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Lumsanews n. 3 del 1\u00B0 marzo 2019 - Nel Bosco di Rogoredo
Una luce
nel boschetto
della droga

“Il boschetto di Rogoredo è un posto paragonabile all’inferno ma non deve diventare un ghetto”. Alla vigilia di Natale, in quella che ormai si può definire la maggiore piazza di spaccio di Milano, la scrittrice Annarita Briganti e altri volontari della comunità Il Gabbiano e della Fondazione Eris hanno organizzato un inedito incontro di lettura con giornalisti, scrittori, politici e volontari. L’intento è stato quello di “portare bellezza laddove c’è devastazione con racconti, storie, letture e la distribuzione del pranzo di Natale a coloro che si drogano”. Per aiutare le ragazze e i ragazzi del boschetto si sta mobilitando una Milano positiva, solidale, formata da volontari, ma spesso anche genitori, da parenti e da ex consumatori di droga. Volontari come Alessandro Maraschi, missionario e abitante del quartiere. “Il boschetto è la punta di un iceberg di un disagio giovanile più grande di quello che riusciamo a percepire". Un luogo dove i tossicodipendenti, molti dei quali minorenni, trovano una dose a soli due euro, vivono nella sporcizia, abbandonati a sé stessi in un letto di siringhe e rifiuti. “Se ho relazioni sane non ho bisogno dell’alcool e delle droghe” prosegue Alessandro Maraschi. “I rapporti riempiono la vita. Quando lavori con i giovani e vai a toccare certe corde, senti che vibrano, si avverte la sete di bellezza”. I volontari e le varie
Rogoredo, Italia dove una dose di eroina costa solo due euro

Il Boschetto di Rogoredo è una delle piazza di spaccio più grandi d'Italia. Ogni giorno è meta di centinaia di ragazzi, molti dei quali minorenni, che ogni giorno vanno alla ricerca di una sostanza che può costare dai 2 ai 5 euro. “Non abbiamo soltanto l’immagine stigmatizzata del tossicodipendente degli anni Novanta”, racconta Rita Gallizzi, responsabile dell’Area consumi, abusi e dipendenze di Cooperativa Lotta all’emarginazione. “Ci sono anche persone che lavorano e che sono perfettamente integrate. Spesso il consumo è legato ad esigenze di benessere”. I dati della Questura di Milano mostrano che nel 2018 nei pressi del Boschetto sono stati eseguiti, solamente dalla Polizia di Stato, 32 arresti in flagranza e sono in corso 123 indagini di persone in stato di libertà. Nei servizi svolti dalla Polizia, inoltre, le sostanze stupefacenti sequestrate sono soprattutto l’eroina (171 grammi) e l’hashish (265 grammi). In minore quantità, invece, la cocaina (63.8 grammi) e la marijuana (13 grammi). Secondo la Questura milanese, i dati forniti sono consistenti anche perché “il numero degli arresti riguarda solamente una delle forze di pubblica sicurezza che opera sul territorio e tiene conto solamente degli arresti in flagranza di reato”. La Relazione europea sulla droga del 2018 rivela una crescita della produzione dell’eroina nei diversi paesi europei a causa del “costo notevolmente inferiore dell’anidride acetica, un precursore chimico fondamentale nella creazione della sostanza, in un momento in cui i papaveri da oppio sono in aumento”. Anche in Italia si assiste ad un aumento del consumo. Secondo i dati di geOverdose, il portale creato dalla Società Italiana Tossicodipendenze, le morti per overdose dall’ 11 gennaio 2018 all’11 gennaio 2019, sono state 258, in aumento rispetto all’anno precedente che erano 198. Nel 63% dei casi si è trattato di abuso di eroina, nel 10% cocaina e nel 2% di alcol. In Lombardia, inoltre, i decessi sono più che raddoppiati in un anno (da 12 a 28 decessi). Abbiamo incontrato Miriam Pasqui, responsabile del Comune di Milano per il coordinamento delle emergenze sociali, per conoscere il lavoro che viene svolto nella città meneghina. Rogoredo è considerata un’emergenza sociale? «Lo è nei fatti. Ha sviluppato un richiamo mediatico molto forte, è un 'non luogo' dentro la città di Milano. Per cui, sì, dal mio punto di vista è un’emergenza sociale. È necessario che le istituzioni intervengano in modo coordinato per intervenire nel rapporto tra centro e periferia e sullo sviluppo di reti di coesione sociale» Il Comune come agisce a favore del rapporto tra centro e periferie? «C’è un grosso investimento in termini progettuali, con il 'piano periferie' con il 'pon metro'. Fare progettualità di animazione delle aree periferiche della città. Solo rivitalizzando i quartieri e riappropriandosi del territorio si riescono a contenere processi di degrado, devianza e