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GIULIA MARRO Stato d’emergenza in

S c o p r i r e l ’ a l t r o p e r c a p i r e s e s t e s s i

STATO D’EMERGENZA IN ETIOPIA… E NON SOLO

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Proprio a due settimane dal Festival di Circo Africano che stavamo organizzando ad Addis Abeba, la situazione politica subisce delle perturbazioni. Iniziano giornate interminabili di scioperi, che porteranno nei mesi successivi alla trasformazione politica del paese tramite la nomina a primo ministro di Abiy Ahmed Ali (premio Nobel per la pace del 2019). Nel bel mezzo dei preparativi e dello stress pre-festival viene così dichiarato lo stato d’emergenza in tutto il paese. Dopo anni passati in Francia, successivi all’attentato di Charlie Hebdo, mi sembrava pazzesco vivere di nuovo in condizioni di allerta continua. Le notizie arrivavano anche in Europa, perché gli invitati ci tempestavano di mail: “il festival verrà mantenuto?”, “state tutti bene?”, “ma se decidiamo di venire ad Addis Abeba rischiamo qualcosa?”. Noi rispondevamo nel modo più sincero e rassicurante possibile, perché nella capitale non si notava niente di diverso da prima, a parte più poliziotti e soldati e più chiacchiere tra i passanti. In realtà, non eravamo così tranquilli: il contratto con il Ministero della Difesa per l’uso di un loro spazio come location del Festival non era stato ancora firmato, e le limitazioni per gli eventi pubblici e festivi durante lo stato d’emergenza parlavano chiaro. Alla fine tutto è andato liscio e nessuno ci ha messo i bastoni tra le ruote. Abbiamo rischiato molto perché, ho appreso in seguito, anche se ad Addis tutto era tranquillo, fuori la situazione era cambiata decisamente. Lo stato d’emergenza permetteva all’esercito più facilità d’azione. Ciò ha provocato degli spari sulla folla per calmare dei momenti di tensione, e i morti si sono contati con leggerezza. Ricordo una frase detta da Dereje, il direttore del circo, verso la metà di febbraio, quando improvvisamente il tempo era cambiato portando frequenti venti e piogge: “Qui in Etiopia si dice che il vento porti la guerra”. Dopo pochi giorni ci sarebbe stata una dichiarazione di sciopero da parte di gruppi etnici del paese: gli Oromo e gli Amara. Ai Tigrini, il terzo dei gruppi più influenti, appartenevano i membri del partito che all’epoca era al potere da ben 22 anni. La gente qui mi racconta che negli ultimi anni i Tigrini hanno cercato di mettere i membri delle altre due etnie gli uni contro gli altri per evitare di avere il popolo unito contro di loro. Quando gli altri hanno capito l’arcano, si sono nuovamente alleati bloccando le strade d’accesso alla capitale: 3 giorni di sciopero per creare disagio. Non di più, altrimenti le conseguenze sarebbero state importanti. Lo scopo? Mettere pressione sul governo ormai dittatoriale e richiedere la scarcerazione di centinaia di prigionieri politici, in carcere per aver sostenuto e difeso la propria opinione. E in questo clima così incerto il primo ministro ha agito furbescamente dichiarando lo stato d’emergenza, sottraendosi alle sue responsabilità e permettendo una “giustificata” azione violenta da parte dell’esercito. Ovviamente non posso affermare con certezza che le cose siano andate in questo modo. Ma le vicende hanno sempre diverse interpretazioni, a maggior ragione in un paese dove i media sono molto controllati e non parlano volentieri di affari “scomodi”. L’informazione viene diffusa dal passaparola degli abitanti di città e villaggi, che chiamano conoscenti per sapere quello che succede dalle altre parti. Il contesto etiope è molto più complesso di come io possa presentarvelo. Bisognerebbe accennare alla crisi del Corno d’Africa, di cui in Europa si sa molto poco. Senza dimenticare il come e il perché é stato battezzato “corridoio del terrorismo”. Bisogna menzionare un altro dettaglio importante: la maggior parte degli africani che rischiano la vita per approdare sulle nostre coste non viene da un paese in guerra dove soffriva o rischiava la vita. Ma arriva da una realtà dove non c’è libertà. Sono dispregiativamente chiamati “migranti economici”, ma arrivano da paesi in cui non ci sono democrazia, libertà d’espressione, occasioni per ritrovarsi e discutere, lottare, fare progetti, denunciare, opporsi, cambiare le cose. Mancano persino le fonti per informarsi su ciò che succede davvero! La libera informazione dovrebbe essere alla base della formazione di un cittadino consapevole e responsabile. Si percepisce che nei paesi africani le generazioni, ancora assopite dai rapporti coloniali e neo coloniali, sono intrappolate in società con pochi diritti e libertà. Perché quindi i migranti provenienti da queste realtà, non possono essere considerati come migranti “alla ricerca della libertà” invece che “di soldi”?! Anche perché possono facilmente venire a sapere come funziona da noi la democrazia dalla televisione, da internet, dai turisti, dalle ONG presenti nei loro paesi. Coloro che lo sanno, magari possono essere spinti dalla voglia di sperimentarla, per poi poterla applicare nelle loro realtà d’origine? Le conseguenze di questi movimenti migratori sono la chiusura massiccia delle frontiere, più controlli, più