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2. ETNOGRAFIE DELLA CULTURA MATERIALE DOMESTICA NELLA TOSCANA CONTEMPORANEA

“Cosa succede se focalizziamo l’attenzione sugli oggetti seriali e ordinari, per lo più di produzione industriale, che occupano le nostre pratiche di consumo e popolano gli spazi della vita quotidiana? Non sta forse qui lo strato più profondo della cultura che gli antropologi devono scoprire?”2

2.1 Premessa: dalla crisi del folklore alla “cultura popolare del presente”

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Nei paragrafi a seguire si prenderanno in considerazione una serie di pubblicazioni connesse con un progetto di ricerca supportato dall’Università di Pisa negli anni 2008-2010, denominato “Vita quotidiana e cultura materiale nell’Italia del dopoguerra: storia e antropologia degli oggetti ordinari” e dedicato all’analisi storica e antropologica delle culture domestiche nell’Italiacontemporanea Nellasuacomponentediindagineetnografica, laricercahaesplorato il tema della cultura materiale all’interno di una sessantina di abitazioni di famiglie toscane di classe media e medio bassa, appartenenti a diverse tipologie familiari. Il lavoro di documentazione e analisi si è concentrato sull’organizzazione degli spazi, sugli arredi e sui vari tipi di oggetti presenti nelle case, privilegiando come metodo di indagine quello del videotour3 associato all’intervista biografica.

Prima però di entrare nel vivo dell’argomento, vorrei ritornare su una questione che è stata brevemente introdotta in apertura e che adesso mi sembra utile esplorare più da vicino: mi riferisco al dibattito intorno ai “nuovi studi” di cultura materiale, che nel contesto della ricerca italiana è stato oggetto di particolare attenzione da parte di antropologi quali Fabio Dei e Pietro Meloni, a partire da un seminario sulla cultura popolare tenutosi fra gennaio e maggio del 2007 e organizzato dalle Università di Firenze, Pisa e Siena, al quale Meloni dedica il paragrafo introduttivo della sua tesi di dottorato4

“La proposta del seminario era di cercare nuove vie di indagine nel campo degli studi demologici, attraverso una prospettiva che tenesse conto anche di contributi provenienti da studi contigui (…). Cosa significa occuparsi di cultura popolare nel presente? Quali metodologie possono essere ritenute ancora valide? Come superare la crisi del folklore?”5

Il medesimo interesse nel tentare di definire con chiarezza non solo le cornici metodologiche, ma anche l’oggetto di studio a cui fare riferimento nel novello settore

2 F. Dei, “Il sacro domestico. Religione invisibile e cultura materiale” In V. Lusini – P. Meloni (a cura di), LARES. Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici, 2014/3 – a.80, numero monografico – Culture domestiche. Saggi interdisciplinari, Leo S. Olschki Editore, Firenze, Sett. – Dic. 2014, pp. 523-540

3 Si tratta di una visita guidata documentata tramite videocamera a fotocamera, in cui i proprietari presentano la casa a un piccolo gruppo di ricercatori, illustrando e commentando gli oggetti che ritengono più significativi.

4 P. Meloni, I modi giusti. Un’etnografia della cultura popolare e delle pratiche di consumo nella provincia toscana contemporanea, Università degli Studi di Siena, aa 2009-2010, pp. 6-9 disciplinare che andava delineandosi, è ribadito più volte da Fabio Dei, che insiste sulla necessità assoluta di transitare una tradizione di studi folklorica verso un’antropologia della dimensione quotidiana contemporanea, ricordandoci in tono milleriano6 che “la missione originaria dell’antropologia è quella di studiare la cultura a partire dalle piccole cose, dal banale e dal quotidiano, se non proprio, come per gli archeologi, dai mucchi di spazzatura.”7

5 Ibidem. Con l’espressione crisi del folklore (Barbara Kirshenblatt-Gimblett, 1998b) si fa riferimento all’erosione del mondo tradizionale e alla mancata partecipazione, da parte degli studiosi in questo settore, ai nuovi fenomeni sociali delle classi popolari, le quali spesso diventavano classe operaia o evolvevano verso il ceto medio.

Nel contesto di un rapido ma esaustivo excursus dei contributi, tanto di antropologi quanto di studiosi di discipline affini, al rinnovamento degli studi in questa direzione8 - cui abbiamo già fatto cenno in apertura e su cui ritorneremo - lo stesso Dei ci fornisce una spiegazione storico-culturale molto interessante del processo che ha portato l’antropologia della cultura materiale a considerare la ricerca empirica incentrata sugli oggetti ordinari prodotti serialmente (e dunque sulle forme del consumo di massa) un ambito “inautentico e anti-culturale”9

L’Italia, intorno alla fine degli anni ’60, ha appena attraversato un processo di radicale deruralizzazione,acausadelquale,nelcorsodipocopiùdiunagenerazione,glioggettidelmondo contadino (case coloniche, mobili della cucina, strumenti di lavoro…) hanno cambiato status per ben due volte:

“Da supporti vivi della vita quotidiana, si sono trovati ad esser gettati via in quanto rappresentativi di una miseria che si cercava di lasciarsi alle spalle. Non molto tempo dopo, a modernizzazione compiuta, il mondo contadino è stato non più rifiutato e rimosso, ma vagheggiato nostalgicamente, contrapposto alla inautenticità e “alienazione” della società industriale e urbana. I suoi oggetti sono stati dunque rivalorizzati proprio in virtù del loro carattere povero e tradizionale.” 10

Tutto ciò ha determinato l’avvio di un processo di patrimonializzazione della cultura materiale contadina, sia dal punto di vista commerciale che culturale: non solo questi oggetti hanno acquisito un notevole valore di mercato, ma sono stati anche al centro di grandi operazioni di memoria e musealizzazione. Chiaramente, su tali meccanismi sociali si sono innestate le (allora) nuove prospettive di studio in ambito antropologico - riassumibili secondo Dei nell’influenza combinata del marxismo e di Leroi-Gourhan11 - che hanno privilegiato nettamente l’ambito della produzione a quello del consumo e hanno fatto riferimento unicamente ai processi produttivi tradizionali e preindustriali. Ciò che interessava nell’analisi demologica era, in sostanza, il lavoro agricolo e la produzione artigianale. Il lavoro operaio e le altre pratiche legate alla modernizzazione (industrializzazione, urbanizzazione, diffusione delle comunicazioni di massa…) erano viste unicamente come “l’imposizione sul piano delle masse di una cultura egemonica” e non potevano dunque essere considerate popolari.

6 Ricordiamo le parole con cui solo un paio d’anni prima D. Miller introduceva il suo resoconto sull’indagine a Stuart Street: “L’antropologia è disciplina che tenta di entrare in contatto con le minuzie della vita quotidiana, mantenendo l’impegno di voler comprendere l’umanità nella sua totalità. Questo libro vuole avere la stessa ambizione, associando degli interrogativi generali sulla natura della vita moderna con un’immersione etnografica nel mondo delle piccole cose e delle relazioni di intimità che riempiono la nostra vita, mantenendo vivo lo stupore per questo stesso mondo.” D. Miller, Cose che parlano di noi, Il Mulino, Bologna, 2014 [2008]

7 F. Dei, “La materia del quotidiano” In S. Bernardi, F. Dei, P. Meloni (a cura di), La materia del quotidiano. Per un’antropologia degli oggetti ordinari, Pacini Editore, Ospedaletto (Pisa), 2011, p. 20

8 Si veda F. Dei, op. cit., pp. 8-20

9 F. Dei, op. cit., p. 9

10 F. Dei, op. cit., p. 13

11 Il riferimento in particolare è al secondo volume de Il gesto e la parola, tradotto in italiano da Einaudi nel 1977 e incentrato sull’idea del “venire a patti con la materia” come cuore del concetto antropologico di cultura.

