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Valsu g irls in nazionale

Valentina Ruzza, Beatrice Rigoni, Beatrice Veronese, Elisa Giordano dal Valsugana nella squadra azzurra per il Torneo 6 Nazioni di Francesco Rigoni foto Alessandra Lazzarotto

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Le ragazze nelle foto in queste pagine sono Valentina “Esimia” Ruzza, Beatrice “Canoa” Veronese e Beatrice Rigoni - quest’ultima è anche mia sorella. Sono le giocatrici del Valsugana che sono state convocate in Nazionale. In realtà ne manca una, e non proprio una qualunque: Elisa “Polipo” Giordano - il capitano, quella che ha sollevato la coppa dell’ultimo Scudetto (il terzo consecutivo per le padovane) - assente dallo shooting per lavoro.

Guardo le foto e penso che le ragazze sono bellissime. So che l’associazione “tre ragazze in posa” e “bellezza” non è molto originale, ma loro sono belle davvero: ognuna a modo suo, tutte eleganti e con negli occhi quella scintilla di disagio che abbiamo tutti quando facciamo una cosa a cui non siamo abituati. Hanno il sorriso - genuino e meraviglioso - di chi sta bene insieme. Lo si nota in particolare nelle foto in cui maneggiano l’ovale: lo accarezzano, ci giocano, ci fanno quello che vogliono. La manualità è notevole, il divertimento è sincero.

Per intervistarle ho chiesto due favori a due donne di mia fiducia: ho incaricato Beatrice di invitare a cena da noi le sue compagne e ho chiesto a mia mamma di preparare le sue famose cotolette. Ha funzionato: una sera sono venute da noi le quattro Valsugirls “azzurre”, accompagnate per l’occasione anche da Giulia “Cera” Cerato e da Silvia “Stoppina” Stoppa, altri due pilastri della mischia biancoazzurra, che hanno sostenuto le loro compagne nel momento del bisogno (e nel momento cui erano pronte le cotolette).

Visto che le sono seduto a fianco comincio a fare le mie domande a Valentina che mi risponde come se cercasse di mettermi a mio agio. D’altronde, sono un po’ emozionato: sono a cena con quelle per cui faccio il tifo ogni domenica.

La Vale mi racconta che ha iniziato a giocare a rugby per caso, quando aveva otto anni. Una domenica era andata a vedere una partita del fratello che giocava nel Cus Padova. L’allenatore la vede a bordo campo, le dà una maglia da gioco e le chiede: «Ti va di provare?». Da quel momento non ha più smesso.

Quando non gioca a rugby studia lingue - e io questo l’avevo notato anche prima che me lo dicesse, perché nelle interviste post-partita del Mondiale irlandese della scorsa estate («l’esperienza sportiva più bella della mia vita finora», confessa)

era lei che andava a rispondere alle domande dei giornalisti internazionali, facendo un’ottima figura. Se non sta studiando o giocando ama guardare le serie TV: dice di aver visto più volte Modern Family e Friends, e se potesse permetterselo sicuramente starebbe in divano per ore attaccata a Netflix. L’ultima volta che è andata al cinema è stato mentre era a Reggio Emilia con la Nazionale, con Bea Canoa e Polipo, per vedere The Post: le è piaciuto molto, «ma se devo dirti il mio film preferito non ho dubbi, è The Terminal».

Le altre ragazze, che ascoltano le risposte della Vale mentre mangiano le cotolette, chiedono all’Esimia di non dimenticarsi un’altra sua caratteristica peculiare: la sua abilità ai fornelli. La Vale cerca di minimizzare, ma le altre insistono, descrivendo una cena a base di hamburger, oppure un favoloso brunch, interamente preparato da lei, che consisteva in flat bread, uova in camicia, pancakes e muffin. In effetti, sembra invitante.

Ha una passione quasi maniacale per quasi tutti gli sport (le chiedo, a caso, se segue la NBA, e mi dice che è tifosissima degli Spurs) e le piace tantissimo viaggiare e studiare geografia. Si ricorda a memoria tutte le capitali di tutto il mondo. Quando risponde «Ouagadougou» alla mia domanda «Burkina Faso?» non vado oltre.

Prima di lasciarla cenare in pace, le chiedo di levarmi un’ultima curiosità: come mai la chiamano “Esimia”? Lei si mette a ridere talmente tanto che per rispondere le viene in sostegno la Silvia: «Nasce tutto dal modo in cui la Vale entra in spogliatoio; la prima cosa che fa è salutare tutte le ragazze, dando un titolo ad ognuna: “egregia, reverendissima, eccellenza”, tutte cose esagerate. Allora abbiamo deciso che lei sarebbe stata L’Esimia, con l’articolo davanti». Che signora vera.

