quello sguardo ferito, che mi arriva dritto nel petto e lacera come una lama. Sta per dire qualcosa che ci fotterà definitivamente, me lo sento. Ed è in quel momento che squilla il suo cellulare e lui lo tira fuori dall’interno della giacca con un gesto di stizza. «Pronto!» quasi urla. Pochi secondi e diventa pallido; poi si siede su una delle poltroncine. «Quando?» chiede. Dopo che ottiene la risposta, aggiunge: «Perché?»

Questa volta l’intervallo è più lungo, e più passa il tempo più la sua faccia si fa terrea e tesa. «Io non gli devo proprio nulla!» sbraita all’improvviso. Resta in ascolto un altro minuto intero. Poi dice: «Va bene» e chiude la conversazione. Mi avvicino. «Che cosa succede?» Mi fissa ed esita, e mi fa male. Cazzo, se mi fa male... Si passa una mano sulla faccia. «Randy...» «Devo partire. Non credo che riuscirò a essere qui per Natale» spiega con voce asettica. «Tanto tu puoi andare da tua sorella, no? Non ne abbiamo più parlato, ma io avevo già fatto i biglietti per la Louisiana, per farti una sorpresa. Saremmo dovuti partire il ventidue. Ti mando il codice del tuo con un messaggio, l’altro lo cambio.» «E dove vai?» domando. «Michigan» risponde alzandosi. «Ora, scusa, devo tornare a casa immediatamente a fare le valigie.» Sta tornando a casa dei suoi? E non mi ha voluto coinvolgere? «La tua macchina è ancora dal meccanico?» gli chiedo, pragmatico, mentre dentro muoio. «Non è necessario che...» inizia. «Ti accompagno io» ribatto con un tono che gli fa capire quanto sia inutile qualunque protesta. Dieci minuti dopo siamo sul mio SUV in direzione del Queens. Lui non ha detto più una sola parola da quando siamo partiti e io sto tentando di non pressarlo. È evidente che è successo qualcosa alla sua famiglia. «Randy, potresti dirmi che cosa...» «Mio padre vuole vedermi. Ha avuto un infarto e temono che non possa farcela. Almeno è quello che afferma mia sorella.»

Cosa posso rispondere? Se dico che mi dispiace rischio di ottenere solo il suo sarcasmo. So, da quello che mi ha raccontato, che i rapporti sono inesistenti da anni. Per cui faccio quello che so fare meglio: sto zitto e lui sembra apprezzarlo perché si rilassa visibilmente.

Una volta a casa si mette al PC per tentare di cambiare i biglietti aerei, ma dopo qualche minuto lo sento dire: «Cazzo, cazzo, cazzo!»

«Tutto pieno?» mi azzardo a chiedere. Sotto Natale è praticamente impossibile trovare un volo per qualsiasi destinazione. Si passa una mano sui capelli, frustrato. Afferro il mio cellulare dalla tasca e compongo un numero. Al secondo squillo, la voce di Taylor mi rimbomba nell’orecchio. «Ehi!» «Voglio due biglietti aerei per questo pomeriggio» gli chiedo senza preamboli. «“Ciao, Taylor, come stai?”» ridacchia in risposta. «“Bene, Finn, e tu?”» «Battuta vecchia.» «Ok. Destinazione e numero di passeggeri?» «Marquette, Michigan. Due» borbotto. «Ma dai!» esclama contento. «Andate dai genitori di Randy?» Taylor è una macchina da guerra nello scoprire i cazzi degli altri e sa tutto di tutti. È un’idea inquietante, anche se, a onor del vero, non gli ho mai sentito sputtanare in giro gli affari di nessuno. Attento qualche secondo poi gli chiedo: «Li hai trovati?» «Ehi, dammi un attimo» replica. «Siamo sotto Natale, non hai idea di quanto sia difficile...» «A che ora partiamo?» insisto. So benissimo che per uno come lui è uno scherzo. Sbuffa. «Dovete essere al JFK alle quindici, tempo di volo di circa cinque ore. C’è uno scalo.» «Mandami tutto.» «Fatto. Salutami Randy e Buon Natale.» «Anche a te» borbotto. Quando chiudo la telefonata, alzo lo sguardo: Randy mi sta fissando con una strana espressione.

«Che c’è? Non avrai mica pensato che ti spedissi lassù da solo? Ora vai a preparare la valigia» ordino con tono secco. Lui sorride e si precipita in camera. «Faccio anche la tua?» urla qualche minuto dopo. «Neanche se da questo dovesse dipendere la mia vita» grido di rimando. La sua risata mi allarga il cuore. Spero che in Michigan nessuno tenti di fargli del male, ma se così fosse, agirò di conseguenza e saranno problemi di chi ci proverà. Non appena formulato nella mente, mi rendo subito conto di quanto sia ipocrita quel mio pensiero: di solito, il principale problema di Randy sono io.

- 8 -

20 dicembre

Randy

È tutto come ricordavo, solo più grande.

Dopo essere salito su quel bus a diciotto anni, non mi sono mai più guardato indietro. Non ho la più pallida idea di che aspetto possano avere ora mia madre e le mie sorelle. Non so che fine abbiano fatto tutte le persone a cui ero legato da ragazzo. Per quel che mi riguarda, ho cancellato tutta la mia vita prima di New York, come se non fosse mai esistita. Non mi è mai importato. Finora. Siamo arrivati in aeroporto intorno alle venti, dopo cinque lunghe ore di viaggio in classe economica. Non mi sento più le gambe e Iceman, per ovvie ragioni di stazza, deve essere messo anche peggio di me. La temperatura è di una decina di gradi sotto lo zero, non nevica e fa un freddo cane.