“Così, tutte queste tessere del mosaico antropologico degli anni ’60 e ’70 – la visione di LeroiGourhan dell’evoluzione12, la critica marxista alla modernità consumista, una demologia che tende ad appiattire il subalterno verso il tradizionale – convergono verso una direzione precisa: la messa a fuoco, come oggetto privilegiato e anzi costitutivo dell’attenzione antropologica, delle forme del lavoro premoderno e della cultura materiale che lo circonda.”13

Fabio Dei mette in evidenza il paradosso insito in un approccio di questo genere: si tratta di fatto di cercare il popolare in fenomeni minoritari e spesso elitari di recupero della tradizione, piuttosto che nei fenomeni di consumo che investono davvero le grandi masse popolari. Tutte queste riflessioni ci riportano al seminario di cui sopra, che, con tali premesse, si proponeva una ridefinizione del concetto di cultura popolare accanto alla messa a punto di coerenti cornici teorico-metodologiche e all’apertura di nuovi percorsi di ricerca empirica su tematiche fino a quel momento ampiamente trascurate dagli studiosi nel settore, tutto ciò conl’accortezza di non trasformare lo studio demologico del presente in una “brutta copia della sociologia della cultura e dei consumi”14, sconfinando maldestramente in ambiti disciplinari affini. La prima importante conclusione è che l’oggetto della cultura popolare non può più evidentemente limitarsi allo studio del mondo rurale e contadino, ma deve includere necessariamente altre realtà sociali. Per quanto riguarda le cornici teorico-metodologiche, attraverso autori come Pierre Bourdieu, Michel de Certeau, Arjun Appadurai, Igor Kopytoff, Daniel Miller e Mary Douglas, che hanno contribuito con i lori studi all’allargamento della cultura popolare “ verso fenomeni urbani e contemporanei”15 , i seminaristi hanno cercato di definire alcuni percorsi di ricerca in cui sperimentare nuovi studi di cultura popolare. Tra questi, lo studio delle pratiche sociali e delle routine quotidiane, lo studio delle modalità di uso e fruizione della cultura di massa in diversi gruppi sociali, lo studio dei processi di patrimonializzazione del passato e dell’autenticità. Nell’opinione di Meloni

“Questi percorsi di ricerca permettono di aprire gli studi di cultura popolare a realtà finora sostanzialmente trascurate, configurandosi, forse, come una possibile cultura popolare (o demologia, o folklore, o antropologia della cultura popolare) del presente.”16

Per quanto riguarda l’ambito specifico della cultura materiale, si tratta di insistere sugli oggetti ordinari e seriali più che sui ‘pezzi unici’ legati alla tradizione artigianale, sull’ambito del consumo più che su quello della produzione, e, in generale, sul ‘contemporaneo’ piuttosto che sul tradizionale. Quattro anni dopo aver tenuto il seminario toscano, Dei sottolinea che non mancano nel dibattito italiano segnali importanti dell’esigenza di ricomprendere le merci e gli oggetti “inautentici” nella ricerca sulla cultura materiale, ma lamenta altresì il fatto che quello che a lui pare il peccato originale – ovvero l’equiparazione del popolare al tradizionale –

12 Si veda il ruolo attribuito dall’antropologo al cervello nell’evoluzione biologica e culturale dell’uomo, ben delineato da F. Remotti in Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 18-19. In Dei il riferimento è funzionale alla spiegazione della critica culturale della modernità insita e caratterizzante nella visione di Gourhan: se la conquista della posizione eretta e la conseguente “liberazione della mano” è stata la condizione per lo sviluppo delle facoltà intellettuali, e non viceversa, “un’umanità che non lavora più con le mani perde la capacità di creare cultura, e con essa le basi della creatività e della stessa socialità”.

13 F. Dei, op. cit., pp. 16-17

14 P. Meloni, op. cit., p. 7

15 Ibidem

16 P. Meloni, op. cit, p. 9 continui troppo spesso a condizionare l’approccio degli studiosi.17 Si esita a ricercare le differenze culturali nelle pratiche della quotidianità ordinaria che sono state invase dai flussi del consumo e dell’industria culturale, e che pure, come Daniel Miller non ha mai mancato di sottolineare, costituiscono il nucleo più vivo della nostra cultura.

“Fare la spesa, arredare la casa, conservare fotografie del passato, usare automobili e strumenti tecnologici, fare doni per i compleanni, ritrovarsi a cena in famiglia... tutto questo è pane per i denti degli antropologi, non solo il fatto che qua e là si canti a maggio, si facciano processioni in costume, si improvvisi in ottava rima.”18

Ritorniamo così al concetto, tanto caro a Miller, del blindingly obvious: un approccio come quello proposto da Dei – favorevolmente accolto e sviluppato da Meloni - porta l’antropologo a lavorare nel regno della familiarità quotidiana, con la peculiarità di rendere oggetto di analisi proprio quelle parti della nostra vita così costantemente esposte al nostro sguardo da diventare per noi quasi invisibili. Tutto ciò richiede lo sviluppo di tecniche particolari e di una specifica metodologia di indagine, che sia in grado – e mi riferisco qui in particolare all’ambito della cultura materiale domestica – di spogliare momentaneamente gli oggetti della loro modestia e collocarli in una posizione di primo piano, dalla quale possano godere della piena attenzione del ricercatore.

Fatte queste premesse, possiamo tornare al progetto di ricerca dell’Università di Pisa19 e dedicarci all’approfondimento di alcune specifiche linee di riflessione aperte dai materiali prodotti durante l’indagine etnografica. Nel paragrafo a seguire prenderemo in considerazione tre importanti pubblicazioni di Fabio Dei20 per dimostrare la validità di alcune categorie interpretative elaborate dall’autore in seguito alla documentazione sulla cultura materiale

17 “Pur avendo percorso fino in fondo le critiche al concetto di tradizione, restiamo ancorati a un certo tipo di oggetti, quelli che la disciplina nella sua fase positivistica aveva assunto come legittimi. Continuiamo dunque a tener dietro alle forme della cultura folklorica, con piena consapevolezza che esse si presentano oggi nel quadro di complessi processi di patrimonializzazione e di contesti sociali tutt’altro che subalterni: e restando tuttavia, come per un incantesimo, legati al loro destino.” F. Dei, op. cit., p. 19

18 F. Dei, op. cit., p. 19

19 Il cui obiettivo dichiarato (Dei, 2014) è proprio quello di “rovesciare l’atteggiamento prevalente della demologia e dell’antropologia del patrimonio italiana, che quando affronta la cultura materiale si concentra quasi esclusivamente su oggetti autentici e artigianali, legati a contesti preindustriali e prodotti da saperi tecnici tramandati oralmente.”

20 Cfr. F. Dei, “Oggetti domestici e stili familiari. Una ricerca sulla cultura materiale tra famiglie toscane di classe media” , in Etnografia e Ricerca qualitativa - 2/2009, Il Mulino, Bologna, 2009, pp. 279-293; F. Dei, “Il sacro domestico. Religione invisibile e cultura materiale”, in V. Lusini – P. Meloni (a cura di), LARES. Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici, 2014/3 - a. 80, numero monografico – Culture domestiche. Saggi interdisciplinari Leo S. Olschki Editore, Firenze, sett. – dic. 2014, pp. 523-540 e S. Bernardi - F. Dei, “Gruppo di famiglia in un interno: le fotografie nella cultura materiale domestica” , in Studi Culturali – 2/2011, Il Mulino, Bologna, 2011. Per ulteriori approfondimenti si vedano anche M. Aria, “Cultura domestica e strategie di distinzione: il significato degli oggetti ordinari in famiglie toscane di classe media” , in L’uomo. Società tradizione sviluppo, I (1-2), 2012, pp. 231-239 e F. Dei – L. Slavelli (a cura di), “Vita quotidiana e cultura materiale nell’Italia del dopoguerra”, in L. Guidi – M. R. Pellizzari (a cura di), Nuove frontiere per la storia di genere, vol. II, Salerno, Libreriauniversitaria.it, 2013, pp. 297-350 domestica delle famiglie toscane indagate. La ricerca ha tentato in particolare di studiare tre dimensioni degli oggetti: a) L’uso della cultura materiale come esposizione di capitale simbolico, ovvero gli oggetti domestici come materie prime in strategie di distinzione identitaria e culturale b) Le rappresentazioni della continuità/discontinuità genealogica e delle reti di alleanze all’interno dello spazio domestico, ovvero gli oggetti domestici come indicatori delle relazioni personali e familiari di lignaggio e alleanza c) Le case come “musei per ricordare”, ovvero gli oggetti domestici come archivi di memoria culturale

2.2 Simbolizzazione e sacralizzazione degli oggetti ordinari nel contesto domestico

“There is no such thing as not worshipping. Everybody worships. The only choice we get is what to worship.”21

