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L’anno dell’energy crunch

Il rincaro dei costi energetici e delle materie prime compromette la ripresa. Le cause degli aumenti sono congiunturali ma anche politiche. Per risolvere il problema bisogna agire su più fronti

«Non riesco a capire cosa sia successo da un mese all’altro». Paolo Sassatelli, titolare della PMS, impresa specializzata nella decorazione ceramica con sede a Frassinoro, non nasconde la sua preoccupazione. «La bolletta del gas è passata da un mese all’altro da 3.500 a 12.000 euro. Grazie al consulente energetico siamo riusciti a bloccare quella elettrica fino a fine 2022, ma siamo molto preoccupati… e non siamo i soli». Sassatelli è uno dei tanti imprenditori che nel distretto ceramico di Sassuolo sta facendo i conti con l’inarrestabile ascesa dei costi dell’energia. «Qualcuno - prosegue l’imprenditore - è già stato costretto a fermare delle linee di produzione, altri hanno cambiato turni per sfruttare i weekend, quando l’energia costa meno. Tutti saremo però costretti a girare gli aumenti sui clienti. Certo non possiamo quadruplicare i prezzi. Siamo abituati a fare i conti con gli aumenti, ma qua ci troviamo di fronte a una cosa mai successa. È impossibile che un prodotto salga di prezzo da un mese all’altro del 350 per cento».

Da alcuni mesi i costi dell’energia sono diventati insostenibili per migliaia di imprese, soprattutto per quelle della ceramica, della chimica, della meccanica, del vetro, del cemento, del legno e della carta. Secondo una stima dell’Ufficio Studi di Confartigianato su dati Terna, l’aumento dei costi energetici è raddoppiato in un anno, passando da 40 a 80 miliardi di euro. Un’enormità. In dodici mesi il prezzo del gas TTF (il mercato di riferimento europeo per lo scambio del gas naturale ndr.) è aumentato del 492 per cento. In Italia queste tensioni si trasmettono inevitabilmente sul mercato dell’energia elettrica. Il nostro paese usa infatti il gas (oltre a carbone ed acqua) per produrre il 48,3 per cento dell’elettricità, contro il 14,9 per cento della Germania e il 6,9 per cento della Francia, in cui si utilizza ampiamente il nucleare e dove il governo guidato da Emmanuel Macron ha annunciato un nuovo piano di investimenti da 1 miliardo di euro. Una gap che incide sulla competitività delle piccole imprese italiane che pagano il prezzo dell’energia elettrica più alto tra i 27 paesi dell’Unione europea e che, come sottolineato dalla nostra Confederazione in audizione al MISE lo scorso 19 gennaio, si fanno carico del 49 per cento degli oneri generali di sistema per una cifra complessiva di 4,7 miliardi di euro.

