L'implementazione, il viaggio per nuovi mondi

L'implementazione, il viaggio per nuovi mondi

di Francesco Piro

L'inizio – parte prima

1

1 Siamo la tecnologia più evoluta dell’universo.

Siamo senza dubbio le migliori macchine esistenti: Dio stesso, si racconta, ci ha creati a sua immagine e somiglianza.

Quando nel lontanissimo anno 2001 partì il primo esperimento d’implementazione nell’organismo umano del complesso della tecnologia esistente, non pensavamo di certo che saremmo arrivati sin qui, in un punto talmente remoto del cosmo che, forse, a tratti, abbiamo pensato: se continuiamo ancora un poco, forse arriveremo a toccare il limite dell’universo.

Magari scoprendo che è solo uno sconfinato telone nero, con su dipinte tante belle stelline bianche, appoggiato per bene su una struttura metallica, leggera e resistente, oltre cui c’è la casa di Dio. Che, a quel punto, incontrandoci, finalmente di persona, si distaccherebbe dai suoi molti schermi e telecomandi, sui quali ci stava osservando fino a poco prima, e ci direbbe, chissà..:”benvenuti, voi siete i primi! Avete scoperto l’arcano, non era poi così difficile, ragazzi, no?!”

E a quel punto scoppierebbe a ridere, e noi appresso a lui: una risata universale, che si risentirebbe in tutto il creato, come uno strano rumore di fondo.

Ed invece ad oggi, anno 2114, secondo l’antico calendario gregoriano, noi cinque quel passaggio non lo abbiamo ancora trovato.

Noi che, messi insieme, rappresentiamo l’unione di quanto la tecnologia umana dell’anno 2014 poté inserire con sicurezza nell’organismo dell’uomo, per permettergli d’incamminarsi, così adeguatamente sistemato, verso il primo grande viaggio interstellare, con la speranza di trovare un mondo nuovo, per una razza morente.

2

2 Il modo peggiore di rifugiarsi in casa per tapparsi gli occhi, le orecchie e tutto il resto, da un mondo che si vede in totale disfacimento, e che si vorrebbe cercare di dimenticare, è quello di farlo con la scusa, ridicola, di credersi un aspirante scrittore.

Credetemi, se pure voi, per un solo attimo, avete fatto una cosa del genere a voi stessi, fate presto a liberarvi dall’inganno, da questa forma autolesionista di sortilegio.

In un primo tempo, quando mi decisi a dare le dimissioni dal centro di ricerche “Ivan Pavloc” di Mosca, mi dissi esattamente questo: farò ciò che ho sempre desiderato fare, e cioè lo scrittore.

Poi, mesi dopo, e a seguito d’innumerevoli vani tentativi, quando mi resi integralmente conto che avere a che fare soltanto con la mia mente in una stanza chiusa, era per me come fare quel gioco, assurdo, che fanno certi cani mordersi la coda in circolo - desistetti e, dato che sentivo che non mi restava proprio più niente a cui aggrapparmi, a quel punto, mi lasciai completamente andare.

Caddi in una cupa depressione, ben sostenuta dalla vodka.

Nella mia casa, al primo piano di via Ulic Krsnjic 34, allora capitarono ben due effrazioni consecutive, soltanto la seconda delle quali ebbe il profondo potere di scuotermi, seriamente, dal torpore esistenziale, in cui m'ero lasciato cadere.

Il fatto è che allora mi sentivo un uomo perduto, inutile, una sorta di vegetale che marcisce lentamente su un ripiano del frigo.

Per due mesi, dal momento in cui avevo appoggiato la penna, definitivamente, sulla scrivania, m’ero nutrito solo di vodka e di tutto ciò che era rimasto in dispensa, fino all’ultima cialda secca.

Quando entrarono i primi, deflagrando il vetro della porta-finestra della mia sala da pranzo, mi trovarono impassibile, seduto sul divano, a fissarli.

Ricordo pure le parole esatte che ci scambiammo allora.

Uno dei due, un tipo tarchiato, con delle ridicole guance cadenti e un colbacco verde sfondato in testa, mi disse, colpito dalla mia immagine: ”compagno.. stai bene?”

Ci fu qualche attimo di silenzio, poi, non vedendomi rispondere alcunché, si fece strada l’amico più alto: “siamo qui per rapinarti, ma se stai male compagno ti portiamo prima in ospedale?”