Durante il volo non abbiamo parlato molto, mi ha solo fatto qualche domanda sulla mia vita a Marquette, ma perlopiù su argomenti neutri come la scuola o il basket. Lo ha fatto per distrarmi e, visto quanto detesta parlare in generale, è stata praticamente una dichiarazione d’amore. Poi abbiamo preso un taxi che ci ha portato di fronte alla casa dei miei genitori, dove siamo adesso.

La osservo con occhi freddi, tentando di arginare i ricordi che mi braccano come se fossero cani e io una volpe che corre. È stata ridipinta di un altro colore e le siepi attorno sono cresciute. Le vecchie decorazioni di Natale, però, sono sempre le stesse. Ci sono le renne dall’enorme naso rosso che trainano la slitta. Mi ricordo che mio padre sistemava Babbo Natale, alla guida, solo il venticinque, così come aggiungeva il bambino nella mangiatoia nel presepe. Il patio d’ingresso è incorniciato da luci che si accendono e si spengono, come le ali di una farfalla che vola verso il sole.

Sono venuto qui perché me lo ha chiesto mia sorella Cindy, la maggiore. Però ad aprirmi la porta è

Joanna, nata solo due anni prima di me. Mi squadra con diffidenza mista a curiosità e sbarra gli occhi non appena vede Iceman. «Joanna, ti trovo bene» le dico scrutandola. «Randy» ribatte formale. Continua a fissarmi senza dar cenno di volerci far entrare e allora aggiungo: «Qui fuori si gela.» Come se si riscuotesse da una trance, si fa da parte. Iceman mi segue da vicino, portando i nostri bagagli, ed è in allerta come se da un momento all’altro dovesse sbucare fuori dal nulla un fantomatico nemico.

Mi guardo intorno e un’emozione che non avevo preventivato si fa strada in me. Non è cambiato quasi niente, ma me lo aspettavo. Neanche l’odore è diverso, quel misto di cera per pavimenti, fumo del caminetto e deodorante per la casa alla rosa che mia madre amava tanto. Ed eccola, lei, sbucare dal salotto buono, dove da piccoli ci era proibito entrare e che veniva usato solo quando c’erano i parenti in visita, oppure per le riunioni di mio padre e dei suoi cari amici bigotti. La tentazione di andarle incontro e abbracciarla è fortissima. Poi, però, ripenso a tutti gli anni di telefonate mute, ai suoi silenzi mentre io le raccontavo ogni cosa di me, a come la sua anima non si sarebbe di certo dannata se anche avesse soltanto detto “ciao”, una volta, una soltanto, al figlio pervertito. «Randy» dice con voce tremante. «Ciao, mamma» rispondo io, freddo. Ci fissiamo per qualche istante. Lei è visibilmente emozionata, poi riprende il controllo. «Mettetevi pure comodi. Potete lasciare qui nell’ingresso le vostre cose.» Iceman mi lancia un’occhiata enigmatica, sistema in un angolo i bagagli e poi si toglie il giaccone, appendendolo. Lo imito e poi seguiamo mia madre nella stanza di rappresentanza di casa Bennett. Ci accomodiamo sul divano, mentre lei e Joanna si siedono sulle due poltrone.

Mi rendo conto che è giunto il momento di presentare Iceman e mi do dell’imbecille per non aver concordato con lui cosa dire, ma soprattutto per non aver chiarito con me stesso come mi voglio porre. Potrei restare nel regno del non detto e raccontare che è un mio amico, oppure potrei presentarlo come il mio compagno, consapevole che susciterei reazioni che non sono sicuro di voler affrontare adesso. Mi schiarisco la voce. «Mamma, lascia che ti presenti Finnigan Wood. Io e lui viviamo assieme.» Sono il mago dell’ambiguità. «Signora,» interviene Iceman «lieto di conoscerla.» Mia madre emette un sospiro e fa una smorfia e allora non mi trattengo. «Cosa c’è, mamma? Pensavi che fossi guarito?» «Randy, ti prego, non iniziare» ribatte. «Non ho più diciotto anni» sottolineo, anche se in questo istante mi sento pericolosamente vicino a quel ragazzo e mi sembra di aver disseppellito la rabbia da sotto uno spesso strato di ragnatele. «Non hai ancora chiesto di tuo padre» mormora lei, cambiando argomento con notevole destrezza. Eccolo il solito rimprovero, quello che mi faceva sentire inadeguato e sbagliato perché non mi uniformavo alla loro visione del mondo. Perché dovrei preoccuparmi di un uomo che non ha mai tentato di capirmi, aiutarmi o anche solo dimostrarmi un briciolo di affetto? Probabilmente non sarò mai padre nella mia vita, ma persino io capisco che, per esserlo, non basta aver eiaculato dentro il ventre di una donna, o, nel caso di mio padre, forse persino attraverso un buco nel lenzuolo.

Faccio un sorriso amaro. «Be’, lui non ha voluto sapere niente di me negli ultimi sedici anni, direi che è comunque in vantaggio, no?»

Lei ignora le mie parole e si rivolge a Iceman. «E lei, Mr. Wood? Lavora nello stesso campo di Randy?»

