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Intervista a Chantal Pistelli McClelland

Trovare il proprio desiderio e vederlo riconosciuto dagli altri equivale ad essere unici ed accettati; quando il desiderio si trasforma in passione, esso diventa scopo e gioia, e la passione ci completa e ci salva.

Per la presente edizione abbiamo deciso di intervistare Chantal, uno dei ‘libri’ riassunti nell’articolo sulla Human Librarydel numero precedente e presto ospite nella sede della nostra Associazione per sentirla raccontare la sua esperienza di vita e descrivere le attività in cui è impegnata. Chantal è nata con un’aplasia al piede destro che richiede l’utilizzo di una protesi per consentirle la deambulazione: ciò è stato il capo di pregiudizi e discriminazione vissuti durante l'infanzia, ma anche il primo passo verso l’affermazione della sua identità.

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Ciao, Chantal. Ti andrebbe di ripresentarti?

Mi ripresento volentieri! Mi chiamo Chantal Pistelli McClelland, sono nata a Magnolia, Arkansas, da padre afroamericano e madre italiana, ma ho vissuto la mia infanzia e adolescenza a Pisa, dove attualmente risiede mia madre. I miei primi anni di vita, a partire dall’età della consapevolezza, sono stati tutto sommato nella norma: in famiglia non ho mai avvertito il disagio della mia condizione, che anzi a me sembrava del tutto normale; al contrario, trovavo curioso il fatto che tutti gli altri avessero un piede in più, cosa che ai miei occhi di bambina sembrava un’esagerazione. Quando, invece, hai cominciato a sentirti ‘diversa’?

La percezione della mia diversità è stata indotta nel momento in cui ho avuto i primi contatti col mondo esterno: alle Elementari, prima, e poi alle Medie. Ho ricordi molto sfocati di quel periodo, perché, com’è noto, le esperienze negative tendono ad essere rimosse, ma quel che posso dire è che non sono stati affatto anni di felicità e spensieratezza come nell’opinione comune dovrebbero essere quelli dell’infanzia e della preadolescenza. E se qualcuno avesse l’ardire di affermare che «i bimbi, si sa, fanno così» — frase appartenente a tutto un campionario di clichéche mi dà sui nervi, perché sminuire le cause di sofferenza altrui è sempre un atto irrispettoso verso chi, di quella sofferenza, reca ancora lo scotto — non credo che, con tutta la fantasia e buona disposizione possibili, si possa trovare una giustificazione per spiegare il comportamento degli adulti, delle persone cosiddette “mature”, che col loro pietismo e i loro atti non verbali (sguardi, espressioni del viso), con i loro «poverina!» accompagnati da scuotimenti di teste teatralmente contrìti o i loro bisbiglî neanche troppo dissimulati mi hanno fatta sempre sentire sbagliata, anormale. Come hai reagito a tutto ciò? Che ripercussioni ha avuto nel séguito?

I miei primi anni scolastici sono stati per me un vero e proprio inferno: anni di profonda tristezza. Per fortuna, l’ambiente del

Liceo, un artistico, era del tutto diverso: più accogliente, più aperto, privo di giudizi e pregiudizi.

Pensavo — speravo! — di essermi lasciata alle spalle quella sofferenza, di averla in qualche modo archiviata…

Eppure, il malessere c’era ancora: un malessere sordido, invisibile, che covavo dentro pur conducendo un’esistenza apparentemente normale. Pur avendo stretto amicizie, pur frequentando persone e avendo una vita sociale abbastanza attiva, covavo dentro di me una sofferenza sempre sul punto di esplodere e di inghiottirmi. Conducevo due esistenze parallele: da un lato, la Chantal socievole e tranquilla; dall’altro, occulta agli sguardi altrui, quella cupa, triste, estremamente insicura, che sfogava su se stessa, attraverso il cibo, il suo malessere. Aver visto la mia disabilità negli occhi degli altri, per anni, mi aveva profondamente segnata.