2.2.1 Case ostensive e case utilitarie

Si è dunque detto come al centro dell’attenzione del gruppo di ricerca22 facente capo all’Università di Pisa fosse il concetto di “oggetti ordinari”. Nel primo resoconto23 di tale indagine – redatto a ricerca ancora in corso e quindi con disponibilità parziale di dati - Fabio Dei prende in considerazione un primo corpus documentario piuttosto compatto, riguardante sedici casi di abitazioni di insegnanti di scuola media inferiore e superiore nelle province di Lucca e Massa-Carrara, quasi esclusivamente donne e di età compresa tra i 50 e i 60 anni. L’autore precisa immediatamente che, a dispetto della comunanza professionale e dunque di livelli di istruzione presumibilmente analoghi, si è trattato di casi piuttosto eterogenei, dal momento che “il capitale culturale corrispondente alla professione si è combinato con gradi assai diversi di capitale economico, con diverse tipologie di famiglia e di abitazione, con diverse origini socioculturali e variegati rapporti con il consumo e gli oggetti ”24 Direttamente connessa a questo dato è la prima linea riflessiva offerta all’antropologo dai materiali raccolti e relativa alla distinzione tra due tipi di case, che l’autore chiama rispettivamente ostensive e utilitarie; ovvero, agli usi più o meno ostensivi che gli intervistati fanno dei loro spazi domestici.25

Il primo modello riguardaabitazioni piuttostolussuose,nellequali arredo eoggettisticasono disposti in maniera accuratamente controllata all’interno di una dimensione espositiva: tanto la scelta degli oggetti quanto la loro collocazione nello spazio domestico sono guidate da criteri estetici e nulla è lasciato al caso. Le padrone delle case definibili secondo questo modello caratterizzante sette dei sedici casi indagati – si trovano facilmente a loro agio durante il

21 David Foster Wallace, discorso ai laureandi del 2005 presso il Kenyon College, Ohio

22 Fabio Dei, Matteo Aria, Giovanni Luca Mancini, Linda Caffarelli, Silvia Bernardi, Micaela Moraldo, Cinzia Ciardiello.

23 Il riferimento è a F. Dei, Oggetti domestici e stili familiari, 2009

24 F. Dei, op. cit., p. 283

25 “Ci siamo trovati di fronte a differenze nell’organizzazione degli spazi domestici polarizzate verso due modelli nettamente diversi, più che disposte su un continuum di gradi intermedi.” F. Dei, op. cit., p. 284 videotour con i ricercatori, mostrando piacere e naturalezza nel raccontare le storie riguardanti origine e acquisizione di oggetti appartenenti a una domesticità che sembra chiedere di essere mostrata. Tutto ciò, precisa l’autore, non significa che tali abitazioni siano pensate in funzione dello sguardo degli altri; lo scopo è piuttosto la creazione di un’immagine di gusto nella quale le padrone di casa possano profondamente identificarsi. Assunto questo confermato dal fatto che nelle case di questo tipo non si notano stacchi netti tra le stanze “di rappresentanza” e quelle invece destinate a un uso più personale:

“Quello che si vuol mettere in scena è un gusto inteso come qualità personale, specchio autentico della personalità, che non tollera dunque una troppo netta distinzione tra pubblico e privato.”26

Gli ingredienti materiali riferibili a questa estetica sono mobili di antiquariato, quadri alle pareti, numerosi soprammobili caratterizzati da valore artistico o da rarità (oggetti antichi o provenienti da località “esotiche”, nel senso più vago del termine) e, soprattutto, l’esclusione assoluta del kitsch e della serialità Nel caso, per esempio, dei souvenir di viaggio, si tratta sempredioggettidiqualchepregio;deltuttoassentisonoiprodottidell’industriaturistica. Ogni oggetto è unico e i proprietari ne ricordano modi e circostanze di acquisizione, spesso connessi a momenti significativi della biografia familiare. All’interno di uno stile che abbiamo detto sostanzialmente uniforme in tutti gli ambienti della casa, l’unica ma notevole eccezione è rappresentata dalle camere dei figli27 , arredate in tono più “spartano” e caratterizzate dalla persistenza di elementi adolescenziali e persino infantili (aspetto questo piuttosto interessante e su cui torneremo più avanti). Un caso limite del modello ostensivo è rappresentato da quelle che l’autore definisce vere e proprie “case-museo”, nelle quali le funzionalità abitative sembrano passare in secondo piano rispetto all’esposizione di collezioni di pregio; lo spazio è organizzato intorno a scaffali aperti, vetrine, mensole e tavolini con teche di vetro che ospitano oggetti di ogni tipo, rappresentativi del senso che i proprietari danno alla loro vita. Osserviamo come la descrizione che Dei fornisce di questo modello di abitazione sembri adattarsi perfettamente alla metafora utilizzata da Miller per esprimere in senso più generale la sua idea del rapporto casa-proprietario:

“Quando una persona di una certa età ha abitato in una casa per un lungo periodo di tempo, diventa una sorta di curatore museale. Tutti noi curiamo un museo dedicato alla nostra vita, la nostra abitazione diventa una sorta di curriculum vitae riferito a noi” 28

L’altro modello presentato dall’autore è, come anticipato, quello della casa utilitaria, in cui “l’elemento ostensivo, pur non assente, passa in secondo piano a favore della funzionalità.”29 Negli appartamenti di questo tipo possono essere ugualmente presenti mobili antichi e oggetti di pregio, ma difficilmente sono disposti secondo un criterio ordinato: si presentano in modo sparso, mischiati a pezzi di arredamento più economici ed essenziali e ad oggetti di produzione seriale, fra i quali più facilmente si insinua un gusto decisamente kitsch. Tra gli esempi più efficaci ci sono letazze a formadi muccacollezionatedaChiara,insiemealleclassichesorprese

26 F. Dei, op. cit., p. 286

27 Nel corpus in esame, precisa l’autore, si tratta di giovani adulti tra i 25 e 30 anni, studenti universitari o già laureati che vivono insieme alla famiglia o alla madre separata

28 D. Miller, Interni domestici: off-line e on-line, conferenza inoccasione della sesta edizione di Pistoia – Dialoghi sull’uomo, 24 maggio 2014

29 F. Dei, op. cit., p. 286

(https://www.youtube.com/watch?v=igWGCk008co&t=275s) degli ovetti Kinder disposte sopra il forno a microonde. Dei precisa che anche in questi casi i padroni di casa esprimono un gusto, tuttavia, a differenza del modello precedente, “non sembra presente la volontà di controllare integralmente lo spazio e rendere l’appartamento espressione fedele di una personalità e di una competenza socio-culturale”30 Spesso la scelta di mobili e oggetti non impegnativi, come si deduce dalle dichiarazioni degli intervistati, è determinata dal fatto di non volersi sentire costretti a dedicare troppo tempo alla loro cura.

A questo punto dobbiamo chiederci quali siano le variabili all’origine di tali differenze riguardo la modalità di progettazione e fruizione del proprio spazio domestico. La prima variabile che si direbbe entrare in gioco è quella del capitale economico, con una disponibilità tendenzialmente superiore nei casi di abitazioni ostensive; al tempo stesso però va osservato che gli stessi progetti di ‘esposizione’ domestica sono condotti con mezzi diversi a seconda delle differenti disponibilità economiche e dunque tale variabile da sola non può dirsi determinante. Secondo lo studioso ciò che invece sembra essere decisivo è la distinzione tra il capitale culturale acquisito attraverso gli studi e quello ereditato: nel caso specifico delle padrone di casa protagoniste dell’indagine infatti,

“lo status acquisito attraverso gli studi e la professione parrebbe aver mutato in modo solo superficiale il piano dell’habitus. Il che conferma tutto quanto già sappiamo sul fatto che il ruolo di insegnante – soprattutto per le donne – è scarsamente determinante nella costruzione dell’identità sociale (anzi, resta in molti casi più conseguenza che causa di un certo posizionamento sociale).”31

Una prima conclusione cui giunge Dei, suggerita dai casi della ricerca, è dunque che “il capitale socioculturale ereditato si manifesta ancora in modo assai esclusivo soprattutto nel rapporto con la cultura materiale.”32 Prima di sviluppare questo assunto nelle numerose linee riflessive che offre in relazione ad altri materiali prodotti dall’indagine, vorrei accennare brevemente al secondo problema interpretativo formulato dall’antropologo riguardo il medesimo corpus documentario33 , ovvero la prevalenza di indicatori di rapporti di lignaggio piuttosto che di alleanza all’interno dello spazio domestico.

2.2.2 Gli oggetti domestici come marcatori di relazioni personali e familiari

In gergo disciplinare, i termini “lignaggio” e “alleanza” fanno riferimento rispettivamente a relazioni sociali e familiari di tipo verticale e di tipo orizzontale: con lignaggio intendiamo le relazioni di filiazione (progenitori, genitori, figli, nipoti, ecc.), con alleanza invece il matrimonio e le reti di amicizia (i legami cioè che il nucleo familiare stabilisce nel presente).

