Tivoli Host e Scuole per i 150 anni dell'Unità d'Italia

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Settimana Lions dell’Unità d’Italia: Tivoli Host e Scuole insieme per non dimenticare Nell’anno in cui il Paese festeggia il più prestigioso dei suoi compleanni, i Lions di tutta Italia si sono attivati per celebrare l’evento con iniziative di importanza pari al valore dell’avvenimento. Il Lions club Tivoli Host lo farà organizzando la “settimana del Risorgimento”, sette intensi giorni da venerdì 6 a venerdì 13 maggio - caratterizzati da convegni, recite, mostre, concerti, sfilate. Teatro delle manifestazioni sarà la città di Tivoli: dalle vie del centro storico a piazza Garibaldi, alle Scuderie Estensi. Un progetto variegato ma con al suo centro la Scuola, e per essa tanti giovani studenti, come giovani erano quei ragazzi che 150 anni fa’ non esitarono a scendere in piazza e salire sulle barricate, ovunque in Italia, rischiando la vita e spesso trovando la morte. Da Goffredo Mameli ad EnricoToti, dai fratelli Cairoli a Carlo Pisacane, ai fratelli Bandiera, a Luciano Manara; una “gioventù ribelle” all’oppressione ed in cerca di una nuova dimensione esistenziale che coincideva con l’ideale di una nazione libera e di un’Italia unita. Ecco allora la scuola, con i ragazzi ed il corpo insegnante impegnati a rappresentare l’epopea risorgimentale sviluppando, secondo modalità e linguaggi specifici a ciascun istituto, un tema fra i cinque indicati dal comitato organizzatore lions. Il risultato sarà la realizzazione di un grande affresco storico attraverso il racconto e la rappresentazione di fatti, luoghi, personaggi, aneddotica storica e quanto altro abbia contribuito alla realizzazione del grande progetto di un’Italia unita sotto la stessa Bandiera.

Otto istituti hanno risposto con entusiasmo all’iniziativa e stanno lavorando con tenacia e capacità per essere pronti a presentare le loro opere, venerdì 6 maggio, presso le scuderie Estensi: hanno aderito, il Convitto Nazionale A. di Savoia, le scuole medie E. Segrè e San Getullio, il liceo di scienze umane e linguistico I. d’Este, il liceo classico A. di Savoia, l’istituto tecnico statale A.Volta, il liceo artistico statale e l’istituto professione per la moda e l’abbigliamento.

Le opere prodotte, dalla grafica al multimediale, dall’affresco alla saggistica, resteranno esposte per una intera settimana presso le scuderie Estensi, e faranno da ideale complemento alla preziosa mostra iconografica sul Risorgimento, ed alla altrettanto interessante rassegna di cartoline d’epoca.

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I lavori creati dalle scuole, che abbiamo avuto la possibilità di scoprire in anteprima, ci riportano a quel lontano 1861 quando il termine “Italia” serviva a designare non tanto una nazione, quanto una penisola, così che Metternich si riferiva con sprezzo al nostro Paese come “espressione geografica”. In realtà il neonato Regno d’Italia, pur configurandosi come una delle maggiori nazioni d’Europa, almeno a livello di popolazione – 22 milioni – e di superficie – 260.000 km quadrati – non poteva però considerasi una grande potenza per la sua debolezza economica, la mancanza di infrastrutture ed una industrializzazione ancora agli albori; a ciò andavano aggiunti la enorme differenza di cultura, di organizzazione sociale e di consistenza economica esistente tra i due mondi appena unificati: quello sabaudo piemontese, e quello borbonico delle due Sicilie.

Il neonato Regno risultò generalmente molto povero ed arretrato: reddito pro capite pari ad un quarto di quello inglese; analfabetismo diffuso ed elevato - il 54% in Piemonte e Liguria e ben l’87% nel regno borbonico-; una aspettativa di vita di appena 30 anni, e dove il 28% dei giovani veniva scartato per rachitismo alla visita di leva. E che dire delle infrastrutture!

Pressoché assenti le ferrovie - 850 chilometri al nord, 99 in Campania e zero chilometri in Sicilia, per un totale complessivo di appena 2.000 chilometri, contro i 14.595 dell’Inghilterra; le strade ordinarie non superavano i 50.000 chilometri – di cui solo il 20% nel regno borbonico giusto quanto gli inglesi avevano trenta anni prima. La produzione industriale era ai livelli minimi; a fronte di 4 milioni di tonnellate di ghisa prodotte dall’Inghilterra e alle 967.000 della Francia, nel nord- Italia si arrivava a 17.500 e ad appena 1.500 nel sud. Questa era l’Italia del 1861, quando un kg di pane costava 0,40 lire, ed uno di pasta 0,60. Un secolo e mezzo è passato da allora, un battito d’ali nel percorso della storia, anzi con Benigni potremmo dire che l’Italia è ancora una minorenne; tuttavia è difficile far finta che gli anni non siano passati e che le rughe del tempo non abbiano lasciato alcun segno. L’osservazione della realtà quotidiana ci dice che gli eroi morti per consegnarci un’Italia unita, non sarebbero felici nel constatare come oggi il nostro Paese sia troppo spesso contestato nella sua integrità territoriale e ideale. Migliaia di veneti e siciliani, abruzzesi e toscani, non sono morti fianco a fianco per lasciarci istituzioni in cui ci si irride ed insulta, o una società in cui i talenti fuggono e le nullità prevalgono. Massimo D’Azelio all’indomani dell’unificazione affermava: “fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani”, e non aveva torto nell’immaginare che questa operazione sarebbe stata più lunga e 3

complicata della stessa guerra combattuta per l’unificazione territoriale.