3

Vedendomi ancora tacere, quello col muso da topo si avvicinò, prese a scuotermi e disse, di nuovo: ”stai bene?” Sei sordo? Sei diventato matto? Che diavolo hai, compagno?”, e a quel punto sferrò un forte calcio al divano.

Vedendomi ancora inerte quello alto disse: “lasciamolo qui e prendiamoci la roba! Forse è morto e non lo possiamo sapere, meglio così..”

Dopo un quarto d’ora tornarono e quello alto tirò fuori una vecchia pistola arrugginita, me la puntò dritta sul cranio e disse “bum!”. Poi rise.

In quel momento qualcosa si rianimò in me, mi rivolsi verso l’uomo e gli dissi sicuro: ”spara, non vedi che sono già morto? Fammi un favore, sparami adesso, idiota!”

L’uomo, che non si aspettava per nulla quella reazione, iniziò ad indietreggiare, quasi impaurito.

“Spara, maledetto!”, insistetti io, prendendogli la mano, “spara!”.

I due uscirono dal salone, arretrando, con i loro sacchi già ricolmi di roba e quello grassoccio disse, ancora: “è veramente matto, andiamocene via.”

L’altro, lungo il corridoio, aggiunse: “Cristo, tu lo sai, sono solo un onesto ladro, Sergeji.. lo sai bene, e questa è solo un ferrovecchio.”, disse ancora guardando l'arma, che poi gettò sul tappeto.

Sentì sbattere la porta di casa, ma non riuscì a trovare in me la forza per alzarmi.

Ma ricordo che a quel punto presi a piangere, copiosamente: sentii un forte moto del cuore, dopo mesi di vuoto.

E fu bello davvero, mi sentii molto meglio, per qualche ora.

4

3 La seconda effrazione, fu pochi giorni in seguito alla prima, credo appena cinque giorni dopo.

Questa volta il ladro entrò nottetempo, io dormivo, si fa per dire, sempre sullo stesso divano.

Non mi accorsi quasi per nulla, di ciò che era già quasi accaduto, infatti il ladro aveva già preso tutto ciò che gli era indispensabile in casa, credo, quando decise di mettersi ad osservarmi, a due soli metri dal divano ove giacevo, inerte.

Lo intravidi con la coda dell’occhio, sperando in cuor mio di dargli a vedere che fossi ancora completamente immerso nel sonno.

Ma lui, dopo un pò che era lì, immobile, a scrutarmi, prese a scuotermi con foga, parlandomi.

“Svegliati, dai, muoviti.. lo vedo che stai fingendo.”, disse, improvvisamente.

“E tu chi diavolo sei?”, mi venne da rispondergli.

Dopo qualche attimo che m’ero tirato a sedere ad un lato del divano, fingendo quasi d’avere paura dell’uomo vestito in tuta nera, con calzamaglia ugualmente nera sul viso, lo vidi cominciare a sfilarsela, lentamente.

Mi si rivelò il volto di una bellissima donna.

Alla fioca luce della luna che penetrava dalla mia finestra, ancora rotta, ne distinsi i lineamenti, i capelli mossi, forse castani, prima raccolti in qualche modo, ora sciolti completamente sulle spalle, e gli occhi che mi sembrarono lì per lì trasparenti, non so.

Poi la donna si mise improvvisamente a schiaffeggiarmi, con mia grandissima sorpresa.

E parlo, con foga: “E’ da troppo tempo che stai messo così.. è ora di alzarsi, uomo, è tempo di reagire!”, disse.

Poi, ancora, una volta che ero in terra, presi a coprirmi come meglio potessi da quell’assalto, continuò sferrandomi dei piccoli calci maledetti, con certi stivaletti appuntiti, i quali mi riuscirono a colpire di seguito, sulle costole, provocandomi un dolore acuto.

“Tutto qui sta andando in rovina”, disse la donna, i cui occhi a quel punto parevano essersi riempiti di un vortice di fuoco e rabbia.

Proseguì, ancora più infervorata, dicendo “e tu pezzo d’idiota te ne stai in casa a bere! Se domani ti ritrovo in questo stato, ti finisco con le mie stesse mani.

Idiota!”

A quel punto mi centrò con un destro preciso sul mento, ora che m’ero appena rimesso a sedere, in terra, un colpo preciso che mi stese definitivamente.