Non gliene frega un cazzo, in realtà, ma è un modo come un altro per non entrare in conflitto diretto con me e per mantenere quella parvenza di ostinata convenzione sociale che ha sempre contraddistinto la sua vita. «No, signora» risponde lui, come sempre controllato. «Lavoro in un altro settore.» «E quale?» interviene Joanna, con fin troppo interesse. Iceman si volta a guardarla. «Il mio mestiere ha a che fare con la sicurezza.» «È un esperto di sistemi di allarme?» chiede lei, mangiandoselo con gli occhi. «Qualcosa del genere» ribatte lui, accennando un sorriso. Mia sorella stringe istintivamente le gambe e tenta di non arrossire. Poi, con sempre maggior audacia, prosegue nel suo interrogatorio: «Lei e Randy, ecco, come vi siete conosciuti?» «Grazie ad amici comuni» spiega conciso e, per una volta, questo suo stile riscuote la mia totale approvazione. «E da quanto tempo...» «Joanna, non essere così curiosa» la interrompe mia madre. «Denota maleducazione.» Poi si rivolge a me. «Prima di portarti da tuo padre, vorrei che scambiassimo due parole.» Il messaggio è chiaro: Iceman per lei non esiste e non vuole averci niente a che fare. «Quello che hai da dirmi lo può sentire anche Finnigan» ribatto. «Altrimenti non mi interessa.» Ci fissiamo in silenzio, a lungo. Deve capire che non sono davvero più un diciottenne, sono un uomo di successo oramai, che non teme niente e nessuno.

Sospira, intrecciando le mani davanti a sé. «Benissimo. Come ti ha detto tua sorella, tuo padre ha avuto il suo terzo infarto, due giorni fa. Teme che gli resti molto poco da vivere e ti ha mandato a chiamare per risolvere alcuni... problemi.» Ma guarda un po’… C’è da dire che mi aspettavo un’ammissione del genere, visto che era la stessa motivazione che mi aveva accennato al telefono Cindy, ma la vera ragione la scoprirò solo parlando con lui. «Dov’è Cindy?» chiedo, cambiando anche io argomento e superando in destrezza la maestra. «È di sopra con papà» risponde Joanna. Si è proprio precipitata a salutarmi, penso con ironia. Mi alzo e mi aggiusto la giacca. «Direi che possiamo salire anche subito, così poi potrò andarmene da questo posto.»

Anche mia madre si alza. «Randy, vorrei sincerarmi del fatto che tu abbia chiare le condizioni di tuo padre. Non devi farlo agitare, ricorda che cosa è successo l’ultima volta.»

«I miei comportamenti saranno diretta conseguenza dei suoi» ribatto, tagliando corto. «Andiamo, ora» aggiungo, lanciando un’occhiata a Iceman. «No!» interviene mia madre. «Non ti consentirò di portare di sopra il tuo... amico.» Mentre lo guardo, per un momento prendo in considerazione l’idea di girarmi e andarmene senza incontrare quello stronzo che mi ha generato, e mandare al diavolo tutti. Poi, però, penso che voglio chiudere una volta per tutte questo capitolo della mia vita. L’unica cosa di cui sono certo è che non permetterò a nessuno di scrivere un finale diverso da quello che voglio io. Iceman mi sorride. «Randy, va’, io ti aspetto qui. Non mi muovo.» Poche parole, ma sono sempre quelle giuste, quando non si tratta di noi due, ovvio. Mia madre mi precede, mentre Joanna non accenna neanche a seguirci e il pensiero di lasciarla da sola con Iceman non mi piace proprio.

Salire quelle scale che conosco così bene, risulta persino più difficile di quanto non avessi anche solo immaginato. Quando arriviamo alla porta della loro camera, mia madre si fa di lato per lasciarmi entrare. Prendo un profondo respiro e… Ok, facciamolo… Abbasso la maniglia, spingo l’anta ed entro. Cindy è seduta accanto a mio padre e, non appena mi vede, si alza e mi supera per uscire, senza neanche degnarmi di un saluto. Non era una gran simpaticona nemmeno da ragazza, ma adesso si è decisamente evoluta.

Mi guardo intorno. La stanza è rimasta pressoché lo stessa, anche se me la ricordavo più grande; forse è perché hanno spostato la specchiera. Nell’aria c’è un odore di chiuso e di medicinali che mi nausea. L’odore della morte... Mi avvicino al letto e quando vedo il suo volto, illuminato dalla luce della abat-jour, ho uno shock. Quando me ne sono andato, mio padre era un uomo alto, con i capelli solo in parte incanutiti e la pelle del viso che mostrava solo qualche ruga. Il vecchio davanti a me è l’ombra di quell’uomo. Indossa un pigiama che sembra di almeno due taglie più grande, e due tubicini per l’ossigeno pendono vicini alle guance cascanti, finendo dentro al suo naso. Ma gli occhi, no, quelli sono rimasti gli stessi. Mi sta fissando con intensità, sottoponendomi a quell’esame che ho sempre odiato, come se fosse detentore di una capacità di giudizio per imposizione divina. «Alla fine sei tornato» gracchia con voce cavernosa. Risentirla è una stilettata nel costato, un misto di nostalgia, disgusto e rabbia. «Per essere precisi mi hai mandato a chiamare tu» dico con una certa leggerezza. «Quindi non è stato di certo un atto del tutto volontario.» «Le strade di Nostro Signore sono infinite, tu non hai mai capito i suoi disegni» sentenzia. «Lui è colui che...»

