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Henri Lefebvre: la città come opera
1. CENNI BIOGRAFICI
Tra le non numerosissime notazioni biografiche disponibili su Henri Lefebvre, le più originali si trovano senza dubbio negli scritti di Andy Merrifield [2002a, 71; 2000, 168]: è incredibile pensare che Henri Lefebvre di fatto apparteneva alla stessa generazione di Walter Benjamin. Nonostante fosse solo nove anni più giovane di lui, visse cinquant’anni più a lungo. Benjamin era esitante, malinconico e tedesco; Lefebvre era fiducioso, esuberante e francese. Il marxismo di Benjamin era introverso, tragico, messianico ed ebraico; quello di Lefebvre era estroverso, giocoso e cattolico. [Lefebvre] ha vissuto attraverso due guerre mondiali, è stato compagno di bevute con i surrealisti, si è unito, ha lasciato e si è unito nuovamente al Partito comunista francese, ha combattuto per il movimento di resistenza nei primi anni ’40, ha insegnato sociologia e filosofia presso numerose università francesi, è stato uno dei padrini intellettuali della generazione 1968. Nel frattempo, ha introdotto in Francia le teorie marxiste ed è stato uno scrittore prolifico sui temi dell’urbanistica, della vita quotidiana e dello spazio. Durante tutto il Novecento […] Henri Lefebvre è stato uno dei testimoni più attenti.
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Sono probabilmente queste le motivazioni per le quali Rémi Hess [1988, 14], il biografo di Henri Lefebvre [ma cfr. anche Deulceux e Hess 2009], sostiene che scrivere su questo autore sia un’attività particolarmente difficile. Il viaggio intellettuale di Lefebvre – a partire dalla sua infanzia nel sudest rurale della Francia, profondamente permeata da un’educazione cattolica [sul punto cfr. Merrifeld 2002, 72-73], sino a diventare uno dei principali intellettuali parigini, o, come si definiva lui stesso: «l’ultimo marxista francese» [cit. ibidem, 72] – è caratterizzato da numerosi colpi di scena e da svolte clamorose. La sua vita si estende lungo un arco di settant’anni vissuti molto intensamente, durante i quali egli si è applicato su un ampio ventaglio di oggetti di studio che spaziano dalla critica della vita quotidiana all’analisi politica dello stato, dal materialismo dialettico alla ricerca delle profonde implicazioni spaziali che – secondo Lefebvre stesso – Marx aveva trascurato nella propria teoria. Coerentemente con una vita così intensa, l’opera di Lefbvre è altrettanto vasta ed eterogenea e consta di una settantina di libri (la metà dei quali scritti dopo l’età di sessantacinque anni) e più di trecento articoli e saggi.
Questo capitolo è di Guido Borelli.
Henri Lefebvre nasce il 16 giugno 1901 ad Hagetmau, un piccolo villaggio nella regione delle Landes, in Aquitania. Nel 1920 diviene membro del gruppo surrealista fondato da André Breton e comprendente il poeta e scrittore Louis Argon. In quel contesto entra in contatto con Tristan Tzara, fondatore del movimento dadaista. Nel 1928 aderisce al Partito comunista francese (PCF) e nel 1939 pubblica il suo primo lavoro sul pensiero marxista, Le matérialisme dialectique, che diviene per anni un libro di testo nelle scuole di partito francesi. Negli anni ’30 fa parte di un gruppo di filosofi composto da Pierre Morhange, Norbert Guterman, Georges Politzer e Georges Friedmann con i quali pubblica per alcuni anni la rivista «Philosophies». Negli stessi anni inizia a tradurre, in collaborazione con Guterman, le opere giovanili di Marx sulla rivista «Avant-Poste».
Tra il 1933 e il 1935 Levebvre scrive La conscience mystifiée, in cui sostiene che la classe operaia non conosce il meccanismo del proprio sfruttamento, ma lo vive attraverso l’incomprensione e l’umiliazione. Per queste ragioni, è difficile introdurre questa consapevolezza nella classe operaia. Nel libro Lefebvre dichiara che è proprio tale incomprensione a permettere al fascismo di imporre delle rappresentazioni inverse della realtà, mascherandole attraverso il socialismo. Per Hess e Weigand [2006] La conscience mystifiée è stato un autentico livre maudit perché fu accolto molto male dal PCF, che rifiutava di credere all’ascesa del nazismo, e ancora peggiore accoglienza ebbe dai nazisti, che lo iscrissero nelle liste di proscrizione e, successivamente, lo distrussero. Lefebvre è stato attivo durante la resistenza partigiana francese durante la seconda guerra mondiale e dal 1944 al 1949 ha avuto l’incarico di direttore della Radiodiffusion Française a Tolosa. Tra il 1949 e il 1961 è stato ricercatore al Centre National de la Recherche Scientifique a Parigi. Tra il 1947 e i primi anni ’50 Lefebvre pubblica in rapida sequenza una serie di libri: il primo volume della Critique de la vie quotidienne (1947); Logique formelle, logique dialectique (1947); Marx et la liberté (1947). Soprattutto gli scritti su Marx gli valsero la celebrazione da parte della rivista marxista «La Pensée». che lo celebrò come «le promoteur le plus lucide aujourd’ui de la philosophie vivante» [cit. in Trebitsch 1991]. La sua fama fu poi accresciuta dal grande successo di pubblico ottenuto con la pubblicazione di Le marxisme (1948) nella popolare collezione di volumi Que sais-je? (il libro è attualmente alla ventitreesima ristampa; cfr. Lefebvre [2003]).
Tuttavia, il rapporto con il PCF, come abbiamo già visto a proposito de La conscience mystifiée, non fu mai idilliaco. Lefebvre si è sempre comportato come un outsider all’interno del partito. La sua persistente critica allo stali- nismo imperante, le sue tendenze libertarie che lo rendevano più popolare tra i socialdemocratici e i cristiano-democratici, piuttosto che presso la linea dura del PCF, finirono nel modo più prevedibile possibile: con la sua espulsione dal partito nel 1958 (cfr. l’autobiografia di Lefebvre [1959]). In quegli anni, Lefebvre si avvicinò al movimento dei situazionisti, il cui esponente di maggior spicco, Guy Debord, era stato influenzato dalla Critique de la vie quotidienne. Anche il rapporto con i situazionisti – di cui facevano parte l’architetto olandese Constant Nieuwenhuys (il progettista della città utopica di Babylon e autore del volume For an Architecture of Situation) e il pittore Asger Jørn – fu intenso ma burrascoso [cfr. Ross 1997; Chollet 2000; Sadler 2001] e si interruppe nel 1962.
È solo nel 1965 – a più di sessant’anni di età e nonostante la monumentale bibliografia prodotta – che Lefebvre viene chiamato alla cattedra di sociologia all’Università di Strasburgo e, successivamente, sino al ritiro, all’Università di Parigi-Nanterre. Secondo Hess e Weigand [2006], sia a Strasburgo sia a Nanterre la sua influenza sugli studenti fu straordinaria: «raramente un professore di università ha avuto altrettanta influenza sugli studenti». I tumulti del 1968 portarono Lefebvre a un ruolo attivo nel movimento del maggio studentesco. Anche se tale ruolo necessita ancora di essere approfondito1 [Merrifield 2002a, 86-87], è comunque indubbia la relazione diretta tra il suo volume Le droit à la ville (pubblicato nel 1968) e le rivolte studentesche. Tra il 1968 e il 1980 Lefebvre ha pubblicato una serie di studi con l’intento di meglio precisare la propria teoria politica. Le manifeste différentialiste (1970) elabora la nozione di differenza e indica la via da seguire per sottrarsi alla standardizzazione generalizzata che minaccia la società burocratica di consumo dei paesi evoluti. Nel 1971 raccoglie in Au-delà du structuralisme tutti gli articoli scritti in polemica con Althusser. È in quel periodo che produce i più importanti lavori sullo spazio e sulla città: Le droit à la ville (1968), Du rural à l’urbain (1970), La pensée marxiste et la ville (1972), Espace et politique (1973) e, soprattutto, La production de l’espace (1974). Successivamente, nella seconda metà degli anni ’70, Lefebvre si impegna in una ponderosa sintesi sulla questione dello stato, De l’État (1976-1978) che sarà pubblicata in quattro volumi. Nel 1973 si ritira dall’insegnamento attivo, continuando tuttavia un’intensa attività di conferenze in Francia e all’estero. Durante tutti gli anni ’80, sino alla sua scomparsa, avvenuta a Navarrenx nel 1991, Lefebvre ha continuato regolarmente a scrivere, ritornando in modo più sistematico agli interessi filosofici con La présence et l’absence (1980) e Qu’est-ce que penser? (1985). Non rinunciò tuttavia agli interessi urbani e spaziali: nel 1992 uscì postumo il libro Éléments de rythmanalyse. Introduction à la connaissance des rythmes, pubblicato insieme a Catherine Règulier. Nel volume Lefebvre approfondisce – con particolare attenzione alle città mediterranee – i metodi più appropriati per analizzare i ritmi degli spazi urbani e gli effetti che tali ritmi hanno sugli abitanti di quegli stessi spazi. Secondo alcuni commentatori, Éléments de rythmanalyse può essere considerato come il quarto volume della Critique de la vie quotidienne.