5

L’indomani mattina, quando mi alzai da terra, livido e dolente, in ogni singola parte del corpo, sentivo che m’era arrivato il messaggio che in modo latente stavo aspettando, mio malgrado.

Andai in bagno, e dopo settimane che non lo facevo più, mi specchiai e vidi il volto di un uomo irriconoscibile.

Un uomo che non sembravo più io.

Un volto scavato, coperto a tratti da una brutta barba grigia e rossiccia, degli occhi che sembravano avessero, al posto delle lenti a contatto una patina oscura che ne celava il colore, e i denti ormai quasi completamente neri.

Più tardi, lavatomi integralmente con una certa cura, dettatami da un temporaneo barlume di volontà, una volta rivestitomi come un uomo normale, quasi, mi chiusi a fatica la porta di casa dietro alle spalle ed uscì, ansimando e zoppicando come un vecchio mendicante malato.

Mi riversai per le strade della capitale, letteralmente in piena a quell’ora, senza la più pallida idea in merito a dove potessi andare.

6

4 Qualche giorno dopo che m’ero deciso a tenermi a forza fuori di casa, quasi che starci dentro avesse in sé il potere, oscuro, di piegare la mia volontà, mi ritrovai a scendere i gradini della lunga scalinata marmorea intitolata a Palic Kustrov, che conduce nella antica metropolitana della città.

Di quei giorni, precedenti al momento che sto per raccontare ho scarsissima memoria, e dovrei mettermi a rovistare tra i file che ho spostato nella scheda a neuroni ibridi, ma probabilmente non v’è nulla d’importante, immagino.

Ricordo invece che, allora mi dovetti appoggiare al corrimano per non svenire, perché ebbi, in un momento, un brutto e improvviso giramento di testa.

Passò un uomo, il quale mi prese per le spalle e mi chiese se stessi bene.

Gli dissi sto bene, lo ricordo ancora, grazie compagno.

Pochi istanti dopo che lo vidi scomparire nella grande galleria alla fine delle scale, caddi rovinosamente, perdendo definitivamente i sensi.

7

5 Quando riaprì gli occhi, ogni cosa era cambiata dinanzi a me.

C’era un muro bianco, innanzitutto, con una grande ed intensa luce artificiale che mi stava accecando.

Non riuscendo più a sentire il collo né a muoverlo, provai ora a muovere le mani ora le braccia, e mi sentii rassicurato dal fatto che fossi in grado di toccare in qualche modo il busto e le gambe persino.

Con la coda dell’occhio mi parve chiaro che mi trovavo dentro alla stanza di un ambulatorio o di un pronto soccorso, in attesa di qualcuno o qualcosa che mi avrebbe informato, prima o dopo, sulle mie condizioni di salute.

Così pensai.

Chiusi gli occhi per un pò, e caddi nuovamente in un sonno profondissimo che, forse, durò appena pochi minuti, forse molto di più.

Quando fui svegliato, di soprassalto, dal rumore di una porta che si richiudeva, riaprì gli occhi e mi ritrovai a fissare quelli, splendidi, di uno strano colore cangiante, blu cobalto, di una giovane donna, bionda, coi capelli cortissimi, che mi stava fissando con uno sguardo oltremodo serio.

Sembrava si volesse limitare a fissarmi, poi, finalmente aprì bocca.

“Signor Osovic, sono Sondra Trstijc, buongiorno, come si sente adesso?”, mi disse.

“Sondra?.. mi sembra di averla già conosciuta..”, infatti mi pareva in quel momento un volto in qualche modo familiare, un volto che hai conosciuto ma la tua memoria ti cela per benino, proprio perché hai provato a ripescarla direttamente da lì.

“Sondra..”, dissi ancora..”dove ci siamo già visti? Lei.. è molto bella, complimenti.”

Poi riprese lei: “Non si sforzi signor Osovic, noi non ci siamo mai visti prima, dunque potrebbe essere stato soltanto nei suoi sogni.. o nei suoi incubi.”

Poi mi mise una mano sul collo, mi parve che me lo afferrò per bene, ma mi resi conto in quel momento di non riuscire a sentire nulla.

“Signor Osovic..”, riprese la donna, con uno sguardo se possibile più intenso di prima: ”lei ha subìto la frattura di una vertebra del collo, in poche parole.. lei ha il collo rotto. Ma la cosa veramente sorprendente, nel suo caso, è che tutto il resto del corpo le funziona quasi bene. A parte alcune contusioni subite nella caduta e una frattura al piede.”

