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Professionisti dell’antimafia pag
from elaborato
Mi sembra doveroso come prima azione spiegare il titolo della mia tesina. Ho riportato una frase letta nel libro: "Il diritto alla vita, la vita del diritto" .
Nella Dichiarazione universale dei diritti umani ,l' ART.3 recita :”Ogni persona ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.”
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ANALISI dell’ARTICOLO
Per essere libero l'uomo deve prima di tutto vedere rispettato il proprio diritto alla vita, il diritto ad esistere. Garantire il diritto alla vita significa anche garantire la legalità sulla base del concetto importantissimo di dignità umana. Uno Stato democratico, dunque uno Stato di diritto deve garantire che i suoi cittadini vivano dignitosamente in maniera libera, avendo un lavoro prima di tutto, un alloggio per vivere in serenità.
LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI.
Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Dopo questa solenne deliberazione, l’Assemblea delle Nazioni Unite diede istruzioni al Segretario Generale di provvedere a diffondere ampiamente questa Dichiarazione e, a tal fine, di pubblicarne e distribuirne il testo non soltanto nelle cinque lingue ufficiali dell’Organizzazione internazionale, ma anche in quante altre lingue fosse possibile usando ogni mezzo a sua disposizione. Il testo ufficiale della Dichiarazione è disponibile nelle lingue ufficiali delle Nazioni Unite, cioè cinese, francese, inglese, russo e spagnolo. La Dichiarazione è composta da un preambolo e da 30 articoli che sanciscono i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali, culturali di ogni persona.
CHE COS’É L’ONU?
L'ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) è stata fondata nel 1945, dopo la Seconda Guerra Mondiale, da 51 Stati, allo scopo di rafforzare la pace a livello internazionale, la sicurezza e le buone relazioni tra i diversi Stati, nonché promuovere lo sviluppo economico e sociale e garantire il rispetto dei diritti umani.
Molti sono gli scrittori che hanno denunciato le varie forme di criminalità. In modo particolare tengo a ricordare lo scrittore, giornalista, saggista, drammaturgo, poeta, politico, critico d'arte e insegnante italiano, Leonardo Sciascia.
Leonardo Sciascia nasce nel 1921 a Racalmuto, in
provincia di Agrigento, da una famiglia della piccola borghesia. Insegnò nella scuola elementare del suo paese fino al 1957, poi passò ad altri incarichi statali. In seguito, fu eletto deputato alla Camera e al Parlamento europeo. Morì nel 1989.
Sciascia fu uno scrittore di grande impegno civile e
morale. Fin dai primi romanzi di ambientazione siciliana, “Il giorno della civetta” (1961) e “A ciascuno il suo” (1966), denunciò i mali che minano lo Stato e le sue istituzioni: la mafia, la corruzione, le segrete alleanze tra potere politico e delinquenza organizzata. Nelle opere successive (L'affaire Moro, 1978) mantenne intatta la volontà di denuncia, ampliando però il suo campo d’analisi all'Italia nel suo complesso. Tra le altre opere, spesso a metà strada tra il saggio e il romanzo, ricordiamo “Il Consiglio d'Egitto” (1963), “Morte dell'inquisitore” (1964), “Il contesto” (1971) e “Todo modo” (1974).

Il 10 Gennaio 1987 sul “Corriere della Sera” fu pubblicato un articolo a firma di Leonardo Sciascia,
intitolato “I professionisti dell’antimafia”.
Un articolo divenuto celeberrimo e che scatenò un’infinità di polemiche, catalizzando l’attenzione dei mass media, dell’opinione pubblica e del dibattito politico del tempo. Generò confusione e insinuò diffusi sospetti anche nei confronti di personalità di spiccata moralità come Paolo Borsellino.
Infatti, le parole di Sciascia furono malamente interpretate e abilmente strumentalizzate da parte di chi non vedeva di buon occhio il magistrato e di chi fosse insofferente per i risultati conseguiti dal “pool antimafia.”. Sciascia aveva inteso puntare il dito su un fenomeno che stava prendendo piede in quegli anni ma di cui ancora non si aveva piena coscienza: i pericoli connessi a un’antimafia di facciata, dove a
prevalere erano, in realtà, gli interessi personali.
ITALIANO Un’intuizione che è valida ancora oggi, un’antimafia sfruttata da politici, magistrati, giornalisti, forze dell’ordine, imprenditori, prelati e membri di associazioni antimafia, che si presentano come ferventi combattenti del fenomeno mafioso quando invece adoperano a volte l’antimafia per
ottenere vantaggi in termini di carriera, di prestigio e visibilità.
Infatti, lo scrittore sottolineava che, ad esempio, se si volesse criticare, legittimamente, un sindaco o un assessore antimafia, in quanto si ritiene che non abbia fatto bene il proprio lavoro, allora sarebbe facile essere additati come mafiosi.
Sciascia cercò quindi di allertare anche sui rischi di un’antimafia che si fa potere, che diventa inattaccabile e non criticabile, in una logica assolutistica e deprecabile: o sei con me o sei contro di me.
La polemica non investì soltanto i “professionisti dell’antimafia” ma lo stesso autore.
Dobbiamo, infatti, tener conto DEL CONTESTO DELL’EPOCA: mentre Palermo sanguinava, il maxiprocesso stava iniziando a dare i suoi primi frutti. Per cui, è ben comprensibile, che nel 1987 quell’articolo indignò fortemente i “Comitati antimafia” che si scagliarono ferocemente contro lo scrittore, definendolo un “quaquaraquà”
CHI SONO I PROFESSIONISTI DELL’ANTI-ANTIMAFIA?
Sono quelli che per mestiere attaccano sistematicamente i magistrati che sono sempre dalla parte dei politici accusati di collusione(accordo segreto).
Sono quelli che fanno paginoni sugli anti-mafiosi caduti in disgrazia o sulle polemiche giudiziarie, ma mai che gli scappi mezza riga sulle vittime di Cosa nostra, della ‘ndrangheta, della camorra: i piccoli commercianti taglieggiati, gli imprenditori usurati, i contribuenti saccheggiati quando gli appalti e i finanziamenti pubblici finiscono alle aziende dei boss con la complicità di una vasta “area grigia”.

dal Corriere della sera , 10 gennaio 1987 ESTRATTO dell’ARTICOLO
Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono « eroi della sesta»
Per far carriera. Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come « la diversa anzianità», che vuoi dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel « superamento», (pudicamente messo tra virgolette), che vuoi dire della bocciatura degli altri, più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, cui spiega che il dottor Alcamo -che par di capire fosse il primo in graduatoria - è « magistrato di eccellenti doti», e lo si può senz'altro definire come « magistrato gentiluomo», anche perché con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna « a lui assolutamente non imputabile»: quella di non essere stato finora incaricato di un processo di mafia. Circostanza « che comunque non può essere trascurata», anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo « piatisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo carattere». E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto più graditi rispetto alta promozione che si aspettava .I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di « magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?