Beatrice ha una storia sportiva molto simile a quella della Vale. Ha iniziato al Petrarca da piccolissima: la voglia le è venuta accompagnando me e mio fratello agli allenamenti. È sempre stata in gamba, e soprattutto si è sempre divertita un sacco a giocare. Oltre al rugby studia farmacia all’Università di Ferrara e nel tempo libero coltiva le sue passioni: sa a memoria le battute di Apocalypto , Il Gladiatore e de Il sapore della Vittoria; non si è persa un episodio di Spartacus e aspetta i prossimi di The Walking Dead; le piacciono i documentari storici e si registra tutte le puntate di Come è fatto? e di House Rules. Prova un fastidio fisico per le cose in disordine e appena può sistema anche le cose degli altri, spesso a loro insaputa.

Le chiedo se c’è una persona che considera un punto di riferimento e lei risponde subito: «La Gina». La Gina è Paola Zangirolami, una delle rugbiste più forti che io abbia mai visto giocare, che si è ritirata dopo il Mondiale. Fin dal giorno in cui la Bea è arrivata al Valsu, la Gina l’ha presa sotto la sua ala protettrice, facendole un po’ da “mamma chioccia”, tanto che la chiamava “la mia putina”. Sia la Gina che la Bea hanno il numero 12 tatuato sul polso destro, a simboleggiare un legame indissolubile e anche l’amore per un ruolo, il primo centro, che entrambe prediligono (e di cui sono - o sono state - splendide interpreti).

Il numero 12 non è l’unico tatuaggio della Bea. Ne ha altri cinque (ma presto ne farà un altro, perché ne vorrebbe sette). Sono tutti piccoli o piccolissimi, fatti in zone discrete del corpo. Sotto le costole a destra ha la scritta Un giorno senza sorriso è un giorno perso , di Charlie Chaplin; sul trapezio ha sei elefantini che simboleggiano la nostra famiglia; sull’avambraccio sinistro ha la scritta in gaelico irlandese mo chuisle, che significa “il mio cuore”, fatto per tramandare una rara dimostrazione di affetto di mio papà; sopra la caviglia destra ha un Calimero, che è come mia mamma la chiama spesso; infine un “cerchio con lo spigolo”, fatto in tandem con Maria Grazia “Mary Thank-You” Cioffi, fortissima secondo centro di Benevento prima e Colorno oggi, che come Gina ha detto addio alla Nazionale.

Beatrice “Canoa” ha avuto un avvicinamento al rugby completamente diverso rispetto alla Bea e alla Vale. Ha fatto danza classica per otto anni, e fa ancora stretching come le ballerine; poi ha fatto

canoa per cinque anni (vedi il suo soprannome), in cui ha sviluppato un fisico muscoloso ma asciutto: un tifoso di una squadra avversaria, sinceramente colpito e ammirato, l’ha lodata per il suo “telaio”, ignaro di avere a fianco il padre Claudio, che si è fatto quattro risate.

Lavora con i suoi nella Tipografia Veronese, dopo aver studiato lingue nella stessa scuola della Vale (quando l’ho sentita parlare spagnolo sono rimasto a bocca aperta).

Mentre mi risponde mi guarda con i suoi occhi verdi che mi mettono leggermente in soggezione. Noto che ha le labbra screpolate, ma non vuole mettersi la crema prima di aver finito le cotolette. «E poi così può parlare a culo di gallina come Audrey Hepburn» dice la Cera, con le altre amiche a ruota: sono unite e sempre pronte a fare gruppo, ma non fanno sconti a nessuno.

Le chiedo se le piace Padova, e lei mi risponde: «Tantissimo. Trovo che sia della giusta misura: non è dispersiva, ma neanche troppo piccola». Chiedo anche alle altre ragazze dove porterebbero un turista che viene in città per la prima volta. Mi fanno un elenco di posti che neanche le migliori guide: Prato della Valle, il Santo, un giro sotto il Salone, un tramezzino al Nazionale, qualche sponcetto e un aperitivo nei baretti imbucati del centro, una passeggiata per via Roma, un giro alla Specola, al Palazzo della Ragione, una visita agli Eremitani e alla Cappella degli Scrovegni, e anche all’Orto Botanico, dove sono state scattate alcune foto di questo servizio.