Ho portato avanti questa farsa indossando la mia ‘maschera sociale’ finché ho frequentato il Liceo: il dover uscire di casa per recarmi a scuola mi obbligava a socializzare e a rapportarmi con gli altri, volente o nolente.

Dopo il diploma e dopo un primo tentativo di studiare in città decisi di recidere i contatti con Pisa, ambiente legato a troppi ricordi negativi. Andai a Milano per intraprendere gli studi e diventare Consulente di

Immagine, dal momento che ho sempre nutrito un vivo interesse per la moda. Il ritorno a Pisa, però, mi fece sprofondare nuovamente nel baratro, aprendo una voragine ancor più profonda: il male che covavo dentro, tutt’altro che affievolitosi, era diventato ingestibile; la mia rabbia incontrollabile. Quella depressione forse latente ha trovato piena manifestazione con la mia solitudine. Trascorrevo intere giornate chiusa in camera a disprezzarmi, a chiedermi perché proprio io fossi costretta a vivere in un corpo che non mi ero scelta, in una condizione che non accettavo ma subìvo. «Perché?

Perché a me?»E mangiavo, mi abbuffavo fino a star male, uscendo solo per far la spesa ed acquistare cibi senza alcun criterio e che poi nascondevo nell’armadio.

Mangiavo di notte, al riverbero delle luci del Lungarno, cercando conforto in quei 30 s in cui non pensavo. Il

«domani» era sempre meta di buoni propositi: «domani riprendo a mangiare sano», «domani esco presto e vado a camminare», domani, domani, domani… Trascorrevo ore intere a pianificare e compilare quadernini con i miei piani — piani che spesso non riuscivo a rispettare, con la conseguenza che il quadernino che li racchiudeva veniva abbandonato e la frustrazione aumentava. «Domani», ancora: nuovi piani, nuovo quadernino, e il timore della sconfitta in agguato. Riuscire a controllare la mia testa, quando mi riusciva, era una vittoria. In quei mesi di reclusione e di isolamento qualcuno si è accorto del tuo malessere? Ti sei confidata con qualche membro della tua famiglia?

In quei mesi ero talmente chiusa in me stessa che anche i rapporti con i miei familiari erano tesi. Ricordo che quando i miei genitori mi chiamavano, interrompendo la clausura autoindotta nella mia camera, per mostrarmi l’apparizione in TV di qualche personaggio illustre con disabilità — quali potevano essere Bebe Vio o altri atleti, scalatori, etc. — io scappavo via infuriata e tornavo a recludermi. «Possibile che per farmi accettare io debba scalar montagne?», mi chiedevo, e la domanda alimentava la mia rabbia.

Ho capito col tempo che i loro erano tentativi semplici e bonari per tirarmi su, per infondermi coraggio: purtroppo, spesso si è così afflitti dalle esperienze negative che qualsiasi gesto, qualsiasi sguardo, qualsiasi commento risultano deformati e possono essere fraintesi, indipendentemente dalla loro provenienza.

Star vicino ad un familiare che soffre di depressione o si è ammalato di un disturbo alimentare è senza dubbio un compito difficile: occorrono pazienza e delicatezza e bisogna mettere in conto che qualsiasi gesto o parola, pur guidati dalle più buone intenzioni, vengono talvolta travisati.

Nelle fasi più buie del mio disturbo alimentare praticavo anche autolesionismo, tagliandomi: di quello sono stata io a mettere al corrente mia madre e mia sorella, che non si erano accorte di nulla. Il tentativo di mia madre di farmi consultare uno psichiatra si rivelò disastroso: questi non ebbe esitazione nell’etichettarmi come depressa, prescrivermi un mucchio di pillole e gocce, e rispedirmi a casa, senza che io fossi invitata a proferire parola per parlare del mio disagio e senza accertarsi che io fossi davvero nelle condizioni di seguire la terapia. E difatti non la seguivo: o saltavo cicli interi, o sovradosavo i farmaci prescritti, con la consapevolezza e l’intenzione di infliggermi ulteriormente del male. L’aumento di peso conseguente all’alimentazione sregolata, inoltre, aveva inciso gravemente sulla mia autonomia: non potevo più indossare la mia protesi (fatta su misura e con una tolleranza abbastanza ridotta per le modificazioni corporee) per cui, se anche lo avessi desiderato, non sarei potuta uscire in alcun caso.