Ma se è vero questo, è anche giusto dire che siamo stati un popolo capace di ricostruire il proprio futuro dalle macerie e di stupire il mondo intero con la sua genialità, tanto da conquistare un posto fra le prime potenze mondiali; abbiamo una speranza di vita pari ad 82 anni, contiamo 14.900 ultracentenari; la rete stradale è di 654 mila chilometri e quello delle strade ferrate di 16.600. La democrazia regola la nostra vita assicurandoci il pieno godimento dei diritti civili e costituzionali; e se ad eleggere il primo parlamento del Regno vennero chiamati a votare 418.696 cittadini - l’1,9% della popolazione - oggi possono recarsi alle urne tutti gli italiani, e sono milioni, che abbiano compiuto il diciottesimo anno di età senza distinzione di censo e di sesso. Ed allora che questo anniversario appartenga davvero a tutti noi e che il nostro Paese impari ad essere finalmente una Nazione e non un risicato conteggio di bottega per sopravvivere gli uni, a danno degli altri. E ricordiamo che la libertà è un dono che viene dal passato, e che quanto abbiamo oggi è ciò che gli altri hanno dato per noi ieri ed il cui sacrificio ci permette di godere di libertà e di prosperità, vivendo nell’unità e nella pace.

Vincenzo Pauselli Lions Club Tivoli Host

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Scuola Media Convitto Nazionale “Amedeo di Savoia”

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Scuola Media “Emilio Segrè”

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Scuola Media “San Getulio”

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Istituto Professionale Industria e Artigianato

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Istituto Tecnico Statale “Alessandro Volta” 45

Collegamento al filmato http://youtu.be/IFndsY2IQOs Video realizzato dagli studenti dell'Istituto Tecnico Statale "Alessandro Volta" di Tivoli nell'ambito delle manifestazioni del Lions Club Tivoli Host per i 150 anni dell'UnitĂ d'Italia

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Liceo Artistico Statale di Tivoli

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Liceo Classico Statale “Amedeo di Savoia”

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Collegamento al filmato http://youtu.be/8kXgh4NE_7g Video realizzato dagli studenti del Liceo Classico “Amedeo di Savoia” di Tivoli nell'ambito delle manifestazioni del Lions Club Tivoli Host per i 150 anni dell'Unità d'Italia

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Collegamento al filmato http://youtu.be/lX8g-k4z-pY Video realizzato dagli studenti del Liceo Classico “Amedeo di Savoia” di Tivoli nell'ambito delle manifestazioni del Lions Club Tivoli Host per i 150 anni dell'Unità d'Italia

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LIBERARE L'ITALIA 17 Marzo 1861: l'Italia finalmente è unita. I confini delineano quella caratteristica forma a stivale. Oggi, nel 2011, dopo 150 anni dall'unificazione, questi confini sono stati mantenuti. Garibaldi riuscì a formare il nostro paese, ma l'obiettivo di Massimo d'Azeglio è stato realizzato: formare gli italiani?

Ancora oggi sento parlare di nord e di sud. Ho visto lo sviluppo e il progresso delle regioni settentrionali e il sottosviluppo e il regresso di quelle meridionali. Sento ancora il termine "terrone". Quanto sono uniti gli italiani? Hanno diversi dialetti, diverse origini e diverse usanze. Ma è proprio la diversità che rende bello e colorato il nostro paese, oltre il verde il bianco e il rosso. Purtroppo, proprio questa diversità, a volte, è artefice della superbia, dell'arroganza e della presunzione. Da cosa potremmo liberare l'Italia? Ormai non ci sono più le guerre, non c'è più bisogno di un principe. L'utopia di Machiavelli è storicamente lontana da noi. I veri nemici di oggi sono i pregiudizi. Questi rendono schiava l'Italia. Coloro che possono liberarla non sono i principi, ma i cittadini stessi. "Est res publica res populi", lo Stato è ciò che appartiene al popolo.

E' quest'ultimo che spontaneamente deve liberarsi dai pregiudizi, non serve alcuna figura emergente.