2. IL CONTESTO STORICO-CULTURALE
Sono pochi gli studiosi che possono vantare una vita intellettuale attiva altrettanto longeva quanto quella di Henri Lefebvre. Parafrasando un altro celebre marxista, la vita di Lefebvre ripercorre pienamente lo Zeitgeist descritto ne Il lungo XX secolo di Giovanni Arrighi [1996]. Anche volendo ridurre la sua esistenza all’analisi marxiana delle trasformazioni capitaliste e alla sua tormentata militanza comunista, è curioso osservare che nei giorni della rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917, Lefebvre era vicino al compimento dell’età matura, mentre i giorni della caduta del muro di Berlino lo ritrovano pluriottuagenario, ma ancora lucidamente impegnato a fare un bilancio del comunismo «troppo spesso generatore di noia, incapace di interpretare un’utopia e di portare avanti la critica della vita quotidiana» [Hess e Weigand, 2006]. Non sorprende quindi che il suo lavoro – edificato su un temperamento polemico – sia entrato e uscito di moda più volte. Nonostante ciò, Lefebvre ha influenzato profondamente lo sviluppo non solo della filosofia, ma anche della sociologia, della geografia, delle scienze politiche e della critica letteraria. Oltre al conflitto latente e perenne con il PCF, la sua vena polemista non mancò di procurargli numerose inimicizie anche nel milieu intellettuale francese. Mike Kelly [1992], scrive che «il dibattito filosofico in Francia del dopoguerra non è stato un’occupazione per persone deboli di cuore, e Lefebvre non era propriamente il tipo di persona da accettare di seppellire l’ascia di guerra»2 La scena intellettuale francese era divisa tra il potere in aumento dei teorici strutturalisti e il declino degli esistenzialisti e degli umanisti. Lefebvre fu uno dei primi e irriducibili oppositori del marxismo strutturalista. Dalle pagine del giornale provocatoriamente nominato «L’homme et la société», ha criticato autori come Lévi-Strauss e Foucault, accusandoli di «hypostatisation de la théorie» [ibidem] e di apologia della tecnocrazia. La critica più velenosa l’ha riservata per Louis Althusser, accusandolo del divorzio della teoria dalla pratica, della costruzione di una nuova ideologia strutturalista e antiumanista, e – soprattutto – del riciclo del vecchio empiriocriticismo che Lenin aveva così accuratamente demolito sessant’anni prima. Per Lefebvre, il pensiero di Althusser, mentre smobilitava e disarmava la creatività delle masse, elevava una piccola élite intellettuale a una supremazia pericolosa e ingiustificata. In seguito, gli eventi del 1968 sembrarono confermare tutto ciò che Lefebvre andava sostenendo. Gli strutturalisti, all’apice del successo, si rivelavano, secondo Lefebvre, incapaci di capire, o anche solo di comunicare con gli studenti ribelli, mentre questi ultimi – vittime dell’alienazione sociale e intellettuale – erano i soggetti di un programma a lungo termine di liberazione sociale che avrebbe portando alla creazione dell’uomo totale. All’inizio degli anni ’70 la fama di Lefebvre aveva raggiunto l’apice: numerose sue opere erano ristampate e iniziavano a essere tradotte in inglese e in altre lingue (soprattutto nell’Europa orientale). Insieme agli studiosi con i quali aveva lavorato durante la fine degli anni ’50 e ’60 – Morin, Chatelet, Axelos, Goldmann, Castoriadis, Fougeyrollas – divenne uno degli autori di riferimento della rinascita marxista non comunista. Curiosamente, uno scrittore non ortodosso e ufficialmente escluso dal PCF si è rivelato capace di catturare l’attenzione dei teorici anglofoni e mondiali molto tempo prima dell’opera di pensatori come Lyotard, Foucault, Althusser. Nel frattempo, Lefebvre aveva dirottato le proprie energie dalla filosofia verso la sociologia urbana, sostenendo che la riappropriazione dello spazio urbano avrebbe potuto diventare il punto di riferimento per un rinnovamento delle relazioni sociali nella società moderna:
Henri Lefebvre rifiuta qualsiasi tipo di sistema. Lefebvre attacca il mondo borghese del capitalismo della merce, il mondo del denaro, del profitto. Nello stesso tempo in cui Lefebvre si scontra con i sostenitori dello scientismo, del positivismo e dello strutturalismo, sviluppa le basi teoriche del movimento di protesta che si formerà nel dipartimento di sociologia che dirige a Nanterre. Rapidamente, la maggioranza degli studenti aderisce all’analisi contestatrice del vissuto, della sessualità, della vita quotidiana, delle condizioni concrete dello sviluppo della società esistente. Lefebvre lascia i suoi allievi liberi di sviluppare la propria ricerca; li incoraggia a sviluppare il proprio pensiero. Si tratta di una pratica che non era per nulla comune prima del maggio 1968, quando l’allievo-assistente altro non era che il ripetitore delle idee del suo maestro [Heiss e Weigand 2006].
Tra i numerosi proseliti3 di Lefebvre possono essere annoverati due tra i più importanti studiosi urbanicontemporanei, il sociologo Manuel Castells e il geografo David Harvey, ma, dobbiamo riconoscere, si tratta di un rapporto di proselitismo quantomeno anomalo. Harvey ha scritto la postfazione alla traduzione inglese de La produzione dello spazio [Harvey 1991] e non ha mai nascosto l’influenza che Lefebvre ha avuto su di lui – anche se ha rimarcato la propria relativa indipendenza intellettuale4 [Harvey 1978]. Castells, invece, ha rilasciato interviste in cui la presa di distanza è più rimarcata:
3 Tra questi vi era anche Daniel Cohn-Bendit, Dany le Rouge al tempo delle rivolte studentesche e fondatore del gruppo autonomista Revolutionärer Kampf, oggi copresidente del gruppo dei Verdi al Parlamento europeo.
4 In proposito, Gottdiener [1993, 134], non manca di sottolineare: «l’edizione Blackwell di The Production of the Space contiene una postfazione di David Harvey. Considerando quanto poco nel passato egli abbia riconosciuto l’influenza di Lefebvre sul suo pensiero, ho trovato ironica questa inclusione di Harvey o, molto più semplicemente, solo un altro esempio di appropriazione del lavoro di Lefebvre».
Le idee di Lefebvre erano davvero potenti, nonostante il fatto che egli non avesse la minima nozione del mondo reale – non sapeva nulla di come funzionano l’economia o la tecnologia, e neppure dei modi attraverso i quali i rapporti di classe sono costruiti – ma era un genio per come sapeva intuire ciò che realmente stava accadendo. Quasi come un artista […] egli è stato probabilmente il più grande filosofo della città che abbiamo avuto [Catterall 1997, 146-147, corsivo mio].
Castells è stato profondamente influenzato durante il suo «periodo marxista» dalla nemesi antiumanista di Lefebvre – l’esecrato Louis Althusser5 – e non ha mancato l’occasione né per disconoscere la collocazione di Lefebvre in seno alla sociologia urbana, né per mettere dei profondi paletti al proprio debito nei confronti del suo professore a Nanterre: «Le teorie di Lefebvre semplicemente mancano di rigore. Non credo che il suo lavoro possa considerarsi scientificamente fondato» [ibidem].
Tra lo stupore (ma, anche, la costernazione) di numerosi dei suoi proseliti, Lefebvre riannodò le relazioni con il PCF dopo il 1978. In parte fu attratto dalla maggiore indipendenza del partito dalla linea dell’Unione Sovietica, in parte dal riconoscimento delle politiche di autonomia locale e in parte da un approccio più dialettico e umanista dei suoi teorici importanti. Dall’altro versante, lo stile delle sue pubblicazioni successive al ’78 – più «sbottonate» rispetto alle precedenti [Kelly 1992] – gli ha consentito la libertà di continuare a sviluppare, con la caratteristica verve della sua scrittura6, la propria visione non ortodossa del marxismo, senza che ciò venisse considerato come una minaccia per l’ideologia del partito. Il suo riavvicinamento con il comunismo è stato, probabilmente, una reazione contro il declino del marxismo e contro la tendenza di molti (ex) intellettuali di sinistra alla deriva nell’agnosticismo politico.
Il grande successo che lo aveva accompagnato ancora durante gli anni ’70 è andato progressivamente scemando negli anni. Il lungo innamoramento di Louis Althusser e della sua scuola da parte del mondo accademico di sinistra ha in gran parte gettato nell’oblio – quando non ha apertamente rifiutato – le opere di Lefebvre, considerandolo un rappresentante della tradizione hegeliano-marxista contro la quale gli althusseriani hanno alacremente lavorato.
5 Cfr. la prefazione di Castells all’edizione inglese de La questione urbana [Castells 1977].
6 Sullo stile di scrittura di Lefebvre – in particolare di quello adottato ne La produzione dello spazio – è fiorito quasi un genere letterario. Leonardo Ricci [1976, 14], nella sua prefazione alla (ormai introvabile) edizione italiana scrive: «introdursi o procedere nel libro di Lefebvre è un po’ come introdursi e procedere nel Labirinto. Chi non ha il filo di Arianna è perduto». Secondo Molotch [1993, 893], «Lefebvre scrive in modo denso, con disgressioni gratuite e riferimenti ad altri studiosi che non vengono citati. Il suo stile è ricco di frasi misteriose, di utilizzi impropri e disorganizzati del contesto testuali. Lefebvre scrive in modo terribile». Mark Gottdiener [1993, 134] rimprovera al traduttore Donald Nicholson-Smith di avere travisato, in alcune parti, lo stile di Lefebvre: «alcuni aspetti dell’originale sono stati perduti. Nicholson-Smith tende a utilizzare sinonimi sofisticati, ma il piacere della lettura Lefebvre deriva dallo squisito uso che egli fa della lingua francese: dice cose direttamente e chiaramente, ma non in modo semplice. In questo modo, alcuni dei suoi meravigliosi usi della parola si sono persi. Infine, Lefebvre ha l’abitudine di fare giochi di parole: temo che il traduttore ne abbia frainteso una parte».
Sotto questo riguardo, Lefebvre è un bersaglio sin troppo facile. I suoi scritti trasgrediscono sia le discipline, sia il cosiddetto «apparato accademico» [Parker 2006] fatto di citazioni e riferimenti, che Lefebvre si è sempre ben guardato dal sentirsi obbligato a fare. Per tutta la vita si è battuto contro quello che lui riteneva essere «il confino della conoscenza imposto dalle convenzioni disciplinari» [Aronowitz 2007] e, poiché non poteva essere agevolmente classificato all’interno delle corporazioni disciplinari esistenti, gli scienziati sociali lo hanno prima ignorato e poi rimosso.
Lungo tutta la sua lunga vita, Lefebvre ha combattuto la frammentazione delle conoscenze che contrassegna la maggior parte delle scienze sociali. Lo ha fatto collegando discorsi apparentemente disparati dal punto di vista della totalità sociale: ciò gli è valso il disprezzo o indifferenza degli intellettuali contemporanei, per i quali – nella società postmoderna – la totalità rappresenta una prospettiva reazionaria del XX secolo.
In realtà, Henri Lefebvre è stato un marxista assertivo ed energico che sino alla fine ha continuato a credere sia che una lettura non dogmatica di Marx ed Engels rappresenti il migliore strumento per comprendere la natura e lo sviluppo della società, sia che un progetto rivoluzionario e ambizioso offra la migliore opportunità per generare uno sviluppo sociale positivo, attraverso i rovesci e le incertezze della storia.
3. LA PROSPETTIVA DI LEFEBVRE
Simon Parker [2006, 43, corsivo mio] – a cui va ascritto il merito di avere riportato il lavoro di Lefebvre nei manuali di sociologia urbana circolanti in Italia7 – così ci presenta il pensiero di Lefebvre:
Lefebvre rimane uno dei nostri teorici urbani più enigmatici e audaci, per la sua propensione a mescolare filosofia speculativa e antropologia e per la sua ricerca di schemi più consoni a un artista o a un compositore che a uno scienziato sociale.
Ciò nonostante, il percorso intellettuale di Lefebvre rimane profondamente attuale per la teoria sociologica urbana e – nonostante egli abbia esplorato campi disciplinari differenti – non è affatto privo di coerenza e può essere ricostruito lungo tre passaggi fondamentali.