Non capii subito la situazione perché uscivo da un periodo talmente lungo di assenza da me stesso e dal corpo, che in qualche modo, la frattura del collo ed il

8

resto non mi parvero peggio di quanto non avessi vissuto sino a pochi giorni prima.

“Da quanto sono qui?”, le chiesi.

“Due giorni interi, signor Osovic. Fino a qualche ora addietro, stava nel reparto di rianimazione, adesso è qua, perché qualcuno le vuole offrire una possibilità.

L’altra a sua disposizione è quella.”

E indicò l’unica porta della stanza.

“Uscire, intende? E come? Mi ha appena detto che il mio collo..”, le dissi, nuovamente.

“Lo so perfettamente ciò che ho detto poc'anzi, ma lei è al corrente di essere al verde e del fatto che, noi, del governo, non abbiamo titolo, né obbligo, nei suoi confronti, per sostenere le costose cure mediche che il suo caso richiederebbe.”

Non so perché, ma in quel preciso momento tentai di spostare minimamente il collo, ricevendone una scossa tremenda che mi parve partire dal cuore, trafiggermi il collo, per giungere fino alla radice del cranio.

Urlai come un dannato, ma dovetti smettere subito, perché anche quello mi peggiorava ulteriormente il dolore.

La donna si avvicinò, mi poggiò la sua mano sinistra sul petto, la destra sulla fronte, mi guardò negli occhi e mi disse, ora con una voce più soave:”sta finendo l’effetto della morfina, signor Osovic, e ci urge una sua decisione: non abbiamo più molto tempo a nostra disposizione.”

“Va bene..”, le risposi, “mi dica, farò qualsiasi cosa, pur di smettere con questa tortura. Che vuole che faccia?”

Inizia a piangere come un bambino, visto il sopraggiugere del dolore, e le mie lacrime erano talmente abbondanti, che non vidi più nulla per un pò.

Mi sentii, ora ricordo, come si dovrebbe sentire un uomo legato a qualcosa, che va a fondo, lentamente, in un lago e vede dissolversi, piano piano, i colori del mondo, affogando.

Poi, Sondra mi venne di nuovo vicino, mi asciugò le lacrime con un fazzoletto, soffiò sui miei occhi che bruciavano, mi passò una mano tra i capelli e mi disse una sola parola:”implementazione! Signor Osovic, implementazione totale.”

Dopo qualche istante, forse per scrutare la mia reazione aggiunse: ”non prima però di una sua completa guarigione, signor Osovic. A spese del centro Pavloc.. sempre che le sue ragioni morali non si oppongano anche questa volta.”

9

6 Ecco, ora ho raccontato tutto ciò che fu l'inizio di questa vicenda.

Tutto ciò che mi condusse all’implementazione.

Presero un uomo smarrito, sfasciato, distrutto, fisicamente e moralmente, e anziché limitarsi ad aggiustarlo, ne fecero una fuoriserie: per dirla con le parole del lontano giorno in cui noi cinque partimmo.

Io per esempio, ora non saprei dire se Dio abbia la facoltà di respirare: scusate se lo tiro in ballo di nuovo, ma a seicentomila anni luce di distanza dalla terra, ai margini della galassia di Omar – un nucleo di stelle allora soltanto teorizzato dagli astrofisici – parlare di Dio è un po' come, di domenica, per voi umani parlare di calcio.. c’è, è dappertutto, lo si sente, vorresti anche partecipare, ma non si vede, se non in tv.

Ho tirato in ballo, per un attimo la storia della respirazione, giusto per dire che noi non sappiamo più di cosa si tratti.

Ricevemmo infatti, per primi, il dono della batteria permanente a vibrazione solare, un sistema assai più efficiente – direi eterno – della nostra comune respirazione.

Si scoprì infatti, circa tre anni prima della nostra partenza, che risuonano nel cosmo, sono in sincronia e connessi, i sòli di tutti i sistemi planetari che ne posseggono uno.

Questa risonanza elementare, una semplicissima vibrazione, può essere captata e trasformata in energia da un insieme peculiare di mercurio, potassio e litio in sospensione, adeguatamente ricombinati, all’interno di una cellula similfotovoltaica, giusto per farmi capire.