emarginazione». Che ruolo svolge il Comune di Milano nel coordinamento? «L’amministrazione svolge un ruolo che garantisce la presenza di tutti ma, nel contempo, consente di preservare le identità e le differenze. Crea dei parametri di riferimento comune. Questi sono, per esempio, consapevolezza che la consegna del bene al tossicodipendente è uno strumento funzionale alla costruzione della relazione. Il bene non è il fine o il mezzo della sua azione. Il personale deve essere formato per costruire una relazione efficace deve avvicinarsi al livello della persona per parlare. Milano ha questo: grande ricchezza e articolazione del privato sociale e l’associazionismo che è oggettivamente una fonte inesauribile di risorse». Come si spiega la crescita delle piazze di spaccio e di consumo? «Credo che sia un momento difficile per le giovani generazioni che perdono alcuni riferimenti valoriali. Sono le prime generazioni in cui non si riesce a vedere che il loro futuro sarà migliore rispetto a quello dei propri genitori, in termini di sicurezza economica, affermazione, successo nella vita. C’è una forte crisi delle relazioni. Non si è più in grado di stare insieme fisicamente. Tutto è mediato da strumenti altri che non consentono la dinamica di relazione diretta. La forte crisi esistenziale viene colmata con l’utilizzo di sostanze». Per quale motivo non si fa un intervento repressivo? «Sono stati fatti interventi repressivi, sono state fatte
le grandi retate, le forze dell’ordine sono entrate, si è ripulito il boschetto, una parte è stata affidata al WWF. non è cambiato nulla. Bisogna lavorare sul contenimento del danno e sul supporto e sostegno delle persone. Le due cose devono andare di pari passo». Che prospettiva futura vede per Milano e per la piazza di Rogoredo? «Positiva ma saranno anni difficili. Le persone sono confuse e cercano di tutelare i propri interessi individuali. Si fa fatica a pensarsi comunità. Però il fatto che Rogoredo sia diventato comunque un oggetto di discussione e confronto fra più soggetti diversi è importante».. Attorno al fenomeno si è creta coesione tra istituzioni? «Se è stato utile a qualcosa, Rogoredo è stato utile a risvegliare l’attenzione comune».
Un ex eroinomane racconta “Ho iniziato a 15 anni facevo rapine per una dose”

Il 24 dicembre nel Boschetto di Rogoredo, abbiamo incontrato Marco un ex tossicodipendente di 55 anni che ha vissuto una vita tra dipendenza da eroina e la volontà di curarsi. Come hai iniziato con l’eroina? «Ho iniziato a 12 anni. In prima media andavo a scuola a Milano, ho iniziato a fumare le prime canne in bagno, con gente più grande di me. Ho continuato a fumare le canne fino a 15 anni poi qualcuno della nostra compagnia ha provato l’eroina. All’epoca andava, la brown sugar, la siriana. La pippavano. Ho iniziato a pippare anche io una volta alla settimana ma, a un certo punto, una volta a settimana non bastava più». Perché non ti bastava più? «Il desiderio con il tempo aumenta. Pippavo quasi tutti i giorni ma un giorno la dose che avevamo non era sufficiente. Eravamo in tre. Siccome uno di noi si era già fatto una volta, abbiamo deciso di farci di eroina di vena». Quanti anni avevi? «Avevo 14 o 15 anni più o meno e dal quel momento li è stato un danno. Tutti i giorni, cercavo la dose: andavo a rubare, rubavo ai supermercati, scippavo con la vespa, scippavo le borse. Quando c’era la nebbia a Milano facevo rapine». I tuoi genitori sono intervenuti? «Sì, a un certo punto i miei mi hanno chiesto di scegliere: o stai fuori casa in mezzo alla strada o fai un programma terapeutico. Io ho deciso di andare in comunità ma prima mi sono fatto di sia di coca che di eroina di vena. Non riuscivo a staccarmi dalle sostanze». Dove sei andato a disintossicarti? «Sono andato all’ospedale Niguarda per disintossicarmi. C’era il metadone, il Triticum, valium, poipnol, altri farmaci che mi calmavano. Io però stavo male comunque. Dopo 20 giorni sono scappato dall’ospedale, sono andato a casa, avevo dell’eroina nascosta nello sgabuzzino, mi sono rifatto l’eroina, sono collassato, e i miei mi hanno riportato all’ospedale Niguarda. Poi ho fatto varie comunità, con molti shutdown e ricadute. Spesso era meglio il carcere che fare alcune comunità». Sei rimasto senza la sostanza a lungo? «Sì ma poi purtroppo dopo mi sono innamorato, mi sono sposato, ho avuto una figlia. Poi mi sono nuovamente innamorato. Tutte queste emozioni che ho provato, mi hanno spaventato. Non sono riuscito ad affrontarle. Mi sono tornato a bucare