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Intervista a Formafantasma
from GINKGOMAG #01 Unione
by ginkgomag
Andrea Trimarchi e Simone Farresin sono i fondatori di Formafantasma, un giovane studio di origini italiane con base a Rotterdam e Milano. Formafantasma non è il consueto studio di progettazione abituato a sfornare modelli e forme per i vari clienti e brand che si susseguono, ma come capiremo durante l’intervista il design è solo un punto di partenza per aprire un dibattito su molti temi del presente e trovare soluzioni per il futuro. Formafantasma negli anni ha avuto sempre più conferma della qualità della sua produzione grazie all’acquisizione di alcune proprie opere da parte di importanti musei internazionali, tra i quali il Moma e il Metropolitan di New York, e alle collaborazioni con brand internazionali come Samsung e Prada. Iniziamo con una domanda che mi incuriosisce. Perché questo nome Formafantasma? Pensando a questo nome e sapendo che appartiene ad uno studio di designer sembra voler suscitare che la forma per voi c’è ed è presente ma non per questo deve apparire in primo piano. Potrebbe essere una corretta interpretazione?
Sì è esatto. Molto spesso siamo più attratti dai processi che determinano la forma, piuttosto che dalla forma stessa. Il nostro slogan è: la forma segue il contesto . La forma cambia con il contesto. Per fare un esempio nel progetto realizzato per Flos la nostra attenzione era nel disegnare la luce più che le lampade che la proiettano. Adesso stiamo facendo un lavoro per Samsung, questa azienda ha al suo interno dei designer bravissimi ed il nostro incarico non è disegnare ulteriori prodotti, ma dare a questi progettisti una visione del futuro e quindi aiutarli ad immaginare un contesto dove verranno utilizzati.
Le vostre produzioni possono essere considerate allo stesso tempo sia oggetti di design che opere d’arte. Negli ultimi anni mi sembra che la vera attività di ricerca nel mondo del design provenga in particolare dagli autori che riescono a stare come voi su questa sottile linea di confine (cosa che invece mi sembra non essere nel mondo dell’industrial design) . Cosa ne pensate?
È una domanda che ci viene rivolta spesso. Chiariamo subito, noi facciamo design.
Ma allo stesso tempo ci piace avere la libertà che hanno gli artisti nell’affrontare un progetto, inoltre collaboriamo con molte gallerie. Credo che oggi a differenza dei decenni passati, ed in particolare agli anni 60 quando vi erano gruppi come i radicals, sia difficile fare innovazione nell’industria del furniture. Un discorso a parte riguarda la disciplina della luce, qui ancora ricerca e tecnologia possono trovare un legame. Uno dei principali problemi è che molte aziende non capiscono che per fare un nuovo progetto serve una nuova necessità e quindi una visione del futuro. Perché disegnare un’altra sedia se non ripensiamo il modo di sederci? Inoltre, un progetto è non solo l’oggetto che viene venduto, ma tutto il processo che viene fatto per realizzarlo. Credo che uno dei campi più affascinanti per un designer contemporaneo sia disegnare i processi più che le forme. Vorrei fare un’ultima considerazione su questa domanda. Parte del nostro lavoro consiste nel tenere seminari e fare corsi di formazione, questo ci dà modo di conoscere futuri designer molti dei quali hanno un approccio al progetto simile al nostro, dove la forma è solo uno dei tanti significati del progetto e non necessariamente il più importante.
Nel vostro progetto del 2017 Ore Streams affermate una cosa che mi ha fatto molta impressione e cioè che in un futuro non troppo remoto avremo più metallo sulla superficie della terra che al suo interno. Questo perché l’uomo lo ha estratto per tradurlo in manufatti. Partendo da questi presupposti, tramite la cultura del riutilizzo, usate il design come strumento educativo per ottenere un diverso approccio nei confronti del nuovo. In questo vostro progetto, come in altri, l’oggetto non ė il fine ma proprio come nell’arte un mezzo per dire qualcosa?