7 Merito che va condiviso con Serena Vicari Haddock, che ne ha proposto e curato l’edizione italiana.
3.1. Il materialismo dialettico e l’analisi della vita quotidiana
Nelle memorie raccolte da Bernard-Henry Levy [1997] sul ruolo politico degli intellettuali francesi durante il XX secolo, è lo stesso Lefebvre a indicare il 1925 come anno cruciale per la propria formazione intellettuale. Dopo essersi trasferito a Parigi nel 1920, Lefebvre incontra, nel 1925, lo scrittore surrealista André Breton che lo avvicina alla lettura di Hegel, attraverso la quale Lefebvre ritrova le motivazioni spirituali ed esistenziali della propria giovinezza, profondamente segnata dall’educazione cattolica. Però, attraverso Hegel, Lefebvre situa gradualmente tali motivazioni non più nel limbo etereo della teologia, ma nella sfera reale, nel pensiero sociologico e politico. Nel 1928, insieme a Breton, si iscrive al PCF. Tuttavia, mentre il primo utilizzò Hegel come un passaggio necessario per portare il surrealismo verso il mondo dell’inconscio, teorizzato da Sigmund Freud, Lefebvre scoprì l’opera giovanile di Karl Marx. A quel punto, il pensiero di Hegel non risultò più sufficiente per Lefebvre, perché risolveva il conflitto tra la coscienza particolare e quella universale esclusivamente in termini astratti. Seguendo la critica che Marx portò ad Hegel nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 [Marx 1980], Lefebvre si convinse che la filosofia speculativa avrebbe dovuto essere trascesa nei confronti dell’azione e delle pratiche. Certamente, gli schiavi e i padroni erano presenti nell’opera di Hegel, ma essi erano rappresentanti non come degli individui reali, materialmente esistenti sulla terra, ma piuttosto come forme astratte di consapevolezza – «menti senza uomo», come sostenuto da Marx. Rispetto al giovane Marx, Lefebvre si trovava concorde nel sostenere che Hegel «aveva trasformato l’uomo in uomo della consapevolezza, piuttosto che trasformare la consapevolezza in consapevolezza dell’uomo reale». In altre parole, Hegel aveva mancato di cogliere la portata dell’alienazione.
È in quegli anni che Lefebvre matura una forte attenzione nei confronti delle pratiche sociali, sviluppando un’analisi dei principali problemi e scoprendo che tali problemi si fondano su una base economica che richiede – inevitabilmente – soluzioni politiche. Coerentemente con Marx [ibidem], per il quale «l’alienazione dell’operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diviene oggetto – qualcosa che esiste all’esterno – ma che esso esiste al di fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto gli si contrappone, ostile ed estranea», Lefebvre, ne Il materialismo dialettico [1975], mette al centro del proprio lavoro l’individuo e la prassi concreta e riconosce l’antitesi dell’uomo alienato nell’uomo totale, derivando questa nozione ancora una volta dal pensiero di Marx [1980] che considerava «il superamento della proprietà privata come una sensuale appropriazione dell’essenza e della vita umana8».
8 Per Marx [1980], le relazioni umane rispetto al mondo naturale – vedere, ascoltare, odorare, assaggiare, provare emozioni, pensare, contemplare, desiderare, agire, amare – rappresentano, nel loro oggettivo approccio (o nel loro approccio nei confronti degli oggetti), un processo di appropriazione di tali oggetti.
La nozione di uomo totale rappresenta senza dubbio uno dei numerosi obiettivi utopici che costellano la produzione di Lefebvre9: uno tra i molti tentativi – come suggerisce Parker [2006, 43] – di mescolare la filosofia con le scienze sociali e naturali sulla base di un metodo dialettico. Dobbiamo tuttavia riconoscere che, nel contesto del marxismo ortodosso imperante all’epoca –«troppo semplice e troppo facilmente insegnato» [cit. in Maerryfield 2002, 79] – l’esplicita tensione verso un ideale di «marxismo umanista» ha richiesto a Lefebvre l’esplicitazione di un progetto di ricerca capace di individuare un oggetto di studio e una metodologia appropriati. La critica della vita quotidiana è divenuta quindi l’oggetto di ricerca all’interno del quale Lefebvre ha potuto affinare gli strumenti metodologici contenuti ne Il materialismo dialettico. La Critica della vita quotidiana – progetto di ricerca che Lefebvre ha portato avanti (con ampie interruzioni) per tutto il corso della propria vita, producendo quattro pubblicazioni nell’arco di quarant’anni – si articola intorno alla questione chiave della sopravvivenza del capitalismo. Mentre la maggioranza dei sociologi e dei filosofi avevano sino ad allora affrontato la quotidianità come un sottosistema, Lefebvre ha sostenuto – in modo particolarmente esplicito nel terzo volume della Critica –che la vita quotidiana costituisce lo strato fondamentale dell’esistenza sociale e che l’importanza di tale strato nel mondo contemporaneo ha largamente superato sia l’economia, sia la politica: la vita quotidiana non può essere definita come un subsistema all’interno di un sistema più grande. Al contrario: è la base a partire dalla quale il modo di produzione si costruisce come un sistema, programmando questa stessa base. Non si tratta, quindi, dell’autoregolamentazione di una totalità chiusa [perché] la vita quotidiana ha potenti mezzi a disposizione: contiene un elemento di imprevedibilità, ma anche l’impulso alla base che fa vacillare l’intero edificio. Qualunque cosa accada, le alterazioni nella vita quotidiana rimangono a testimoniare il cambiamento [Lefebvre 1998, cit. in Aronowitz 2007].
Con la Critica, Lefebvre ha sostenuto la necessità di liberare la quotidianità dal ruolo impostole dal capitalismo. Per Lefebvre, la vera consapevolezza sta nel riconoscimento del ruolo mistificatorio dell’abitudine, che, attraverso la propria ritualità inautentica, non fa altro che perpetuare e riprodurre i rapporti sociali esistenti. La quotidianità è «una sorta di deposito sotterraneo nel quale si sedimentano le convenzioni e le menzogne del potere, ed è qui che si trova la barriera che impedisce alla fantasia e alla creatività individuale di trovare le vie per una propria espressione autonoma» [Lefebvre 1998].
9 «[Questa nozione] non potrà mai diventare una realtà: è una lotta, una speranza, un obiettivo, il limite di una possibilità, sempre frustrabile e contingente. Si presenta senza garanzie, offrendo una direzione per la nostra visione del futuro, per le nostre attività e per la nostra coscienza» [Merrifield 2002a, 78].
3.2. Il diritto alla città
Nel primo volume de la Critica (1958), Lefebvre, con il suo consueto stile polemico [Parker 2006, 39], si domandava: quanti, scrittori, sociologi, psicologi o etnografi, si preoccupano della realtà umana quando cercano il concreto? Dove si colloca questo «concreto umano»? Dove raggiungerlo, dove afferrarlo? Attorno a noi, o nascosto in misteriose profondità?
A questi interrogativi, Lefebvre rispondeva che il «concreto» si trova nella vita quotidiana e, per determinare il carattere di questo «concreto», è necessario elaborare una prassi coerente con la concezione marxista umanista. Intorno alla metà degli anni ’60 egli inizia a riflettere sulla necessità di situare spazialmente le pratiche di emancipazione della vita quotidiana. Il punto di partenza di questa riflessione è racchiuso nella nozione di diritto alla città. Come per altre teorizzazioni, Lefebvre elabora un concetto contemporaneamente complesso e fluido [Purcell 2002, 101], che trascende sia le pratiche di riforma, sia quelle di resistenza attiva. La sua idea si fonda su una radicale ristrutturazione delle relazioni sociali, economiche e politiche nello spazio urbano: il diritto alla città è proposto come una pratica fondamentale per sovvertire l’arena decisionale, riconducendola al di fuori del potere totalitario statale, verso una produzione democratica dello spazio sociale. Diversamente dalla deliberazione democratica – limitata e condizionata dal potere statale – Lefebvre aspira ad applicare il concetto di diritto alla città a tutta la produzione dello spazio urbano.
Con l’intento di risolvere le principali difficoltà insite un tema così ambizioso e complesso, Lefebvre elabora una concezione estensiva della nozione di spazio, che specificherà con maggiore dettaglio ne La produzione dello spazio (cfr. infra, par. 3.3). Per iniziare a fare chiarezza, Lefebvre riprende le osservazioni già espresse ne Il materialismo dialettico, nelle quali evidenziava uno dei limiti maggiori della politica economica marxista: quello di non avere considerato adeguatamente che il modo di produzione capitalista esiste nello spazio e non solo nel tempo. Per Lefebvre lo spazio possiede una propria dialettica e, al pari di altre categorie marxiane – denaro, lavoro, potere – rappresenta un’astrazione concreta. Detto diversamente, lo spazio è sia un prodotto materiale delle relazioni sociali (il «concreto»), sia una manifestazione di tali relazioni, una relazione esso stesso (l’«astratto»).
Le relazioni sociali e lo spazio risultano tra loro inevitabilmente incernierati attraverso la vita quotidiana: la produzione dello spazio urbano riguarda processi che trascendono la pianificazione dello spazio fisico urbano e si estendono alla produzione e alla riproduzione di tutti gli aspetti della vita urbana.
Il diritto alla città comporta due principali diritti per i cittadini: il diritto alla partecipazione e il diritto all’appropriazione . Il primo diritto sostiene che i cittadini dovrebbero svolgere un ruolo centrale in tutte decisioni che contribuiscono alla produzione di spazio. Contrariamente ai processi deliberativi e/o partecipativi, nei quali la voce dei cittadini è filtrata attraverso le istituzioni dello stato, il diritto alla città prevede che i cittadini contribuiscano direttamente ai processi di produzione di spazio che interessano la loro città. Il diritto di appropriazione comprende la prerogativa degli abitanti di godere del libero accesso di occupare e di fruire dello spazio urbano. Lefebvre ha esteso questa nozione non solo all’appropriazione degli spazi esistenti, ma la ha ampliata sino al diritto di produrre gli spazi necessari ai bisogni degli abitanti. Considerato che l’appropriazione offre agli abitanti il «pieno e completo godimento dello spazio nel corso della propria vita quotidiana» [Lefebvre 1996 manca, 179], lo spazio dovrebbe essere prodotto in maniera tale da consentirne il massimo utilizzo possibile10. Ne Il diritto alla città [1970a] Lefebvre iniziò a riflettere sulla città come luogo dove il valore d’uso e il valore di scambio si combinano tra loro in un complesso (e spesso perverso) sistema di relazioni. In particolare, con l’intensificazione dello sviluppo capitalistico lo spazio diviene mercificato: nel sistema urbano che cerchiamo di analizzare si esercita l’azione di questi conflitti specifici: tra valore d’uso e valore di scambio, tra mobilitazione della ricchezza (in denaro, in carta) e investimento improduttivo nella città, tra accumulazione di Capitale e sperpero nelle feste, tra estensione del territorio dominato ed esigenza di un’organizzazione severa del territorio stesso attorno alla città egemone. Quest’ultima si protegge contro ogni eventualità per mezzo dell’organizzazione corporativa che paralizza le iniziative del capitalismo bancario e commerciale [ibidem, 24].