di nuovo, finché non ho deciso di smettere. Adesso sono 7 anni circa che non uso più niente. Neanche una canna. Zero. A me piaceva fumare perché mi rilassa. Io sono un borderline bipolare, prendo dei psicofarmaci da 16 anni». Il disturbo è emerso con l’utilizzo della droga? «Non lo so. Sono borderline dal 2000.» Venivi qua a Rogoredo a bucarti? «No, negli anni 90 fino al 2000 io andavo in piazzale Insubria, (Calvairate), vicino piazzale Cuoco, quando facevo uso di eroina. La cocaina andava invece in Piazza Lavater (porta Venezia)». Come sei uscito dalla dipendenza? «Ho imparato a gestire le mie emozioni. Il mio problema era gestirle. Puoi provare paura, dolore, tristezza, impotenza, amore, paure, essere innamorati. Tutti questi tipi di emozioni non ero in grado di poterli gestire, capisci? Mi spaventavano. Ho affrontato il rapporto con i miei genitori. Mia Mia mamma era ignorante da prima elementare, mio papà pokerista. Io non ho mai giocato con mio padre, questa cosa mi è mancata, sono stato chiuso in collegio. La mia infanzia è stata terribile. Sai quando mi è stato vicino mio padre? Quando ho cominciato la comunità. Avevo paura di affrontare queste dinamiche». Perché hai paura delle tue emozioni? «Bella domanda. Quello che mi mancava era il carattere. Mi reputavo un escluso dagli altri perché non ero in grado di affrontare le cose come le affrontavano loro. Allora mi sentivo diverso. Questa cosa della diversità mi creava problemi. L’unico modo per affrontare questi problemi era drogarmi. La comunità mi ha salvato, mi ha insegnato a esternare le mie emozioni urlando nei gruppi le emozioni come rabbia, dolore, impotenza. Poi accettarle». Perché l’eroina in vena? «L’eroina è devastante, ti toglie tutte le emozioni. Non provi più niente, diventi onnipotente, ma non schizzato. Qualsiasi emozione che tu stia provando, come la vergogna per quello che stai facendo perché sei sporco, in mezzo alla strada, non ti lavi, non ti curi, puzzi...Ma la cosa più brutta sai qual è? Che vieni isolato».
Hai qualcosa da dire a chi sta vivendo questa grande solitudine? «È importante avere una persona con cui condividere le tue paure. Soprattutto saper dire “ho paura”». Ti reputi felice? Dopo tutto quello che è successo? «Sì sono contento perché grazie a Dio non ho nessuna malattia, la maggior parte dei miei amici sono morti di AIDS o di overdose. Io grazie a Dio sto bene ho avuto la possibilità economica di disintossicarsi. Attualmente mi dedico alla mia famiglia e lavoro come geometra. Tento di stare lontano dall’eroina. Sì ora sono contento della mia vita». Cosa vorresti ai tossicodipendenti che pensano non ci sia una via d’uscita? «Ragazzi, voletevi bene. Chiedete aiuto. Non ce la facciamo da soli».
Xinjiang, così Pechino “educa” gli uiguri nel silenzio internazionale

“Educati” nese (PCC) nella regione dello Xinjiang. Pechino sta attuando infatti una linea dura per frenare lo spirito indipendentista e per combattere un movimento da anni ostile al potere centrale e alla penetrazione degli han, la maggioranza dei cinesi. Il pretesto sono gli attentati terroristici che dal 2008 hanno colpito lo Xinjiang e diverse città della Cina, rivendicati dagli estremisti musulmani del Movimento Islamico del Turkistan Orientale. Sono proprio la cultura e la religione a essere finite nel mirino di Pechino. Dal 2017 è emerso che è in atto una repressione verso tutte le minoranze musulmane residenti nello Xinjiang: non solo gli uiguri, anche i cinesi di etnia kazaka e kirghisa. Per assicurare che il processo filocinese non sia solo superficiale, ma riguardi anche tutti gli aspetti politici, economici e sociali, Pechino ha deciso di sostituire nel 2015 l’ex governatore dello Xinjiang Nur bekri, finito nella maglia della campagna di anticorruzione, con Shohrat Zakir. Zakir, lealista al presidente cinese Xi Jinping, è uno uiguro che ha mosso i primi passi nella politica occupandosi degli affari economici e delle questioni etniche nella regione. Grazie alla presenza del governatore Zakir, Pechino ha potuto applicare capillarmente la politica di sinizzazione anche nell’urbanizzazione: da anni, tutte le moschee gradualmente stanno perdendo le loro linee arabeggianti per assumere la forma dei tetti ondulati tipica dell’architettura cinese. Secondo le Nazioni Unite, oltre un milione di uiguri e persone appartenenti ad altre minoranze turcofone sono detenute arbitrariamente nei centri dello Xinjiang: prigioni a cielo aperto dove i carcerati ogni giorno si alzano intonando l’inno