“Da un lato la famiglia si pensa come radicata nel passato, nella continuità (o discontinuità) di una discendenza e in rapporti di lignaggio; dall’altro, si pensa come inserita in una rete di relazioni orizzontali e sincroniche, che possiamo chiamare di alleanza.”34

30 F. Dei, op. cit., p. 287

31 F. Dei, op. cit., p. 288

32 Ibidem

33 Mi riferisco al gruppo ristretto delle sedici abitazioni di insegnati di Lucca e Massa-Carrara

34 Ibidem

I dati raccolti da Dei mettono in luce che le case possono segnalare la prevalenza dell’uno o dell’altro elemento: la cultura materiale domestica può cioè porre l’accento sul patrimonio ricevuto in eredità da genitori o progenitori e sui progetti di trasmissione ai discendenti o, al contrario, sulla fondazione del singolo nucleo familiare e sulla rete di alleanze che questo stabilisce nel presente. La presenza dei mobili ereditati dai nonni, per esempio, è significativa della centralità del lignaggio; l’esposizione sistematica dei doni di nozze o di quelli ricevuti da amici segnalerà al contrario la prevalenza di relazioni di alleanza. Sembra dunque corretto suppore che tale distinzione vada a identificare tipi diversi di famiglia. Le sedici abitazioni prese in esame dallo studioso sono abitate da famiglie formate da molto tempo35, proiettate verso i discendenti più che radicate in direzione degli antenati e nelle quali la fondazione del nucleo non è più al centro delle rappresentazioni. Ciononostante, sottolinea l’autore, vi sono notevoli eccezioni anche all’interno dei pochi materiali raccolti e un caso interessante è quello di Paola, proprietaria di un’abitazione estremamente rappresentativa della poetica ostensiva, con grande esposizione di capitale culturale; qui le origini familiari sono costantemente rimarcate:

“Il videotour è l’occasione per la ricostruzione di una storia familiare ampia e ramificata – con antenati di alto livello sociale, personaggi e luoghi di una certa importanza storica, rapporti con il mondo intellettuale. Gli oggetti che affollano la casa con una incredibile densità si sforzano di collegarsi a una simile storia nobile.”36

Quello che stiamo presentando è dunque un esempio di “casa-museo” in cui la cultura materiale segnala le relazioni di discendenza (lignaggio), facendosi custode di una particolare memoria patrimoniale: molti degli oggetti e dei mobili presenti nell’abitazione provengono infatti dalla villa dei nonni di Paola, vicino Lecco, in cui la donna ha trascorso gli anni dell’infanzia prima che suo padre decidesse di trasferirsi in Toscana con tutta la famiglia. Paola è molto orgogliosa della sua storia familiare e, di conseguenza, particolarmente attaccata a questo luogo di origine, tanto che la testata del suo letto nell’abitazione attuale – un appartamento nel centro storico di Lucca – è stata ottenuta dalla fusione del cancello in ferro battuto della villa di Lecco. In tal modo l’oggetto, pur risignificato affinché trasferibile nella nuova condizione di vita, mantiene il suo valore di custode della memoria familiare. Altrettanto evidente è la volontà di collocare figli e discendenti all’interno della stessa linea di continuità: il capitale culturale veicolato dagli spazi domestici edagli oggetti in essi contenuti èsaldamente radicato nel passato e proiettato verso il futuro.37 Il caso di Paola introduce diversi spunti di analisi, che saranno ora oggetto di approfondimento in relazione ad ulteriori materiali prodotti dall’indagine sul campo toscana e che includeranno nello specifico concetti quali quelli di “densificazione”e“memoriaculturale”deglioggettidomestici,indagatidaDeiall’internodella più generale riflessione intorno alla sacralizzazione degli oggetti quotidiani nel mondo contemporaneo. Ci introduce agevolmente all’argomento una specifica osservazione dell’autore riguardo al caso appena descritto:

35 Gli interlocutori appartengono a due generazioni: i nati prima della Seconda guerra mondiale e i nati tra fine anni ’40 e anni ’50

36 F. Dei, op. cit., p. 290

37 F. Dei, La sacralizzazione degli oggetti quotidiani nel mondo contemporaneo, conferenza presso la Fondazione Collegio San Carlo, febbraio 2019

(https://www.youtube.com/watch?v=EzmMMSzx1CU)

“I pezzi della casa storica della famiglia ricontestualizzati come elementi di arredo nella nuova abitazione, sono quanto di più simile abbiamo incontrato nella nostra ricerca agli oggetti ‘inalienabili’ noti alla letteratura antropologica: quelle cose preziose e talvolta sacre, sottratte alla circolazione sia di mercato che di dono, che incorporano l’identità della famiglia e la sua continuità nel tempo.”38

2.2.3 Il “sacro domestico” 39

a) Definizione del “sacro”

Laquestione che andremo apresentare in questo paragrafo è come (e se) gli oggetti materiali della nostra quotidianità possano essere investiti di significati definibili in qualche modo “sacri”. Per comprendere il senso di questo interrogativo è necessario gettare alcune premesse teoriche, che Dei delinea avvalendosi dei contributi di ricerche svolte sia nell’ambito della sociologia che dell’antropologia delle religioni, senza trascurare le fondamenta teoricometodologiche derivate dagli studi sul consumo più volte citati nel corso di questo elaborato. A tal proposito, colgo l’occasione per aprire una breve parentesi: risulta evidente che più ci addentriamo nella trattazione di indagini etnografiche che rivolgono la propria attenzione agli oggetti ordinari dell’universo domestico e privilegiano dunque, come detto, l’ambito del consumo a quello della produzione, più diventa difficile rimandare l’approfondimento degli studi fondativi in questo settore disciplinare. In altre parole, mi sembra corretto affermare che gli studi di cultura materiale così intesi, ovvero nella loro rinnovata veste, mal si adattino a essere trattati separatamente dagli studi sul consumo. Si intenda dunque questo paragrafo come funzionale – all’interno della struttura complessiva dell’elaborato – a gettare le basi per l’approfondimento tematico oggetto del prossimo capitolo.

“Le case che abbiamo visitato sono radicalmente secolarizzate (…) eppure, vi sono elementi per pensare che alcuni spazi e soprattutto alcune categorie di oggetti si carichino di significati particolari; significati che, pur non espressi in un lessico esplicitamente religioso, rimandano a usi che potremmo chiamare, in modo non solo metaforico, devozionali.”

Per cominciare, rimando a quanto detto in 1.3.2 sulla visione durkheimiana della religione per giustificare il concetto da cui intendo prendere le mosse, ovvero l’idea di religione come fondamento delle relazioni sociali. Ciò che ha caratterizzato – e caratterizza tuttora – l’analisi antropologica delle religioni nelle società tradizionali è lo sforzo di riconoscere nel lessico religioso la costruzione del legame sociale. Per quanto riguarda però la nostra società occidentale contemporanea abbiamo già avuto modo di osservare come questa agisca in uno stadio avanzato del processo di secolarizzazione, nel quale le istituzioni primarie, in primo luogo lo Stato, non sostengono più direttamente una visione religiosa del mondo40 e, di conseguenza, nessun cosmo sacro (Luckmann, 1969) precisamente definito e obbligatorio per tutti si impone più come interpretazione non eludibile delle esperienze di vita individuali e delle

38 Ibidem

39 Le citazioni letterali riportate in questo paragrafo rimandano tutte, se non diversamente indicato, a F. Dei, “Il sacro domestico. Religione invisibile e cultura materiale” . In V. Lusini – P. Meloni (a cura di), Lares – 2014/3, Leo S. Olschki Editore, Firenze, sett. – dic. 2014, pp. 523-540

