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«In aurora, ante solis ortum». Il manifesto di Lunghezza

dei quali era Stefano Colonna detto “il Vecchio” che trafugarono il preziosissimo carico.3 L’assalto avvenne a circa due miglia da Roma, all’altezza dell’ antico sepolcro di Cecilia Metella, presso il casale di Capodibove, e permise al capo laico dei Colonna di Palestrina di impadronirsi di un immenso tesoro, d’oro e d’argento, del valore di circa 200.000 fiorini d’oro.

La reazione di Bonifacio VIII a questo colpo di mano fu, come nella sua indole, estremamente rapida e dura. Già il giorno successivo convocò, sotto pena di essere privati della dignità cardinalizia, i due cardinali Colonna, Giacomo e Pietro, i quali, tuttavia, preferirono non presentarsi al suo cospetto, adducendo come impedimento lo stato di grave agitazione in cui versava la città, che gli rendeva rischioso lasciare le loro residenze. Un semplice pretesto? Forse. Ma non stupirebbe affatto che le avverse fazioni cittadine cogliessero questa occasione per avviare tumulti e scontri armati.

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L’incontro, in ogni caso, poteva essere solo rimandato, magari sperando che la solennità domenicale potesse far “sbollire la rabbia” dell’iracondo pontefice. Speranza vana: il tono dell’udienza del lunedì si rivelò ben lontano da quello che i due porporati avevano potuto supporre o almeno immaginare. Un papa furioso, che non li fece praticamente parlare, li mise al corrente di quanto compiuto dal loro congiunto e richiese, oltre alla ovvia restituzione di quanto rubato da Stefano e dai suoi armati, la consegna del responsabile stesso e la rimessa nelle sue mani della città di Palestrina e dei castelli di Colonna e Zagarolo entro e non oltre il 9 dello stesso mese di maggio.

I cardinali si trovarono davvero “con le spalle al muro”; il papa non voleva solo giustizia, ma anche vendetta.

Sebbene sconcertati, anche per essere stati considerati corresponsabili di quanto avvenuto, Giacomo e Pietro si attivarono immediatamente facendo sì che il tesoro venisse restituito nel più breve tempo possibile (effettivamente ciò avvenne tra il 7 e il 9 maggio); per il resto non volevano e non potevano assecondare le altre richieste di quel vero e proprio ultimatum.

Ben consci del carattere e del modo di agire del pontefice, Giacomo e Pietro dovevano strategicamente anticipare quella che sarebbe stata la violentissima reazione del papa.

«In aurora, ante solis ortum». Il manifesto di Lunghezza

All’alba del 10 maggio 1297, tra le mura amiche del castrum Longizie, situato a poco più di tre ore di cammino dalle porte di Roma, i due porporati fecero redigere in forma pubblica dal notaio Domenico di Leonardo di Pale-

3 Sul furto e gli eventi ad esso conseguenti, con l’indicazione delle fonti e degli studi relativi, oltre al già citato lavoro di Paravicini Bagliani, Bultrini, 3 maggio 1297.

strina il testo di una lunga e dettagliata requisitoria di accusa nei confronti del papa, che sarebbe stata resa immediatamente pubblica.

Certamente a tale testo – passato alla storia con il titolo di Manifesto o Editto di Lunghezza – Giacomo, Pietro e i loro esperti collaboratori dovevano aver messo mano da tempo, procedendo con grande attenzione e soppesando le parole una a una. Vi si denunciavano la tirannide di Bonifacio VIII, il suo operato e le sue azioni, ma soprattutto si rifiutava la liceità della sua elezione al soglio di Pietro partendo dal presupposto che essa doveva essere considerata come conseguenza di un’illegittima abdicazione da parte di Celestino V e, pertanto, si richiedeva l’intervento del Sacro collegio per porre fine a tale scandalosa situazione. 4

La rapidità del susseguirsi degli eventi di quel venerdì 10 maggio ha quasi dell’incredibile. In poche ore il testo era nel palazzo papale del Vaticano sotto gli occhi del pontefice, il quale senza frapporre tempo al tempo, dopo aver convocato tutti cardinali presenti in quel momento a Roma e alcuni nobili romani, sul sagrato della basilica di San Pietro tenne un discorso pubblico spiegando con sarcasmo e veemenza quanto fosse accaduto alle porte di Roma.5 Sostenuto da una sapiente retorica, il pontefice proclamò la condanna dei due cardinali, della loro intera famiglia e di tutti coloro che erano o si fossero in seguito schierati dalla loro parte. Senza alcun giro di parole, ritenne i due cardinali i veri responsabili di quanto accaduto: Stefano doveva essere punito per quanto commesso, ma erano stati Giacomo e Pietro, con il loro comportamento e la loro arroganza, ad aver istigato il delitto perpetrato.

