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exit Addio a Franca Valeri e Gianrico Tedeschi — di Roberto Canziani

Franca Valeri, Gianrico Tedeschi: due vite lunghe giusto un secolo

In sintonia, due eccellenze del teatro italiano ci hanno lasciato, solo un attimo dopo aver compiuto i cent’anni. Una doppia uscita di scena, traguardo di due esistenze straordinariamente ricche.

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di Roberto Canziani

Non perché il numero è tondo. Non perché ci sta dentro tutto un secolo. Cent’anni sono piuttosto un simbolo. Se poi sono stati cent’anni di vita piena e coerente, allora sono anche un traguardo. E dopo il traguardo, come un atleta, anche la vita ha bisogno di riposare. Quasi si fossero parlati attraverso il filo della loro arte, quasi si fossero segretamente accordati, Gianrico Tedeschi e Franca Valeri sono scomparsi subito dopo aver festeggiato due vite durate un secolo. Lui il 27 luglio. Lei il 9 agosto.

La donna che visse mille donne

Spirito audace, Franca Valeri deve averla preparata lei stessa la sua trionfale uscita di scena. Anniversario compiuto, festeggiamenti esauriti: signori miei, io lascio, statemi bene. Anche Hystrio, nel numero precedente a questo, non si era sottratto alle celebrazioni. Uno speciale di una decina di pagine, che di lei aveva detto tutto. Gli esordi, la carriera, i film, il teatro, le scenette, i caroselli, i libri, la lirica, gli amori, i disamori, le acconciature, gli abiti, i cani. E tutte le sue donne in fila. Le più famose, le più sconosciute. Le parlaccione, le argute. Le snob, le scostumate. L’atlante femminile che in settantacinque anni di carriera, lei, l’instancabile Valeri aveva completato. Per giorni e giorni il vorace mondo dell’informazione aveva continuato a rimettere in gioco tutte le tessere di una vita per molti versi esemplare. Come attrice e come osservatrice. Del mondo e di chi lo abita. E di noi soprattutto, di noi italiani e italiane, che abbiamo riconosciuto in lei il più spiritoso dei nostri psicanalisti. Quasi in regalo, in cima ai festeggiamenti, era anche giunto un libro. Un volumone di quasi settecento pagine (Tutte le commedie, La Tartaruga-La nave di Teseo, 22 euro), concluso dalla bella post-fazione di un’altra attrice, Patrizia Zappa Mulas. Che dice: «Per la prima volta nel nostro Paese cattolico e mammone, una donna ha puntato lo sguardo e ha raccontato con feroce lucidità le distorsioni mentali e i vaneggiamenti di tante donne scompensate da una modernità improvvisata». E ancora: «Per la prima volta una donna è riuscita a raccontare ciò che di tragico e ridicolo stava accadendo alle donne italiane, stonate e travolte dalle circostanze, strappate dal torpore provinciale dei centrini, da secoli di vita di paese e analfabe-