I miei genitori mi proposero di tornare in Svizzera e farmi fare una protesi provvisoria, affinché io potessi muovermi, ma io lessi questa proposta come un segno della loro mancanza di fiducia nel fatto che il mio peso potesse tornare normale in tempi ragionevoli. Come ho affermato, in certi frangenti, il ruolo del genitore è tutt’altro che semplice… Qual è stato il tuo breakthrough moment, il momento di svolta?

Non riuscirei ad identificare un momento preciso in cui ho deciso di reagire e riprendere in mano la mia vita. Probabilmente a spingermi è stata l’esasperazione. A mio avviso, è quando si tocca il fondo e si sta davvero male che comincia a profilarsi la necessità di un cambiamento radicale nella propria esistenza.

Dopo tanti tentennamenti, decisi infine di assecondare le proposte dei miei genitori di tornare in Svizzera e farmi fare una protesi provvisoria. Così, con mia madre al volante per ben 8 ore, raggiungemmo Biel, nella Svizzera tedesca: le mie condizioni fisiche, infatti, non mi consentivano di viaggiare in altro modo e, per giunta, indossare la vecchia protesi per più di 30 minuti era un’autentica tortura per via del dolore che provavo.

Nuova protesi, nuovi propositi di rinascita: tornata in

Italia decisi di intraprendere un percorso di cura sotto la guida di dietista, psicologo e psichiatra. Questo fu decisivo per la mia risalita. Devo tanto soprattutto alla dietista, che riuscì ad intercettare la mia passione per gli animali e a sfruttarla a mio vantaggio per farmi riacquisire fiducia in me stessa e familiarità col mondo.

Decise di affidarmi, come dog sitter, la sua cagnolina

Lucy, che portavo a spasso nel parco di San Rossore trascorrendo in sua compagnia interi pomeriggi: così facendo cominciai ad aumentare sempre più il raggio dei miei giri e ad uscire dalla mia comfort zone, scardinando al contempo la mia depressione.

Lo star emotivamente meglio mi diede la forza di acquistare un biglietto di sola andata per Parigi, col proposito di riscoprire me stessa e rielaborare il mio passato. Un biglietto di sola andata: andare alla riscoperta di se stessi non è un qualcosa con una durata definita, prevedibile a priori.

Cominciai con piccoli obiettivi quotidiani: andare in avanscoperta i primi giorni, per poi estendere sempre più le mie (auto-)esplorazioni e riacquistare così, a piccoli passi, quell’autostima troppo a lungo sotterrata.

Trascorsero, così, un paio di mesi, durante i quali feci anche qualche colloquio di lavoro: il proposito iniziale era

di trasferirmi definitivamente a Parigi, ma poi mi è venuto meno il coraggio… …ma hai avuto il coraggio di partire, ed è cosa non da poco. Cosa hai fatto una volta tornata in Italia?

Al ritorno in Italia ho ripreso e completato gli studi interrotti allo IED di Milano, coniugando l’interesse per la moda con l’avvio di una carriera come modella in alcuni servizi fotografici. Inizialmente posavo prevalentemente per fotografie che mi ritraevano solo a mezzo busto e, in ogni caso, nei primi lavori cercavo di nascondere la protesi il più possibile. Poi, gradualmente, ho acquisito più sicurezza. Un momento fondamentale, frutto di una circostanza fortuita, è stato l’entrare in contatto con una fotografa che cercava modelle con disabilità: le scrissi, descrivendole la mia condizione; non ero il soggetto che cercava, ma decise comunque di ritrarmi.