Quello stesso giorno il papa promulgò la lettera solenne In excelso throno, (è presumibile che anche la bozza di questo atto già fosse “nel cassetto”), con la quale dichiarava Giacomo e Pietro decaduti dalla dignità cardinalizia, privando loro e i loro congiunti di ogni beneficio ecclesiastico del quale godevano. Infine accusava l’intero casato dei Colonna di essere da sempre ribelle e nemico della Chiesa, seminatore di discordia in Roma e nei territori vicini.6

Come è stato giustamente evidenziato da Sandro Carocci, a proposito del discorso al popolo romano del 10 maggio e della In excelso throno, entrambi sottolineano «lo sforzo del papa per spezzare il legame tra la città e la famiglia Colonna». Ricorrendo alla metafora delle colonne che dalle loro residenze si spingono verso il Campidoglio, Bonifacio VIII accusava i Colonna di essere da sempre fomentatori di disordine e rovina per la città, «Romanorum reipublice

4 Dossier, n. 27. Sul Manifesto di Lunghezza, ampiamente Pio, Il contenzioso, pp. 267-278 (con bibliografia). 5 Dossier, nn. 10 e 28. 6 Dossier, n. 29. Sulla In excelso throno e sulla Lapis abscissus ampiamente Pio, Il contenzioso, pp. 279-280 (con bibliografia).

impugnatrix», «Urbis perturbatrix»; sosteneva che il furto del tesoro papale compiuto presso Capodibove doveva considerarsi come un ’ingiuria nei confronti del popolo romano; «sottolineava il recente inurbamento dei Colonna, quasi per mettere in dubbio la possibilità di applicare a questa famiglia la tradizionale identificazione fra passato cittadino e stirpi nobili; enfatizzava l’antico antagonismo e i danni recati dai Colonna ad Annibaldi e Orsini; ricorreva alla minaccia di trasferire lontano la Curia». 7

Il 16 maggio, da Palestrina, i Colonna risposero con un nuovo memoriale nel quale ufficializzarono l’accusa di illegittimità del papa, rinnovando l’appello al collegio cardinalizio affinché si occupasse con la dovuta determinazione della questione.8 Inoltre, evidenziarono come l’intera somma d’oro e d’argento fosse stata restituita, nonostante questo gesto fosse stato ignorato dal papa (ed effettivamente nessun cenno se ne trova nella In excelso throno). Era chiaro che il “furto”, aveva offerto a Bonifacio VIII uno splendido pretesto per attaccare i Colonna di Palestrina e privarli del loro strepitoso patrimonio a tutto vantaggio della propria famiglia e dei propri fedeli alleati.

A questo secondo memoriale seguì, il 23 maggio, festività dell’Ascensione, la promulgazione della Lapis abscissus con la quale il pontefice formalizzava la scomunica nei confronti dei due cardinali estendendola, questa volta, all’intero casato dei Colonna di Palestrina, dichiarata blasfema, scismatica ed eretica. Tutti i beni della famiglia sarebbero stati quindi confiscati mentre i vassalli, sciolti dal giuramento di fedeltà, avevano l’obbligo di collaborare alla cattura dei cardinali deposti e dei loro parenti.9

Il 15 giugno, con il terzo e ultimo memoriale, i Colonna accusarono formalmente Bonifacio VIII di essere il responsabile dell’abdicazione e anche della morte di Celestino V (avvenuta nel castello di Fumone esattamente un anno prima).

La lotta era impari, gli appelli dei cardinali Colonna non furono raccolti dai loro colleghi; il pontefice aveva impiegato armi di cui lui e solo lui poteva disporre, la scomunica e l’interdetto.

Ora Bonifacio VIII poteva “legittimamente” disporre del patrimonio e dei diritti dei Colonna di Palestrina, incamerandoli come beni confiscati nel patrimonium romane Ecclesie e assegnarli liberamente ad altri. Ma che i Colonna lasciassero che ciò fosse possibile sul piano pratico era cosa ben diversa; la loro ricchezza e la loro potenza militare erano così solide che potevano spe-

7 Carocci, Bonifacio VIII, p. 337. Sull’uso dell’araldica come marker geopolitico Bultrini, Insediamenti e supremazia. 8 Dossier, n. 30. 9 Dossier, n. 31.

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