Gli italiani devono unirsi. Devono sentirsi partecipi del loro paese, non solo territorialmente, ma anche civilmente e mentalmente. Ogni singolo individuo deve sentirsi di appartenere non solo alla regione in cui vive, ma a tutte. Solo così potrà nascere il rispetto verso ogni cultura regionale, la chiave per aprire la porta della libertà. Bisognerebbe imparare dal sud: nel mezzogiorno si dice che chi si reca in quei posti piange due volte: una quando arriva, l'altra quando riparte. La prima volta perché ha ancora la mente offuscata dalla nebbia dei preconcetti; la seconda perché non vuole più abbandonare la luce di quel sole che lo ha illuminato e del quale si è innamorato.

Se tutti piangessero per lasciare le meraviglie che hanno trovato in ogni luogo, che Italia sarebbe oggi? Forse saremmo tutti un po' salentini, "dellu munnu cittadini" .

Jacopo Montanari IVC 67

1500 anniversario dell'unità d'Italia Storie d'Italia

Pensieri Liceo Classico "Amedeo di Savoia" di Tivoli

Livia Presutti Caterina Presutti Cristina Brizi Martina Ferranti

Il lungo, tormentato ed avvincente processo storico italiano che culmina il 17 Marzo del 1861 con la proclamazione dello Stato unitario, é in questi giorni al centro di un acceso dibattito politico.

Perché mai, ci siamo chiesti, l'Unità d'Italia, non sia vista unanimemente come fonte di coesione sociale, come punto di forza nel moderno confronto economico e culturale con gli altri Paesi europei e mondiali?

Sembrerebbe che lo spirito che animava il Conte di Cavour, Camillo Benso, di creazione di un vasto regno dell'Italia settentrionale aleggi ancora tra le Alpi. Diverse Regioni italiane, cioè, simpatizzano per una divisione tra Nord e Sud d'Italia: un Sud più profondamente immerso nell'area mediterranea, ed un Nord strettamente legato a quel centro Europa, economicamente più ricco, più industrializzato, con maggiori infrastrutture, in altre parole, più potente. Queste Regioni, attraverso diverse azioni, in un gioco di equilibri politici e diplomatici, avanzano nella direzione di uno Stato federale, rimarcando i valori di una diversità e peculiarità regionali incondivisibili.

E' pur vero che all'indomani della proclamazione dello Stato unitario il quadro della coesione tra le genti appariva tutt'altro che unitario. All'unità territoriale non faceva riscontro un'unità di valori, un'unità morale, una unanime coscienza nazionale così come appare al principe Salina del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa o come esplicitamente emerge dalla celebre frase attribuita a Massimo d'Azeglio, “Fatta l'Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani”. Oltre tutto, il sentimento di appartenenza ad un unico Stato trovava molti ostacoli alla sua diffusione nel forte 68

disequilibrio tra città e campagna oltre che tra Nord e Sud. L'Italia che nasceva dopo l'incontro a Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II era un'Italia, senza dubbio, ancora tutta da formare, con una economia fortemente basata sulle attività agricole di tipo tradizionale ma che ora, grazie ad un piano di unità politica, poteva aprirsi a quella rivoluzione industriale già in piena corsa negli altri Paesi europei. L'unità politica apriva la strada agli investimenti nelle industrie e nei trasporti e metteva in circolazione uomini, idee e capitali in una rivoluzione, oltre che industriale e politica, anche, seppur lentamente,sociale.

L'unità d'Italia operava soprattutto nelle coscienze dove il seme della consapevolezza dell'appartenenza ad un nuovo Stato nazionale era stato appena impiantato e che richiedeva un ulteriore sforzo affinché germogliasse. Da quel seme è nata un'Italia più forte rispetto al passato e dove oggi tutti i cittadini, di tutte le Regioni, possono vivere uniti, pur nella diversità, sotto lo stesso tricolore, il Verde, il Bianco ed il Rosso della Bandiera italiana, il vessillo che già nel 1848 sventolava tra le mani di coloro che formavano quel movimento liberale che auspicava una politica di ispirazione liberale basata sui principi di autodeterminazione. In un'Italia ancora frammentata, diversi focolai avanzavano istanze di indipendenza come a Torino dove Carlo Alberto dovette concedere lo Statuto. Libertà ed indipendenza erano le parole che infuocavano gli animi dei veneziani che dopo aver cacciato gli austriaci proclamarono la Repubblica, come pure gli animi dei milanesi nelle famose Cinque Giornate, forse tra i maggiori episodi della storia risorgimentale italiana. Il desiderio dei milanesi di liberarsi dall' oppressione austriaca per partecipare alla costruzione di una nazione italiana libera e indipendente fu così ampia e partecipata che vide tutta la popolazione opporsi ai soldati del generale austriaco Radetzky. Lo sventolio della bandiera italiana sulla guglia della Madonnina del Duomo di Milano, oltre a segnare la vittoria italiana, rappresentava simbolicamente quello spirito unitario che dalle città e dalle campagne si era trasformato in un fronte ampio e forte capace di respingere le forze austriache e di contagiare tutto il Lombardo-Veneto. Lo spirito liberale e di indipendenza assunse proporzioni così elevate che indusse Carlo Alberto di Savoia ad accogliere le istanze del territorio ed a dichiarare guerra all' Austria nel Marzo del 1848. La debolezza dei propositi sabaudi anti austriaci e gli intenti più rivolti ad estendere il 69