Fu così che, piano piano, quella protesi che avevo sempre cercato di mettere in secondo piano — quando addirittura non la occultavo — è diventata un accessorio di moda. Decisi di far decorare la protesi per i servizi fotografici (quella con piede inclinato per indossare i tacchi) da un compagno di Liceo,

Francesco Spanò, con motivi che ricordassero l’arte di

Klimt: dal momento che dovevo indossarla, perché non rendere essa stessa una forma d’arte? Fu un’ottima idea. In questo modo, non solo solleticavo l’interesse — questa volta autentico — delle persone che incontravo per strada durante gli shooting, ma avevo trovato nell’arte un mezzo per avvicinarle.

L’arte, da sempre tua grande passione, è anche uno degli elementi fondamentali del tuo impegno nel sociale. In cosa consiste questa tua attività?

Consapevole che non si può pretendere negli altri un cambiamento radicale — la sensibilità è una dote che o si possiede, e può essere sollecitata, o non si ha affatto — e che pertanto occorre offrire un diverso punto di vista per interpretare la realtà che ci circonda, nel Gennaio 2019 ho fondato Unique APS, un’Associazione di

Promozione Sociale con sede a Pisa, che attraverso l’arte in ogni sua declinazione mira a dare valore all’unicità di ciascuno di noi. È importante non pensare alla “unicità” come ad una caratteristica fisica — quel che rende me unica non è affatto il mio moncone: la “unicità” di ciascuno sta nella sua personalità, nel modo in cui conduce la sua esistenza, valorizzandola giorno dopo giorno. Il nostro motto, infatti, è: «Nessuno è come te, questo è il tuo potere»; in esso è condensato il messaggio che intendiamo lanciare.

Come opera Unique? I membri dell’associazione si fanno promotori di numerose iniziative di informazione e sensibilizzazione: nel corso degli anni, dopo la lunga pausa imposta dalla pandemia, siamo stati invitati in scuole e aziende a parlare di disabilità e diversità. Tra le iniziative promosse dall’associazione, per parlare di quella più recente, lo scorso Giugno a Pisa si è svolta la prima edizione di Ti Sento, evento che ha fatto dell’empatia il suo fulcro, articolato in più performance artistiche: una tavola rotonda intitolata “FEELing”, guidata dagli attori pisani Paolo Giommarelli e Antonio Calandrino ed incentrata sull’esercizio teatrale del calarsi nel personaggio; un’esibizione live di body painting ad opera dell’artista pisano Malandrino.Art, che ha dipinto una modella bionica, offrendo così una nuova chiave di lettura del corpo; “Di Segni Unici”, nel corso del quale i presenti, accompagnati da musiche opportunamente selezionate, sono stati invitati a tracciare un’impronta che li contraddistinguesse su un telone lungo 5 m; un’esposizione fotografica con ritratti a grandezza naturale di quattro soggetti, me inclusa, i cui volti sono stati sostituiti da specchi, per invitare a guardarsi in un corpo che non è il proprio (predisponendo, dove necessario, sgabelli o sedie per incrementare l’autenticità dell’esperienza). Pur essendo solo la prima edizione dell’evento, il successo riscosso ci ha incoraggiati a cominciare a pensare all’allestimento di un’edizione futura.

Intanto ci stiamo preparando per partecipare alla VI edizione del Sotto Gamba Game, giochi inclusivi che si svolgeranno a San Vincenzo (LI) dal 16 al 18 Settembre.

Quali sono le tue altre passioni, oltre all’arte?

Nutro un amore sconfinato per gli animali. Porto ancora nel cuore Lucy, la cagnolina che ha contribuito alla mia risalita dal tunnel della depressione.

Nel corso della pandemia, inoltre, ho collaborato come volontaria presso il rifugio Il Bosco di Archimede di

Capannoli, Pontedera: mai avrei creduto di adottare un cane, anche se era un sogno che nutrivo da sempre, ma infine Tobia, un cagnolone che, ancora con poche settimane di vita, era stato portato qui da un canile in

Sicilia, ha scelto me [e ha scelto anche di sentirsi l’intera intervista durante il nostro incontro — nda].Ora Tobia ha 6 anni e ancora fatica a fidarsi dell’uomo.