nazionale, imparano la lingua cinese, promettono fedeltà al Partito Comunista; inoltre, sono condannati ai lavori forzati e non possono osservare i precetti della religione musulmana.Le organizzazioni Human Rights Watch, Amnesty International, la Uyghur Rights Watch e alcuni senatori americani, tra cui il repubblicano Marco Rubio, denunciano un “grave abuso dei diritti umani” e hanno accusato la Cina di impegnarsi in una campagna di pulizia etnica. Sebbene ad agosto 2018 il governo cinese avesse negato l’esistenza dei centri di detenzione, nei mesi successivi ha fatto dietrofront affermando che esistono “centri di educazione vocazionale”, dove sono accolti bambini e adulti che desiderano avvicinarsi alla cultura cinese.Tuttavia, una legge emanata a ottobre 2018 dal Comitato permanente dell’Assemblea del popolo di Urumqi, capitale dello Xinjiang, autorizza “le autorità sopra il livello di contea a istituire organizzazioni di educazione e trasformazione attraverso dipartimenti di supervisione, come centri di addestramento professionale, per persone influenzate dall’estremismo” religioso. A gennaio una delegazione dell’Ue è stata accolta dalle autorità cinesi in un centro dello Xinjiang per avere una “comprensione obiettiva” della campagna
di antiterrorismo cinese. Il gruppo europeo ha però denunciato una manipolazione dell’ispezione durante la visita, mostrando una realtà costruita dal Partito. Ora le organizzazioni dei diritti umani chiedono alle Nazioni Unite di farne ulteriori. La tesi di Pechino stride anche con le testimonianze dei parenti dei detenuti o di chi è stato rilasciato. Chi pratica il ramadan, indossa lo hijab, legge il Corano o ha atteggiamenti che rientrano nei “75 indicatori comportamentali di estremismo religioso”, ha molta probabilità di finire nei campi, senza ottenere una protezione legale e senza avere la possibilità di avere un processo giudiziario. Secondo un rapporto della Human Rights Watch, i detenuti nei centri sono malnutriti e maltrattati psicologicamente e fisicamente. Ma le testimonianze forniscono ulteriori dettagli: come racconta a LumsaNews l’attivista uiguro naturalizzato finlandese, Halmurat Harri, i cui genitori sono ora agli arresti domiciliari dopo aver trascorso 18 mesi in un centro, il governo cinese impedisce qualsiasi contatto con i parenti durante i mesi di detenzione. Il sistema di videosorveglianza e il controllo della polizia consente anche di monitorare ogni visita straniera e, in particolare, sorvegliare coloro che hanno legami all’estero, osservando chi ha collegamenti con i “26 Paesi sensibili”. Hulmarat, che non torna in Cina per timore di essere internato nei centri, ci ha spiegato che i detenuti con gravi patologie non ricevono l’assistenza medica: è difficile quindi calcolare quante persone escano vive dai centri. La notizia iniziata a circolare l’8 febbraio sulla presunta
morte del musicista uiguro Abdurehim Heyit, detenuto dal 2017, sta divenendo un caso diplomatico. La Turchia, che accoglie la diaspora uigura, sul caso ha assunto una posizione dura. Con un comunicato rilasciato il 9 febbraio, il ministro degli Esteri di Ankara ha definito i centri nello Xinjiang “una vergogna per l’umanità”, chiedendone la chiusura immediata. Fino a oggi, la maggior parte delle nazioni islamiche ha preferito ignorare la questione per non compromettere i rapporti con il gigante asiatico. La Turchia, nonostante i 3,6 miliardi di investimenti cinesi in infrastrutture per il suo ruolo di ponte tra Europa e Africa per la BRI, ha deciso di rianimare l’indignazione generale, come quella della Malesia che ha rifiutato di estradare i rifugiati uiguri in Cina. Molti Paesi però preferiscono rimanere nella sfera economica della Cina per uscire dalle proprie lacune finanziarie: pesano infatti i 1000 miliardi di dollari di investimenti cinesi che rientrano nell’Iniziativa BRI, la mastodontica rete di progetti infrastrutturali, finanziata dalla Cina e dall’Aiib (Asian Infrastructure Investment Bank), che intende unire Pechino a oltre 70 Paesi attraverso tre vie, terrestre, marittima e polare. Dopo la Rivoluzione Culturale, politici ed economisti occidentali avevano affermato che l’apertura dei mercati cinesi avrebbe determinato una società più libera. La realtà conferma altro e dimostra come ci sia ancora bisogno di far conoscere al mondo quanto sta accadendo nello Xinjiang per mano di Pechino. Ce lo chiede Halmurat Harri, che recentemente ha lanciato una campagna globale sui social. Hashtag: #MetooUyghur.