40 Le conseguenze di tale assunto sono qui analizzate da Dei facendo riferimento allo studio di Thomas Luckmann sulla religione implicita che caratterizza le moderne società secolarizzate e consumistiche, cfr. T. Luckmann, La religione invisibile, Bologna, il Mulino, 1969 [1967] relazioni sociali; siamo noi, come consumatori autonomi (ibidem), che scegliamo alcuni “temi religiosi” all’interno di un ampio repertorio di disponibilità e li utilizziamo per costruirci un sistema privato (e precario) di significanza ultima. Per usare le parole di Luckmann, “nella tarda secolarizzazione la religiosità individuale non è più replica o approssimazione di un modello ufficiale.” Analogamenteaquanto abbiamogiàavuto mododiosservareparlandodelle “cosmologie domestiche” descritte da Miller, la scelta di questi temi religiosi non avviene nella sferapubblica,bensì in quellaprivata,nel contesto più ristrettodellerelazioni edelleesperienze familiari dell’individuo e i sistemi di significanza non giungono mai a essere teorizzati in rappresentazioni complesse e coerenti, ma restano piuttosto allo stadio di abbozzi.41 Tutto ciò è definito da Luckmann con il concetto di religione implicita, i cui temi hanno a che fare principalmente con la realizzazione personale e con le relazioni familiari. Proviamo a soffermarci per un momento sul primo di questi aspetti: la ricerca di un sé individuale e della sua realizzazione è un concetto creato sostanzialmente dal Romanticismo e divenuto poi di massa nella società fortemente individualizzata del ‘900. Ma quali sono le fonti di questo immaginario? Messaggi come “realizza le tue aspirazioni”, “trova la tua strada nella vita”, “insegui i tuoi sogni”, ecc., ci vengono trasmessi costantemente non da una dottrina veicolata dalle maggiori autorità religiose, bensì dai prodotti della cultura di massa che consumiamo tutti i giorni (film di Hollywood, spot televisivi, musica pop, libri, riviste… a cui possiamo certamente oggi aggiungere i principali social network)42 Questo impianto è, nell’opinione di Dei, piuttosto interessante, perché apre percorsi di ricerca empirica – fino a quel momento poco esplorati sul piano dell’indagine etnografica - su come il sacro possa disseminarsi tra gli oggetti e le pratiche profane del quotidiano, in particolare ricomprendendo in questa analisi la cultura materiale dell’universo domestico: la struttura della casa, gli oggetti contenuti al suo interno, le pratiche “rituali e cerimoniali” legate alla famiglia (feste di compleanno, feste natalizie, grandi ritrovi), le attività che rientrano nell’ambito del tempo libero come lo sport e il turismo… tutti ambiti questi nei quali passa la costruzione dei valori e delle identità che sono per noi più “sacri”.

Lo stesso problema - ovvero se negli oggetti ordinari della vita quotidiana si possa o meno nascondere una qualche forma di sacralità - può essere analizzato da un altro punto di vista: quello degli studi sulla circolazione e il consumo di tali oggetti.

“Andando oltre le classiche critiche sociologiche o politico-filosofiche al consumismo, gli orientamenti più recenti vedono nell’uso di beni di consumo serialmente prodotti una materia prima nella quale si oggettivano e si rendono visibili le categorie della cultura, le forme di ‘habitus’ o i gusti socialmente connotati, i sentimenti devozionali che alimentano e persino costituiscono i legami sociali ”

Abbiamo già avuto modo di accennare a questa prospettiva trattando del dibattito sui nuovi studi di cultura materiale; fare etnografia della cultura di massa significa studiare gli oggetti dal punto di vista del consumo e dei consumatori e analizzare le modalità con cui le persone “risignificano” gli oggetti che entrano nelle loro case. Dei ci invita a diffidare del luogo comune

41 “La maggior parte delle persone non sono mai chiamate a spiegare se stesse con questo grado di coerenza, neppure a se stesse” D. Miller, Cose che parlano di noi, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 194

42 “Per Luckmann le fonti di questi ‘temi’ (cioè della fenomenologia contemporanea del religioso) sono i prodotti del consumo di massa e la base strutturale di questa religione implicita e privata è la famiglia, che ‘rimane il principale catalizzatore degli universi privati di significanza’ e si conferma come microcosmo di significanza ultima per tutta la durata di una biografia.” secondo cui nel nostro sistema capitalistico contemporaneo tutto è merce: seguendo le argomentazioni di un importante saggio di Igor Kopytoff43infatti, l’autore intende mostrarci come anche gli oggetti siano dotati di una loro ‘carriera’, o per usare le parole dello stesso Kopytoff, di una biografia culturale. La maggior parte degli oggetti presenti nelle nostre case sono stati probabilmente acquistati un giorno come merci, prodotti in serie e uguali a tanti altri; ma, una volta varcata la soglia, hanno subito un cambiamento. Si sono singolarizzati, diventando qualcosadi unico,che acquista significati particolariin relazioneall’ambientee agli usi ai quali lo sottoponiamo; in relazione a noi. Significati che dunque non sono indagabili nel processo produttivo o nelle dinamiche del sistema capitalistico, bensì investono l’oggetto in questione a posteriori e vanno quindi studiati mediante un approccio differente Non solo. “In ogni società, afferma Kopytoff, vi sono cose cui viene impedito di diventare merce.”: può trattarsi di cose caratterizzate da un “basso” status (non abbastanza importanti per essere vendute o scambiate) o, al contrario, di cose dallo status sociale molto alto. L’esempio più classico di questa seconda categoria in una società tradizionale è quello dei gioielli kula studiati da Malinowsky nell’arcipelago delle Trobriand, dove la non permeabilità tra il circuito dei kula e le sfere di scambio degli altri beni, per esempio quelli di sussistenza, ci segnala l’impossibilità dell’oggetto prezioso di “entrare sul mercato”, di diventare merce. In casi come questi,

“la singolarizzazione corrisponde spesso a una qualche forma di sacralizzazione. Gli oggetti in questione sono collocati in una sfera di valore morale, oltre che economico, superiore a quella dei più comuni beni della sussistenza e delle pratiche quotidiane. A tale gerarchizzazione morale corrispondono di solito modalità di trattamento rituale e di ‘dogma’ (ad esempio miti o racconti sull’origine o sulla acquisizione)”

Accostandoquesta analisi aquelladi AnnetteWeinersugli oggetti inalienabili44,Dei osserva che tale caratteristica di non permeabilità delle diverse sfere di valore riguarda anche oggetti che non solo non possono essere venduti, ma nemmeno possono essere donati.45 Beni, cioè, del tuttosottrattiallacircolazione,trattenutiall’internodiundeterminatogrupposocialeofamiliare in quanto rappresentativi della sua identità più profonda, custoditi da persone particolari e connessi a racconti mitici e obblighi rituali: “dunque con tutte le caratteristiche del sacro”. Se è vero che nelle società moderne e contemporanee, in relazione al processo di secolarizzazione, oggetti di questo genere tendenzialmente non ci sono più46, resta però per alcuni beni una particolare densità: il concetto è utilizzato da Weiner per esprimere una certa resistenza di tali oggetti alla piena circolazione, un fare attrito rispetto alle forze del mercato.

43 Cfr. I. Kopytoff, La biografia culturale degli oggetti: la mercificazione come processo, in E. Mora (a cura di), Gli attrezzi per vivere. Forme della produzione culturale tra industria e vita quotidiana, Vita e Pensiero, Milano, 2005 [1986], pp. 77-111

44 Cfr. A.B. Weiner, La differenza culturale e la densità degli oggetti, in S. Bernardi

F. Dei

P. Meloni (a cura di), La materia del quotidiano. Per un’antropologia degli oggetti ordinari, Pacini Editore, Ospedaletto (Pisa), 2011, pp. 43-57

45 “Il modello tradizionale della reciprocità ignora fattori fondamentali per comprendere le dinamiche di quegli oggetti che, grazie alla loro capacità di resistere allo scambio, sembrano rimanere al di fuori della logica del dare, ricevere e ricambiare. Voglio perciò riflettere sul modo in cui si possono attribuire agli oggetti dei valori che resistono alla reciprocità.” A. B. Weiner, op. cit., p. 46

46 “A livello globale sta diventando sempre più difficile resistere allo scambio, e il ruolo dei possessi inalienabili resta parziale e limitato.” A. B. Weiner, op. cit., p. 47

“Qualcosa di diverso dalla radicale inalienabilità, senza tutti gli attributi della sacralità, ma che indica nondimeno la presenza di forze di attrito morale che segmentano l’apparente uniformità del mercato.”47

La domanda che dobbiamo porci è cosa determini questo particolare status. Qual è la differenza tra i beni inalienabili delle società tradizionali e gli oggetti densi che nella modernità si sottraggono allo scambio? Le conclusioni di Weiner sono analoghe a quelle cui perviene Kopytoff: mentre nelle società tradizionali i beni sottratti allo scambio sono dotati di un prestigio riconosciuto da tutti e quindi “sono incastonati all’interno del sistema di scambio stesso”, in quelle moderne manca tale riconoscimento universale e la giustificazione della densità di questi oggetti “deve essere importata dal di fuori del sistema di scambio” , dagli ambiti autonomi e ristretti dei sistemi di riferimento locali, particolaristici, molto spesso familiari. Seguendoil ragionamentodi Dei, quest’affermazioneci riportaallaprospettivaaperta da Luckmann riguardo la diffusione di una religione implicita nella moderna società secolarizzata. I processi di densificazione così delineati infatti,

“sembrano coincidere con quelli descritti dal sociologo nella costituzione di un sacro diffuso e implicito nella quotidianità individuale, familiare e domestica: rappresentazioni e pratiche che pongono l’esperienza individuale in rapporto con ‘valori ultimi’, in assenza di un cosmo sacro vincolante e di istituzioni primarie di controllo. Le sfere autonome di valore, nelle quali gli oggetti si densificano in riferimento a valori estetici e morali, sembrano proprio i momenti di produzione di questo tipo di sacro.”