predominio sulla Lombardia, volsero gli esiti di quella che riconosciamo come Prima guerra d'indipendenza tutt'altro che a favore dei moti insurrezionalisti con il risultato che Milano tornò nelle mani degli austriaci ed il Regno delle Due Sicilie in quelle di Ferdinando II di Borbone. La sconfitta di Custoza, oltre a riaccendere le tensioni austro-piemontesi, ebbe ripercussioni anche a Roma con la fine del potere temporale del Papato e la fondazione della Repubblica Romana di Mazzini, Armellini e Saffi. Col riaccendersi degli aneliti libertari anti austriaci ed una serie di sconfitte, Carlo Alberto dovette abdicare in favore del figlio Vittorio Emanule II, quando ormai il quadro politico stava degenerando con il ripristino dei Granduchi, l'abolizione di diverse Costituzioni ad eccezione dello Statuto Albertino piemontese. Il progetto di unificazione del Paese ritrova lentamente animo nel decennio 1848-1858 attorno alle iniziative politiche e militari di Cavour che culminano nel giugno del 1858 a Plombieres con la promessa di Napoleone III ad impegnarsi al fianco del Piemonte in una eventuale guerra contro l'Austria. Il disegno di un futuro Paese costituito da quattro Stati, più che ad un disegno unitario si ispirava ad un disegno di liberazione dal dominio austriaco. Da abile stratega qual era, Cavour indusse l'Austria ad una dichiarazione di guerra: la Seconda guerra d’indipendenza.

L'entusiasmo delle numerose vittorie, Palestro, Montebello, Magenta, Solferino e San Martino, accese nuovamente quello spirito libertario assopito, ma mai spento, capace di far insorgere le popolazioni del Granducato di Toscana, dei Ducati di Parma, Piacenza e Modena, inducendo Napoleone III ad un accordo segreto con gli austriaci. Da una fitta rete di relazioni che passano attraverso l'armistizio di Villafranca del 1859, Cavour, cedendo Nizza e Savoia ai francesi, riesce ad ottenere la grossa parte degli stati dell'Italia centrale. Il quadro dell'Italia unita, come un grande puzzle, annetteva, quindi, una grande tessera al suo interno. E' da questo momento che inizia la grande azione garibaldina che da Quarto, in mille, sbarcarono a Marsala risalendo la penisola fino a Teano luogo del famoso incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Pochi mesi dopo, il 17 marzo 1861 venne così proclamata la fondazione del Regno d'Italia di cui Vittorio Emanuele II fu proclamato re. Il quadro politico e militare europeo, tuttavia, restava ancora ricco di tensioni espansionistiche che portarono l'Austria ad opporre i suoi eserciti alla potenza prussiana di Otto von 70

Bismark. La guerra austro-prussiana costituiva per l'Italia una inattesa opportunità di strappare il Veneto all'Austria. Schierandosi al fianco della Prussia, l'Italia prende parte, così, alla Terza Guerra d'Indipendenza. Con la pace di Vienna ed un bilancio di guerra disastroso, il Veneto viene finalmente annesso al territorio italiano. I Paesi iniziano a consolidare i loro equilibri interni ed esterni sulle nuove posizioni. Si avviano una serie di riforme economiche e sociali interne ma anche una nuova fase di espansione coloniale. Sono proprio gli orientamenti della politica estera a turbare un generale stato di equilibrio costruito attorno alla Germania. Un complesso intreccio di interessi economici, politici e culturali portarono alla Prima Guerra Mondiale. Di nuovo un conflitto armato di proporzioni più ampie rispetto al passato costituisce il contesto nel quale avanzare le speranze di liberare tutto il territorio nazionale. E' così che l'Italia, aprendosi alle richieste degli interventisti, aderì all'intesa tra Inghilterra, Francia, Russia e Giappone, rivendicando Trento e Trieste. Nello scontro con il blocco austro-tedesco, dopo l'uscita dall'intesa della Russia, è l'ingresso della potenza americana a spostare l'equilibrio delle forze dalla parte dell'intesa anche se non servì ad evitare all'Italia la gravissima sconfitta di Caporetto. Con la pace di Versailles l'Italia ottenne il Trentino, l'Alto Adige, Trieste e 1'Istria e si concluse il processo di unificazione, ma restava un Paese stremato, impoverito e con milioni di morti da piangere e che oggi non possiamo dimenticare.

