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Un canto sussurrato

Massimo Camisasca

Vescovo di Reggio Emilia - Guastalla

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Questa mostra fotografica che raccoglie alcune delle opere più significative della lunga e fecondissima vita artistica di Elio Ciol, è nata un poco dal mio coraggio. Avendo incontrato durante i miei anni di episcopato il festival della Fotografia europea, ho pensato, andando a Casarsa, di chiedere al Maestro se potevamo inserire in questa iniziativa un’esposizione che raccontasse la sua arte. Con il suo “sì” mi sono recato dal Sindaco, che mi ha fatto incontrare con i suoi collaboratori. È nato così questo progetto che vede la riapertura dell’abitazione del Vescovo di Reggio Emilia

- Guastalla, dopo quella già avvenuta dal 1996 al 2000 a opera del mio predecessore S. E. Monsignor Giovanni Paolo

Gibertini O. S. B., a tutti coloro che, reggiani o no, verranno, attratti dal nome e dall’arte del fotografo friulano.

L’iniziativa vede perciò un concorso interessante di pubblico e privato, come dovrebbe essere sempre per tutto ciò che riguarda la crescita del nostro popolo.

Senza gratuità non vi è arte, ma è anche vero che senza arte non vi è educazione alla bellezza, alla profondità, alla gioia, non vi è meditazione sul dolore o riflessione sulla speranza. Attraverso i volti e i luoghi raffigurati nelle opere di Elio Ciol, scorre davanti a noi tutta la storia del Novecento, ma anche quella più lontana, come ad esempio le foto di grandi pittori che potrete ammirare nel nostro Battistero, o quelle di reperti archeologici o luoghi della natura disseminati qua e là nelle altre stanze. C’è anche, in questa mostra, la storia di Italia, delle sue lotte per risorgere e della grandezza nascosta in ogni suo borgo e abitante.

Questa mostra è un canto: alla natura, alla storia, agli uomini e alle donne, infine al Creatore. Un canto sussurrato, non gridato, con quella umiltà che caratterizza tutta l’arte del fotografo friulano e che è il segno della sua vera grandezza.

LUCA VECCHI

Quando il Vescovo di Reggio Emilia mi ha comunicato il suo desiderio di inserire la Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla nel programma di Fotografia Europea 2018 ne sono stato particolarmente felice e fiero. Nel corso dei suoi tredici anni di vita, il Festival ha infatti saputo conquistare l’affetto dei reggiani, abbracciando sempre più la città in modo corale e partecipato.

Fotografia Europea si è diffusa in luoghi non solo istituzionali, ma soprattutto privati e inediti; ha portato l’arte della fotografia e momenti di alto approfondimento culturale vicino alle persone e alla comunità tutta. Non vi erano dunque luoghi migliori del Palazzo Vescovile e del Battistero di Reggio Emilia per evidenziare questa vicinanza.

Ringrazio il nostro Vescovo per l’occasione che ci offre e per il messaggio che il Suo gesto di generosità ci consegna: poter ammirare gli straordinari scatti del fotografo friulano

Elio Ciol in una cornice di così grande suggestione e portata spirituale, conferma una volta in più il valore imprescindibile e universale della cultura e della bellezza.

I paesaggi e i luoghi del glorioso passato archeologico, ritratti con grande intensità e sapore poetico da Elio Ciol, sanno parlare ai nostri cuori e, insieme agli scatti dedicati a Pierpaolo Pasolini, raccontano brani di storia con il linguaggio della verità. Questa mostra, titolata “Nel soffio della storia”, si inserisce all’interno di un’offerta espositiva complessiva del Festival che registra quest’anno un’altissima qualità e dedica un seria e attuale riflessione al tema “Rivoluzioni. Ribellioni, cambiamenti, utopie”.

Mi auguro che il 2018 sia solo la prima occasione di una lunga e proficua collaborazione su Fotografia Europea tra Comune di Reggio Emilia e Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla.