Nel lavoro sulla vita quotidiana Lefebvre aveva anticipato nozioni quali quelle di «consumo collettivo» [Castells 1977] o di «società dello spettacolo» [Debord 2001] e aveva teorizzato la città capitalista come una struttura burocratica di consumo controllato. Ne Il diritto alla città, Lefebvre sostiene il diritto dei cittadini alla città come opera: come luogo dove soddisfare i bisogni e le ambizioni non solo di prodotti materiali, ma di attività creative, di immaginario e di gioco: l’opera rivela più valore d’uso che valore di scambio […] il proletariato, escluso dalla città, finirà con il perdere il senso dell’opera. Sradicato dai luoghi di produzione e dovendo, a partire da una zona di habitat, essere a disposizione di aziende sparse sul territorio, il proletariato lascerà assopire nella sua coscienza la capacità creatrice. La coscienza urbana si dissolve [Lefebvre 1970a, 33, passim].
10 Queste tesi hanno avuto un’influenza importante sulle pratiche dell’Internazionale situazionista. Cfr. Sadler [2001].
3.3. La produzione dello spazio
Che lo spazio abbia assunto, nel modo di produzione attuale e nella «società in atto», una specie di realtà propria, allo stesso titolo e con lo stesso processo globale della merce, del denaro, del capitale, anche se in modo diverso, è un postulato che molti rifiutano. Alcuni, di fronte a questo paradosso, chiederanno prove; visto che lo spazio così prodotto serve come strumento sia di pensiero, sia di azione, sia come mezzo di produzione, sia, contemporaneamente, di controllo, dunque di dominio e di potere – ma visto anche che sfugge parzialmente a coloro che se ne servono [Lefebvre 1978, 48-49].
Con la La produzione dello spazio, pubblicato nel 1974, Lefebvre [1978] affronta il problema di portare l’epistemologia dello spazio (lo spazio astratto, cfr. supra, par. 3.2) a confrontarsi con lo spazio empirico. In opposizione con l’althusserianesimo – divenuto de rigueur tra i marxisti strutturalisti – Lefebvre sostiene che la dialettica dello spazio si esprime attraverso una triplicità nella quale il terzo termine decostruisce l’opposizione statica implicita nel dualismo, aggiungendo una dimensione fluida all’analisi dei processi sociali11. La tripartizione proposta da Lefebvre riguarda lo spazio percepito, concepito e vissuto e insiste nella convinzione che lo spazio presenta caratteristiche molto complesse che condizionano le relazioni sociali a tutti i livelli. Lo spazio può essere innanzitutto un ambiente fisico che noi percepiamo. Può essere, inoltre, un’astrazione rispetto alla quale noi negoziamo un senso e dei diritti (per esempio le mappe mentali dei geografi o lo spazio del potere statale, delle corporazioni, della pianificazione urbanistica). Lo spazio è, infine, un medium nel quale gli individui vivono in interazione con altri individui. Con l’intento di evitare il riduzionismo dei marxisti strutturalisti, Lefebvre ha proposto una teoria unitaria dello spazio che fosse in grado di tenere insieme i caratteri fisici, mentali e sociali dello spazio. Per meglio specificare, egli ha introdotto un’ulteriore tripartizione: lo spazio può essere simultaneamente compreso come una pratica spaziale (un ambiente fisico); una rappresentazione dello spazio (un modello concettuale utilizzato per orientare le pratiche); uno spazio di rappresentazione (le relazioni sociali tra gli individui nell’ambiente fisico). Lefebvre ha definito queste tre dimensioni rispettivamente la dimensione dell’esperienza, la dimensione percepita e la dimensione immaginata [sul punto, cfr. Harvey 1993, 268-276].
Il punto centrale di queste tripartizioni consiste nell’affermazione – attraverso l’analisi di differenti ambiti spaziali nella storia dell’Europa occidentale12 che ogni epoca ha prodotto una propria organizzazione dello spazio13.
11 Per Gottdiener [1993, 130], si tratterebbe di una tripartizione analoga a quella ottenuta nell’analisi sociale introducendo la dimensione meso all’interno del dualismo micro/macro
12 Con un approfondimento minore rispetto agli studi di Weber o di Braudel.
13 Per Lefebvre [1978, 240-248], lo spazio nella Grecia antica è governato da un senso astratto della religione e della geometria. Nella Roma antica, al contrario, lo spazio è contaminato dalle pratiche del potere. Per questi motivi, prosegue Lefebvre, l’agorà greco è
Questa idea rappresenta, secondo numerosi osservatori [Gottdiener 1993, 132], uno dei fondamenti della new urban sociology [Zukin 1980; Walton 1993]. Lo schema proposto di Lefebvre si basa sulla considerazione che città e urbanesimo rappresentano due concetti teorici empiricamente distinguibili [Katznelson 1993, 96]
Sotto questo riguardo, se il capitalismo industriale del XIX secolo ha generato una specifica forma urbana fondata sulla divisione del lavoro, per Lefebvre con l’avvento del XX secolo la società industriale capitalista è stata dialetticamente trascesa dalla società urbana. Detto diversamente, il concetto di urbanesimo ha oltrepassato quello di città in quanto a capacità di definire l’immagine della nostra esistenza quotidiana attraverso quelle che una volta erano le significative divisioni tra l’urbano, il suburbano e il rurale. Ciò è avvenuto perché l’urbanesimo si è diffuso nel mondo e ha prodotto aspirazioni e stili di vita altamente omogenei. Ne La produzione dello spazio Lefebvre afferma che con il XX secolo è giunto il momento urbano, o quantomeno possiamo dire che esso è iniziato. Non è più l’industrializzazione a produrre urbanizzazione a essa asservita, ma è l’esatto contrario: si è aperta un’era di transizione nella quale il capitalismo di cui Marx ha scritto nel Capitale inizia ad apparire un artefatto storico. Spiegato in termini strettamente marxiani: è il circuito secondario del capitale – quello che riguarda la produzione di surplus non più attraverso la produzione, ma attraverso la finanza e la speculazione – a essere divenuto egemone (cfr. infra, par. 5). L’era urbana apre la possibilità per un nuovo umanesimo. L’urbanesimo che trascende la città riorganizza le relazioni sociali in un modo rivoluzionario.
Con il consueto approccio alla filosofia della prassi urbana, Lefebvre ha riconosciuto che, nella nuova società urbana, la città può rappresentare ruolo fondamentale per via della propria capacità di concentrare le relazioni umane in modo non repressivo, liberando le possibilità di autorganizzazione. Pertanto, nel nuovo modello di organizzazione sociale, il conflitto di classe non è più necessario perché le strutture di classe perdono la propria specificità. Il capitalismo starebbe declinando, ma non nel modo in cui aveva previsto Marx. Analogamente a buona parte della teorizzazioni di Lefebvre, la considerazione del momento urbano è una combinazione di descrizione e di prescrizione. Durante il capitalismo industriale lo spazio era diviso e frammentato e disarticolato tra la società e i suoi bisogni: il momento urbano costituisce un’opportunità di raggiungere una nuova fase nella storia umana delle riappropriazioni del «giusto» uso dello spazio, al servizio dei bisogni sociali e per riaffermare il significato e la dignità della vita quotidiana con delle potenzialità assai superiori a quelle che il capitalismo industriale poteva permettere. Si tratta di una deliberata visone utopistica, ma anche di un intervento strategico: per Lefebvre la tradizionale nozione di rivoluzione socialista, vuoto e proporzionato rispetto al cosmo, in modo tale che la popolazione possa incontrarsi e realizzare le proprie aspirazioni di unità con il cosmo. Il foro romano, al contrario, è pieno di oggetti. concentrata sul possesso dei mezzi di produzione, non avrebbe mai potuto produrre una nuova era di urbanizzazione. Ciò che si rendeva necessario era un radicale spostamento degli obiettivi, individuando come priorità le pratiche attraverso le quali la vita umana potrebbe essere organizzata all’interno di nuovi spazi sociali.
4. I TEMI URBANI
Secondo Kofman e Lebas [1996, 14], la «svolta urbana» di Lefebvre dovrebbe essere interpretata come il risultato del clima a lui ostile del PCF durante gli anni ’50, che non gli permise di esprimere liberamente il proprio pensiero all’interno delle cerchie intellettuali organiche all’ideologia del partito. Lo spostamento dei propri interessi verso l’urbano assicurò a Lefebvre una maggiore diffusione del proprio pensiero, rompendo l’isolamento a cui lo aveva relegato il PCF: secondo le parole di Blanchot [2010], la sua esclusione dal Partito comunista (1957) ne liberò il pensiero. Finalmente si sentì libero di combinare il «romantico spontaneo con il lucido pensatore». Coerentemente con la sua personalità esuberante, la ricerca spaziale di Lefebvre si è articolata «attraverso schemi più consoni a un artista, a un compositore che a uno scienziato sociale […] è un peccato che Lefebvre non abbia potuto sviluppare queste intuizioni spesso solo abbozzate e a volte contraddittorie in un’ipotesi più coerente e sistematica sulle tipologie urbane» [Parker 2006, 43]. Per Parker si può quindi convenire con il giudizio di Katznelson, secondo il quale il continuo attaccamento alla teorizzazione astratta nella sua cronologia di sviluppo urbano: certamente non si basa su un attento studio empirico. Egli accettò (come hanno fatto successivamente Harvey e Castells) la scomparsa della città sia come soggetto, sia come oggetto del marxismo durante il periodo del capitalismo industriale. [Per Lefebvre] la realizzazione delle possibilità urbane sembrava quasi interamente una questione di prassi volontaria: i vincoli causali erano noti, ma venivano puntualmente dimenticati nell’interesse dell’esortazione. In particolare, Lefebvre ha (ri)creato un’idolatria della città attraverso la combinazione tra l’asserzione del progresso storico e l’asserzione che l’urbanizzazione e sue inerenti relazioni spaziali regolano i nuovi processi della modernità [Katznelson 1993, 101].
Il riferimento di Katznelson all’«idolatria della città» è particolarmente interessante se rapportato alla vita quotidiana dello stesso Lefebvre. Coerentemente con la filosofia della prassi da lui stesso teorizzata, approfondire la conoscenza dei luoghi da lui descritti o frequentati permette di capire meglio la sua opera, perché la grande sensibilità dello studioso ha avuto spesso contraccolpi e ispirazioni in base ai mutamenti di abitazione. Ricostruire questo percorso richiede un procedere sincronico e diacronico che – sebbene possa rivelarsi disorientante – è tuttavia necessario per comprendere sia le differenti fonti di creatività del lavoro di Lefebvre, sia il dialogo continuo tra l’autore e l’esperienza quotidiana: l’œuvre de l’homme, c’est lui-même.
4.1. Parigi, Rue Jacques Callot
All’inizio degli anni ’20 Lefebvre lasciò la natia Navarrenx, affittò una stanza in Rue Jacques Callot a Parigi, vicino alla École des Beaux Arts, dove erano soliti incontrarsi i surrealisti, il gruppo dei philosophes e altre numerose formazioni dell’avanguardia artistica parigina. Oltre all’incontro decisivo con André Breton, avvenuto nel 1925, Lefebvre rimase profondamente influenzato dalla lettura de Il paesano di Parigi, scritto da Louis Aragon l’anno successivo. Il romanzo di Aragon [1960] descriveva minuziosamente una tipica avventura surrealista nelle profondità della città di Parigi. Lefebvre lesse Il paesano di Parigi come un documento empirico di ricerca urbana: i luoghi minuziosamente descritti da Aragon – Passages de l’Opera e Parc des Buttes-Chaumont – svelano uno spazio urbano labirintico animato da incontri e da passioni e popolato da elementi molto dissimili tra loro14. Per Lefebvre, la portata innovativa dell’opera di Aragon non si esauriva nella natura del vagabondaggio all’apparenza improduttivo – la flânerie benjaminiana [Nuvolati 2009] – ma nella dettagliata descrizione dell’Arcade e dei suoi occupanti. È il contrasto tra i piaceri e i desideri suscitati dall’Arcade e l’organizzazione funzionale dei suoi spazi a interessare Lefebvre, che ci invita a considerare lo spazio urbano non più soltanto nella prospettiva dalla flânerie, bensì in quelle della dérive e del détournement 15 [Ross 1997].