La Bea Canoa ha una passione per la natura, in particolare i fiori. Le dispiace di avere poco tempo per leggere, cosa che riesce a fare come vorrebbe solo d’estate. Non sa dirmi che genere di musica preferisce: nel suo iPod con la riproduzione casuale si passa dagli Alt-J agli Slipknot e dagli Eiffel 65 a Mozart. Prima delle partite importanti si ascolta una canzone particolare insieme a TSA (acronimo

che sta per “Tua Sorella Alessia”, ovvero Alessia Giordano, la sorella del Polipo).

Quando mi giro verso Elisa la vedo seduta con il computer insieme alla Cera, che è geometra, per imparare ad usare Solid Edge, un software di progettazione. Mentre disegna quello che a me sembra un bullone in 3D, mi racconta che lei non sapeva nemmeno cosa fosse il rugby prima dei 19 anni. Giocava a pallamano a Paese, in serie B. Quando la sua squadra si sciolse cercò un altro sport: provò col basket, ma non le piacque, così si disse: «proviamo col rugby». Venne al Valsugana e da quel giorno non ha mai saltato un allenamento. Pensavo che il soprannome “Polipo” derivasse dalla sua cattiveria agonistica e dalla sua capacità di placcare gli avversari, ma mi sbagliavo. Le è stato affibbiato dopo una partita di frisbee, perché intercettava sempre i tiri delle avversarie, tanto che dopo un po’ hanno smesso di giocare perché non era più divertente.

Lavora come terapista occupazionale e si occupa dell’inserimento di disabili per conto di una cooperativa di Noale - il suo paese - che si chiama Attivamente . Nel tempo libero legge libri, guarda film e serie TV, soprattutto cose che rientrano nelle categorie Gialli, Thriller o Medicina. È tifosa del Napoli.

Suona la chiarina - una specie di tromba - e fino a poco tempo fa lo faceva nella Contrada Tempesta di Noale, composta anche da tamburini e sbandieratori, che gareggia nel campionato FISB nella categoria A2. Suona anche la chitarra, la batteria e il banjo. Mi dice che a Padova ci viene più o meno solo per giocare a rugby, e che infatti si sposta quasi sempre come una turista, facendosi portare in giro dalle altre.

Dopo cena le ragazze mi hanno raccontato molte altre cose, ma ho promesso che sarebbero rimaste off-record. Se qualcuno fosse curioso di conoscere anche gli altri segreti non deve fare altro che invitarle a cena e cucinare delle cotolette strepitose: per me ha funzionato. n

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Nicoletta Bere una tazza di tè e fare il giro del mondo

foto Alessandra Toninello

Nicoletta Tul è una donna che andrebbe frequentata con lentezza e attenzione. Non si può consumare del tè di fretta e con superficialità. Sarà per questo che quando Nicoletta offre una piccola tazza di un prezioso Gyokuro - che significa “rugiada di giada” - non si può fare altro che mettersi in ascolto. È in questo momento che ha inizio il viaggio.

Nicoletta ci racconta che nelle due settimane prima del raccolto le piante vengono coperte con paglia di riso. Questo consente alla pianta di sviluppare molta clorofilla per cui alto sarà il concentrato di aminoacidi evitando invece la concentrazione di tannino. L’incontro con l’acqua calda genererà un sapore particolare e inatteso, il famoso Umami, insieme ad una sorprendente dolcezza, concentrato che i giapponesi chiamano “pura essenza del tè”.

Dopo averne assaporati piccoli sorsi ci si può solo chiedere: ma Nicoletta come è diventata la Signora del Tè? Lei ci racconta che da piccola sognava il canto lirico, ma nessuno in famiglia la prendeva sul serio e questa aspirazione non prese mai la direzione di un percorso di studi. Pragmatica e determinata, come immaginiamo possa essere una donna nata a Trieste con lontane origini scozzesi, e cresciuta sul mare, Nicoletta si iscrive a biotecnologie agrarie all’Università di Padova. Ammette di essere stata indecisa tra questo e il corso di Geologia, una passione che ancora oggi coltiva.

L’incontro con il tè è legato a qualcuno di cui Nicoletta preferisce non rivelare nulla. Ci dice solo

che quella persona fu il suo viatico per scoprire il tè. È difficile immaginare una donna dai tanti interessi come Nicoletta accendersi per qualcosa di ancora sconosciuto. Ma come lei stessa afferma: «In quel preciso momento decisi che il tè sarebbe diventato la mia via». Da lì la scelta di scrivere una tesi sul tè e l’inizio di un percorso di scoperta e apprendimento, fatto attraverso molti viaggi in Asia e numerosi corsi con Maestri internazionali.