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Liceo Scienze Umane e Linguistico Statale “Isabella d’Este” 72

LICEO DELLE SCIENZE UMANE – LICEO LINGUISTICO “Isabella d’Este” - Tivoli Storie d’Italia – Sezione d – Pensieri e parole

Camogli, 17 Marzo 1861 Caro consorte, ti scrivo questa lettera per sentirti vicino. Hanno appena annunciato in piazza che Vittorio Emanuele II di Savoia ha assunto il titolo di re d'Italia e ne ha annunciato l'Unità. Mi manchi, marito mio. Sei partito per la guerra con il tuo amato generale Garibaldi e da allora non ho più ricevuto alcuna nuova. Il mio cuore spera; spera che tu ti sia fatto onore e che presto ritorni sotto il tetto vuoto che ti attende. Se invece il tuo sangue fosse stato effuso vorrei che tu fossi morto per difendere quello in cui hai creduto, quello che hai e abbiamo sperato e che oggi, finalmente si è avverato. Tuo figlio sta giocando con le costruzioni che hai ricavato con cura dal legno del terreno paterno, eredità di chi nella terra ha messo le sue radici.

Più passa il tempo e più il tuo sorriso diventa il sorriso di nostro figlio.

Ricordo il giorno in cui ci siamo conosciuti, qui, in questo paese dimenticato da Dio. Ricordo i tuoi occhi fissi su di me, le tue guance sporche di fuliggine e i tuoi vestiti macchiati. Mio fratello mi raccomandò di starti alla larga. Non era opportuno per la nostra famiglia borghese frequentare gentaglia del tuo rango. E io, sulle prime, lo ascoltai. Mi avevi incuriosito, è vero, ma non a tal punto da cercati, come hai fatto tu. Sei sbucato quella sera tra le rose del mio balcone, mettendomi paura.

Cominciai a gridare ma mi pregasti di tacere, giurandomi che non mi avresti fatto del male; e ti credetti. Nacque così la nostra storia clandestina che finì quando mio fratello ci scoprì e mi relegò in casa. Mi fece credere nella tua cattiva fede. Mi riferì che ti aveva ascoltato vantarti con i tuoi amici di questa storia e mi convinse che volevi i miei soldi, non il mio amore. Gli credetti di nuovo. Non perché ci sperassi ma perché era mio fratello e non un miserabile senza una lira in tasca. Tu continuasti il tuo lavoro in fabbrica anche se volevi andartene, scappare e combattere per ciò in cui credevi. Io continuai lo studio del pianoforte e il perfezionamento del ricamo. Le nostre mani erano così diverse. Le mie erano lunghe e fine, abituate al tocco delicato dei tasti del pianoforte, le tue rugose e callose abituate a manovrare la pala. Non avrebbero potuto sfiorasi di nuovo. Ma poi, l'inaspettato avvenne. Inseguisti la mia carrozza mentre mi recavo alla messa domenicale e lì mi rivelasti il tuo amore. Lessi nei tuoi occhi che 73

quello che le mie orecchie ascoltavano era vero. Mi fidai e quella sera ti ufficializzai con i miei. Non mi pento di aver combattuto per il nostro amore. Sono una guerriera anch'io, cosa credi? Tu adesso stai combattendo con armi e lance, io, quella sera, ho combattuto con la parola e ho vinto.

Certo, sono stata obbligata a rinunciare alla mia famiglia d'origine, ma per ciò che si ama qualcosa bisogna sacrificare. Ora abbiamo la nostra di famiglia e anche se viviamo in povertà , almeno siamo felici. Spero che la mia scrittura ti sia comprensibile. Quando sei partito ancora facevi fatica a decifrare qualche parola. Ma sono stata una brava insegnante e il tempo ti aiuterà a migliorare la tua lettura e la tua scrittura. Ti lascio, mio amore.

Questa sera io e nostro figlio disegneremo e coloreremo sopra il nostro letto una grande bandiera d'Italia. SarĂ verde come il giardino che abbiamo coltivato insieme appena arrivati in questa umile abitazione, bianca come l'abito da sposa che ho rammendato utilizzando un vecchio lenzuolo, rossa come i gerani che hai piantato nell'aiuola quando scoprii di essere gravida.

Aspettiamo tue notizie, aspettiamo te.

Con immenso amore.

Tua moglie e tuo figlio Elaborato di Manuela Caruni - V BS

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LICEO DELLE SCIENZE UMANE – LICEO LINGUISTICO “Isabella d’Este” - Tivoli

Storie d’Italia – Sezione d – Pensieri e parole

Mentana, 3 novembre 1867 La zona era distrutta. Non riuscivo a respirare, la nuvola di polvere si stava diradando; vedevo i miei compagni d’armi sdraiati a terra, molti dei quali morti o gravemente feriti.

In quel momento mi resi conto che anche se l’ideale per cui si combatte è nobile e di sani principi, comunque si combatte, si uccide, si muore. Avevo strappato la vita a giovani che avevano la mia età, non sarebbero più tornati nelle loro case, nessuno avrebbe più rivisto quei ragazzi: alcuni potrebbero rispondere: “il tuo non è omicidio, hai difeso la tua vita, loro avrebbe fatto lo stesso con te” ma il loro sangue, vale forse più del mio?