La dérive – sviluppata negli anni seguenti dall’Internazionale lettrista e successivamente dai situazionisti [cfr. Andreotti 2001] – è una pratica che combina politica rivoluzionaria e arte. Essa consiste nel vagare nello spazio urbano attraverso l’esplorazione consapevole di forme di vita radicalmente alternative all’etica capitalista [Debord 1978; Andreotti e Costa 1996]. Il détournement rappresenta l’evoluzione della dérive ed è stato praticato dai situazionisti come un metodo di straniamento che modifica il modo di vedere oggetti comunemente conosciuti, strappandoli dal loro contesto abituale e inserendoli in una nuova e inconsueta relazione per avviare un processo di riflessione critica.
14 Nel romanzo, Aragon descrive minuziosamente la trasformazione di un negozio in un paesaggio marino in cui una sirena appare e scompare. I surrealisti si dichiaravano convinti che le strade della città offrissero innumerabili possibilità per incontri sensuali. Queste convinzioni sono efficacemente rappresentate nel dipinto Aube sur la ville (1940) di Paul Delvaux in cui l’artista ritrae se stesso mentre vaga tra le strade di una città percorse da donne nude che lo adescano o in quello di René Magritte Les amants (1928) in cui è raffigurata una coppia di amanti che si abbracciano e si baciano nonostante i teli bianchi che ne coprono le teste.
15 Sotto questo riguardo, vi è più di un’affinità tra la riflessione lefebvriana sull’opera di Aragon e l’aspetto inverosimile e composito della Parigi descritta nel 1959 da Raymond Queneau in Zazie nel metró [2007]. Non è un caso che Lefebvre e Queneau abbiano frequentato per lungo tempo gli stessi ambienti surrealisti [Merrifield 2006, 74]. Va inoltre rilevato che le tesi contenute nel celebre lavoro (incompiuto) di Walter Benjamin, I «passages» di Parigi [2000], risalgono agli anni 1935-1940 e sono successive alle notazioni di Lefebvre. Secondo Anderson [1976, 37], Benjamin aveva letto gli scritti di Lefebvre. Infine, sebbene le teorizzazioni dei concetti di dérive e di détournement siano ascrivibili ai situazionisti e risalgano alla fine degli anni ’50, è indubbio che esse siano debitrici ai lavori di Lefebvre dei decenni precedenti.
Per Kofman e Lebas [1996, 15], sarebbero state le frequentazioni situazioniste a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 a influenzare Lefebvre nella formulazione del concetto di utopia sperimentale [cfr. anche Ross 1997]. Ne Du rural à l’urbaine [1970b], Lefebvre si riferisce alla possibilità di un nuovo urbanesimo che è chiaramente ispirato alle teorie di Jørn e Constant sull’urbanismo unitario In contrasto con le teorie razionaliste dei CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne), sancite attraverso la Carta d’Atene (1933), l’urbanismo unitario dei situazionisti ipotizzava «il progetto di una sintesi mirante alla costruzione di un’atmosfera e di uno stile di vita che sarà dominato – al contrario dello stile di vita attuale – dalla libertà e dall’agio» (Wolman, 1956, cit. in Lippolis [2002, 9]).
Lefebvre e i situazionisti trovarono un (temporaneo e instabile) punto di convergenza16 sulla critica della vita quotidiana. Questa convergenza si fondava sulla critica del progetto di vita collettiva introdotto dalla rapida modernizzazione funzionalista che consisteva nella riorganizzazione economicoamministrativa del centro città e nella «deportazione» degli abitanti in quei grand ensembles costruiti sul modello dell’unité d’habitation corbusieriana. La dérive, la psicogeografia e il détournement rappresentarono le pratiche con cui i situazionisti cercavano di concretizzare la loro critica sperimentale. Su questi punti, le analogie tra la Critica della vita quotidiana di Lefebvre e l’urbanismo unitario dei situazionisti sono ampi e numerosi. Il Formulario per un nuovo urbanismo, scritto nel 1953 dal diciannovenne Gilles Ivain (pseudonimo di Ivan Ctcheglov) e pubblicato nel 1958 sulla rivista «Internationale Situationniste», cattura bene lo spirito di tali analogie:
Nelle città ci annoiamo, non c’è più il Tempio del Sole. Tra le gambe dei passanti i dadaisti avrebbero voluto trovare una chiave a stella e i surrealisti una coppa di cristallo. Tutto questo è andato perduto. Sappiamo come leggere ogni promessa nei volti – l’ultimo stadio della morfologia. La poesia dei cartelloni pubblicitari è durata vent’anni. Siamo annoiati in città, abbiamo ancora da scoprire il mistero dei cartelloni pubblicitari lungo i marciapiedi, l’ultimo stadio di vero umorismo e di poesia [Ivain 2002].
16 Intervistato sull’argomento, Lefebvre ricorda: «l’amicizia è durata dal 1957 al 1961 o ’62: all’incirca cinque anni. Poi abbiamo iniziato a litigare sempre peggio per motivi che non ho mai capito, ma che potrei descrivere abbastanza bene. Alla fine si è trattato di una storia d’amore che finì male, molto male. Ci sono storie d’amore che iniziano bene e finiscono male. Questa è stata una di quelle» [Ross 1997, 69].
4.2. Mourenx
Tutte le volte che metto piede in Mourenx, sono preso dal panico […]. Il progetto complessivo ha un certo fascino: le linee verticali dei grattacieli e quelle orizzontali dei blocchi si alternano […]. I blocchi degli appartamenti hanno un aspetto ben pianificato e ben costruito, sappiamo inoltre che essi sono molto economici, e offrono ai loro residenti bagni, docce, essiccatoi e soggiorni confortevoli dove è possibile sedersi, accendere la radio e il televisore e contemplare il mondo dalla comodità della propria casa […]. Sotto questo riguardo, il capitalismo di stato fa le cose piuttosto bene. I nostri tecnocrati si sono molto preoccupati di fare le cose con giudizio […]. In Mourenx la modernità mi apre le sue pagine [ma] su quale soglia ci stiamo portando? Quella del socialismo o quella del supercapitalismo? Stiamo entrando nella città della gioia o nel mondo della noia irrimediabile? Al momento non sono in grado di dare una risposta sicura [Lefebvre 1962].
La ville-nouvelle di Mourenx è stata edificata tra il 1957 e il 1961 a seguito della scoperta di un importante giacimento di materiale combustibile – e della successiva realizzazione di un grande complesso industriale per l’estrazione e il trattamento del gas e degli oli – nel bacino di Lacq, nella regione dei PyrénéesAtlantiques. Il bacino di Lacq e la ville-nouvelle di Mourenx distano tra loro pochi chilometri e si trovano a circa metà del tragitto (un’ora di auto circa) che collega Hagetmau – città natale di Lefebvre – con Navarrenx, piccolo villaggio nel quale Lefebvre era solito trascorrere le vacanze estive. La soluzione istituzionale scelta per Mourenx all’arrivo di migliaia di lavoratori, dove prima vi erano solamente paludi e un piccolo villaggio di circa 300 abitanti, si è ispirata alle new towns inglesi, adottando il principio delle «unità di vicinato». Il processo fisico di urbanizzazione è stato perciò organizzato attorno a una grande piazza centrale dalla quale si diramano due assi viari principali, tra loro perpendicolari. Lo spazio cittadino è suddiviso in una serie di isolati-unità, ciascuno dei quali caratterizzato da un edificio a torre e parzialmente chiuso in se stesso in una corte-giardino intorno alla quale sono stati dislocati gli edifici più bassi. Ogni isolato-unità è dotato di spazi pubblici, servizi e scuole. Nella cruda realtà dei fatti, Mourenx è la storia di più di 3.000 edifici costruiti nel breve volgere di 4 anni.
Per Éric Lapierre, architetto e storico, «Mourenx è di fondamentale interesse per la storia dell’urbanistica francese» [cit. in Aronowitz 2007]. Per Lefebvre, invece, città come Mourenx si inscrivono nella tradizione cartesiana della filosofia occidentale: nel loro nobile perseguimento della conoscenza «razionale» realizzano «una disgiunzione debilitante tra la mente e il corpo»
[ibidem]. Lefebvre era letteralmente terrorizzato dalle machine-à-habiter corbusieriane: città come Mourenx rappresentavano per lui «l’incarnazione spaziale del logos cartesiano, una grande mente tecnocratica al lavoro» [ibidem]. Lefebvre giunge alla conclusione che città come Mourenx esprimono un mondo ordinato, racchiuso e finito, un mondo nel quale nulla è lasciato al caso. Nessuna avventura o emozione: ogni evento è prestabilito con un’esattezza matematica. Si tratta di una visione che, alcuni anni dopo, ha influenzato Jean-Luc Godard nel film Alphaville (1965). Nell’immaginario di Godard, Alphaville rappresenta l’iperbole di una struttura urbana – case, edifici, fabbriche, palazzi, oggetti e merci-feticci – trasfigurata dalla società capitalistica. Il vero soggetto del film è l’effetto notte, trafitto, tagliato, decomposto dal bianco dei fari delle luci di una città iperurbanizzata, alienata e alienante, reificata come uno spazio cartesiano allo stato puro, come una struttura courbusieriana portata alle estreme conseguenze, come un luogo geometrico inquadrato nella sua più assoluta astrazione. Comparando Mourenx con la pittoresca Navarrenx (cfr. infra, par. 4.3), Lefebvre elabora la metafora della conchiglia come «creatura vivente che lentamente occulta la propria struttura» [ibidem]. Attraverso questa metafora, egli avanza l’ipotesi che le relazioni che si stabiliscono tra gli individui (la struttura) e il proprio habitat (la conchiglia) siano cruciali per la comprensione sia degli individui, sia dello spazio che essi stessi producono. Sotto questo riguardo, Navvarrenx incorpora la storia pluricentenaria della forma e delle azioni di una comunità che «ha dato forma alla propria conchiglia, costruendola e ricostruendola, modificandola continuamente in relazione alle proprie necessità» [ibidem]. Mourenx, al contrario, rappresenta l’esito del potere dei planner: i nuovi «grandi inquisitori» che da un lato promettono il benessere sociale e dall’altro lato controllano tutte le manifestazioni della libertà individuale. Qui Lefebvre riafferma il proprio umanesimo marxista, sottolineandone le inevitabili implicazioni spaziali.