Ciò che Fabio Dei si propone con la ricerca in oggetto, è cercare di comprendere come i temi di questo sacro privato – generati e validi solo all’interno di un dominio specifico, come quello della famiglia – organizzino e strutturino l’ambiente materiale quotidiano, guidando la classificazione, l’ordinamento e l’esposizione degli oggetti. Nella prossima sezione passeremo dunque in rassegna alcune tipologie di oggetti domestici che, secondo l’autore, sono interpretabili nei termini di una sacralità implicita e diffusa,cercando di evidenziarel’emergere in questo contesto delle tre dimensioni di studio degli oggetti privilegiate dall’indagine etnografica toscana48 , in particolare l’uso della cultura materiale in strategie di distinzione identitaria, nella costruzione di rappresentazioni delle relazioni familiari e come archivio di memoria culturale.

Si è detto come nella prospettiva di Luckmann la famiglia rappresenti uno dei temi portanti della religione implicita, accanto alla realizzazione personale. Questa affermazione parrebbe contrastare con ciò che sappiamo sulla condizione della famiglia nell’odierna società occidentale:un’istituzionesemprepiù fragile, “basata su legami più affettivi e meno strutturali, pronta a rompersi e ricostituirsi seguendo gli stessi imperativi della realizzazione personale”; Dei ci invita però a riflettere sul fatto che tale indebolimento dell’istituzione familiare non si pone in contrasto con la centralità assoluta delle relazioni familiari nella strutturazione

47 Scrive Weiner: “Come costruzioni culturali, alcuni beni diventano simbolicamente densi – così densi di significati e di valori che diventa difficile separarli dai loro proprietari. (…) Così gli oggetti particolarmente densi circolano molto più lentamente di quelli meno densi che, al contrario, possono essere tranquillamente scambiati, venduti o commercializzati.” op. cit., p. 46

48 Si veda 2.1 individuale di un cosmo sacro privato. Al contrario, la continuità delle forme familiari, nella sua costante precarietà, necessita di essere segnalata con maggiore enfasi e regolarità:

“(…) i significati ultimi legati alle relazioni familiari, proprio perché non scontati, vanno costantemente alimentati attraverso pratiche rituali e simboliche. Naturalmente, in questa prospettiva l’universo materiale domestico assume grande rilievo.”

A quali categorie di oggetti domestici possiamo attribuire la capacità di costituire parte “attiva” in relazione a questo specifico tema secolarizzato di significanza ultima? L’indagine dell’autore prende in considerazione due macro-insiemi: gli oggetti d’affezione e gli archivi memoriali. Abbiamo avuto già modo di introdurre qualche accenno a queste categorie parlando delle riflessioni di Dei intorno al primo corpus di dati raccolti durante l’indagine etnografica toscana, ma vengono qui riproposte nel contesto di una successiva e più coerente elaborazione teorica. Con oggetti d’affezione intendiamo quegli oggetti che per le loro vicende “storiche” –ovvero l’essere legati a particolari momenti della biografia individuale o familiare – o per il loro legame con persone lontane o scomparse, rivestono una particolare importanza per la persona o per il gruppo familiare nel suo complesso, e ciò ne determina la collocazione in un regime di valore particolare, diverso da quello d’uso e da quello di scambio. Oggetti, per usare il termine più appropriato, dotati di una particolare densità: la definizione di questa categoria ci riporta a quanto detto pocanzi sulle affinità di alcuni oggetti con i beni inalienabili delle società tradizionali. Tra le classi di oggetti qui menzionate da Dei incontriamo le reliquie familiari, che nel senso più stretto identificano parti del corpo di persone in vita o defunte, come i denti da latte dei bambini o una ciocca di capelli dal loro primo taglio. Ciò che però è emerso con maggiore frequenza nella ricerca toscana sono reliquie costituite non da parti del corpo bensì da oggetti che con i corpi sono stati in stretto contatto, come l’orologio d’oro appartenuto al padre di Angela, che la donna tiene sul comodino della camera da letto e ricarica ogni sera:

“E’ un esempio pregnante di inalienabilità legata alla costruzione di una relazione di discendenza, sia pure espressa in termini di affettività più che di lignaggio, rafforzata da un rituale quotidiano che sembra assumere lo stesso valore di una preghiera.”

Un genere particolare di oggetti d’affezione è quello rappresentato dai gioielli di famiglia, beni cioè dotati di un certo valore economico ma comunque – salvo casi gravi di indigenza o di disgregazionedellacontinuitàfamiliare –sottratti ai comuni meccanismi di scambio.Il modello più diffuso di trasmissione di questi oggetti è da madre a figlia, o da madre a nuora, dunque per via femminile. La medesima modalità di trasmissione è stata messa in evidenza da Miller per quanto riguarda i vestiti (si ricordi il caso di Elia), che, secondo l’autore, si configurano come un dispositivo particolarmente adatto – in relazione soprattutto alle loro caratteristiche materiche, strutturali – a rivestire un ruolo importantissimo nei processi di elaborazione del lutto:

“Il vestito non è eterno, cambia, si logora e può assumere qualcosa della corporeità di chi lo porta. Ha forme delicate che inducono questa assimilazione graduale di una persona con un’altra. Al contrario, i gioielli restano immutabili, hanno una relazione più astratta con la persona e il suo corpo, non sembrano essere capaci di produrre lo stesso senso di incorporazione graduale.”49

Lamodalitàpermezzodellaqualeglioggetticoncretioperanonelsuperamentodellaperdita, precisa Miller, è quella del “disinvestimento”: il fatto che una persona cara ci venga sottratta è una cosa totalmente esterna al nostro controllo, ma ciò che invece possiamo controllare sono i modi e i tempi con cui separarci - o non separarci - dagli oggetti associati col defunto. Questa sostituzione materiale ci consente cioè di stabilire che il processo di elaborazione duri un determinato tempo e si svolga secondo modalità tali da farci sentire più capaci di fare i conti con lamortestessa.50 Ritornandoalleriflessioni di Dei, quanto dettofinqui ci hamostrato come nell’indagine toscana sia emersa, in relazione agli oggetti d’affezione, soprattutto la funzione di marcatori di relazioni personali; ma, come già anticipato, la stessa categoria interpretativa può essere applicata alla sfera della realizzazione del sé, prendendo in considerazione nello specifico oggetti legati a momenti importanti delle biografie individuali. Un esempio a mio parere leggibile in tal senso – ed emblematico del rapporto complesso che stiamo cercando di delineare tra l’inautenticità, la “mancanza di valore” di alcuni oggetti e i significati di cui questi possono essere investiti – è quello portato dall’autore a proposito di due piccoli pupazzetti di plastica trovati da una giovane coppia come gadget in un gelato, che gli attori chiamano scheletrino e paperella I due ragazzi raccontano di aver preso quel gelato una sera dopo aver avuto un pericoloso incidente stradale in cui sarebbero potuti morire; da allora i pupazzetti stanno sempre sul citofono di casa, seguendo i proprietari - che non mancano di ironizzare sul fatto che uno dei due giochini sia uno scheletro - nei loro numerosi traslochi. Cosa possiamo leggere in questa bizzarra coppia di oggetti apparentemente del tutto privi di valore?

“C’è un mito di fondazione connesso a una storia di vita e di morte, una funzione di continuità della coppia nelle diverse case abitate e un palese ruolo di ‘guardiani della soglia’. Ma è come se questo ruolo di Lari o spiriti protettori possa esser riconosciuto solo nel registro dell’ironia.”

La vicenda riportata va a supportare un’ulteriore considerazione dell’autore: sembra che in molti casi la condizione di applicazione del modello del “sacro implicito” sia “la sua declinazione in un registro ironico e scherzoso”; c’è evidentemente del “sacro” in questo esempio, un sacro però non articolato dai proprietari fino in fondo, ma che struttura i loro spazi in un modo che sarebbe difficile descrivere senza utilizzare il concetto di religioso implicito.