Questo dubbio mi attanagliava, mi sentivo sporco, sarebbe stato meglio se fossi morto anch’ io? Non riuscivo a darmi pace. Quando la polvere si depositò, un comandante mi prese per un braccio, mi alzò di peso e mi disse di scappare, i Francesi avevano sfondato le linee anche sul fronte sinistro, dovevamo ripiegare verso Monterotondo, non c’era altra possibilità, dovevamo fuggire come degli schiavi inseguiti dai padroni con le fruste.

Mentre correvo inciampai più volte sui corpi senza vita di giovani lasciati lì, soli, senza la possibilità di ricevere i giusti onori dovuti a dei combattenti. Continuavo a chiedermi se era giusto proseguire questo massacro, ma non avevo tempo per pensare, dovevo correre, mi mancava il respiro, sentivo il cuore battere all’impazzata. Mi guardai intorno e di camicie rosse che correvano con me ne vidi veramente poche, in coda vi erano i comandanti, dei vari reparti, sanguinanti, con le armi ancora calde in mano; quelli sono eroi - pensai.

Dopo una corsa disordinata, che sembrò interminabile, riuscimmo a metterci in salvo a castello Orsini, non so quanti di quelli che fuggivano, riuscirono a entrare al sicuro nelle mura, ma dovevano essere davvero pochi.

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La notte scese senza che me ne accorgessi, sentivo urla, pianti, gente che correva da tutte le parti con bende, acqua e cibo; ma il mio sguardo si posò su un ragazzo, steso in un angolo, che teneva stretta al petto la sua camicia rossa. Mi avvicinai e vidi una maschera di sangue, niente di quel ragazzo era riconducibile a un essere umano, era sfigurato in volto, i vestiti in brandelli, negli occhi aveva una sensazione di pace, non di sofferenza e dolore come doveva essere, ma di tranquilla serenità. Mi sedetti accanto a lui, fermai un uomo che correva con delle bende e gli indicai il ragazzo, non riuscivo neanche a parlare, tanto ero atterrito e meravigliato dalla forza di quel giovane garibaldino. Ma quello scosse la testa, chinò lo sguardo e andò via; non c’era niente da fare, stava per morire. Gli accarezzai la fronte, per recargli un po’ di conforto, ma lui sorrise e sussurrò: “Non piangere per me, muoio per la mia Italia”.

“Cosa posso fare per te?” queste le uniche parole che riuscii a pronunciare. “Nella mia giacca c’è la storia della mia avventura, la porto sempre con me da quasi 10 anni, non riesco rileggerla, ma tu puoi farmela rivivere per l’ultima volta.”

Era un diario consumato dal tempo, la grafia era quasi illeggibile e la poca luce non aiutava; sfogliai la prima pagina: “L’11 Maggio, il generale e i suoi volontari sbarcavano a Marsala, sulla mia bella isola, per liberarci dall’oppressore.

Due giorni prima avevo compiuto 20 anni. Da bambino mio padre mi raccontava storie magnifiche, racconti in cui il bene trionfa sempre sul male, in cui il cavaliere dall’armatura scintillante sconfigge il drago e salva la principessa; ma il nostro drago è enorme, con i suoi artigli, uccide e con il suo fuoco, distrugge le case; servivano molti cavalieri per mettere in fuga la gigantesca bestia.

Mio padre era un uomo alimentato da tanti sogni e tante speranze, credeva in un futuro diverso, migliore per i suoi figli, non in un avvenire pieno di ricchezze e lusso, ma in uno senza catene, senza sbarre e senza gabbie.

Il 15 maggio fu il giorno che cambiò la mia vita, il ricordo di lui, che aveva finito i suoi giorni nel carcere borbonico della Vicaria mi diede la spinta finale. Mi unii ad altri 500 “picciotti”, tutti siciliani alimentati 76

dallo stesso sogno, e forse anche un po’ dall’incoscienza della gioventù e insieme alle camicie rosse affrontammo 4000 soldati borbonici; noi che non avevamo mai imbracciato un moschetto, né visto un uomo morire, ora combattevamo instancabili, esaltati, come dei, falciavamo la vita altrui. Ogni marcia, ogni campo di battaglia, mi portavano alla mente tutti i soprusi che il nostro paese aveva subito e continua a subire, non mi sento in colpa per aver ucciso: il nostro drago andava scacciato, ad ogni costo.”

Staccai gli occhi dalla pagina, e vidi i suoi occhi spenti, nessun movimento, la vita lo aveva lasciato, era caduto combattendo e le ultime parole che aveva udito erano i suoi amati ricordi. Mi guardai intorno, i comandanti dei battaglioni erano riuniti ad un tavolo e discutevano riguardo il da farsi; io ero più interessato però a finire di leggere la storia dello sconosciuto, cominciavo a pensare che la guerra, a volte, è l’unica soluzione possibile, nessuno può ergersi a giudice, e decidere chi vive e chi muore, questo è vero, però bisogna fare delle scelte. Una donna mi vide straiato a terra, con lo sguardo fisso nel vuoto, perso nei miei pensieri, forse pensò che fossi morto anch’io, perché mi diede un’occhiata pietosa, oppure pensò semplicemente che dovevo essere ridotto meglio di molti altri, almeno io non ero ferito, eccetto un taglio sulla gamba, che molti avrebbero considerato un onore, ma per me era solo una cicatrice, un orribile ricordo di un’esperienza che mi avrebbe tormentato per il resto della mia vita.