Ho anche due gatti, Gigì e Pasticca, un gatto albino e sordo, che coi suoi scatti e i suoi miagolî non modulati in intensità allieta le mie giornate a Marina di Pisa, dove attualmente vivo.

Oltre a ciò, pratico sport a livello agonistico: facevo vela già da tempo, ma solo nel 2017, quasi per gioco, mi sono avvicinata al progetto

Surf4All, che insegna le tecniche del surf aprendo la disciplina a persone disabili e non. Ho sempre nutrito un sincero interesse per questo sport e quando ho avuto la possibilità di praticarlo mi ci sono dedicata con tutta me stessa.

Nel 2019, dopo aver inviato il mio curriculum sportivo, ho ricevuto la convocazione in Nazionale: non ho realizzato finché non hanno cominciato ad arrivarmi a casa i gadget e le magliette col tricolore! Nello stesso anno ho partecipato agli Europei di Adaptive Surf in Portogallo, classe Stand 2 (amputati sotto il ginocchio o con gambe di lunghezza differente), gareggiando nella categoria

Open e come prima donna italiana convocata dalla

Nazionale FISW. Nel 2021, infine, ho preso parte ai

Mondiali disputatisi a Pismo Beach, in California. Che significato ha avuto per te lo sport nel tuo processo di auto-riaffermazione?

Una delle prime lezioni di vita che ho ricevuto è stata quella che mi ha impartito Roberto Bruzzone, un trekker estremo autore di imprese titaniche, che ha insegnato — a me come a tutti coloro che hanno aderito ai suoi varî walk camp — l’arte della tenacia e della determinazione.

È buffo che Roberto sia stato uno dei protagonisti di quei programmi televisivi tipo Wild che i miei genitori m’invitavano a guardare nei loro tentativi di aiuto e che io, tuttavia, rifiutavo infastidita. Sbollita la rabbia, in una di quelle occasioni, ho fatto qualche ricerca su Roberto e sono rimasta letteralmente stregata dalla sua intraprendenza: così mi sono unita ad uno dei percorsi di trekking che aveva organizzato in zona e, tramite lui, ho conosciuto tutto un mondo di persone straordinarie.

Niente autocommiserazione, solo tanta intraprendenza e forza di volontà.

Parlando invece della mia disciplina, il surf è per me non solo una grande passione, ma anche una lezione di vita. Così come un surfista scruta l’orizzonte collocandosi sulla line-up (il punto in cui le onde cominciano a rompersi; un surfista solitamente sceglie di aspettare sulla line-up per prendere un’onda), osservando i set che si infrangono e calcolando i tempi giusti per cogliere l’onda, allo stesso modo bisogna aver pazienza e scegliere con criterio il momento in cui agire. Esattamente come quando stai per cavalcare un’onda, devi dare tutto te stesso per restare in equilibrio, non aver fretta nel raggiungere l’obiettivo né essere precipitoso: il rischio, nel surf come nella vita, è quello di esser travolti. E, se si cade, è inutile e rischioso agitarsi: quando si finisce sott’acqua, nel cosiddetto “effetto lavatrice” in cui si viene ‘frullati’ da tutti i set accuratamente contati prima, la cosa più saggia da fare e più sicura è quella di stare in apnea. Quindi, alla risacca, ricomporsi e ripartire.

Il surf, nelle sue varie fasi, mi ha dato la possibilità di accettarmi. «Accettarsi» è per me un termine che ha un’accezione del tutto positiva: «accettarsi» non significa «arrendersi» né «subire una condizione», bensì intraprendere un percorso di crescita personale senza saltare nessuna delle fasi in cui questo si articola.

Accettarela situazione, prendendone atto, e l’eventuale fallimento; accettaredi perdonarsi per tutto il male che ci si è autoinflitti… Accettare di sfidare se stessi per superare i propri limiti, nel costante intento di migliorarsi. Grazie, Chantal, per il tuo tempo e per la positività che trasmetti con la tua esperienza di vita.

(E grazie, Tobia, per la tua pazienza!)