«Ehi, se ti sei preparato una delle tue prediche, ti fermo subito. Non ho fatto più di millecinquecento chilometri per sentire delle repliche, ma per vedere il finale della serie. Se hai qualcosa da dirmi, parla, altrimenti me ne vado.» Senza attendere il suo permesso, mi accomodo nella sedia accanto al letto. La sua espressione si fa severa e mi ricordo che un tempo, al solo vederla, me la facevo nei calzoni. Un tempo. «Vedo che hai mantenuto la stessa inopportuna arroganza di quando eri ragazzo. Ci sono creature che è impossibile aiutare e tu sei sempre stato una di loro» afferma con cattiveria. «Può darsi che io non sia recuperabile e di questo ringrazio mille volte la sorte. Ora, mi vuoi spiegare perché, dopo ben sedici anni di totale silenzio, sono improvvisamente degno di stare al tuo cospetto?» Mi osserva e mi fa tornare alla mente gli avvoltoi dei documentari, intenti a fissare con interesse l’animale agonizzante, in paziente attesa che si trasformi nel loro pasto.

«Io sto per morire, questo è un dato di fatto» inizia con quel tono da propagandista del cazzo che odio.

Di fronte al mio silenzio distaccato, contrae le labbra. Se pensava che gliel’avrei resa facile si sbagliava di grosso.

«Quando il Signore ti chiama,» continua «è dovere di ogni uomo lasciare questo mondo con la coscienza di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per essere considerato giusto e ottenere la salvezza dell’anima.»

Allora, bello mio, sei già spacciato, penso, mentre sono sempre più curioso di capire dove vuole andare a parare. Ho come l’impressione che questo suo procrastinare sia legato a qualcosa che fino a pochi minuti fa, prima di mettere piede qui dentro, avrei giudicato impossibile: del tipo che ha bisogno di me o, meglio, che ha bisogno che io faccia qualcosa. È l’unica spiegazione plausibile.

«Quindi, Randy, ti chiedo di fare un atto di coscienza e firmare anche tu questo documento» dice indicando il comodino, su cui c’è un plico che noto solo ora. Bingo! Sempre fidarsi del proprio intuito, penso ironico. «Di cosa si tratta?» chiedo diffidente. «Leggilo» ordina. Solo per il tono di voce lo manderei a quel paese, ma ancora una volta prevale la curiosità. Afferro la busta e la apro lentamente. Dentro ci sono alcuni fogli. Li spiego e inizio a scorrerli.

Scopro che quando i miei nonni sono morti hanno lasciato la loro casa ai nipoti, particolare che ignoravo, e che io, quindi, ne possiedo una quota. Più vado avanti e più il linguaggio si complica, mentre la rabbia cresce. In sostanza, dopo tanti paroloni, se firmo rinuncio legalmente alla mia parte, a favore delle mie sorelle, ovviamente. Infilo di nuovo i fogli nella busta. «Mi hai chiamato per questo?» chiedo sbattendola sul comodino. Mi fissa sorpreso. «Certamente.» Non ci credo... «E non potevi farlo recapitare al mio avvocato?» «Volevo essere sicuro che firmassi, non volevo rischiare di dover aspettare settimane per una tua risposta, non ho così tanto tempo.»

La casa dei nonni era una villetta in pessime condizioni già quando ero bambino, figurarsi adesso. Quindi non si tratta certo di una questione economica, mio padre vuole soltanto ribadire quanto mi consideri oramai un estraneo.

«Randy, tu hai deciso anni fa di non fare più parte di questa famiglia, con il tuo comportamento. Non sei degno di ricevere neanche uno spillo. Quando sono morti, i tuoi nonni non sapevano della tua aberrazione, altrimenti loro per primi non ti avrebbero mai nominato erede. Io voglio solo rimediare a questa ingiustizia, è mio dovere come loro figlio e come cristiano.» Pezzo di merda! Mi ha voluto qui da lui solo per farmi soffrire ancora, anche in punto di morte resta uno stronzo della peggior specie. «Capisco, e condivido, il tuo punto di vista» mormoro. Mi guarda ancora una volta con sorpresa. «Che cosa intendi dire?» Mi alzo per sovrastarlo e sputo fuori tutto l’acido che ho in corpo in questo momento. «Intendo dire, caro papà, che mi comporterò come farebbe qualunque estraneo e mi terrò la parte che mi spetta. Poi chiamerò il mio avvocato e gli chiederò di impugnare il testamento dei nonni, del quale non ero a conoscenza. Fino a quando ero minorenne, tu potevi gestire le mie proprietà, ma dopo avevi l’obbligo di informarmi, cosa che non hai fatto. Per cui spenderò parte della considerevole quantità di denaro che ho guadagnato, grazie al mio lavoro da “peccatore pervertito”, al solo scopo di tenere tutto in sospeso per anni, forse decenni.» Mi fermo per riprendere fiato e poi gli urlo in faccia: «E sai perché lo farò? Perché voglio vederti crepare con la consapevolezza che il tuo odiato figlio sodomita te l’ha davvero infilato nel culo. Non trovi che tutto questo sia incredibilmente divertente?»

Mentre mio padre si porta una mano al collo e inizia a iperventilare, mia madre spalanca la porta, attirata dal mio tono di voce elevato.

Si precipita verso il letto, spingendomi lontano. «Randy, sei impazzito?» chiede con aria sconvolta. Poi passa una mano sulla fronte di mio padre. «Cindy, Joanna!» urla, per richiamare le mie sorelle, mentre gli controlla il polso.