Cercai di estraniarmi di nuovo da quello spettacolo disumano e ricominciai a leggere da dove avevo interrotto: “In pochi giorni liberammo tutta l’isola, ho visto la scintilla che brillava negli occhi del generale quando dichiarò la Sicilia terra libera. “Qua si fa l’Italia o si muore”: ripete sempre questa frase che, detta da chiunque altro risuonerebbe affrettata, puro e semplice fanatismo, ma detta da lui, infiamma il cuore di ardore: lo avremmo seguito ovunque.

Quando sbarcammo in Calabria le nostre linee contavano ormai più di ventimila volontari. Il 30 agosto a Soveria Mannelli oltre diecimila uomini delle truppe borboniche si arresero a quelle guidate dal vecchio Stocco, senza la necessità di far esplodere neanche un 77

colpo. Appena due giorni dopo entrammo in Basilicata, dove ho avuto l’onore di incontrare veri patrioti che prima ancora del nostro arrivo avevano già fatto capire ai Borboni chi comandava.

Nonostante l’insurrezione le truppe straniere avevano ancora voglia di “farsele suonare”, e sul fiume Volturno, inferiori di numero, e sicuramente mal equipaggiati rispetto a loro, li annientammo.

Il 6 novembre ci schierammo in riga davanti alla Reggia di Caserta per rendere onore a Vittorio Emanuele II; mi sentivo fiero di quello che avevo fatto, io avevo partecipato a grandi battaglie, avevo camminato a fianco di uomini grandiosi; mi sentivo finalmente parte di qualcosa, chissà cosa avrebbe detto mio padre: a volte lo immagino ancora seduto sulla sedia di vimini a fianco alla finestra e mi piace pensare che lui annuisca: un gesto semplice, che però racchiude in sé tutta la fierezza che un padre può avere nei confronti di un figlio. I suoi sogni si stavano realizzando e io stavo contribuendo al loro compimento. La nostra marcia, la spedizione dei mille, finiva qui, il re è stato proclamato, il nord e il sud liberati dallo straniero; manca un ultimo passo, poi l’Italia sarà fatta e si potrà passare a fare gli italiani.”

Rilessi più volte le ultime righe, quelle parole risuonavano nella mia testa: “fare gli italiani” parlava di quelli come me? Parlava di tutte quelle persone che non possono dirsi italiane, perché non hanno fatto l’Italia? Persone che non hanno combattuto quando era il momento: del resto anch’ io nella battaglia di Mentana ci ero finito per caso, io non dovevo essere lì, io non dovevo e non volevo combattere.

Alzai lo sguardo, davanti a me uno specchio dall’altra parte del grande salone rifletteva la mia immagine, ma non ero io, non potevo essere io, vedevo riflesso nello specchio un patriota, un uomo nuovo, consapevole del fatto che bisogna lottare per la propria libertà. Rilessi un paio di volte quel diario, le mie idee stavano cambiando, come il padre era stato un esempio per il figlio, così quest’ultimo lo era stato per me.

Promisi a me stesso che da quel giorno, avrei scelto di combattere per un ideale nobile, avrei combattuto per la mia Italia.

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Elaborato di PAMELA RICCI - V BS LICEO DELLE SCIENZE UMANE – LICEO LINGUISTICO “Isabella d’Este” - Tivoli Storie d’Italia – Sezione d – Pensieri e parole Milano, 17 Marzo 1848 Mia cara Delia, c’è qualcosa di strano nell’aria, stamattina. Lo si percepisce chiaramente, tra le strade affollate di questa vecchia città in rovina. Gli uomini camminano svelti, con gli occhi incollati a terra, quasi avessero paura del cielo che li fissa dall’alto. Tengono le mani affondate nelle tasche della giacca, come per custodirne i pesanti segreti nascosti sul fondo, e camminano. Camminano e basta. Con gli occhi bassi e il cuore che palpita, respirano. Ecco cos’è quest’odore: inquietudine. Aleggia nell’aria come una creatura spettrale proveniente da chissà quale metamondo e ci entra nel naso, nelle orecchie, nelle vene, ovunque, dritta fino al cuore. Qualcosa sta per succedere, a Milano, lo sento. Non è solo l’aria ad essere cambiata.

Gli stranieri continuano a strizzarci come arance da spremuta. Presto rimarranno solo semi, di noi. Le tasse sono arrivate alle stelle e non ricordo di aver mai pagato tanto un pezzo di pane in vita mia. Il vecchio Radetzky non molla, cerca di svuotarci le tasche quanto più gli è possibile.