Halmurat Harri è un attivista uiguro naturalizzato finlandese. I suoi genitori sono stati detenuti in uno dei centri di “rieducazione” nello Xinjiang e ora sono agli arresti domiciliari. Ha lanciato un movimento via social. Hashtag: #MeTooUyghur. Quando è iniziata la detenzione dei suoi genitori? «La prima volta che saputo della detenzione di mia madre è stato ad aprile 2017. Mio padre mi aveva detto che gli assistenti sociali erano venuti a prenderla per inserirla in un programma di educazione. È strano: mia madre è pensionata ed è stata giornalista. Ho fatto una serie di telefonate e mi è stato confermato che era in un centro di “rieducazione”, dove insegnano anche lingua cinese. Lei ha studiato all’Università di Pechino, quindi sa bene il cinese. A gennaio 2018 anche a mio padre è stato incarcerato». Quali sono le accuse per la loro detenzione? «Non c’è alcun capo di accusa». Quindi non hanno ricevuto un processo? «No». Quando sono stati rilasciati? «Sono stati rilasciati il 24 dicembre 2018. Sono riuscito a mettermi in contatto con loro, ma abbiamo avuto una sola telefonata: loro erano in un ufficio della polizia locale, sotto controllo. Mi hanno confermato che non sono accusati di nulla e mi hanno detto che erano in un campo di educazione. Ma allora perché in 18 mesi di detenzione mia madre non ha potuto contattarmi?» Pensa che i suoi genitori abbiano sofferto di depressione quando erano nei centri? «Temo di sì e credo sia questo il motivo per cui erano sotto sorveglianza durante la telefonata.
Credo anche che non mi abbiano detto molto per timore di ritornare nel centro. Tuttavia, durante la nostra conversazione mia madre ha provato a comportarsi in maniera normale, ma non ha pianto e si è comportata come un robot». Ha avuto modo di chiedere loro cosa abbiano fatto nei centri? «Non ho potuto farlo. E non volevo che potessero dire qualcosa di pericoloso per loro. Ma credo che abbiano subito maltrattamenti: non mi sono sembrati i genitori che conosco». Ora i suoi genitori sono agli arresti domiciliari… «Credo di sì, ma non possono utilizzare internet o social network. Ogni volta che vogliono parlare con me al telefono, devono andare a un ufficio della polizia. L’orario e il giorno della telefonata devono essere programmati. Abbiamo a disposizione una decina di minuti per parlare e c’è sempre un supervisore nell’ufficio durante la telefonata. Ho saputo da un amico però che un poliziotto va più volte al giorno a controllare casa dei miei genitori. Per questo penso che stiano agli arresti domiciliari». Ha paura di tornare in Cina? «A causa del mio attivismo a livello internazionale, credo di essere finito nella blacklist del governo cinese». Pensa possa migliorare la condizione nello Xinjiang con la pressione della comunità internazionale? «Non penso possa migliorare e non penso cambierà qualcosa».
2019: Odissea in un mistero chiamato Stanley Kubrick
L’autista italiano, l’odio per l’esordio e l’amore per Fellini Il no ai Beatles e gli zero Oscar: inchiesta su un visionario

Metal Jacket. Disse no ai Beatles che lo volevano regista di un “loro” Signore degli anelli, litigò con Stephen King per Shining, gareggiò con Federico Fellini e fece esplodere un forno a microonde mettendoci dentro delle uova crude. E quasi sempre senza uscire di casa. A vent’anni dal 7 marzo 1999, data della morte, il mistero chiamato Stanley Kubrick, per alcuni il più grande cineasta del Novecento, resta ancora fitto e impenetrabile, così ricco di silenzio, il suo, e leggende metropolitane, degli altri.
L’AUTISTA CIOCIARO Emilio D’Alessandro è un ex meccanico e giardiniere ciociaro. Nell’inverno del 1971 Emilio, residente a Londra da pochi anni e pilota part time in un autodromo, colpì Kubrick consegnando con grande puntualità un enorme fallo di porcellana al set di Arancia Meccanica. Il regista lo assunse come autista e assistente. Nacque una profonda amicizia tra due persone diversissime, ma complementari, durata circa trent’anni e interrotta solo dalla morte del maestro. La strana coppia è protagonista di “Stanley Kubrick e me” (Il Saggiatore, 2012), libro di memorie scritto dallo stesso D’Alessandro con Filippo Ulivieri, responsabile del principale archivio dedicato al maestro. Il racconto, ricco di aneddoti, è un inedito sul Kubrick uomo. E svela il lato privato e tenero di un artista geniale e solitario ma capace di grande generosità e gesti d’affetto.