Dicevo “voi umani” – a qualcuno non sarà sfuggita la sottolineatura – perché, dopo le operazioni di bioingegneria genetica e nucleare, cui noi cinque fummo sottoposti, non so più se, nel mio caso (ed in quello dei miei compagni) si possa ancora parlare di veri e propri “esseri umani”.

E la cosa più ridicola che si possa venire a raccontare, nonché quella più paradossale, da vivere, è proprio il fatto di un ex- essere umano, implementato a dovere - un essere che sulla terra verrebbe chiamato forse cyborg, forse androide, non saprei - che qui, nel cosmo, è pieno di assurdi conflitti interiori legati sia al suo passato di uomo, a quello pregresso di androide, nonché al presente.

E tutto questo, dentro ad una navicella, alimentata anch’essa a vibrazione solare, in cui giacciono, ad oltre seicentomila anni luce dalla terra, come già detto, oltre al sottoscritto, addetto alla verifica del buon funzionamento della

10

stessa, altri quattro esseri in stato di pre-ibernazione, da circa ottantamila anni luce.

Una situazione per la quale non so se sia mai stata inventata ancora una parola o una frase adeguata sulla nostra vecchia terra.

11

7 Ma torniamo al passato.

Nel 2010, quando fu dimostrato e sperimentato che il cervello della scimmia adulta poteva agevolmente essere implementato da una scheda di memoria con terminale a neuroni ibridi, consentendo all’animale di apprendere il linguaggio degli umani, e una prima forma, rudimentale, di lavoro manuale organizzato, fui tra i primi a costituire un comitato contro le implementazioni uomo-macchina.

Mi ritrovai cioè catapultato in una incoerente doppia vita, per ragioni ancora a me stesso poco chiare, in cui io, fuori dal centro di ricerche Pavlov ero il primo nemico del me stesso che lì ci lavorava dentro, giorno e notte.

Dentro, ero semplicemente in preda alla “droga di Odisseo”: non sentivo ragioni per cui avessimo mai dovuto fermare la nave, prima delle colonne d’Ercole.

Nè dopo.

L’uomo, avevamo pensato fino ad allora, ha dei limiti intrinseci?

Ebbene il compito di noi scienziati era quello di cancellarli.

Se c’era in noi, innata direi, l’idea dell’esistenza di Dio (c’eravamo convinti di questo) non era perché fossimo obbligati a rimanere asserviti al fatto di pregarlo, affinché ci togliesse lui dalla sofferenza: questa idea albergava in noi, soltanto perché “noi” diventassimo un giorno esattamente “lui”!

Era forse come il classico miraggio dell’oasi: poteva darsi che essa non fosse lì, dove l’andavamo a cercare, ma, da qualche parte, se la nostra mente l’aveva partorita, doveva certamente esserci.

E così era per l’idea di Dio, la più grande ed insuperata invenzione della mente umana.

Ma l’orrore era per me il conflitto, reiterato e costante, che mi covava dentro.

Come ho potuto fondare un comitato contro l’implementazione, se il primo a portare avanti le ricerche in quel senso ero proprio io?

Naturalmente la risposta, di primo acchitto, era nascondendo bene la mia identità.

(La seconda risposta invece, è una peculiare forma di conflitto neurologico, tra emisferi cerebrali, nato come non so, che in sostanza chiamerei pazzia lucida.)

Cosa che avevo fatto, seguendo una pratica elementare, cioè adoperando una bruttissima barba, rossiccia, ereditata da mio nonno, fantasista giramondo del circo Olejiv.

E una parrucca finta, rossiccia anche quella, nonché togliendo i soliti occhiali a fondo di bottiglia, per indossare delle comunissime lenti a contatto.

12

Il fatto determinante però, in questa faccenda del travestimento, è che la gente vede solo e sempre quello che vuole vedere.

E se, mi son detto, l’immagine che, vestito a quel modo restituivo, era quella di uno sciatto militante radicale contro la tecnologia non-umana dilagante (perché questo era ciò di cui aveva bisogno la gente allora), nessuno avrebbe fatto più caso a tutto ciò che, volutamente o meno, strideva.

E non poteva che stridere, secondo me, perché, quel militante, la mia solida ombra cioè, finalmente comparsa alla luce del sole, al cospetto della gente, era niente-popò-di-meno che l’alter ego di chi avrei dovuto combattere!