Come abbiamo già raccontato su queste colonne, dietro all’escalation dei prezzi si celano fattori strutturali e congiunturali. L’accelerazione dell’economia mondiale nel periodo 2020-2021 ha infatti posto le basi di una crescita generalizzata del comparto delle materie prime, ma ad alimentare le pressioni inflazionistiche è stata anche la politica. Secondo l’analista Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-Commodity, esperto in materie prime ed autore di “Materia rara” (Ed. Guerini e Associati 2021), il processo di decarbonizzazione e i piani di adozione di energie rinnovabili in discussione in Europa, USA e Cina, hanno spinto in alto i prezzi di metalli e terre rare, indispensabili per le tecnologie green (batterie, pannelli fotovoltaici, pale eoliche, etc…), contribuendo a creare tensioni strutturali sul lato dell’offerta (minori investimenti in fonti fossili) e della domanda (aumento dei consumi di rame, nichel, litio, cobalto, ma anche acciaio e alluminio). Emblematico - racconta Torlizzi - è il caso cinese che negli ultimi due anni ha ridotto gli investimenti e l’utilizzo del carbone, da cui dipende ancora il 67% del suo fabbisogno energetico, per ragioni di natura ambientale. Questa repentina inversione di tendenza ha spinto gli operatori del “Celeste Impero” ad entrare in competizione con il resto del mondo per l’accaparramento di gas naturale, considerato il “carburante della transizione”. L’accresciuta domanda cinese verso il principale produttore mondiale, la Russia, ha quindi messo in crisi l’Unione Europea, le cui politiche ambientali hanno spinto le utilities ad una maggior domanda di gas a scapito del carbone e di altre fonti fossili (in questo senso è rappresentativo l’aumento del prezzo delle emissioni di carbonio ETS, emission trading system, passate da 15 a 65 euro a tonnellata in un anno). Ma non solo. Negli ultimi anni l’UE ha liberalizzato il mercato dell’energia, rendendolo più dipendente dai prezzi spot rispetto ai contratti a lungo termine, con l’obiettivo di aumentare i vantaggi per il consumatore a scapito del produttore, la Russia appunto. Inoltre l’aumento della domanda registrato negli ultimi mesi si è scontrato con condizioni climatiche avverse (un inverno 2020 particolarmente rigido, un estate torrida, poche vento per far funzionare gli impianti eolici nel mare del nord) e con fattori geopolitici. Su tutte la crisi Russo/Ucraina che ha ridotto il flusso di gas su questa tratta da 65 miliardi di metri cubi nel 2020 a 40 miliardi di metri cubi nel 2021, l’interruzione sulla Yamal Pipeline (che arriva in Polonia attraverso la Bielorussa) e la mancata approvazione da parte delle autorità europee di Nord Stream 2, il gasdotto completato lo scorso settembre che collega Russia e Germania (capace di 55 miliardi di metri cubi all’anno). L’Europa - continua Torlizzi - si trova ora di fronte a una particolare vulnerabilità sul fronte energetico, simile a quella vissuta negli anni ’70. Il risultato “beffardo” è che oltre a dover fare i conti con una grave restrizione sul lato dell’offerta, sono tornati in voga i consumi di carbone, utile per produrre energia elettrica, i cui prezzi spot in Europa hanno raggiunto a settembre i 200 dollari la tonnellata (erano a 50 dollari nel 2020). Una marcia indietro compiuta anche da Pechino che, nell’ottobre del 2021, ha ordinato alle proprie compagnie di estrazione di aumentare la produzione di carbone per ben 160 milioni di tonnellate, nonché alle banche cinesi di dare priorità ai finanziamenti alle miniere e agli impianti energetici in modo da permettere un aumento della produzione di carbone termico e di elettricità.

Per far fronte al rincaro dei prezzi dell’energia e per evitare i fermi di produzione e il conseguente ricorso alla cassa integrazione, molti governi europei sono già intervenuti con misure per calmierare i prezzi. Al momento il governo italiano ha stanziato 8,5 miliardi di euro per sostenerei costi delle bollette di famiglie e micro imprese, ma è evidente la necessità di un nuovo intervento. Allo studio di Palazzo Chigi mentre scriviamo c’è l’annullamento degli oneri generali di sistema per le utenze con potenza disponibile pari o superiore a 16,5 kW per il primo trimestre 2022 e un credito di imposta, pari al 20% delle spese sostenute, per quelle energivore. Ancora troppo poco. Al di là dei sostegni una tantum secondo gli esperti è necessario ridurre la dipendenza dai fornitori esteri di energia e materie prima, ripristinando le capacità produttive perse negli ultimi vent’anni. A questo proposito il 19 gennaio il Ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha affermato che l’Italia è il paese europeo che più di ogni altro dipende dall’importazione di gas. A fronte di un consumo annuo di 70 miliardi di metri cubi, il paese ne produce meno di quattro. Vent’anni fa la produzione nazionale si attestava a 16,8 miliardi di metri cubi. La differenza la paghiamo in importazioni, in particolare dalla Russia. Diversificare - conclude Torlizzi - significa attivare nuovi contratti di fornitura, ad esempio con Egitto e Libia, ma anche estrarre più gas dall’Adriatico e dotare il Paese di nuovi gassificatori per sfruttare il gas liquefatto di provenienza statunitense. Sul versante industriale e in particolare su quello siderurgico – conclude l’analista – è poi necessario recuperare la capacità produttiva persa negli anni e rilanciare gli impianti di Piombino e Taranto. Nel frattempo, dopo mesi di consultazioni, lo scorso 1° gennaio la Commissione Europea ha inserito gas e nucleare nella lista delle fonti energetiche che accompagneranno l’Unione nella sua transizione verde. Un elenco importante perché le fonti indicate - soprattutto il nucleare, la seconda fonte di energia a zero emissioni di carbonio dopo quella idroelettrica - potranno ricevere finanziamenti privati più facilmente, poiché considerati positivi per l’ambiente. La discussione è in atto e non è detto che venga accolta dai paesi membri e dal gruppo di esperti chiamata a valutarla in questi giorni. Tuttavia è sempre più evidente l’urgenza di adottare più tecnologie capaci di soddisfare il nostro fabbisogno energetico, guardando al futuro senza distorsioni ideologiche.

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