Osservo la scena che ho davanti e mi sento come scisso: da una parte mi lascia indifferente, ma nel contempo mi fa stare male perché non mi riconosco. Io non sono così. Mio padre ha sempre avuto la capacità di tirare fuori il peggio di me «Come stai, caro?» gli chiede mia madre. Sul viso di mio padre spunta un fugace sorriso. Sta benissimo, il figlio di puttana! In quel momento arrivano anche Cindy e Joanna che, entrando nella stanza, mi lanciano uno sguardo di disapprovazione. C’è anche Iceman, che si ferma sulla porta. Guardo le mie sorelle, poi mia madre e mio padre. «Mi avete fatto venire qui solo per chiedermi di rinunciare a una pidocchiosa catapecchia che neanche sapevo di possedere? Siete… disgustosi.»

Mia madre si volta a guardarmi. «Ma che ti aspettavi? Che uccidessimo il vitello grasso? Anni fa hai preso la decisione di andartene, voltando le spalle a noi e a tutto quello in cui crediamo. Sei tu che hai scelto di non essere più nostro figlio e hai perso ogni diritto di far parte di questa famiglia. Firma quei documenti, per favore.» Lo dice a bassa voce, controllata, ma è come se lo avesse urlato.

«Non dubito che Cindy e Joanna siano in linea con questa visione, ma vorrei sentire anche il parere di Giorgia. Dov’è?»

Secondogenita della nostra “allegra cucciolata”, era la mia sorella preferita. Non che si discostasse totalmente dal “prototipo Bennett”, ma molto spesso diceva quello che pensava e aveva una visione più aperta su molte cose. Per quello avevo sperato che almeno lei tentasse di rimanere in contatto con me, ci contavo molto. Ma i desideri impattano sempre con la realtà e presumo che, infine, si sia adeguata al dictatum di nostro padre.

La veloce occhiata che mio padre e mia madre si scambiano e l’improvvisa ombra di dolore che passa nei loro sguardi non mi piacciono per niente.

Resto in attesa che mi rispondano, anche se una strana inquietudine striscia viscida nel mio petto. Istintivamente mi giro verso Iceman e nei suoi occhi non c’è niente di rassicurante. Oramai lo conosco e so che quando entra in quella che io definisco “modalità protezione” è perché pensa che stia per succedere qualcosa che non gli piacerà. E non sbaglia mai. Mia madre mi guarda con un’espressione improvvisamente ostile. «Giorgia è morta solo un anno dopo che tu sei partito. Ha avuto un incidente d’auto e sai di chi è la colpa? Tua! Sempre tua! Avevamo litigato perché lei si ostinava a volerti contattare, diceva che ti avevamo trattato ingiustamente. Quando uscì di casa era arrabbiata. Nevicava forte e ha perso il controllo. Tu sei riuscito a spargere il tuo veleno anche se non eri più qui» sibila con livore.

La nausea si fa viva nell’istante stesso in cui finisce di pronunciare l’ultima sillaba, mentre sento che Iceman mormora un “merda”.

«Perché?» mormoro facendo un passo in avanti. «Perché non me lo hai detto? Ti ho telefonato per anni… anni, mamma!» Prendo un respiro. «Ti ho raccontato tutto di me e tu… stavi zitta!» La sua espressione cambia di nuovo, diventando indifferente. «Randy, tu non avevi più nessun dirit…» «No, maledizione!» la interrompo urlando e le parole fluiscono senza che possa arginarle. «Io avevo tutti i diritti! Giorgia era mia sorella e io l’amavo. Amavo! E cazzo se avevo il diritto di essere informato della sua morte, secondo le regole degli uomini e del tuo… del vostro Dio!»

Lei fa una smorfia così fugace che, forse, me la sono soltanto immaginata, mentre, per una volta, mio padre sta zitto, ritrovando un minimo di tardiva umana dignità.

Guardo la donna che mi ha generato e cerco, con tutto me stesso, di rievocare il suo profumo e le sue carezze, di ricordare l’affetto che provavo per lei, nonostante tutto e tutti. Quello stesso affetto che mi ha spinto a telefonarle in tutti questi anni, solo per ascoltare il suo silenzio. Non ci riesco, provo solo aridità e vuoto e, paradossalmente, tutto mi sembra così ingiusto, quasi fossi io il colpevole. Guardo l’uomo che giace sul letto e non posso non odiarlo con tutte le mie forze.

Che cos’altro potrei mai dire loro? Che cosa potrebbe dire chiunque, di fronte a un odio così insensato che distrugge persino l’amore che una madre e un padre dovrebbero provare per un figlio? Ho sempre saputo che esisteva – me ne sono andato per non doverlo assorbire ogni giorno come un veleno – però, in tutti questi anni, è stata solo una vaga consapevolezza e non ne avevo mai sentito il morso sulla pelle. Ora lo percepisco ed è come una lacerazione in pieno stomaco, e fa così male che ho come la sensazione che non se ne andrà mai più via. Ma non permetterò loro di vedermi debole, non farò capire loro che mi hanno ferito così in profondità. Loro non sono più la mia famiglia, non li farò partecipare al mio dolore, non ne hanno il diritto.

