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ALBERTO BOSI – Ci hai insegnato a reggerci sulle nostre gambe

CI HAI INSEGNATO A REGGERCI SULLE NOSTRE GAMBE

Uno dei più noti – e più ardui – paradossi evangelici recita “A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Un altro non meno arduo paradosso, profondamente incorporato nella logica del Vangelo, si potrebbe esprimere dicendo che solo chi non ha può dare. Tutta la vita di Sergio è stata una espressione di questo secondo paradosso. I suoi settanta anni di vita sono stati divisi dal taglio crudele della malattia in due metà di lunghezza quasi identica. Nella prima metà egli è stato un uomo di scuola, un maestro elementare appassionato del proprio mestiere (meglio, della propria vocazione), ma anche un montanaro di gamba robusta e di fiato lungo, un assiduo frequentatore delle “sue” valli Grana e Maira. Nella seconda metà ha continuato ad essere un uomo di scuola, anche se è passato dai bambini agli adolescenti, ma le gambe sono state sostituite da una carrozzella, e dall'auto che lo manteneva in contatto con le sue montagne oltre che con gli amici. Eppure lui, che non aveva più gambe capaci di reggerlo, ha aiutato le innumerevoli persone (tra cui il sottoscritto) che hanno avuto la fortuna di incontrarlo e di godere della sua amicizia, a reggersi sulle proprie gambe. Il ricordo di lui è per me legato in particolare a un ventennio di riunioni mensili nella sua casa di famiglia a Caraglio. Verso le 18, eravamo una dozzina di amici e conoscenti - ma potevamo essere anche una ventina - a bussare alla sua porta stipandoci nel suo appartamento a pian terreno; a turno, qualcuno di noi si era preparato su un argomento, che poteva spaziare dalla religione alla politica all'economia e all'ecologia, ma che aveva sempre al centro le grandi domande sul senso del vivere. Finita l'introduzione, si dialogava, si discuteva, talvolta ci si accalorava (e ricordo come risonasse, sovrastando tutte le voci, la sonora risata di Gianni Fabris, che ci ha lasciati tre anni fa). Poi, verso le 20, veniva il “bello” (Sergio sosteneva che il resto era solo una scusa): si apriva il lungo tavolo al centro della stanza, e ciascuno tirava fuori quello che aveva portato, senza che ci fosse bisogno di troppi accordi (io

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porto il vino, tu porti il dolce, lui porta il pane e il salame) e si condivideva una cena innaffiata di buon vino piemontese. Era forse la più sentita, gioiosa “eucarestia” (rendimento di grazie), una celebrazione dell'amicizia nel segno della condivisione. Caro Sergio, in fondo ci hai “fregati” tutti perché dopo averti conosciuto non potremo più praticare lo sport da sempre più diffuso tra gli umani: lamentarsi della propria sorte, sostenendo che se le cose fossero andate altrimenti, se non fosse stato per questo o per quello che ci è capitato, allora sì che avremmo fatto vedere a tutti che siamo capaci di vivere “come si deve”. Alberto Bosi (alberto.bosi@gmail.com) Su Torre Vittorina