4.3. Navarrenx
La cittadina di Navvarenx ha rappresentato per Lefebvre l’analogo di Combray (Illiers, nella realtà) per Marcel Proust ne À la recherche du temps perdu. Non solo perché per entrambi – abituati a trascorrervi le vacanze estive – vi hanno proiettato una parte rilevante delle proprie esperienze, ma anche perché per Lefebvre si realizza la medesima circolarità della Recherche in cui inizio e fine coincidono17. Scrive Merrifield [2002a, 82]:
Lefebvre era mesmerizzato dall’intimità organica di Navarrenx più di quanto Walter Benjamin fosse mesmerizzato da Napoli. Tutto in Navvarenx: le strade e gli edifici, le piazze e i maciapiedi, lo stile e la funzione, avevano una propria vitalità e un modello unitario di riferimento. Le sue strade non erano luoghi sperduti e inospitali e neppure percorsi attraverso i quali gli abitanti si spostavano semplicemente dal punto A al punto B. Le strade di Navarrenx sono luoghi in cui passeggiare: nulla può accadere in strada senza che sia notato da dentro le case. Sedersi a guardare dalla finestra è un piacere legittimo […]. La strada è un insieme integrato.
17 Questa interpretazione è derivata da De Agostini e Ferraris [1985, 5].
Sebbene Lefebvre riconoscesse che questa rappresentazione idilliaca avesse nel tempo lasciato il posto a un conformismo portatore di noia, tuttavia, la noia di Navarrenx era molto diversa da quella di Mourenx. Mentre la prima era «compiacente, morbida, accogliente e confortevole come una domenica d’estate o una mattina d’inverno» [Lefebvre 1962], la noia di Mourenx, al contrario, era «impregnata di desideri frustrati e di possibilità irrealizzate. Una vita diversa a migliore faceva capolino al di là dell’angolo, ma era sempre molto, molto lontana. Gravava come un macigno, specialmente sui giovani e sulle donne che sopportavano il peso della vita quotidiana» [ibidem].
A prima vista sembrerebbe che Lefebvre non riuscisse a trattenere la sua predilezione pastorale per la vecchia città dell’infanzia. Introduction à la modernité è attraversato da una nostalgia romantica per l’antico «paradiso perduto»: una metafisica dell’essere che sarebbe risultata sicuramente problematica per lo studioso marxista se egli non avesse avuto altro in mente [Merrifield 2002a, 82]. In realtà, Navarrenx ha rappresentato per Lefebvre il campo applicativo per esplicitare le relazioni tra gli individui e il loro habitat e, in particolare, il luogo dove cercare di comprendere quanto tale habitat potesse risultare flessibile, al fine di permettere la libera crescita degli individui. In altre parole, Lefebvre si domanda: «in che modo Navarrenx è responsabile nei confronti delle “leggi della specie [umana]”?». Se la crescita degli individui segue un determinato ordine funzionale, essa risulta, tuttavia, anche casuale e spontanea. Gli individui «lentamente e attraverso numerose incertezze, nascondono la propria struttura» [ibidem]. Lefebvre inizia a riflettere sul fatto che gli individui hanno due differenti modalità per produrre (e per nascondere) la propria struttura: una organica e spontanea e una astratta. Navarrenx pone la non semplice questione di comprendere «in che modo sia possibile riprodurre ciò che è stato creato spontaneamente: come è possibile ricreare tutto ciò a partire dall’astratto?» [Lefebvre 1962]. Più nello specifico: «come è possibile ricreare questa spontaneità in Mourenx? Come può una comunità ricreare se stessa? Come dobbiamo considerare Mourenx? Come il risultato di un laissez-faire organico o come un intervento tecnico attuato attraverso la pianificazione razionale? La città è un oggetto tecnico o un oggetto estetico?» [ibidem]. Per Lefebvre questi interrogativi rappresentavano la sfida intellettuale per uno studio marxista sull’urbanizzazione: una ricerca che avrebbe dovuto trovare le proprie basi nello studio della vita quotidiana. Le riflessioni su Navarrenx-Mourenx hanno portato Lefebvre ad articolare i principali nessi della «svolta urbana». Tali nessi si trovano all’incrocio tra le riflessioni sulla vita quotidiana e le successive intuizioni sul diritto alla città: l’apparente nostalgia di Lefebvre non mira all’improbabile ricostruzione di un atavico modello di autenticità e di una «vita buona». L’obiettivo è, invece, quello di portare la spontaneità al centro della vita quotidiana, come prassi per disalienare la vita quotidiana. Lefebvre osserva che alcuni dei più significativi momenti di spontaneità nella vita in Navarrenx sono rappresentati dalle feste popolari: celebrazioni periodiche che «rafforzano i legami sociali e, allo stesso tempo, danno sfogo a tutti i desideri che sono stati repressi dalla disciplina collettiva e dalle necessità del lavoro quotidiano» [ibidem].
4.4. Parigi, Rue Rambuteau
A partire dalla fine degli anni ’60 e sino alla metà degli anni ’70, Lefebvre indirizzò i propri interessi verso le trasformazioni del nucleo centrale della città. Nello stesso periodo pubblicò in rapida successione (in media un libro all’anno) i suoi più importanti lavori sullo spazio – da Il diritto alla città [1970a] a La produzione dello spazio [1978]. Per Merrifield [2002a, 84], il messaggio comune a tutte le pubblicazioni può essere sintetizzato nel seguente enunciato: «senza centro non ci può essere alcuna urbanità». Per Lefebvre, il conflitto di classe che ribolliva tra gli spazi urbani parigini ricordava l’epopea di Napoleone III e del barone Haussmann (per un approfondimento dell’hausmannizzazione di Parigi, cfr. Harvey [2003b]). Inevitabilmente, questo processo sanciva la negazione del centro per la classe operaia, confinata nella banlieue, in luoghi come Mourenx o altri giganteschi insediamenti come les grand ensembles che circondavano Parigi e altre città della Francia. Di converso, il centro era diventato il terreno di gioco dalle élite borghesi affluenti. Questa situazione aveva prodotto, secondo Lefebvre, la disintegrazione dei rapporti di vicinato: le politiche di rinnovamento urbano avevano sostituito i concreti valori d’uso nei luccicanti valori di scambio, asserviti alle esigenze dei rentiers, del capitale finanziario e dei turisti.
Dalle finestre della sua residenza in Rue Rambuteau, nelle vicinanze del Centre Pompidou e ai complessi commerciali di Les Halles, Lefebvre poteva osservare i risultati del progressivo imborghesimento del centro cittadino: «ho la sensazione che il centro cittadino stia diventando “museificato” e manageriale. Non in senso politico, ma in senso finanziario. La metamorfosi della città e dell’urbano è in pieno svolgimento» [cit. ibidem]. Si rivela qui il più importante contributo di Lefebvre [1973b, 144] all’analisi dell’ambiente costruito: la concezione del settore immobiliare come circuito secondario del capitale.
la teoria della proprietà immobiliare (con i suoi tratti caratteristici: rendita del suolo e commercializzazione dello spazio, investimenti di capitali e occasioni di profitto ecc.), che ha costituito a lungo un settore secondario, progressivamente integrato al capitalismo, è ancora in corso di elaborazione.
Per Lefebvre lo spazio non si esaurisce nell’ambiente costruito: è sia una forza produttiva, sia un oggetto di consumo; ma è sopratutto un oggetto di conflitto politico perché è uno spazio vissuto, «uno spazio di soggetti che ha una sua origine nelle esperienze» [Lefebvre 1978, 346-348] e il conflitto tra l’inevitabile maturazione di queste esperienze «segna lo spazio vissuto, e si conclude con l’affermazione, più o meno forte, ma sempre conflittuale, della sfera “privata” contro la sfera pubblica» [ibidem]. Per Lefebvre, le contraddizioni sociopolitiche si realizzano spazialmente [ ibidem, 349] e, di conseguenza, le contraddizioni dello spazio esprimono i conflitti degli interessi e delle forze sociopolitiche. Poiché in campo immobiliare sono i diritti d’uso che generalmente determinano il valore di scambio, Lefebvre ha ben compreso ed elaborato la consapevolezza che questi diritti non sono un prodotto del libero mercato, ma vengono in larga misura assegnati dallo stato attraverso la pianificazione degli usi del suolo e della mobilità. I conflitti che ne derivano «hanno luogo nello spazio e diventano contraddizioni dello spazio» [ibidem, 350, corsivo mio] e finiscono per essere riconducibili a una disputa riguardante le ineguaglianze e la distribuzione differenziata dei diritti di cittadinanza. Da questa convinzione, Lefebvre deriva che l’unico modo (reazionario) per controllare e organizzare lo spazio urbano sia rappresentato dalla sua frammentazione in parti liberamente scambiabili sul mercato: il settore «immobiliare» (insieme all’edilizia) cessa di essere un circuito secondario, un ramo aggiunto e per molto tempo arretrato del capitalismo industriale, e passa in primo piano […] il capitalismo ha preso possesso del suolo, lo ha mobilitato, e il settore tende a diventare centrale […]. La mobilitazione dello spazio può avvenire solo a condizioni ben precise. Essa comincia […] dal suolo, che deve essere strappato alla proprietà di tipo tradizionale, alla stabilità e alla trasmissione patrimoniale, con grosse difficoltà e concessioni ai proprietari (sotto forma di rendite fondiarie); poi si estende allo spazio intero, al sottosuolo e ai volumi al di sopra di esso. Lo spazio intero deve ricevere un valore di scambio [ibidem, 323-324, corsivo nell’originale].
Il secondo circuito del capitale si propone come una combinazione di elementi che comprendono sia la struttura, sia l’azione [Gottdiener 2000, 95]. Comprende da un lato gli elementi finanziari (le banche, le compagnie di assicurazione e i programmi statali di investimento), dall’altro lato gli investitori, gli speculatori, i proprietari di immobili e tutti gli individui che realizzano dei profitti dal mercato dei suoli. Questa tendenza produce importanti effetti: l’incremento degli investimenti nel secondo circuito del capitale ha generato un consistente spostamento dallo sviluppo industriale alla speculazione immobiliare (dai centri cittadini ai terreni periferici di basso costo).
Lefebvre ha inoltre chiarito, con largo anticipo rispetto alla tradizione degli urban studies, che gli sviluppi capitalistici hanno enfatizzato l’importanza del consumo: per questa ragione gli spazi per il consumo sono divenuti – nei paesi avanzati – più importanti per l’economia nazionale degli spazi per la produzione, generalmente delocalizzati nei paesi dove la mano d’opera è meno costosa. Ne La produzione dello spazio [1978], Lefebvre osserva che gli investimenti nell’ambiente costruito hanno preso la forma di spazi per il consumo. La vita quotidiana è embedded negli spazi delle strutture commerciali che hanno progressivamente sostituito gli spazi pubblici.
QUADRO 6.1.
Titolo????