È la voce di Iceman che, come una sferzata di energia, mi riscuote dal torpore di quell’incubo. «Durante la mia vita ho girato il mondo e sono entrato in contatto con la feccia dell’umanità. Mostri di cui nemmeno si può immaginare l’esistenza» dice avvicinandosi a me, ma guardando i miei genitori. «Voi siete appena entrati a pieno titolo in questa categoria. E di una cosa sono certo: non siete degni di lui.» Poi mi afferra la mano. «Randy, andiamocene.» Incapace di far altro mormoro solo: «Sì.» Mi trascina al piano di sotto, dove recuperiamo i nostri giubbotti e i bagagli. In un attimo siamo fuori e lui sta già chiamando un taxi, perfettamente efficiente come al solito. «Sì,» lo sento dire «sulla Division Street, all’altezza di Granite Pointe.» Ci avviamo verso la strada principalee e una volta lì non ci resta che aspettare. Iceman è accanto a me, ancora mano nella mano, silenzioso e solido come una roccia. Una volta saliti sul taxi, il tragitto verso l’Hampton Inn, dove abbiamo prenotato, è rapido. Dopo aver pagato la corsa e sbrigato le incombenze relative alla registrazione, saliamo in camera. Sono così stanco...

- 9 -

20 dicembre

Iceman

È fermo in mezzo alla stanza e sembra distrutto, annientato. So bene cosa sta provando, ho vissuto sulla mia pelle il momento esatto in cui la tua vita deraglia. Allora faccio solo quello che mi suggeriscono l’istinto e il cuore. Mi avvicino e lo stringo in un abbraccio, come non ho mai fatto prima, cercando di trasmettergli quasi per osmosi la mia forza.

Lui si aggrappa a me e inizia a piangere. Non è il pianto di un adulto, il suo, ma quello di un bambino, solo e spaventato, che ha appena perso tutto. È qualcosa di devastante, un dolore che sembra non avere confini. Piange per la sorella e per se stesso, piange per non sparire, per restare ancorato a una realtà che si sta dissolvendo.

Lo conduco verso il letto, lo faccio sdraiare e lo circondo con il mio corpo, come se in questo modo potessi proteggerlo da tutto. Mentre continua a piangere, gli accarezzo la testa e poi inizio a mormorargli tutte quelle cose stupide che si dicono per consolare, e mi rendo conto che non le sto dicendo solo a lui, ma anche a me stesso. Perdo la cognizione del tempo, forse passano ore, forse soltanto pochi minuti. E poi sento la sua voce, roca e tremante: «Mi dispiace di averti trascinato qui, mi dispiace per averti fatto assistere a… questo. Mi vergogno così tanto.» Lo stringo ancora di più. «Tu c’eri quando ho avuto bisogno io» gli bisbiglio in un orecchio.

«Finalmente siamo pari.» Anche se non lo vedo, sento il debole sorriso che gli incurva le labbra sfiorare il mio collo. Si scosta e mi guarda negli occhi. «Grazie di esserci» sussurra. E in quel momento che capisco che cosa volevano dire la Campbell e Misashi quando parlavano di fiducia.

Non importa che cosa sia questo sentimento che mi dilata i polmoni, mozzandomi il respiro, quello che conta è che adesso lo sento e mi rende potente. L’uomo che tengo tra le braccia non mi farebbe mai del male, non mi tradirebbe mai, non mi lascerebbe mai. E decido di lasciarmi andare, decido di amarlo, perché senza di lui io non esisto. Avvicino le mie labbra e lui le accoglie con un leggero mugolio di sorpresa: è la prima volta che prendo l’iniziativa ed è una sensazione esaltante. Lascio la sua bocca solo per aiutarlo a togliersi il giubbotto e per togliermi il mio. Ci mettiamo un po’ a sfilarci tutto il resto degli indumenti, perché sono incapace di staccarmi dalle sue labbra. È come restare in apnea sott’acqua, per poi prendere brevi respiri e immergersi di nuovo, perdendosi in quel liquido calore.

Quando anche i suoi boxer finiscono a terra, mi chino per baciare la sua erezione e, non appena l’accolgo nella mia bocca, Randy inarca la schiena, mormorando qualcosa che non riesco a capire. Non mi importa. Lo assaporo piano, lasciando che le sensazioni mi invadano del tutto, donando invece di prendere, e condividendo invece di pretendere. Uso le labbra, la lingua e i denti, faccio tutto quello che lui ha fatto a me, nei mesi passati, con perfetta dedizione all’obiettivo.

E ritrovo me stesso, riconosco il bambino che ero, il ragazzo che avrei voluto essere e l’uomo che voglio diventare.

«Oddio... oddio... oddio» ripete lui e questo mi strappa quasi una risatina. «Icy... fermati. Se continui così va a finire male.»

Faccio come dice e lui prende un respiro profondo. Si solleva sui gomiti e mi guarda con un sorriso che non gli ho mai visto, come se prima mi avesse concesso solo una copia sbiadita.

«Ora tocca...» inizia.

Non lo faccio nemmeno finire: lo afferro e, girandomi sulla schiena, lo trascino sopra di me. Senza mai smettere di guardarlo negli occhi, gli accarezzo una guancia e lentamente apro le gambe. Spero che il messaggio gli arrivi, perché non sarei capace di chiederglielo a voce. Lui mi afferra i polsi e preme con il bacino, schiacciandosi contro il mio corpo. Mi fissa così a lungo che inizio a sentirmi a disagio. «Finnigan Wood,» mormora «sei sicuro?» Sorrido. «Sì, e ti conviene fare in fretta prima che cambi idea.» «Lo avevo immaginato in modo diverso, questo momento. Comprendeva una cena romantica, candele e mezzo litro di lubrificante» dice con dolcezza. Sta facendo dell’ironia per mettermi a mio agio, ma non ce n’è bisogno. «Fallo» ordino e mi allungo a sfiorare per un istante le sue labbra. «Sissignore, agli ordini signore!» esclama imitando, male, il saluto militare. «Dammi solo un minuto» aggiunge alzandosi e raggiungendo la sua valigia. Si china a rovistare nella tasca esterna e poi tira fuori una serie di bustine. Quando torna da me lo fisso stranito. «Che c’è?» replica con un sorriso, mentre le appoggia sul letto. «Sono un ragazzo previdente, mai farsi trovare impreparato.» Giusto... Guardandomi con malizia, si inginocchia tra le mie gambe e poi si china. Sento la sua lingua che mi prepara, stuzzicandomi, eccitandomi. Qualche istante dopo, il rumore di uno strappo mi fa irrigidire. «Cucciolo, rilassati» sussurra con voce sensuale. «Ci sono qui io per te.» Le sue dita sono delicate e prima mi sfiorano soltanto, poi entrano dentro di me, piano, molto piano. Percepisco per un attimo la fredda sensazione del lubrificante, che scordo non appena Randy me lo prende in bocca, facendomi sobbalzare.