Michele Smargiassi

La pioggia tira a lucido l’ampio marciapiede alberato. Tre donne sullo sfondo si allontanano, rese monache dal cappuccio che si sono calate in testa contro le intemperie. Sul fusto di uno dei due alberi in primo piano è inchiodata una targhetta bianca. Impone: “silence”.

Quale sia il motivo della perentoria semplicità di questa richiesta di rispetto acustico non lo capisci, se guardi solo la fotografia. È fuori dall’inquadratura. Dietro le spalle del fotografo. Se leggi la didascalia, capisci appena un po’ di più: Lourdes, 1960. Elio Ciol, che catturò questo istante, mi spiega premuroso che si tratta del piazzale tra la grotta delle apparizioni e il fiume Gave, ma io quasi quasi non vorrei saperlo. Mi piace il simbolo.

Vorrei semplicemente essere lì, ovunque sia quel posto, sostare davanti a quel cartello e, obbediente, pensare quanto è strano invocare il silenzio. Le fotografie generalmente sono mute, ma questa prende la parola. Questa immagine proclama il mistero ossimorico del silenzio eloquente.

Ciol è un mite signore che viaggia verso i novant’anni e parla poco, forse ha sempre parlato poco. Tutti quelli che hanno detto e scritto delle sue fotografie prima o poi hanno usato la parola silenzio. È finita anche nei titoli di alcuni suoi libri. Il silenzio è un marchio di fabbrica che l’autore non conferma ma non nega.

Se è così, sembrerebbe aver scelto il medium perfetto. Pare che, per molti, la fotografia abbia a che fare col silenzio semplicemente perché non ha l’audio. Scrive Jean Baudrillard, capace di formule fulminanti ma anche di banalità fulminate come lampadine: “La foto è il solo modo di percorrere la città in silenzio, di attraversare il mondo il silenzio”.

Attraversando il silenzio la fotografia, come quel ladro notturno del Vangelo, ruba quel che vede. L’anima, anche: “silenzio interiore di una vittima consenziente” è la definizione di ritratto fotografico per Henri Cartier-Bresson. Ma così è troppo semplice. Il silenzio è quella cosa strana che, se la invochi, la neghi. Se parli di silenzio, hai distrutto il silenzio. E questo fa Elio Ciol da quando vive nella fotografia, cioè da sempre. Non fa silenzio. Parla il silenzio, quindi va oltre, lo usa, lo adopera per andare oltre. Dove?

Fosse stato per lui, avrebbe passato la vita in mezzo al rumore. Di un’officina. “Volevo fare il meccanico. Mi piace risolvere problemi tecnici”. Ma ci sono tradizioni che è bello rispettare. Di Casarsa, il padre di Elio era il fotografo comunitario. Vale a dire: il padrone dei sorrisi, il notaio degli affetti, il maestro delle cerimonie. Il gestore delle lontananze: era il Friuli delle grandi emigrazioni – quelle che facciamo finta di aver dimenticato. Spesso i ritratti della bottega Ciol varcavano l’oceano, riunivano affetti separati dal bisogno e dalla speranza.

Nella camera oscura di papà, Elio deve aver imparato, senza bisogno di libri, che la fotografia è alla fine dei giochi solo questo, un bellissimo modo di mettere in relazione gli esseri umani, seguendo il filo dei loro sguardi.

Ma fu uscendo da quell’antro, un giorno negli anni Quaranta, che un pensiero, letteralmente, lo fulminò: “Fui accecato dal sole e chiusi gli occhi: allora ho scoperto come vedere le cose, l’essenzialità delle masse chiare e scure della composizione”.