Il suo primo viaggio importante è nel Nord del Vietnam. Dopo molte ricerche per poter visitare una piantagione e fare una esperienza che non fosse solo turistica ma di vero e proprio lavoro, Nicoletta arriva in una famiglia contadina che la accoglie con stupore e ovviamente servendole un tè. Prende parte alla raccolta insieme a tre donne che non hanno mai visto prima una persona straniera. Le tre donne hanno dei sorrisi dolci e sereni, anche se il lavoro è veramente pesante. Chissà chi è più felice quel giorno? Nicoletta, per aver potuto compiere quel gesto elementare e insieme necessario ed essenziale per portare in tavola una buona tazza di tè. O le tre signore, per avere avuto una compagna di lavoro cosi particolare, bionda ed elegante come una principessa.

A questo pensiamo mentre la guardiamo cambiarsi d’abito - perché Nicoletta indossa un kimono diverso per ogni tipo di tè, o meglio un diverso abbigliamento per ogni degustazione - e guardiamo i tanti barattoli che la circondano, con nomi esotici ed evocativi. Ad ogni tazza di tè un viaggio, un personaggio e una storia. Non avrà fatto la cantante lirica, ma lei di ogni degustazione non è solo la Tea Master, è la protagonista assoluta e ci guida attraverso secoli di storia, zone remote dell’Asia, circoli letterari inglesi e salotti della Russia degli Zar. E intanto siamo seduti su una poltroncina, nella sua Finestra sul Tè. Una teiera fa da lampadario e le immagini della città si proiettano sul vetro. Siamo a Padova e non ci siamo mai davvero mossi da qui... Ne siamo convinti ? n

Aurora

Cavalcando la Settima Onda foto Caterina Santinello

Quale relazione c’è tra il rugby femminile e una donna, storica dell’arte, che si occupa di musei e di arte contemporanea nella Pubblica Amministrazione? Chi già conosce Aurora Di Mauro lo sa: la passione, vissuta ogni giorno in un intenso corpo a corpo con la vita. È il motore che spinge a realizzare quello che il cuore suggerisce al di là di ogni interesse pratico e immediato, con il solo obiettivo di vivere, e di far vivere, un proprio spazio di libertà e indipendenza.

Aurora, siamo qui alla Settima Onda, un appartamento di un palazzo nel quartiere Guizza, che è contemporaneamente spazio di “accadimenti” culturali e casa sua. Ci racconti questo progetto.

L’arte per me è qualcosa che si deve vivere ogni giorno superando le pareti chiuse e le ritualità di un museo. Ad un certo punto della mia vita ho sentito l’esigenza di mettere in pratica questo sentire, così ho ristrutturato l’appartamento in cui vivo trasformandolo in quello che chiamo «appartamento relazionale per la libertà delle arti»: un luogo in cui l’arte contemporanea è elemento di aggregazione e interazione fra persone, che siano amici o conoscenti. Ho chiesto ad alcuni amici artisti di realizzare opere site specific, che non sono elementi di decorazione, ma potenziano il senso di questo luogo perché nate dalle emozioni che ognuno di loro ha provato passando qui del tempo con me.

Qui si svolgono conversazioni, mostre, piccoli spettacoli teatrali e musicali, progetti relazionali. Parla spesso di relazioni. Perché per lei sono così importanti?

È il solo bene prezioso di cui mi sono arricchita. Volevo condividere questa mia ricchezza, fatta di tante relazioni autentiche. Ho reso pubblico questo luogo, fisico ma anche dello spirito, vivendo la mia casa come occasione di libertà

dalle tante costrizioni e dai condizionamenti che nella vita ci legano. In questo ambiente, reso speciale dall’atmosfera artistica e amicale, è facile attivare nuove relazioni che non hanno altri fini se non quello di condividere idee, progetti, momenti di benessere intellettuale.

Un’esperienza che lei vorrebbe portare anche fuori da questo luogo… Sì. Con il fotografo Beppe Calgaro ho coinvolto il condominio nella Mostra di Condominio. Sorry, we are open.

Ora, in un’ottica di arte pubblica, cerco di allargare le relazioni a tutto il quartiere.

Un’ultima curiosità: perché Settima Onda? La Settima Onda è quella che v del Diavolo, perché è l’unica che non si frange sugli scogli ed è quella che gli farà riconquistare la sua libertà. Serve che aggiunga altro? n Papillon (si ricorda il film con Ste e McQueen?) a ttende per fuggire dall’Isola

Francesca Una vita in punta di fioretto foto Alessandra Lazzarotto

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