Questo progetto vuole focalizzare l’attenzione su alcune problematiche. Tra queste il fatto che spesso gli oggetti non vengono pensati per essere riciclati. Troppo spesso non sono pensati link tra i vari soggetti che interagiranno con l’oggetto nelle varie fasi del suo utilizzo e fra queste vi è anche quella del suo smaltimento. Perché di uno smartphone oltre che delle sue funzioni non ci preoccupiamo del suo impatto sull’ambiente?
Questo progetto ha una seconda fase molto più pratica che verrà presentata alla Triennale di Milano dove in collaborazione con alcuni partners tra i quali l’ONU abbiamo steso delle linee guida per migliorare la progettazione degli oggetti finalizzata al loro smaltimento. Per fare un esempio all’interno degli smartphone vi sono diverse tipologie di cavi elettrici i quali contengono materiali differenti, ma per le macchine che devono smaltirli sono tutti uguali. Se utilizzassimo colori diversi per ogni tipologia di cavo questi diventerebbero identificabili e tutto questo materiale sarebbe riutilizzabile.
Nel vostro progetto Charcoal, un processo tecnico quasi dimenticato come la produzione di carbone per lenta combustione, diventa allo stesso tempo il mezzo per evocare la storia e per costruire una serie di oggetti. Qui in particolare la forma ė quasi fuori dal vostro controllo perché affidata al caos. Potrebbe essere giusto dire che le vostre forme si assimilano più con l’intelletto che con i sensi?
Nei nostri progetti è importante il testo. Questo è frutto di profonde ricerche. In Charcoal ci affascinava fare un progetto di design senza il controllo della forma. Per alcuni questo approccio, dove il designer perde il controllo della forma, può risultare paradossale. Per noi il vero progetto è il processo e la forma si definisce alla fine del tutto. Nel caso di Charcoal ci siamo spinti ancora oltre, abbiamo lasciato parlare la materia ed abbiamo lasciato la forma quasi a sé stessa.
In alcuni vostri progetti come Moulding tradition o Autarchy vi sono espliciti contenuti politici o visioni sociologiche. Per voi quindi il design può essere oltre che un mezzo di educazione anche uno strumento di denuncia?
Il design deve essere uno strumento di denuncia.
Il design deve essere politico.
Il design deve essere critico.
Ci piace affermare che non abbiamo avuto maestri ma in questo caso posso dire che Enzo Mari lo è stato. Ovviamente per lui i temi erano diversi perché diverso era il periodo storico, ma condividiamo appieno la sua visione di utilizzare il design come strumento politico ed educativo. Chi lavora nel design ha un reale impatto sul mondo più di chiunque altro. Il design in senso ampio è alla base del mondo, siamo circondati costantemente da oggetti. Gli architetti su questo tema hanno avuto sempre una maggiore attenzione.
Nel vostro progetto Craftica per la maison Fendi utilizzate la pelle come punto di partenza per creare un legame tra uomo e natura e da qui addentrarvi in memorie ancestrali sulla nascita dell’uomo. Il risultato sono delle forme quasi primitive. Questo come altri progetti sono frutto di profonde ed estese ricerche in svariati campi. Come riuscite a gestire questa grande massa di informazioni e tradurla in oggetti?
Come già detto per noi è fondamentale la ricerca. Per fare un esempio con Flos il progetto è conseguenza di 5 anni di studi. Comunque la prima fase del progetto è creare dei blog interni allo studio per raccogliere informazioni, poi apriamo dei gruppi di discussione, in alcuni casi abbiamo coinvolto anche più di 150 persone! Tutto il processo va avanti in progress con fasi altalenanti di idee, ricerca e stalli. Convinti di una visione olistica del processo progettuale il modo in cui operiamo ci porta ad un momento quasi magico dal quale scaturisce l’oggetto.
Un’ ultima domanda. Voi siete italiani ed in parte lo è anche la vostra formazione. Perché avete deciso di lasciare il vostro paese di origine?
Non siamo fuggiti.
Però in Olanda vi sono scuole tra le quali la Design Academy Eindhoven dove ci siamo laureati che hanno una visione del progetto più vicina alla nostra.
Inoltre, altro fattore fondamentale è il fatto che in Olanda vi sono, grazie al sostegno delle istituzioni e quindi della politica, molte iniziative che aiutano i giovani designer ad inserirsi nel mondo del lavoro.