La città predomina e tuttavia non è più la città-stato come nell’antichità. Si possono distinguere tre elementi: la società, lo stato, la città. In questo tipo di sistema urbano ogni città tende a costituirsi da sola in sistema chiuso, limitato, compiuto. La città conserva un carattere organico di comunità che le proviene dal villaggio e si traduce nell’organizzazione corporativa. La vita comunitaria (che comporta assemblee generali o parziali) non impedisce affatto le lotte delle classi. Al contrario. I violenti contrasti tra la ricchezza e la povertà, i conflitti tra i potenti e gli oppressi, non impediscono né l’attaccamento alla città, né il contributo attivo alla bellezza dell’opera. Nel quadro urbano le lotte di fazione, di gruppo, di classe, rinforzano il senso di appartenenza. Le lotte politiche tra «popolo minuto», «popolo grasso», aristocrazia hanno per terreno e per posta la città. Questi gruppi sono rivali in amore per la loro città. Quanto ai detentori della ricchezza e della potenza, si sentono sempre minacciati. Essi giustificano il loro privilegio di fronte alla comunità dispensando sontuosamente la loro fortuna in edifici, fondazioni, palazzi, abbellimenti, feste. È opportuno sottolineare questo paradosso, questo fatto storico non ancora ben chiarito: società assai oppressive furono molto creatrici e ricche di opere.
In seguito, la produzione di prodotti sostituì la produzione di opere e dei rapporti sociali a esse collegati, in particolare nelle città. Quando lo sfruttamento sostituisce l’oppressione, la capacità creatrice scompare. La stessa nozione di «creazione» si sfuma o degenera minimizzandosi nel «fare» e nella «creatività» (fatelo voi stessi ecc.). E ciò dà argomenti per sostenere una tesi: la città e la realtà urbana dipendono dal valore d’uso. Il valore di scambio, la generalizzazione della merce prodotta dall’industrializzazione tendono a distruggere, subordinandola, la città e la realtà urbana, ricettacoli del valore d’uso, germi di una virtuale predominanza e una rivalutazione dell’uso.
Nel sistema urbano che cerchiamo di analizzare si esercita l’azione di questi conflitti specifici: tra valore d’uso e valore di scambio, tra la mobilitazione della ricchezza (in denaro, in carta) e investimento improduttivo nella città, tra accumulazione di Capitale e sperpero nelle feste, tra estensione del territorio dominato ed esigenza di un’organizzazione severa del territorio stesso attorno alla città egemone. Quest’ultima si protegge contro ogni eventualità per mezzo dell’organizzazione corporativa che penalizza le iniziative del capitalismo bancario e commerciale. La corporazione non regolamenta solo un mestiere. Ogni specializzazione corporativa sta in un sistema organico; l’organizzazione corporativa regola la localizzazione delle attività nello spazio urbano (strade e quartieri) e il tempo urbano (orari di lavoro e di festa). Questo sistema tende a cristallizzarsi in una frattura immutabile di cui l’industrializzazione presuppone la sua rottura sia nei suoi aspetti di organizzazione sociale che in quelli di sistema urbano. Gli storici (dopo Marx) hanno messo in evidenza il carattere non passibile di sviluppo delle corporazioni.
5. INFLUENZA DI LEFEBVRE NEGLI STUDI URBANI
5.1. Giubilazione: gli spettri di Marx
Il crescente interesse per le teorie sociospaziali [Mela 2006, 251-290] ha (ri) creato un pubblico potenziale per un autore che è stato uno tra i primi a esa- minare in dettaglio la politica dello spazio e il rapporto tra l’ambiente fisico della città e i suoi molteplici rapporti sociali ed economici [Parker 2006, 39]. Tuttavia, nonostante negli anni successivi alla sua morte Lefebvre sia stato riscoperto, ciò è accaduto non esattamente come egli avrebbe voluto. Sebbene la sua opera risulti difficilmente «etichettabile», probabilmente una tra le collocazioni migliori del suo pensiero viene da Mark Gottdiener [2000, 94]: «Lefebvre non è stato né un geografo, né un sociologo. È stato un filosofo marxista appartenente alla vecchia scuola». Nonostante ciò, la sua riscoperta si deve principalmente ai geografi – David Harvey [1991; 1993] tra i primi – e, in modo più esteso, alla corrente dei geografi americani postmoderni18 [Soja 1989]. In Italia, nonostante l’attenzione iniziale al lavoro prodotto durante la «svolta spaziale»19, Lefebvre è oggi un autore completamente dimenticato: i suoi libri sono stati lasciati invecchiare e non vengono più ristampati.
Del suo originale stile di scrittura, che non ne fa propriamente un autore «accademico», abbiamo già detto. Tuttavia, non sembra questa una ragione sufficiente per decretarne l’oblio. Si potrebbe allora pensare di trovare qualche motivazione coerente e convincente con le forme di rimozione del pensiero di Karl Marx attuate nella società contemporanea, così come indicate da Jacques Derrida [1994] ne Gli spettri di Marx. La tesi di Derrida allude sia agli spettri che ossessionavano Marx in vita, sia allo stesso Marx come spettro della società capitalista contemporanea. Derrida [ibidem] sostiene che, per tutta la sua vita, Marx fu un ghostbuster molto impegnato a dare la caccia agli spettri: in altre parole egli fu sia ossessionato dai fantasmi del capitalismo, sia un fantasma ossessionante per il capitalismo. Il tema dei fantasmi affiora bene nella convinzione marxiana secondo il quale la realtà in cui viviamo è una realtà spettrale, nel senso che il modo capitalistico di produzione è un mondo popolato di automi senza soggetti, un mondo nel quale i morti (le merci) dominano sui vivi (gli uomini). Tuttavia – nota Derrida [ibidem] – se ci si lascia prendere dalla foga di sotterrare definitivamente il fantasma, si finisce fatalmente per essere dominati da esso. Si tratta di una pratica che coincide con quella che Sigmund Freud chiamava la «fase giubilatoria della rielaborazione del lutto» e si configura come una forma di esorcismo. Detto diversamente, più crediamo di potere farla finita con i fantasmi, più ci ritroviamo a essere loro vittime. Per Derrida [ibidem], soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino, Marx è un fantasma che ancora ci ossessiona.
18 Soja [1989] ha aggiornato le teorie di triade spaziale elaborate da Lefebvre attraverso il concetto di «trialettica spaziale», che include il thirdspace, ovvero gli spazi che sono sia reali sia immaginati.
19 La sua opera più celebre, La produzione dello spazio (1974) è stata tradotta in italiano nel 1978 e solo nel 1991 in inglese. Possiamo comunque osservare che, per un periodo limitato di tempo (tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’70), la lettura di Lefebvre ha influenzato – direttamente o indirettamente – i sociologi, gli architetti e soprattutto i pianificatori [Balbo e Martinotti 1966; Elia 1967; 1974; Parlato 1970; Della Pergola 1972; Folin 1972; Indovina 1972; Mingione 1972; Detragiache 1973; Ferrarotti 1973; Crosta 1979].
Concludiamo con alcune riflessioni a proposito del concetto di «secondo circuito del capitale», che costituisce certamente una buona occasione per presentare alcune riflessioni, accompagnate da esempi concreti, sull’attualità e sull’adattabilità allo studio delle realtà contemporanee del suo pensiero.
5.2. L’attualità del secondo circuito del capitale
Nottola: Lo so che la città sta là e da quella parte sta andando perché il piano regolatore così ha stabilito. Ma è proprio per questo che noi da là, la dobbiamo fare arrivare qua.
Compari di Nottola: E ti pare una cosa facile? Cambiamo il piano regolatore?
Nottola: Non c’è bisogno. La città va in là? Questa è zona agricola. Quanto la puoi pagare oggi? 300, 500, 1.000 lire al metro quadrato? Ma domani, questa terra, questo stesso metro quadrato [traccia con un bastone un quadrato sulla terra] ne può valere 60, 70.000 e pure di più. Tutto dipende da noi: il 5.000% di profitto. Eccolo là [indica la città]: quello è l’oro oggi. E chi te lo dà? Il commercio? L’industria? L’avvenire industriale del Mezzogiorno?! Investili i tuoi soldi in una fabbrica! Sindacati, rivendicazioni, scioperi, cassa malattia… ti fanno venire l’infarto queste cose. E invece, niente affanni e niente preoccupazioni. Tutto guadagno e nessun rischio. Noi dobbiamo solo fare in modo che il Comune porti qua le strade, le fogne, l’acqua, il gas, la luce e il telefono (F. Rosi, Le mani sulla città, 1963).
Come abbiamo visto, l’idea del momento urbano è stata per Lefebvre una combinazione di descrizione e di prescrizione, nella quale ha finito per prevalere una deliberata visione utopica, intorno alla quale il sociologo francese ha costruito un intero apparato di riflessioni programmatiche, tra cui quella certamente più importante è la nozione di diritto alla città. Poiché la tradizionale concezione di rivoluzione socialista – tutta concentrata sul possesso dei mezzi di produzione e sulla lotta di classe – non avrebbe mai potuto produrre una nuova era di urbanizzazione, per Lefebvre si rendeva necessario un radicale spostamento degli obiettivi, individuando come priorità di azione le pratiche attraverso le quali la vita umana avrebbe potuto autorganizzarsi all’interno di nuovi spazi sociali. Nella nozione di «diritto alla città» era esplicitamente presente una sollecitazione alla mobilitazione politica finalizzata a consentire l’accesso agli opposti: l’individualità e l’associazione, la privacy e l’abitare insieme. Era inoltre presente il concetto di diritto all’opera – termine secondo alcuni ripreso dalla Vita activa di Hanna Arendt [1991] – inteso come capacitazione della società urbana di partecipare alla (e di fruire in modo attivo della) costruzione della città.
In tempi recenti, la nozione di diritto alla città è stata appropriata da numerosi movimenti e organizzazioni più o meno strutturati (Reclaim the Street, International Network for Urban Research and Action, Zapruder; l’elenco potrebbe essere molto lungo)20 che sperimentano azioni locali e sviluppano idee per
20 È sufficiente inserire right to the city in un motore di ricerca per rendersene conto. Se si estende il senso di diritto alla città ad attività quali la partecipazione pubblica, la progettazione inclusiva, la democrazia deliberativa o l’advocacy planning, allora l’elenco diviene sterminato.
«una città solidale, sostenibile ed equa, liberata da ogni sfruttamento, dalle discriminazioni e dalla privatizzazione delle risorse» [Maggio 2005].
È su questo punto che si articola compiutamente la combinazione di descrizione e di prescrizione del pensiero di Lefebvre. Poiché esiste una tensione permanente tra il libero appropriarsi dello spazio per fini individuali e sociali, e il dominio dello spazio per mezzo della proprietà privata, dello stato e di altre forme di potere sociale e di classe, il concetto di diritto alla città incontra immediatamente degli acuti dilemmi. Lefebvre ha sempre sostenuto che l’unico mezzo per controllare e organizzare lo spazio è la sua frammentazione in parti di proprietà privata liberamente alienabili, che possono essere scambiate sul mercato. In questo modo, lo spazio diventa un «contenitore di potere sociale» [Harvey 1993, 311]: la riorganizzazione dello spazio è sempre una riorganizzazione del quadro attraverso cui si esprime il potere sociale.
