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L’arte della rabbia, Basquiat

Di Luca Vichi

Nero, autodidatta, affascinato dal corpo umano e dalle parole. Arrabbiato con il mondo frivolo e classista nel quale ha però lasciato una traccia indelebile. Questo e molto altro, il Basquiat in mostra fino al 26 febbraio al MUDEC di Milano. Colori e immagini violente. Anatomie esplicite e indefinite. Parole e pensieri disordinati. È una dura prova quella di fronte alla quale vi mette la mostra che ripercorre la breve ed intensa vita di Jean-Michel Basquiat. A “dura prova” non intendo attribuire un significato negativo. Ma è giusto sapere che i vostri occhi, la vostra anima, i vostri stomaci devono essere preparati ad accogliere una smisurata dose di arrabbiata bellezza.

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A cura di Jeffrey Deitch e Gianni Mercurio, l’esposizione – fruibile al MUDEC di Milano fino al 26 febbraio – raccoglie circa 140 lavori realizzati tra il 1980 e il 1987 dall’artista newyorkese che, vissuto solo fino all’età di 27 anni, ha riportato all’attenzione del grande pubblico tematiche essenziali sull’identità umana e sulla questione razziale. Accostata alla musica e a letture intense, Basquiat ha scelto l’arte come espressione nella quale attenuare la rabbia fino a trasformarla in creatività. Aprono la mostra i quadri risalenti al periodo dell’esposizione a Modena (1981) in cui l’esperienza della strada è predominante. I segni lasciati nei bassifondi, le frasi scritte sui muri di New York – rigorosamente con il simbolo del “copyright” –portano Basquiat a conquistare le gallerie d’arte.

All’interno delle sue creazioni, disegni e parole si fondono (e confondono) continuamente. Le frasi inserite nelle opere, perlopiù criptiche, hanno un taglio di denuncia e spesso vengono cancellate per dar loro un risalto maggiore. Dal punto di vista tecnico, l’artista passa dall’uso del colore acrilico al pastello, dal collage allo spray. La base che supporta ogni commistione –quasi mai una tela – è un oggetto di riciclo (una persiana abbandonata, come in un novello ready made) o di poco valore (ad esempio, piatti da due dollari). Così “Catrame giallo e piume“, “Black” e “Jazz” ne sono validi esempi.

La pittura, poi, è ricordo d’infanzia, senza alcun abbellimento estetico. Dall’ideazione alla composizione, il processo è immediato; così come istintiva è la sua vena naïf. L’ossessione anatomica nei suoi dipinti, invece, è scaturita dalla lettura reiterata da bambino del volume “Grey’s Anatomy”. E se il corpo umano è composto per circa il 70% da acqua, quello di Basquiat è formato da rabbia. Una rabbia interiore che è terrore e seduzione al contempo. Un urlo ipnotico, violento. Manifestazione di un disagio, troppo spesso inibito dall’uso di quelle droghe che lo porteranno ad una morte precoce.

La figura femminile appare raramente nelle sue opere e ricorda le donne dipinte da Matisse, come “Rodo” (1984): un’immagine straziante e ingannevole in perfetto equilibrio classico, con un’accezione esistenzialista, immersa com’è nei suoi pensieri. L’espressività tribale è evidente in “Procession”, dipinto realizzato su una tavola irregolare che conferisce movimento agli uomini che, in una macabra processione, seguono un teschio. Retaggio delle origini dell’artista: l’arte africana realizzata per gli africani.

La mostra si chiude con le creazioni a quattro mani: quelle di Basquiat ed Andy Warhol. Artisti provenienti da contesti diversi e creatori di un’arte diversa, non agiscono sui supporti contemporaneamente. Il dipinto iniziato dall’uno viene poi portato a termine dall’altro. Il singolare accostamento, non avendo riscontrato molto successo, ha però vita breve. La critica, croce e delizia dell’artista, se da un lato ha contribuito alla sua gloria, dall’altra ne ha fornito un’immagine strettamente selvaggia, che ha sminuito l’anima grande di un artista puro e incontenibile.

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