GLI SCONTRI CELEBRI Abbiamo incontrato Ulivieri, colui che ha prestato la penna al viaggio di Emilio e che ha co-sceneggiato S is for Stanley-Trent’anni dietro al volante per Stanley Kubrick, il delicato docu-film diretto da Alex Infascelli, basato su questa storia e premiato con il David di Donatello nel 2016 come miglior documentario. Lui racconta come Kubrick dicesse sempre “O ti importa o non ti importa” e questo valeva per tutto, sia sul set che a casa, perché nella sua vita niente era lasciato al caso. Il suo rigore mentale infatti abbracciava ogni attività: dalle VHS fatte spedire dalla sorella con le partite di football americano registrate alla furia distruttiva contro il primo film, Paura e Desiderio (1953), odiatissimo dal regista, che provò anche a farlo sparire. Sicuramente Kubrick non era un uomo facile ma neanche il regista crudele su cui si è favoleggiato. Le
dieci ore di addestramento quotidiano impartite agli attori di Full Metal Jacket? “Una storiella, invece è vero che il reduce del Vietnam Lee Ermey convinse Kubrick a promuoverlo da consulente a sergente Hartman”. Lo scontro feroce con Stephen King su Shining? “King all’inizio era molto contento, d’altronde all’epoca era uno scrittore emergente, a poco a poco se ne distanziò fino ad attaccare sistematicamente il film. Alla fine si accordarono: Kubrick rivendette i diritti dell’adattamento a King che così poté fare la sua noiosissima miniserie, in cambio di una clausola che impediva allo scrittore di parlare male del film. Infatti King ha ripreso a lamentarsi di Kubrick solo dopo la sua morte”.
E la mancata intesa con Marlon Brando? “Dovevano fare un western insieme ma Brando voleva dirigere il film da solo e rese insostenibile la collaborazione”.
LA SFIDA A FELLINI Il critico Alberto Crespi cita D’Alessandro che per lui faceva interprete con Fellini. Il regista de La Dolce Vita “era un mito per Kubrick che a suo modo lo sfidò con Barry Lyndon, ipotetico rivale di Casanova”. Crespi ricorda il debole del maestro per Piero Tosi, costumista di Visconti “che però non prendeva l’aereo e a fare Barry Lyndon mandò la sua pupilla Milena Canonero, già con Kubrick in Arancia Meccanica, le cui musiche dovevano essere di Morricone che rifiutò”.
Il regista adorava il doppiaggio di Giancarlo Giannini, voce di Ryan O’ Neal e Jack Nicholson. Per Full Metal Jacket disse “we need a young Giannini”. Ascoltava tutti i provini dei doppiatori italiani, pur senza capire nulla. Ma l’italianissimo “il mattino ha l’oro in bocca” dello scrittore folle di Shining lo scelse lui.
IL POTERE DERISO E GLI ZERO OSCAR Abituati ad artisti schierati su tutto, ignoriamo il pensiero politico di Kubrick. Per Ulivieri il cineasta era un “conservatore liberale ben consapevole che l’uomo spesso regredisce alla natura animale”. Per Crespi “uno che osserva gli uomini come fossero cavie da laboratorio non è né di destra né di sinistra”. Ma Il Dot-
tor Stranamore, Arancia Meccanica e Barry Lyndon “mostrano il potere al lavoro, lo deridono e lo smitizzano, per questo sono profondamente politici”. Certamente non frequentava i potenti dell’Academy, gli zero Oscar vinti lo dimostrano.
UNA LENTE D’INGRANDIMENTO SULLA NATURA UMANA Ma cosa accomuna i fucili di Orizzonti di gloria al lecca lecca a forma di cuore di Lolita? E cosa lega l’ultraviolenza dei drughi alla messa fuori uso del computer Hal? L’analisi della natura umana senza ideologie e romanticismo e l’uso della telecamera come lente d’ingrandimento su creature capaci di tutto, nelle più svariate situazioni. E la regia elegante e raggelata, i rapporti di forza, l’amore come gelosia, i rischi del futuro e ovviamente la violenza. Proprio quest’ultima con Arancia Meccanica (1971) ha scatenato la polemica: possibile mostrare uno stupro in modo “spettacolare” con canto e balletto? Fu scandalo e censura. Basta dire che la prima sulla tv pubblica italiana di questo capolavoro risale appena al 2007. Peccato che il film fosse proprio un atto d’accusa alla violenza, dei singoli e dello Stato, e alla censura-repressione tramite la forza. Nella consapevolezza che l’estetica non deve essere per forza etica, altrimenti anche ascoltare Beethoven può diventare un incubo.