Qualche minuto dopo sono in orbita, disperso da qualche parte, mentre ansimo e stringo le lenzuola, provando a non venire come un ragazzino. «Non resisto un minuto di più» dice infine lui con voce roca. Si posiziona meglio tra le mie gambe e me le solleva. Sento come una strana pressione che cresce e, infine, un dolore che mi strappa un breve lamento. «Mi spiace» mormora subito Randy. «Vuoi che mi fermi?» Scuoto la testa. «Continua» rispondo in un sussurro e poi lo afferro per i fianchi, attirandolo verso di me, costringendolo a entrare di più. «Cazzo, Icy! Vuoi comandare anche quando stai sotto?» geme affannato. Sorrido, ma non riesco a dire nulla, solo a tenerlo stretto. È tutto così perfetto. Poi lui comincia a muoversi in modo deciso e la sua mano mi cerca, iniziando a masturbarmi. All’inizio è difficile concentrarmi, troppo preso da sensazioni mai provate, ma quando lui cambia inclinazione, riuscendo ad entrare del tutto e facendo affondi più brevi, il dolore inizia a diminuire. Poco alla volta, percepisco che qualcosa cambia e un lungo brivido mi attraversa la schiena. «Merda» mi scappa a fior di labbra. «Benvenuto nel club» ansima. Pochi istanti dopo, lui spalanca gli occhi e viene pronunciando il mio nome. E la miccia si accende anche per me; inizio ad agitare i fianchi in modo incontrollato e mi lascio travolgere dal mio orgasmo. Infine, Randy si accascia sul mio petto, senza più forze, e io lo stringo tra le braccia. Ridacchia. «Vergognosamente veloce. Scusami.» «Non mi sto lamentando.» Solleva la testa e sorride; poi, fa per aprire la bocca, ma prima che possa dire qualcosa gliela tappo con una mano. Lo guardo minaccioso. «Non dirlo.» Afferra la mia mano e la scosta. «Ma se non sai neanche che cosa volevo dire!» ribatte offeso. «Sì che lo so.» «Ok, ti sfido. Cosa stavo per dire?» chiede puntando il mento sul mio sterno e premendo con forza.

Gli sposto la testa di lato perché mi sta praticamente pugnalando. «Se indovino, ammetterai che stavi per dire quella cosa?» «Certo!» replica indignato. Sorrido soddisfatto. «Stavi per dirmi: “Visto che non era poi così terribile?”» La sua faccia sorpresa mi strappa una risata. «Ti odio» mormora, tornando a posare la guancia sul mio petto. «Si vede proprio» lo prendo in giro e poi ridiamo entrambi. «Icy?» mormora qualche minuto più tardi. «Sì?» «Domani mi accompagni in cimitero?» chiede esitante. «Certo» rispondo, accarezzandogli la schiena per rassicurarlo. «E poi possiamo andare in Louisiana? Mi piacerebbe davvero conoscere la tua famiglia.» «Tutto quello che vuoi» gli dico, sbadigliando. «Tutto?» domanda. «Randy...» lo ammonisco. «Dai» sbuffa. Lo lascio cuocere per qualche secondo e poi mi rassegno: «Cosa c’è?» «Ho trovato il mio regalo di Natale» sentenzia. «Guarda che lo hai appena scartato, pensavo lo avessi capito.» «Quello era un diritto, non vale!» protesta. Alzo gli occhi al cielo. «E sentiamo: che cosa vuoi?» Mi sto mettendo nei guai, lo so, ma non sono mai stato più felice di farlo. «Voglio un cane» afferma serio. Merda! «Ok, ma dovrai guadagnartelo» ribatto. «Mhmm... e come?» Con un colpo di reni lo faccio scivolare sotto di me. «È il mio turno» sussurro. Alza gli occhi al cielo, ma in mano ha già una delle bustine. Se la mette in bocca con sguardo di sfida. «Vieni a prendertela» mormora.

EPILOGO

28 dicembre

Randy

«Ellie, era tutto squisito!» esclamo, appoggiandomi sullo schienale della sedia a passandomi con soddisfazione una mano sulla pancia. Ho scoperto che amo il Gumbo con i frutti di mare, sopra ogni cosa.

«Se vuoi ti insegno a farlo» ribatte, accarezzando con tenerezza la testa di Iceman. «Questo zuccone ne va matto.»

Lui sbuffa, in apparenza infastidito, mentre Susan, la nipote, ridacchia. È impressionante quanto quella ragazza somigli allo zio. «Io ne vorrei un altro po’» interviene Sam, il marito di Ellie. È una brava persona e si vede che adora moglie e figlia. Iceman lo tratta come se fosse l’uomo migliore del mondo e non dubito che sia così, visto quanto di solito è severo nei giudizi che emette.