Nell’ambito della conservazione di ciò che può documentare la nostra biografia o le nostre relazioni familiari ci sono alcuni oggetti che –“senza necessariamente possedere la carica affettiva e lo status singolare e rappresentativo degli oggetti d’affezione” – svolgono, meglio e più frequentemente di altri, il ruolo di archivi memoriali. In altre parole, se è evidente che la maggior parte degli oggetti d’affezione hanno in qualche modo a che fare con la memoria, ciò che vuole mettere in luce l’autore è che questa “necessità di ricordare” ha guadagnato, nelle moderne case secolarizzate, uno spazio estremamente privilegiato,51 al punto che in tutte le abitazioni sono presenti determinate categorie di oggetti pensate unicamente a questo scopo.

50 D. Miller, “Interni domestici: off-line e on-line”, conferenza in occasione della sesta edizione di PistoiaDialoghi sull’uomo, 24 maggio 2015

51 Per la distinzione tra memoria comunicativa (o genealogica) e memoria culturale e i processi che hanno portato quest’ultima a trasferirsi dalla sfera pubblica a quella privata – in gran parte motivabili con la già citata precarietà della famiglia contemporanea, non più garantita nella sua continuità storica - rimando a S. Bernardi e F. Dei, op. cit., pp. 6-7 e F. Dei, “Dacci oggi i nostri lari quotidiani” In LARES -3/2007, pp. 659-661

Oggetti quali fotografie, documenti, souvenir di viaggio, collezioni, giochi d’infanzia, ecc., possono essere – in accordo con poetiche più o meno ostensive – conservati in armadi, cassetti o soffitte, oppure mostrati sulle superfici utili della casa. Spesso, soprattutto nel caso delle foto incorniciate, la quantità di spazio dedicata all’ostensione è molto ampia e la casa si configura come “museo per ricordare”: un deposito di oggetti che rimandano al passato. E’ il caso del già citato esempio di Paola, la cui poetica ostensiva comprendeva diverse sfere di simbolizzazione degli oggetti, che si configuravano tanto come marcatori di un determinato stile estetico-sociale strumenti per l’affermazione di un certo gusto - quanto come depositari della memoria patrimoniale della famiglia e ciò avveniva tramite l’azione combinata di oggetti d’affezione (mobili e ricordi provenienti dalla casa d’infanzia) e archivi memoriali (album fotografici ed esposizione di fotografie in bianco e nero riguardanti la storia nobile della famiglia).

Conservare oggetti che hanno a che fare con la storia della famiglia e che immaginiamo di trasmettere a figli e nipoti è dunque – oggi più di prima – un elemento importantissimo per costruire la nostra idea di famiglia e garantirne la continuità nel tempo. Questo porta, accanto a una particolare densificazione di alcuni oggetti ordinari di cui si è ampiamente detto, alla costruzione di archivi memoriali e familiari. Soffermiamoci brevemente sul mezzo più diffuso e storicamente radicato di conservazione della memoria domestica: le fotografie. 52

Iniziamo con l’osservare che malgrado la digitalizzazione delle immagini, le foto mostrate su supporto materiale hanno ancora nelle case un’importanza fondamentale. Le due principali modalità di uso delle foto sono la conservazione in album e l’esposizione su pareti o in cornici disposte sui piani orizzontali della casa - mobili, mensole o pianoforti. In questa seconda modalità l’autore individua l’emergere di una distinzione piuttosto netta tra un’estetica borghese e una popolare: nelle abitazioni degli interlocutori appartenenti a classi medio-alte con alto capitale culturale il modello più frequente è quello degli “altarini” – così definiti in tono ironico dagli stessi interlocutori, “percependo, tramite il solito registro scherzoso, la caratteristica di omaggio agli antenati e di rappresentazione della continuità di lignaggio” –in cui le fotografie, sistemate in cornici di qualche pregio e disposte in maniera ordinata su mobili spesso antichi o comunque di un certo valore, hanno a che fare con la storia della famiglia (ritratti di antenati) e con i riti di passaggio a questa connessi (battesimi, lauree, matrimoni, etc.). Differenti modelli espositivi si incontrano negli appartamenti di classi mediobasse con basso capitale culturale, dove le fotografie sono più spesso appese sulle pareti e talvolta semplicemente appiccicate a mobili o frigoriferi, oppure infilate nelle cornici dei quadri. Le modalità di utilizzo dell’album sembrano invece più democratiche. Che sia nella sua forma classica (con le fotografie incollate o appuntate) o in quella che va recentemente prendendo piede dell’album stampato, questo oggetto si configura, per usare le parole di Dei, come una macchina performativa della memoria. Estratto periodicamente in ambito familiare o con parenti occasionalmente in visita, si sfoglia accompagnando la visione delle foto a uno storytelling. Spesso diventa lo strumento privilegiato per insegnare ai bambini a ricordare, riferendo “cosa bisogna dire guardando una determinata foto, dunque come produrre un ricordo culturalmente plasmato”. Analogamente alle fotografie esposte negli “altarini”, gli album fotografici si focalizzano su esperienze e riti di passaggio “tradizionali” - battesimo, prima comunione e cresima, matrimonio e luna di miele - ma anche “secolarizzati”, come la laurea, le vittorie sportive, i viaggi, e, importantissime, le esperienze dei bambini (il bambino che fa sport, il bambino che gioca al mare, le feste di compleanno, il Natale, la gita a Gardaland, ecc.) che mirano alla rappresentazione di un’infanzia felice attraverso la scelta di momenti canonici53; ancora una volta, alla narrazione dei legami e della discendenza familiare si accompagnano le rappresentazioni “dei riti più profani della realizzazione individuale, legati a un’idea stereotipata di divertimento e felicità (…). La scelta degli scatti in queste raccolte rispecchia piuttosto bene i ‘temi ultimi’ di significanza di una diffusa religione invisibile.”

52 Cfr. S. Bernardi - F. Dei, op. cit. Per un altro interessante studio dedicato alle immagini fotografiche nel contesto domestico si veda S. Giorgi, “Esposizioni fotografiche in famiglia: cronistorie visive e spazi domestici”. In L. Guidi – M. R. Pelizzari (a cura di), Nuove frontiere per la Storia di genere, vol. II, libreriauniversitaria.it, 2012, pp. 333-340, il cui obiettivo è quello di indagare le esposizioni fotografiche presenti nelle case di otto famiglie romane e tre famiglie marocchine di Rabat, protagoniste delle due ricerche (2003/08 e 2005/08) su cui lo studio si fonda; qui la diversa fase del ciclo di vita attraversata dalle famiglie coinvolte – si tratta di nuclei familiari più ‘giovani’ rispetto a quelli indagati da S. Bernardi e F. Dei – determina il delinearsi di uno scenario in parte divergente da quello emerso in seguito all’etnografia toscana.

L’aver fatto cenno alla presenza massiccia dei bambini all’interno delle diverse forme di archivi fotografici ci offre l’occasione per approfondire alcune riflessioni di Dei intorno al tema della sacralizzazione dell’infanzia – e della cultura popolare a essa riferibile – negli ultimi decenni:

“La più recente tappa del processo di disincanto54 è quella che proietta i sentimenti di sacralità all’interno della famiglia sui bambini. Non è più l’amore della coppia, come per tutto l’Ottocento, a fondare la famiglia; non più la rispettiva idealizzazione dei partner, i quali sono semmai impegnati a conquistare autonomia, a capire se nel matrimonio ‘si sentono veramente realizzati’ e dunque a progettare separazioni in nome del rispetto delle proprie emozioni. È invece l’amore per i bambini, quelli sì idealizzati e posti al centro dell’organizzazione della vita familiare, dei progetti per il futuro, delle scelte di vacanze e tempo libero.”55

Ciò che l’autore intende suggerire è che la maggior parte delle famiglie contemporanee si costituisce attorno alla presenza dell’infanzia e alla devozione verso i suoi simboli materiali: i bambini sono l’elemento da cui si irradia il senso della vita familiare, di cui strutturano spazi (si pensi all’invadenzanellecasedei giochidei bambini, dei lorodisegni appesi allepareti,ecc.) e tempi (chi ha figli sa quanto dovrebbe esser lunga questa parentesi). Si tratta di un modello culturale del tutto nuovo, ben diverso da quello imperante negli anni ’50 o ’60; la diffusione di questo ulteriore “tema religioso” ha – oltre alle già citate conseguenze sul piano della vita familiare e della cultura materiale domestica - un’ulteriore interessante implicazione, che emerge chiaramente nell’analisi dell’ultima modalità di esposizione fotografica di cui tratteremo56: lebachechedei giovani. Abbiamo giàdetto57 di comel’unicaeccezioneall’interno di abitazioni ostensive caratterizzate da uno stile sostanzialmente uniforme in tutti gli ambienti fossero le camere dei figli, giovani adulti fra i venticinque e i trent’anni che vivono ancora in famiglia o conservano comunque la disponibilità di una camera nella casa dei genitori:

53 “Gli album si presentano come raccolte organizzate che seguono spesso narrazioni familiari standardizzate”

F. Dei, op. cit., p. 536

54 Si consideri qui l’espressione come l’equivalente di “tarda secolarizzazione”

55 F. Dei, “Dacci oggi i nostri lari quotidiani” In LARES -3/2007, p. 660

56 Per il discorso intorno alle cosiddette “valigie dei segreti”, su cui scelgo di non soffermarmi per motivi di spazio, rimando a S. Bernardi – F. Dei, op. cit., pp. 10-13

57 Si veda 2.2.1 l’arredamento e gli oggetti contenuti in queste stanze si configurano infatti come espressioni tipiche del culto dell’infanzia teorizzato dall’autore. Pupazzi di peluche, collezioni di oggetti spiritosi, gadget del mondo disneyano, souvenirs dai parchi a tema, simboli di passioni sportive o musicali… e fotografie della loro infanzia e adolescenza, fissate in modo informale e “stabilmente provvisorio” su una o più bacheche appese alle pareti:

“Le bacheche sono composizioni facilmente variabili che ripercorrono traiettorie biografiche, partendo dalle foto della primissima infanzia per passare a quelle della scuola, dello sport, delle vacanze al mare, delle feste di compleanno o delle immancabili gite ai parchi a tema, al fidanzamento e così via – unendo alle immagini anche altri documenti come cartoline d’auguri, biglietti di viaggi o di concerti, diplomi e attestati. Sintesi di percorsi biografici e individuanti (la scoperta di sé), che concedono molto all’immagine archetipica del ‘bambino’ iscritta nello stile familiare”

Questo genere di esposizioni, dunque, dietro all’iniziale apparenza di caoticità, rivela un principio organizzatore di tipo biografico che intende segnalare una sorta di continuità identitaria58 e, soprattutto, consente di osservare da una diversa prospettiva il problema della prolungata dipendenza dei giovani adulti dalla famiglia. I ragazzi in questione, accogliendo l’immagine di sé costruita dai genitori e “accettando di adeguarsi attraverso la cultura materiale al ruolo che la ‘casa’ ha stabilito per loro”59 , denunciano inconsapevolmente il peso del ruolo che gioca nelle famiglie di oggi la figura del figlio come eterno bambino, “centro irradiatore di senso per l’intera casa”. Se la devozione verso l’infanzia e i suoi simboli costruisce la famiglia contemporanea, la responsabilità che grava sui figli una volta adulti deve essere notevole: “la ‘casa’ ha bisogno di una certa loro qualità infantile. La sua cultura materiale ne è plasmata, così come lo sono le personalità dei ragazzi.”60

Il discorso intorno alle fotografie e alle loro modalità di dislocazione ed esposizione in abitazioni del tutto secolarizzate ci ha consentito di riempire un’altra casella della griglia interpretativa messa a punto da Fabio Dei nel tentativo di far emergere una dimensione di “religione implicita” all’interno dell’universo materiale domestico contemporaneo. Nelle classi di oggetti prese in esamegli aspetti personali ed affettivi del ricordo si articolano con particolari categorie culturali, riguardanti la continuità (o discontinuità) del lignaggio, i rapporti tra le generazioni, le reti di alleanze della famiglia e le dinamiche di distinzione identitaria e sociale, inserendo oggetti ordinari e spesso privi di valore in processi di densificazione di lunga durata che ne determinano la trasformazione in quelli che l’autore chiama i sacra domestici.

“La ‘sacralità’ risiede in qualche misura in tutti quegli oggetti che non si buttano né si osa riporre in cantina anche se non hanno valore e non servono più. Magari sentiremmo un indefinito disagio a buttarli o a dovercene separare. È forse eccessivo definire questo imbarazzo come un sentimento religioso, ma certo in questo indefinito disagio sta lo spazio che la comprensione antropologica è chiamata a penetrare.”

58 “Il che rovescia completamente le più diffuse idee sull’identità giovanile, che in passate generazioni si costruiva sottolineando invece la discontinuità rispetto all’infanzia e al modello immaginato dai genitori”

Bernardi – F. Dei, op. cit., p. 14

59 Ibidem

60 Ibidem

S.

2.3 Conclusioni e nuove premesse

Il rapido focus su alcuni esiti dell’indagine toscana sviluppato in questo capitolo ci ha mostrato che gli oggetti popolano le case delle famiglie tanto quanto le persone, secondo modalità che non torno a ripetere; quanto detto fin qui dovrebbe essere più che sufficiente a riconfermare i limiti dei classici approcci teorici che riducono i significati degli oggetti ordinari al loro status di merce: abbiamo visto come nella “banalità” della materia domestica quotidiana operino modelli culturali profondi che cercano, al contrario, di ‘addomesticare’ l’imperialismo delle merci mediante una costante operazione di risignificazione degli oggetti che penetrano nelle nostre case. 61 Come abbiamo avuto modo di verificare, ciò che in particolare accomuna i materiali raccolti durante l’etnografia toscana è che il significato degli oggetti viene costruito a ridosso non tanto dei percorsi biografici individuali (ad eccezione – ma è vero solo in parte –delle stanze dei figli), quanto delle relazioni familiari:

“I commenti espressi nei videotour sull’organizzazione degli spazi e sulla presenza/assenza degli oggetti domestici, in fondo, sono sempre osservazioni sulla storia della famiglia e sullo stato attuale dei suoi rapporti.”62

Questa osservazione ci riporta a Miller e alle sue conclusioni riguardo la centralità della cultura materiale nella costruzione delle relazioni sociali, dandoci inoltre l’occasione di introdurre la sua visione del consumo – indagato in Teoria dello Shopping nella forma della spesa quotidiana – come espressione di sentimenti di “devozione” verso i membri della famiglia, nutrimento e sostegno dell’istituzione familiare stessa, 63 cui avremo modo di accennare tra poco nell’ambito di un rapido excursus dedicato agli studi “classici” sul consumo, funzionale a definire una coerente cornice teorica entro cui collocare le più recenti riflessioni di Pietro Meloni (antropologo del consumo) e Roberta Sassatelli (sociologa del consumo).

Alla base di quest’ultimo capitolo vi sarà dunque la scelta di uno sguardo interdisciplinare, che, pur privilegiando ancora quello antropologico, non escluderà contributi dalla sociologia e dalla psicologia architettonica, nel tentativo di fornire un quadro più completo dei possibili percorsi di indagine all’interno della dimensione quotidiana dello spazio domestico, abbracciando la prospettiva - messa ben in evidenza da Pietro Meloni nell’introdurre la selezione degli studi sulla casa e sulle culture domestiche pubblicata in Lares 3/2014 – secondo cui la sfera del consumo si configura oggi come “il campo di ricerca attraverso il quale ci è possibile leggere, in una cornice interpretativa di ampio respiro, gli studi sulla casa provenienti da differenti discipline.”64

61 “La forza di densificazione o sacralizzazione che opera nella gestione della cultura materiale domestica poggia su una materia prima acquisita sul mercato, certo, ma lavora in una direzione opposta a quella dell’imperialismo: feticizzando gli oggetti, li allontana dal loro status di merce e li colloca in un universo ordinato di significati, ponendoli in rapporto con gli elementi basilari della nostra vita sociale.” F. Dei, op. cit., p. 539

62 F. Dei, Oggetti domestici e stili familiari, p. 283

63 Cfr. D. Miller, Teoria dello shopping, Editori Riuniti, Roma, 1998

64 P. Meloni, “L’uso (o il consumo) dello spazio domestico” In Lares 3/2014, p. 419

Capitolo 3

“Infissa nel semplice ricordo, sublimata in una distanza temporale che può assumere il dolciastro sapore del sogno, l’abitazione si fa parametro dell’esistenza, termine di paragone su cui misurare le trasformazioni, le crescite e i decadimenti. (…) Quanto più a lungo è abitata, tanto più l’abitazione si allontana dalle sue origini architettoniche, dalle iniziali intenzioni progettuali, per aderire invece, più o meno strettamente, alla figura dei suoi abitanti.”1

1 M. Vitta, Dell’abitare. Corpi spazi oggetti immagini, Einaudi, Milano, 2008, pp. 306-307

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