(Assurdo, no?)

Era come se, alle volte penso, per difendermi dal “me stesso scienziato”, l’unica strada immaginabile era quella di far si che, dall’esterno, dalla gente, e poi forse dallo Stato stesso, arrivasse al Centro una pressione tale, che ci avrebbe indotti a dover poggiare in terra gli strumenti di lavoro.

I remi della nave che sarebbe andata, immancabilmente, a schiantarsi contro le colonne d’Ercole predette, perché io, da solo, non ero più in grado di arrestarla.

13

8 Nell'anno 2008, si scoprì quella che fu poi definita “la malattia terminale dell'umanità”.

Peggiore di qualsiasi forma di cancro, di ebola, dell'aids stesso.

Peggio ancora delle armi batteriologiche, chimiche, nucleari, meteorologiche, essa emerse da una ricerca condotta in laboratori distinti, in tre diverse aree del pianeta.

Per puro caso la cosa venne fuori e saltò subito all'attenzione, prima della scienza istituzionale, poi dei mass-media, ed infine della gente comune.

In tutti e tre i laboratori, essa partì come una ricerca minore: venne posto in osservazione un campione di un certo numero di persone che appartenevano ad uno degli stati in cui, da qualche tempo, c'era stata l'implosione dell'ordine sociale e poi l'anarchia.

Il primo, fu l'Egitto, nel 2006.

Qui accadde una sorta di smarrimento, progressivo, della memoria collettiva.

Era come se la gente avesse dimenticato, o rimosso completamente, il fatto di vivere all'interno di un sistema di regole precostituito.

Seppure l'Egitto, certo, non era mai stato in precedenza un esempio calzante di buon funzionamento della macchina dello stato, esso, in pochi mesi, a partire da Il Cairo, divenne un luogo di smarrimento, di violenza e di pura follia.

La gente iniziò col dimenticare che aveva un lavoro cui dover adempiere.

I più colpiti furono i ranghi istituzionali, i militari, i dipendenti pubblici, gli insegnanti delle scuole coraniche.

Gli egiziani si recavano negli uffici, e non trovavano più nessuno dietro agli sportelli.

Oppure trovavano gli impiegati a giocare a carte, a bere vino e tirare calci a un pallone.

La cosa si estese presto a tutti i livelli: i contadini se ne sbattevano di arare e sarchiare i campi, gli artigiani abbandonavano le loro botteghe, poi, anche i camion e le auto furono abbandonate a sé stesse, lungo le vie e le grandi arterie urbane ed non.

Lo spettacolo di queste, visto nei telegiornali, era terrorizzante: come se l'uomo fosse scomparso, improvvisamente, perché preda di una qualche calamità senza nome, venuta forse dallo spazio.

E invece si scoprì, poco dopo, che ciascuno era come diventato autistico: la malattia lo induceva a non volere più né a cercare la compagnia di un simile.

14

Le persone, ad un certo punto, avevano preso a bere l'acqua del Nilo, iniziando a morire lungo le sue sponde, a migliaia, senza che nessuno intervenisse a somministrar loro qualcosa.

Si rubava il cibo nei campi, e qualcuno finiva ucciso da una fucilata, in mezzo ai pomodori: ma comunque, non sarebbe più intervenuta la forza pubblica.

Ma questa evoluzione di cose accadde col tempo.

Ci vollero almeno due anni, prima che si giungesse al tracollo completo.

E per fortuna, non tutti furono colpiti dal morbo.

Chi aveva ancora un po' di senno, cercò naturalmente di aggregarsi, creando piccole comunità per sopravvivere e difendersi dagli altri uomini che avevano dimenticato di dover vivere insieme agli altri, di dipendere anche dall'azione degli altri.

Ma non divaghiamo oltre.

Quello che gli studiosi scoprirono, senza per questo riuscire a trovare un rimedio, fu che s'era verificata, nel corso di una generazione, la mutazione di un gene, nell'uomo, responsabile di una malattia osservabile al microscopio, che provocava la degenerazione del tessuto cerebrale, ed in particolare di quello del cosiddetto “corpo calloso”, il quale ha il compito, fra gli altri, di mettere in comunicazione i due emisferi.

Risultato: la perdita di appartenenza ad una collettività, ad un primo stadio; lo smarrimento della capacità di riconoscere i propri conoscenti e familiari, al secondo stadio.