Ma quello che non sa, mia adorata, è che non può arrivare a svuotarci l’anima. Quella ce la teniamo stretta al petto, al sicuro dai loro occhi di ghiaccio. Ce la straccerebbero come un foglio di carta, se potessero. Sono bravi a distruggere, questi invasori biondi. Ce l’hanno nel sangue, la brama di potere. Il mio sigaro del mattino me lo posso anche scordare. La tassa sul tabacco è a dir poco proibitiva. È da più di due mesi che abbiamo smesso di fumare, qui in città. Uno sciopero generale dei fumatori, per così dire. Saresti dovuta essere qui, a Capodanno, avresti potuto vedere con i tuoi occhi di cosa parlo. Nel pomeriggio le strade erano gremite di gente, come al solito. Eleganti borghesi dall’abito scuro, noti aristocratici a passeggio con le loro signore, tutti in carrozza o a piedi. E poi mille saluti, inchini, scambi di auguri per il nuovo anno, frettolosi e animati giovani, operai con l'abito buono della festa appena rispolverato dall’armadio. Tutto come al solito, all’apparenza. Eppure c’era qualcosa di diverso, una particolare ostentazione, una piccola, quasi impercettibile stranezza: nessuno fumava. Nessuno. Sembrava quasi che quel giorno Milano si fosse 79

svegliata dimenticando l’esistenza del fumo, come preda di una qualche amnesia improvvisa. L’aroma del tabacco nella pipa, quel dolce, lento piacere tra le labbra: niente, non esisteva più niente di tutto questo. Ma ci sentivamo uniti, così. Con le dita intrecciate sotto le maniche della giacca, strette fino a farsi male, per scacciare la voglia irresistibile di fumo nelle vene. Con il cuore alto, leggero. Scappava via con sorprendente facilità in quell’aria singolarmente pulita, il cuore. Ma il fatto è, mia cara, che abbiamo deciso di combattere, quel giorno. Abbiamo deciso di lottare pacificamente. Gli ufficiali e i soldati in libera uscita erano a dir poco sconvolti. Ci guardavano di traverso, con quei loro occhi chiari, taglienti, decisi. Ci guardavano e basta. Non era certo cosa di tutti i giorni, trovarsi davanti una città senza fumo. Ma Radetzky non cedeva. Sapeva fin troppo bene quali erano le nostre intenzioni. – So riconoscere un boicottaggio, quando ce n’è uno. E questo è chiaramente un boicottaggio. – Adora ripeterlo, il vecchio. Forse darsi delle arie lo fa sentire importante, chissà.

Fatto sta che il giorno dopo l’aria era tornata grigia. Decine e decine di sigari accesi lungo le strade. Il nemico era passato al contrattacco. Così, con sorprendente leggerezza. Non c’era soldato o ufficiale che non fumasse un sigaro. Alcuni ne tenevano addirittura due contemporaneamente. Sembravano quasi divertiti dalla situazione, gli stranieri. Ci soffiavano poderose boccate di fumo in faccia, con aria di sfida. Il vecchio li aveva istruiti per bene. Aveva fornito loro sigari in quantità e denaro sufficiente per ubriacarsi. Sapeva che non avremmo resistito a tanta insolenza. Non potevamo resistere, non era giusto. Siamo passati alle mani. Siamo passati ai morti. Non so dirti quanta rabbia mi porto ancora oggi nel cuore, a ripensarci. Vecchi e fanciulli uccisi. A decine, lungo le strade. La sola vista di quei corpi esanimi mi faceva venir voglia di correre a ucciderli, ucciderli tutti. Non ne avrei risparmiato nessuno. Mi sarei bagnato le mani del loro sangue straniero, come loro se le erano bagnate del nostro. E poi li avrei lasciati lì, sul ciglio della strada, come spazzatura immonda da gettar via. Ma noi siamo stati arrestati. A centinaia. Arrestati perché abbiamo tentato di difenderci, arrestati perché abbiamo creduto nella libertà. E così da quel giorno ce ne stiamo calmi.

Siamo piuttosto silenziosi, poco inclini a inutili scambi di battute. Non c’è tempo per le chiacchiere, oggi. Non c’è voglia, soprattutto. Ce ne stiamo qui, apparentemente tranquilli come cani al guinzaglio, a farci stritolare per bene dai nostri carnefici. Ma continuiamo ad aver fede nella Libertà, sempre. E sappiamo che un giorno, presto o tardi che sia, questo Paese sarà 80

libero dalle catene e potrà veramente definirsi tale.

Delia, l’aria è cambiata. Domani sarà un grande giorno, lo sento.

Per sempre tuo, Giò.

Il giorno seguente, il 18 Marzo 1848, i cittadini di Milano insorsero contro gli Austriaci, liberando la città. Le ‘Cinque Giornate di Milano’ sono note come una delle più grandi insurrezioni della storia risorgimentale Italiana.

Elaborato di SILVIA RUGGERI – V BS

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