Lo Sportello d’Ascolto

Lo Sportello d’Ascolto è un’iniziativa svolta nell’ambito dei progetti cofinanziati dalla Società della Salute e da Fondazione Pisa, relativamente alla prevenzione dei disturbi del comportamento alimentare. È un servizio di notevole importanza, rivolto a coloro che si trovano nella fase iniziale della malattia o che stanno sperimentando una difficoltà legata al cibo, oltre a rivolgersi a genitori e familiari di chi soffre di un DA, offendo

e .

, di cui è spesso difficile individuare i fattori scatenanti. Ciò che sperimentano le persone che li vivono è la sensazione di una voce interiore che grida e non sempre trova ascolto e che spesso sfocia nel . Capiamo quanto sia difficile rompere questo silenzio e quanto spesso sia presente e forte un senso di vergogna e disorientamento. Proprio per questo motivo, crediamo nell’importanza di uno come lo Sportello d’Ascolto e vogliamo dire che

Cos’è?

Lo Sportello d’Ascolto si offre come un , che accoglie la domanda nel momento in cui si presenta, in cui si apre un primo spiraglio di richiesta di aiuto. Il nostro obiettivo è riuscire a intercettare questo momento, individuare situazioni a rischio, ascoltare, capire, rispondere alle domande ed eventualmente indirizzare verso possibili soluzioni.

Perché rivolgersi allo Sportello?

Occhi lucidi, tristezza, mani sudate, nervosismo, lacrime, rabbia, senso di colpa sono parte di questi incontri, per aver avuto il coraggio di parlare. Le emozioni e gli stati emotivi che circolano sono davvero tanti e spesso si concludono con sospiri di sollievo e sorrisi: sorrisi per esser stati/-e capiti/-e e per sentirsi più leggeri/-e.

Il primo Sportello è svolto nella sede dell’Associazione in via T. Rook, a Pisa. Negli ultimi 2 anni abbiamo registrato un incremento delle richieste di contatto, a causa dei disagi generati dalla pandemia da Covid19; per soddisfare tutti i bisogni abbiamo infatti inserito sempre più operatrici specificatamente formate per offrire un e affrontare le difficoltà e la sofferenza che i disturbi alimentari nascondono. La pandemia, infatti, ha ulteriormente aggravato il disagio psicologico di tanti bambini/-e e ragazzi/-e, che hanno vissuto inevitabilmente un aumentato isolamento e solitudine. L’Istituto Superiore di Sanità ha registrato un aumento dei disturbi alimentari del 30% rispetto all’anno 2019/2020 tra gli adolescenti e un abbassamento dell’insorgenza di età che risulta essere una delle conseguenze più gravi; ma per aiutare i ragazzi/-e dobbiamo offrire supporto e strumenti innanzitutto ai loro familiari, che rischiano di sentirsi impotenti dinanzi a un malessere così profondo e autodistruttivo.

Quali sono le modalità di accesso? È possibile prenotare il proprio colloquio, in totale anonimato, . In caso di minorenni, richiediamo un modulo di consenso da parte dei genitori o di chi ne fa le veci, o di essere accompagnati.

Il servizio è attivo dal Lunedì al Venerdì, su richiesta; l’orario, dunque, è concordabile insieme alle operatrici. Dopo il primo sportello gratuito è possibile accedere ad altri 2 incontri, previa iscrizione e saldo della quota associativa annuale, grazie alla quale sarà anche possibile accedere e seguire tutte le nostre iniziative. È previsto un numero massimo di 3 sportelli, in quanto la loro funzione è quella di fornire un , senza assumere le caratteristiche di un percorso di cura.

Tutti i contatti, recapiti, le informazioni e i colloqui sono gestiti nel rispetto del segreto professionale e delle disposizioni di legge per la tutela della Privacy delle persone che si avvalgono del servizio. Ricordiamo quanto sia importante un’intercettazione precoce del disturbo alimentare. Noi ci siamo e ci mettiamo il cuore in quest’attività. .

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Dr.ssa Irene Mazzei

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