Fino all'ultimo, in cui l'uomo era ridotto ad essere una piccola bestia, egoista, preda solo dei propri istinti, che vedeva i suoi simili come nemici.

15

9 La prima persona ad essere implementata fu la supervisor del centro Pavloc, Sondra Trstjc.

Perchè fece questa scelta, nel suo caso sarebbe stato piuttosto facile a dirsi: eseguire degli ordini.

Sondra infatti era sempre stata una donna molto decisa, intelligente e mai interessata per davvero ad argomenti di natura privata.

Cose come un amante o un marito.

Chi l'ha avuta come collaboratrice o dipendente (stiamo parlando del ministro per la tecnologia), s'era assicurato un vero “fattore lavoro di seria a”.

Una che non si era mai risparmiata una sola volta, pur di garantire il successo di un obiettivo del Centro.

Quando le si propose di essere lei stessa un obiettivo, in un certo senso, penso che Sondra addirittura gongolò.

Mi è ignoto il momento esatto in cui, nel corso della storia dell'umanità, iniziarono a comparire questa genia di donne, votate esclusivamente al lavoro ed al compiacimento del potere, in alcuni casi.

Dato il mio attuale ruolo di comandante in pectore di questa nave e missione, ho la facoltà di acquisire, dalla scheda di memoria di Sondra, il dialogo che intercorse fra lei e Dofzic, all'epoca il direttore del centro Pavloc.

Un uomo tanto negato per la scienza applicata, quanto vocato alla cieca prostrazione al potere.

Un vero stronzo, insomma.

Scaricai questi dati sul colloquio, avvenuto fra i due, già tempo addietro, ma non l'ho mai ascoltato, ed ora è il caso ed il momento di riconsiderarlo.

Ecco: ora i due si trovano in un caffè, in cui i dipendenti del centro non andavano mai.

Un posto molto elegante ma poco pratico, dovevi sempre prenotare e seguire l'etichetta.

Un posto per dirigenti e lacchè altolocati di partito.

Mandando ora i dati di Sondra, posso sentire ciò che sentiva lei mentre parlava con Dofzic.

Per esempio, il sapore fragrante e lievemente dolciastro del pane di Ofz..mm... o le bollicine effervescenti della birra ucraina.. l'odore stagnante della sala e.. questa è bella?!, il bisogno impellente di Sondra di urinare.

16

La cosa magnifica, di questa riproduzione, è che, oltre alle informazioni ed al flusso di coscienza, ovverossia i pensieri, mi giungono, nette, anche quasi tutte le emozioni.

Ora, per esempio, Sondra sta guardando negli occhi Dofzic.. ha un fugace sussulto al cuore, come se.. non è possibile...

Prende un respiro profondo e Dofzic le dice: ”Oggi sei più raggiante che mai, mia cara.”

Ha un altro sussulto, e pensa che sarebbe dedita a quest'uomo, qualunque cosa le chiedesse.

Pazzesco.

“Grazie Michail, mi sembra che tu mi abbia condotto qui per un affare importante ed io sto un pò in ansia.”, dice.

Poi prende un altro sorso di birra, ma appena appena, giusto per bagnarsi le labbra: è consapevole che questo può peggiorarle il bisogno della minzione.

“Asoltami..”, riprende Dofzic, dopo essersi acceso un sigaro che emana un fumo che le secca la gola, “le cose stanno prendendo una brutta piega, dobbiamo accellerare i tempi della sperimentazione, legati al progetto di implementazione umana.”

Sondra prende ancora un altro minimo sorso di birra, poi dice “ti ascolto, che intendi fare, cpompagno?”

“Abbiamo bisogno di un volontario da implementare, subito. L'obiettivo per noi è quello di crearne quatto o cinque da inviare nello spazio. Ma ci occorre uno scienziato, uno che può essere in grado di aggiustare anche sé stesso, all'occorrenza. Mi capisci?”

“Ho presente il problema, Michail..”

Qui rilevo un nuovo fugace sussulto nel cuore di Sondra.

Poi addenta un altro pezzo del pane di Ofz. A proposito, devo memorizzare a parte questo dato, è l'unico modo per riprovare quel sapore squisito.

“Sondra, ho avuto l'incarico, da parte del ministro Rovatin, di chiedere a te se vuoi essere la prima?”, afferma ora Dofzic.