IL “NO” AL SIGNORE DEGLI ANELLI DEI BEATLES L’ “archivista” Ulivieri dice di aver trovato 55 progetti iniziati e mai andati in porto. Crespi cita The Aryan Papers che doveva raccontare l’Olocausto, tema caro all’ebreo americano, ma che fu “bruciato” dallo Schindler’s List di Spielberg. E proprio quest’ultimo si incrocerà ancora con Kubrick quando, dopo la morte del maestro, rileverà il progetto poi diventato Intelligenza Artificiale. Clamoroso il rifiuto del regista ai Beatles che volevano dirigesse un “loro” Signore degli anelli in cui Paul sarebbe stato Frodo, Ring il fedele Sam, George Gandalf e John Gollum.
SE KUBRICK FOSSE VIVO Ci chiediamo cosa farebbe Kubrick oggi, nel 2000 che in fondo lui stesso aveva anticipato e messo in scena con largo anticipo. Certamente avrebbe guardato con curiosità a questa fase di identità e rapporti liquidi, così tecnologica e fragile. Secondo Crespi
oggi Kubrick girerebbe un “Blade Runner con al centro una storia di sesso tra un uomo e una macchina”. Ovviamente in digitale. Lolita al tempo del Me Too? “Oggi sarebbe crocifisso”.
IL “COME ERAVAMO” DEL NOSTRO LATO OSCURO A quasi vent’anni dalla scomparsa di Kubrick non ci sono eredi e neanche un messaggio. Ma una grandiosa opera che è una carrellata, quasi documentaristica, sulla natura umana e sul suo lato oscuro. Una lezione inquietante, il “come eravamo” attraverso i secoli, impastato di guerra, gelosia, follia e violenza, dalle arene dell’antica Roma alle mille luci di New York, passando per lo spazio profondo. Perché l’uomo in tutte le epoche e luoghi è sempre sé stesso, una splendida e complessa macchina impazzita, capace di tutto, figuriamoci il male. Ce lo dice Kubrick. Che questa dura lezione sia meravigliosa da guardare è la meraviglia del cinema.
“Inventò il Duemilama oggi sarebbecrocifisso per Lolita”

Alberto Crespi, come critico dell’Unità lei ha scritto molto su Stanley Kubrick, ma oggi, a vent’anni dalla scomparsa, qual è la prima cosa che le viene in mente del grande regista? “Mancava poco all’uscita del nuovo film (Eyes Wide Shut,ndr) e pensavo che fosse uno scherzo o addirittura una trovata promozionale che sarebbe stata alquanto macabra, va detto. Soprattutto mi sembrava paradossale il pensiero che non sarebbe arrivato a vedere il millennio che lui aveva inventato, il Duemila”. Lei ha definito “Stanley Kubrick e me” del suo vecchio assistente Emilio D’Alessandro e di Filippo Ulivieri “il libro più importante mai scritto su questo regista”. Perché? Inoltre sostiene che ha spazzato via “leggende idiote” circolate sul maestro: quali? «Su Kubrick circolavano leggende assurde e lievemente ridicole. Che fosse un gelido automa, che indossasse sempre lo stesso vestito, che guidasse con l’elmetto, che fosse un perfezionista maniaco. La cosa più bella del libro di Emilio – che ho avuto occasione di conoscere bene – è che lo descrive come un clamoroso pasticcione. L’aneddoto di quando fa esplodere un forno a microonde mettendoci dentro delle uova crude è strepitoso, e così tanti altri. Soprattutto era passata l’idea che fosse un uomo freddo e crudele come certi personaggi dei suoi film. Il libro ne racconta invece la grande umanità. Le pagine sulla sua morte sono commoventi». Lo so che è un gioco perverso ma mi dica al volo il suo Kubrick preferito, quello che invece l’ha convinta di meno e il suo protagonista preferito. E perché. «Il film del cuore è “Barry Lyndon” perché ci ho scritto la tesi di laurea, ma il film più importante, forse il più importante della storia del cinema, è “2001”. Sono rimasto straordinariamente deluso dall’opera prima “Fear and Desire”, quando l’ho vista. Capisco che a
livello intellettuale si possa dire che contiene già tutti i temi e tutte le ossessioni dei film successivi, ma espressi in modo così rozzo da rendere il film quasi inguardabile. Chi lo definisce un capolavoro solo perché è comunque un film di Kubrick è un inguaribile snob. Il mio protagonista preferito… sono tre, i tre ruoli che fa Peter Sellers in “Il dottor Stranamore”. Perché sono fra i ruoli più comici della storia del mondo» Kubrick ha affrontato diversi generi e temi. Secondo lei ha avuto delle costanti? «La guerra, l’aggressività umana, i rapporti di potere e di classe. Kubrick è un etologo. Analizza gli uomini studiandone il comportamento come se fossero degli animali. La psicologia non gli interessa: gli interessano i comportamenti, le azioni, e il modo in cui influiscono sui rapporti umani». Esiste un Kubrick “politico”? E, banalizzando, era di destra o di sinistra? «Non era né di destra né di sinistra, ma “Stranamore”,“Arancia meccanica” e “Barry Lyndon” mostrano il potere al lavoro, lo deridono, lo smitizzano, quindi sono film politici. Oggi Lolita sarebbe accusato di misoginia o pedofilia per un equivoco post Me Too? «Sono sinceramente convinto che un film come “Lolita” oggi sarebbe crocifisso. Di più: credo sia impensabile». Se Kubrick fosse vivo su quale argomento o avvenimento farebbe un film secondo lei? «Secondo me sarebbe molto intrigato dalle nuove tecnologie, dai social network, dalle identità sempre più multiple e liquide, dal web e, di nuovo, dalla realtà virtuale e dall’intelligenza artificiale. Penso che potrebbe fare un film come “Blade Runner” ma sull’oggi, e cento volte più profondo e intelligente. Potrebbe raccontare una storia di sesso fra un essere umano e un essere virtuale. Sicuramente in digitale».