tismo, di chiacchiere da salottino, davanti a finestre che inquadrano sempre lo stesso orizzonte immobile, e buttate di colpo, senza cautele, in un universo veloce, tecnologico e male informato». Ecco: fra tante immagini, tante interviste, tanti ricordi, che ognuno di noi può aver distrattamente sfogliato in quei giorni, quelle parole colgono il lato, a mio avviso più interessante, di Franca Valeri. Non solo l’ironia, non solo l’educazione, non solo il senso della battuta. Soprattutto, la capacità di cogliere, in una frase, in un accento, i tempi e i modi di un’Italia che in cent’anni – i suoi cent’anni – si è andata trasformando. Senza accorgersene. Nella sua galleria di femmine c’erano sì le signorine snob, le Cesire milanesi, le romanesche Cecioni. Erano le più popolari, le più spendibili, le più imitate. Ma l’intuito di Franca Valeri andava ben oltre il filo del telefono e la testa con i bigodini. Coglieva il senso di un’Italia che cinema, radio, televisione erano stati capaci di rendere finalmente unita, nel costume e nei modi di pensare. Osservatela con attenzione, magari in Il segno di Venere (1955). Con il suo trench alla moda, con il suo muoversi disinvolto. Cogliete in lei, spavalda ma romanticamente innamorata, le trasformazioni delle giovani donne metropolitane che con il lavoro, con una diversa morale, con un abbigliamento nuovo, dagli anni Cinquanta in poi, avrebbero rimesso in piedi l’Italia. Lo stesso punto di osservazione con cui il nostro Paese veniva osservato da Pasolini e da Eduardo, da Fellini e da Arbasino. Ma loro erano uomini. Lei aveva la determinazione, la lucidità, l’ironia per mettersi alla stessa altezza. Così, di sketch in sketch, di film in film, di regia in regia, di libro in libro, “la Franca” diventava un mito. Pop e intellettuale. Costretta ormai sulla sedia a rotelle, dopo una brutta caduta, non si occupava più del proprio mito. Rilasciava di tanto in tanto interviste, spiritosissime. Non leggeva i giornali. La televisione l’accendeva solo per le prime della Scala. Rifletteva forse sul significato di quei cento anni, sull’avvicinarsi della conclusione. Paura? Curiosità? «Voglio proprio vedere che cosa c’è dall’altra parte», aveva detto nell’ultima intervista.

Semplice, buttato via, moderno

Anche Gianrico Tedeschi quel traguardo l’aveva raggiunto. E anche lui aveva forse pensato di potersene andare: sereno, in punta di piedi, consapevole di aver operato bene. E per il bene. Un’esistenza piena e onesta. Una specchiata vita d’attore. Sarebbero tanti gli aggettivi utili a raccontare Tedeschi. Molti sono stati già spesi per raccontare il compleanno centenario. Ma volendo trovare adesso termini ancora più giusti, altro non viene in mente, se non il titolo dell’affettuosa biografia che una delle sue due figlie, Enrica, aveva voluto dedicargli: Semplice, buttato via, moderno (Viella Editore, 222 pagg., 27 euro). Così era lui. Così era il suo lavoro. Tedeschi non somigliava a quegli attori che usano la scolorina per correggere la data di nascita sui documenti. Della sua lunga vita nell’arte, andava fiero. Se di qualcosa si rammaricava, era della memoria. Del non poter mettere in fila tutti i nomi, i personaggi, i copioni che in più di settant’anni di carriera aveva interpretato, alternando teatro, cinema, televisione e – certo – anche le microscopiche storie degli spot pubblicitari che lo avevano reso popolare ovunque. Cavalcando o affondando nelle onde dei ricordi aveva perciò deciso di intitolare Smemorando, ballata del tempo ritrovato lo spettacolo in cui, quindici anni fa, aveva raccontato la propria vita. Raccontava di essere cresciuto, come attore, nella Milano della ricostruzione, alla fine degli anni Quaranta. E di aver scalpitato per debuttare sul rivoluzionario palcoscenico che sarebbe presto diventato il Piccolo Teatro di quella grande città. Sarà protagonista, anni dopo, nell’Opera da tre soldi di Brecht e un indimenticabile Pantalone nello storico Arlecchino. La professione gli aveva riservato presto grandi incontri: con la Magnani sul set, con Visconti e Mastroianni in un’altrettanto storica Locandiera. Anziano, di Mastroianni raccoglierà anche la staffetta in Le ultime lune di Furio Bordon. Per rispecchiarsi poi in La rigenerazione di Svevo, che sembrerebbe scritto apposta per lui. L’ultimo suo spettacolo aveva qualcosa di presago. Scritto da Franco Branciaroli e interpretato insieme a Ugo Pagliai e Massimo Popolizio, si intitolava, scaramanticamente, Dipartita finale. Ma, con lo spirito allegro che pur ultranovantenne si ritrovava addosso, Tedeschi preferiva rievocare quanto si fosse divertito a stare in tv con Cochi e Renato. E quanta fortuna avesse portato, con i Caroselli, a formaggi spalmabili e caramelle. Lo strillo pubblicitario più pop lo ricordava alla perfezione: «Il cofanetto di caramelle Sperlari non si incarta mai». ★