Qui, improvvisamente, le emozioni di Sondra e la sua mente vanno in totale subbuglio.

Non solo, ma realizzo che lei inizia ad urinare liberamente sulla sedia.

Pensa a qualcosa come..mm.. : avevo sperato che noi due ci saremmo incontrati un giorno o l’altro, e saremmo stati insieme.. poi pensa..mm.. ma che m'importa? Sarò la prima donna, gli uomini sono il passato di questo pianeta, chi ha più bisogno di loro?

17

Dofzic s'è fermato, è molto imbarazzato a questo punto.

Prende un lungo sorso di birra, riprende il sigaro, ma pare non abbia più il coraggio di guardare Sondra dritto negli occhi.

Lei cerca deliberatamente il suo sguardo invece e sta pensando, nitidamente – pezzo di merda.

Poi libera completamente la vescica, sulla sedia, espira rumorosamente e afferma, sollevata: “Dofzic, puoi riportare serenamente al tuo amato ministro che Sondra Tristjc sarà la prima donna di questo pianeta ad essere implementata, compagno!”

A questo punto Sondra beve d'un fiato la metà della pinta che gli è rimasta davanti e libera del tutto la vescica.

Le bollicine le solleticano le pareti della gola, sente d'aver bisogno ancora di un aiutino, per mandare giù quel grosso boccone.

Ora posso anche fermare il frammento di memoria che ho preso dalla scheda.

E dire che è così incredibilmente bella.

La posso vedere qui, a pochi centimetri da me, integralmente nuda, nella teca in plexiglass di ibernazione.

E l'uomo cos'è andato a chiedere ad una femmina del genere?

Di diventare un quasi-robot, e rinunciare a tutte le sue prerogative sessuali e procreative.

E' incredibile.

Questo mi insegna che non bisogna mai giudicare il prossimo.

Non avrei mai detto che Sondra.. poveretta, in fondo forse è qui, a naufragare nel cosmo, con me, per un amore mai dichiarato.

E forse non corrisposto, chi può saperlo.

18

10 Una volta guarito, la mia implementazione richiese sette giorni.

Questo fu indispensabile, perchè lì, dove poi saremmo stati spediti, era stimato all'epoca, essere così lontano e rischioso, che nessuna riserva di ossigeno ci avrebbe mai potuto garantire la sopravvivenza.

Poiché la nostra era, in fondo, la prima missione a presentare un numero di variabili incontrollabili più alto di quelle controllabili, il che voleva dire almeno due cose.

Uno, adoperare a questo fine il meglio che la tecnologia umana avesse a disposizione allora.

Due, che soltanto degli uomini avrebbero potuto avere, con l’ausilio del knowhow relativo al punto uno, una vaga possibilità di trasformare quelle variabili, con la sola sperimentazione diretta sul campo.

E risolvere così tutti quei problemi che si sarebbero presentati, in viaggio, immancabilmente.

Mi asportarono il cuore, i polmoni, l'intero apparato digerente inferiore – quello superiore intatto, mi avrebbe dato ancora l'illusione che fosse il mio organismo a digerire qualcosa, con il relativo appagamento psicologico – le costole, e molte altre cose.

Ciò che serviva era, prima di tutto, rendere attivo il sistema a vibrazione solare, poi implementare uno pseudo-sistema digerente inferiore.

Il secondo punto dell'implementazione era la scheda di memoria a neuroni ibridi, cosa meno traumatica, considerando che serviva, a questo scopo, solo un'incisione di pochi centimetri nel cervelletto.

La scheda può contenere informazioni immediatamente reperibili, archiviarne moltissime di nuove, ma sopratutto contenere i software tecnici, differenti per ciascuno di noi, che ci consentono di monitorare, modificare ed aggiustare noi stessi e la nave.

Infine ciascuno di noi possiede un arto bionico, a scelta.

Cioè, l'unica nostra liberalità, in tutta questa famigerata e grottesca operazione tecno-chirurgica, è stata quella di scegliere se rendere robotico il braccio destro o il sinistro.

Una bella fortuna!

L'arto, così trasformato, sarebbe stato in poche parole, l'hardware, attivabile dal software che giace nella scheda a neuroni, per poter agire.

Dunque, anziché chiavi e cacciaviti, ci hanno dotati di un intero kit a scomparsa, a ..portata di mano!

19

E qui, signori, se volete, c'è spazio per un bell'applauso.