Tatuaggi un business rischioso
L’Istituto di Sanità conferma il boom dei “graffiti” sulla pelle e l’Idi apre un ambulatorio per trattare gli effetti collaterali

Quello dei tatuaggi è oramai diventato un fenomeno trasversale che interessa una fetta sempre più ampia di italiani, circa 7 milioni. Un business che ha raggiunto un giro d’affari di circa 300 milioni di euro. Proprio per questo l’Istituto dermopatico dell’Immacolata (Idi) di Roma, eccellenza nazionale per la cura delle malattie della pelle, ha deciso di dedicare un nuovo poliambulatorio al fenomeno dei tatuaggi e alla prevenzione dei rischi connessi a questa pratica. Le
principali complicazioni per la salute sono riconducibili agli inchiostri che potrebbero provocare reazioni allergiche, infiammazioni e, nei soggetti predisposti, eczemi o psoriasi. Esiste inoltre il rischio di confondere un melanoma pigmentato di nero o di marrone scuro con la colorazione del tatuaggio. Il 76% dei tatuati si è rivolto ad un centro specializzato, il 9,1% ad un centro estetico, ma addirittura il 13,4% lo ha fatto al di fuori dei centri autorizzati. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità chi sceglie di tatuarsi in Italia sono soprattutto le donne (il 13,8%): il primo tatuaggio viene effettuato a circa 25 anni, il maggior numero di tatuati riguarda la fascia di età che va da i 35 ai 44 anni e il 7,7% è minorenne. Gli uomini preferiscono tatuarsi braccia, spalla e gambe, le donne soprattutto schiena piedi e caviglie. Un tatuato su quattro (25,1%) risiede nel Nord Italia, il 30,7% ha una laurea e il 63,1 % lavora. In base ai dati raccolti dall’ISS si tratta di un fenomeno in crescita e diventa quindi sempre più urgente prestare attenzione alle possibili
ricadute sulla salute. Solo il 58,2% di chi sceglie di farsi un tatuaggio, infatti, risulterebbe essere informato sui rischi, ma solamente il 41,7% avrebbe una consapevolezza adeguata delle controindicazioni. L’introduzione di pigmenti nella cute è un elemento di disturbo per l’organismo e potrebbe turbarne l’equilibrio e proprio i dati della stessa indagine rivelano che il 3,3% dei tatuati dichiara di aver avuto complicanze o reazioni come: dolore, granulomi, ispessimento della pelle, reazioni
allergiche e infezioni. In tutti questi casi però, solo il 12,1% si è rivolto a un dermatologo o al medico di famiglia (il 9,2%), mentre il 27,4% si è rivolto direttamente al proprio tatuatore, ma più della metà (il 51,3%) non ha consultato nessuno.In Italia non c’è una legislazione prescrittiva specifica sul tema, ma il Parlamento è al lavoro per introdurre una normativa che disciplini tanto la figura del tatuatore quanto quella del piercer, soprattutto dal punto di vista igenico-sanitario. A oggi, infatti, il quadro normativo italiano è limitato alle Linee guida del Ministero della Salute. In ambito comunitario, invece, è stata emanata la Risoluzione ResAP (2008)1 del 20 febbraio 2008: la direttiva impone una severa sorveglianza sulla composizione e sui rischi delle sostante utilizzate per gli inchiostri, che devono essere tutti etichettati, fissa le condizioni igieniche da osservare nei laboratori e impone ai professionisti del settore l’obbligo di divulgazione delle possibili implicazioni sulla salute che tatuaggi e piercing potrebbero comportare.