Attraverso la descrizione del «momento urbano» come modello immanente di urbanizzazione che trascende la città industriale e ne riorganizza le relazioni sociali (cfr. supra), Lefebvre ha introdotto la nozione di secondo circuito del capitale (distinto da quello teorizzato da Marx), che introduce l’ipotesi che il settore immobiliare – il real estate – rappresenti un circuito separato del capitale. Questa ipotesi può essere chiarita attraverso un esempio. Quando noi facciamo riferimento alle attività economiche, descrivendo il modo con il quale queste implicano l’uso del denaro da parte di investitori, l’assunzione di lavoratori, la produzione di prodotti o servizi in un’industria e la vendita dei beni o dei servizi prodotti in un mercato a scopo di profitto che, a sua volta, può essere utilizzato per ulteriori investimenti, noi facciamo riferimento al circuito primario del capitale. La produzione automobilistica è un buon esempio del funzionamento di questo circuito: buona parte del profitto creato nelle società capitaliste è (ancora) di questo tipo. Per Lefebvre, accanto a questo circuito esiste – e va assumendo un’importanza fondamentale per l’analisi sociologica urbana – il secondo circuito del capitale, che si realizza negli investimenti immobiliari. È il caso di un investitore che acquista una porzione di terreno: questo può essere acquistato o può essere trasformato per altri usi, può essere venduto in un mercato speciale dei suoli – il mercato del real estate o sviluppato a scopo di profitto. Il circuito si completa quando l’investitore realizza il profitto e lo reinveste in altri progetti territoriali. Sostenendo il concetto che gli investimenti nel settore immobiliare spingono le politiche di crescita delle città in modi assai specifici, Lefebvre suggerisce (implicitamente) che il real estate non è (solo) un caso particolare di trasformazione dello spazio – una derivata del circuito primario – ma un processo di riproduzione nel quale le attività sociali non riguardano solo le interazioni tra gli individui ma anche tra gli spazi [Gottdiener e Hutchinson 2006, 70-71].
Lefebvre ha compreso che le attività del real estate rappresentano una tipologia di investimento concorrente con altre nelle decisioni di allocazione di capitale da parte degli investitori e ha teorizzato due aspetti: in primo luogo che il mercato immobiliare è a tutti gli effetti parte integrante del più vasto mercato dei capitali e, in secondo luogo, che il settore del real estate, contrariamente alle attività industriali e commerciali, non necessita della combinazione dei fattori di produzione in una struttura. Questo spostamento di prospettiva ci aiuta a comprendere la relazione a doppio senso che si instaura tra la società e il suo spazio: poiché le contraddizioni sociopolitiche si realizzano spazialmente, di conseguenza le contraddizioni dello spazio esprimono i conflitti degli interessi e delle forze sociopolitiche. I conflitti che ne derivano «hanno luogo nello spazio», ma si trasformano in «contraddizioni dello spazio» [Lefebvre 1978, 350, corsivo mio]. Seguendo le riflessioni di Lefebvre si giunge al nucleo di un aspetto molto importante ma generalmente trascurato dalla letteratura. Gli investimenti nel settore immobiliare hanno ormai cessato di rappresentare un ramo aggiunto e per molto tempo arretrato del capitalismo industriale: sono passati in primo piano e orientano le politiche di crescita delle città in modi assai specifici. Per questo motivo è sbagliato considerare questo settore esclusivamente come un caso particolare di trasformazione dello spazio – come se si trattasse unicamente del prodotto derivato dalle logiche socioeconomiche che regolano il circuito primario del capitale – perché il real estate ha ormai assunto la consistenza di processo di riproduzione autonomo e separato. Non ha quindi più molto senso liquidare la questione dello sviluppo immobiliare come irrilevante per le prospettive di crescita urbana per via della cronica arretratezza del settore edile rispetto alle più rampanti innovazioni tecnologiche a cui le città si abbandonano, o stigmatizzarlo in un’immagine démodé di speculazione edilizia, come se i meccanismi di riproduzione fossero rimasti fermi ai tempi di Le mani sulla città o delle vicende sanremesi narrate da Italo Calvino21 Da un lato le trasformazioni sono guidate dalle logiche dell’industria immobiliare, settore che, secondo la letteratura specialistica [Biasin 2005], sarebbe addirittura tra i settori caratterizzanti la new service economy. Dall’altro lato, molta della presunta spontaneità generalmente associata a questo genere di trasformazioni cela al proprio interno una sapiente costruzione di un ambiente funzionale a uno stile di vita preconfezionato e mercificato, che porta queste situazioni ben lontane all’idea lefebvriana di opera e tesse un filo di continuità tra Mourenx, lo sprawl metropolitano e le innumerevoli comunità residenziali sorte negli Stati Uniti e diffuse nel resto del mondo cosiddetto «industrializzato».
5.3. «La teoria della proprietà immobiliare è ancora in corso di elaborazione»
Tra le cause – e le conseguenze – delle mutazioni in corso nelle economie urbane può certamente essere utile comprendere in dettaglio il ruolo svolto dal settore immobiliare, trasformatosi in industria immobiliare. Si tratta della metamorfosi di un settore produttivo, generalmente arretrato, in industria di servizi avanzati che ha fatto segnare una tra le più rilevanti espansioni nel comparto dei servizi. Secondo i dati di Assoimmobiliare, si tratta di un’espansione «che ha portato le economie dei paesi più ricchi a non poter più essere definite come economie industriali». In Italia – nonostante il ritardo con il quale si è manifestata questa tendenza – nel quindicennio 1991-2005 l’industria immobiliare ha aumentato i propri addetti del 170% (mentre il settore delle costruzioni solo del 37,5%; dati Assoimmobiliare, 2006), in una congiuntura in cui l’industria manifatturiera perdeva addetti. Le innovazioni che si sono accompagnate alla crescita di questo settore dei servizi – sempre più prossimo alla finanza piuttosto che alla rendita fondiaria e all’edilizia – sono sottolineate dalle denominazioni delle sue nuove e numerose professionalità: asset e property management, facility, project management ecc.22. Inoltre, i suoi confini sono tutt’altro che ben definiti, dato che al suo interno possiamo includere attività molto eterogenee, quali i servizi legali, di progettazione o di consulenza [Miles, Berens e Weiss 2007]. Si tratta di un comparto a crescente internazionalizazione per via del consolidamento dell’unione economica a livello comunitario, con il contributo aggiuntivo, per i paesi dell’euro, di quella monetaria. La liberalizzazione dei mercati ha, inoltre, favorito la comparsa di agguerriti competitors operanti sul territorio nazionale: è questo un aspetto che ha concorso in modo determinante – in particolare nel mercato dei mutui immobiliari – allo sviluppo della finanziarizzazione del settore immobiliare [Paterniti e Fodde 2004], attraverso l’introduzione di fondi di investimento (operativi in Italia dal 1999). Ultimo – ma non per importanza – la capacità dimostrata da questo settore negli ultimi dieci anni, di condizionare l’azione pubblica nei processi di crescita urbana. Secondo Assoimmobiliare [ibidem, corsivo mio] «il real estate è divenuto nel frattempo il partner indispensabile del settore pubblico nelle trasformazioni del territorio, accompagnando – anche facendosene promotore – la rivoluzione urbanistica silenziosa che ha progressivamente allentato le rigidità dei vecchi schemi pianificatori, che hanno lasciato il posto a forme più flessibili di contrattazione e negoziazione delle trasformazioni stesse».
Qual è l’attenzione degli studiosi contemporanei nei confronti di questo fenomeno? Molto scarsa: David Harvey [2006d, 123-124] lamenta una col- pevole disattenzione e fa riferimento a una sorta di «pregiudizio antiurbano», presente in numerosi studi economici e sociali: troppo frequentemente, lo studio dell’urbanizzazione viene separato dallo studio dei cambiamenti sociali e dallo sviluppo economico, come se questa potesse essere considerata o come un effetto collaterale, o come un prodotto secondario di più importanti e fondamentali cambiamenti sociali. Le susseguenti rivoluzioni nelle relazioni spaziali e sociali, nelle abitudini dei consumatori, negli stili di vita e altro ancora, che hanno caratterizzato la storia capitalista possono – viene qualche volta suggerito – essere compresi senza alcuna profonda investigazione delle radici e della natura dei processi urbani. Anche se è vero che questo giudizio generalmente viene espresso tacitamente, peccando di omissione piuttosto che di commissione, il pregiudizio antiurbano presente negli studi economici e sociali risulta troppo persistente per stare tranquilli.
22 Traggo questa terminologia dal sito di Pirelli Real Estate, che si presenta come una real estate fund & asset management company e il cui motto di presentazione recita: «Essere leader nel settore immobiliare attraverso innovazione, qualità sostenibile e costante sviluppo delle competenze, creando valore per l’azienda, l’ambiente e la comunità» (cfr. www.pirellire.com).
5.4. Le (sette) porte di Milano
Per chiarire il senso del pregiudizio antiurbano presente in numerosi studi sociali (a giudizio di chi scrive, una delle cause della giubilazione di Lefebvre) e per concludere nello spirito di questo volume, che ci invita a portare esempi concreti, torna utile richiamare brevemente uno studio recente. Nel 2007 la Camera di commercio milanese, insieme all’Associazione Globus et Locus, ha pubblicato i risultati di un’interessante ricerca coordinata da Paolo Perulli, intitolata Milano globale e le sue porte. La ricerca intendeva elaborare «nuovi misuratori di Milano globale, indici di connettività di Milano con le altre città globali, indici di posizionalità di Milano nella rete globale» [Perulli 2007, 2]. Per colmare questa necessità, la ricerca ha scelto di «ricostruire, analizzare, rappresentare e misurare i flussi materiali che caratterizzano il nodo della rete globale» [ibidem, corsivo nell’originale]. Il metodo prescelto è stato quello di identificare «sei porte» – o sistemi funzionali di accesso-transito-uscita a/ da Milano – ritenuti in grado di identificare «altrettanti flussi di persone, imprese, merci servizi, informazione e conoscenza» [ibidem]: la logistica, gli aeroporti, la fiera, l’università, la ricerca e il design, ritenendoli – sebbene in modo non esclusivo – «rilevanti per i sistemi economico-territoriali a scala globale, per la possibilità di effettuare comparazioni con le altre città globali, per la crucialità che in essi occupano non solo gli investimenti in capitale fisso ma anche il capitale umano e i fattori immateriali e, infine, per il peso specifico che Milano detiene nei rispettivi sistemi funzionali» [ibidem].
La scelta delle sei porte è indubbiamente interessante, oltre che originale; tuttavia, nonostante il coordinatore riconosca il carattere non esclusivo delle scelte operate, resta la sensazione che alcuni elementi rilevanti e costitutivi del quadro che la ricerca stessa intende tratteggiare siano stati trascurati e che tale dimenticanza – come ci mette in guardia Harvey [2006d, 124] – sia frutto di un tacito «pregiudizio antiurbano». Le sei porte individuate dimostrano