Mi ricordo come, soltanto lo scorso anno, si fosse incazzato, quando avevo osato nominare la sua famiglia, mentre quando siamo arrivati, ieri, mi ha presentato con un sorriso timido e orgoglioso al tempo stesso. È incredibile come, quando sei felice, riesci a ripensare anche ai periodi peggiori quasi con tenerezza. Sarà perché è come ripercorrere delle strade buie e impervie, ma che, infine, ti hanno ricondotto a casa.

Il giorno dopo l’orribile esperienza con i miei, dopo essere stati sulla tomba di Giorgia, abbiamo parlato a lungo, complice la notte più bella mai passata assieme, e abbiamo chiarito molte cose. Poi siamo tornati a New York e ripartiti con i biglietti che volevo regalare a Iceman.

Il soggiorno a Shreveport è stato bellissimo. Ho scoperto più cose su Icy in questi giorni in Louisiana che in sei mesi di convivenza. Sapevo già che il suo passato era stato difficile, ma ne ho avuto piena conferma quando mi ha raccontato tutto quello che ha dovuto passare con il padre e le cose orribili che ha subito la sorella.

Ellie è la dolcezza fatta persona ed è una fonte inesauribile di aneddoti e ricordi, a volte teneri, altre volte velati di malinconia, ma sempre preziosi. Si vede che adora il fratello e so che ha avuto un ruolo essenziale nella sua rinascita, cosa per la quale le sarò per sempre riconoscente. Quando Ellie torna con un piatto che porge al marito, mi chiede: «Quindi dovete proprio partire?» «Tesoro» la rimprovera bonariamente lui. «Lo so, lo so» sospira lei, sedendosi. «Sono un’inguaribile, incontentabile, rompiscatole, ma sono stati giorni bellissimi e vorrei che non finissero.» Mi allungo a stringerle una mano. «Ti prometto che torneremo spesso, tutte le volte che vorrai.» Lei mi sorride grata e ricambia la stretta. Iceman ci osserva e, pur restando come sempre impassibile, ha una luce che gli brilla negli occhi. La mattina successiva li salutiamo e ripartiamo per New York. Oramai la mia vita è “leggera”, non saprei come altro definirla. Quando il taxi si ferma davanti al mio palazzo, dopo aver salutato Marcel, saliamo in ascensore.

Manchiamo solo da una settimana, ma sembra un secolo. Arrivati di fronte all’appartamento, mentre guardo Iceman girare la chiave, dico: «Sto per chiederti una cosa stupida.» «Non sarebbe la prima volta» ribatte pronto. «Mi porteresti oltre la soglia, in braccio?» Si mette a ridere, ma si ferma subito quando capisce che non scherzo. «È una cosa stupida.» «Lo avevo già premesso» sottolineo. «Folle persino per te» insiste. «Accontentami, che tu ci creda o no tutte le mie fantasie erotiche su di te iniziavano in questo modo» spiego.

Mi guarda diffidente. «Se lo faccio, mi prometti che non userai questa… cosa per farmi altre richieste assurde e correlate?» «Non ti chiederò di sposarmi, Icy, te lo prometto» rispondo sincero. Si china e in un attimo mi carica su una spalla. «Ma non così!» protesto. «Intendevo con romanticismo!» Mi dà una pacca sul culo e poi spalanca la porta. Una volta dentro mi scarica sul divano, senza tante cerimonie, e poi torna indietro a disattivare l’allarme. «Antipatico! Possibile che tu non...» Mi interrompe uno strano rumore, una specie di uggiolio. «Cos’è stato?» chiedo. Iceman alza le spalle con espressione impenetrabile. «Non saprei. Non ho sentito nulla.» Il suono si ripete e io mi alzo per capire da dove provenga. Mi guardo intorno e noto qualcosa appoggiato sul tavolo della cucina.

È uno di quei trasportini per animali. Mi avvicino con cautela e apro lo sportello. Infilo la mano e sento qualcosa di soffice e caldo. Subito dopo estraggo un batuffolo di pelo. È completamente nero, tranne che per una macchia bianca sul petto e mi fissa con degli enormi occhi marrone.

Lo guardo incredulo e poi faccio lo stesso con Iceman e qualcosa dentro di me capitola definitivamente. Non so come abbia fatto, ma lo ha fatto. «Come...?» «Taylor. Io ho scelto il cucciolo quando eravamo ancora in Louisiana e Taylor ha fatto tutto il resto. Quando siamo partiti, stamattina, l’ho avvisato e lui ha provveduto a portarlo qui, con la complicità di Marcel, una mezz’ora fa. Era tutto organizzato. Si chiama Joker. Ti piace?» Ha parlato con finta indifferenza, come se non gli importasse della mia risposta. Tipico di lui. «Come il nemico di Batman?» domando. Mi guarda con una smorfia di disgusto. «No! È ispirato a Full Metal Jacket! E ti avviso che è un pitbull. Se dobbiamo avere un cane, che sia un cane vero.» «Ok, il prossimo sarà un barboncino» ridacchio. «Randy...» «Rosa.» «Randy!» «Adesso posso ringraziarti?» chiedo, avvicinandomi con il cucciolo in mano. «Hai il mio permesso» risponde allargando le braccia. Mentre mi stringe tra le sue braccia, penso che siamo proprio una strana coppia, decisamente mal assortita e sulla quale nessuno avrebbe mai scommesso un dollaro. Siamo perfetti.

FINE

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