Chissà se gli hanno mai detto che questa scena, quasi tale e quale, la immaginò Platone: è l’uscita dello schiavo dalla caverna, la scoperta che era il sole a generare le ombre che lo avevano incantato. Il primo passo per liberarsi dall’illusione delle apparenze, l’inizio del cammino verso la sapienza. Che la fotografia potesse fare di più che riprodurre le ombre ingannevoli del mondo, Elio lo aveva comunque già intuito dietro il bancone del negozio, frequentato dai fotoamatori appassionati e un po’ vanitosi di un Friuli terra di fotografi. O magari lo aveva capito una volta per tutte già durante la guerra, da quel medico militare tedesco che sembrava, per fortuna, più interessato alla fotografia che alle armi. Come loro, il giovane Elio immaginò che la fotocamera potesse essere un paio di occhiali da presbite, per leggere il mondo da vicino. Quale mondo? Intanto, quello che c’era, lì attorno. La ben pettinata campagna friulana, che vista da una collina sembrava un quaderno a righe, pronto da scrivere. Soprattutto quando ci cadeva sopra una spolveratina di neve e allora Ciol non si teneva, doveva uscire a fotografare.

I contadini scrivono la campagna. Lo fanno davvero, materialmente, con una grafia di erpici aratri e filari di piante. Questo lo ha capito un altro grande occhio italiano, Mario Giacomelli, ma in un modo un po’ tormentato e convulso. Per Ciol la campagna è un testo sereno. Forse un palinsesto. Perché è lì che i segni della Creazione (tracciati magari col fraseggio delle venature e dei nodi su un tronco d’albero) e quelli del sudor della fronte, della condanna al lavoro dopo la caduta, si incontrano e si confondono in quella sintesi di uomo e natura che chiamiamo paesaggio. Guardando i paesaggi di Ciol, lo scrittore Carlo Sgorlon ha parlato di “liturgia dei campi”. Se vogliamo, è così; e se vogliamo, le piccole chiese perse nella natura che Ciol ha sempre amato fotografare ai quattro angoli del mondo sono una “liturgia di pietra”, sono la lingua, in questo caso tutta artificiale, culturale, con cui gli uomini rispondono alla scrittura naturale di Dio. Fotografarle in mezzo al creato è come fotografare una preghiera.

Eppure non riuscirei, e non lo farò, a confinare il lavoro di Ciol nello stereotipo del “fotografo cristiano”, etichetta che non spiega poi molto. Francescano, magari sì. Per quel senso di omogeneità fra l’umano, il costruito, il naturale, per quella serena fratellanza delle cose visibili e tangibili con quelle invisibili, per quel senso dell’esistenza che non nasconde il dolore ma non si risolve nel dolore.

Ad Assisi, oltre a trovar moglie, Ciol è tornato spesso per attingere acqua fresca e dissetare la sua visione. Quando si è rivolto agli affreschi della basilica, è entrato nello sguardo di

Giotto; lavorando di inquadrature non previste dal pittore, ma implicite nel suo sguardo, ha scavato il fotografico nascosto nelle relazioni fra i volti, i gesti, i paesaggi. Alla fine, deve aver imparato che per quanto si possano fotografare paesaggi e edifici, o rovine della storia, o tronchi d’albero, è sempre all’uomo che si torna. In Yemen, Siberia, Libia, Uzbekistan, India, Nepal, Egitto, Siria ha trovato uomini non abissalmente diversi dai contadini friulani. Soprattutto, non li ha fotografati cambiando occhiali.

Può sorprendere solo i superficiali che Ciol abbia amato, e fotografato, un grande eretico come Pierpaolo Pasolini.

Al quale, ovviamente, lo avvicinò la sorte di condividere un paese, Casarsa, e un amico, Nico Naldini. Ma anche questa è una coincidenza da rovesciare: fu Casarsa a costruire entrambi, fu l’incombenza di quel mondo contadino sull’orlo della modernità a far maturare in tutti e due la convinzione che qualcosa di quel mondo dovesse essere compreso, raccontato, magari salvato. Con la lingua delle parole ma anche con quella dell’occhio: “Un giorno Pasolini venne in studio e chiese a mio padre che andassi con la macchina fotografica all’Academiuta di lenga furlana. Fu la mia prima foto importante”.

Anni dopo, agli inizi dei Sessanta, accompagnando padre Davide Maria Turoldo alla ricerca di scenari e di volti friulani per il film Gli ultimi, tratto da un suo racconto, Ciol capì che stava già diventando troppo tardi, che i visi emaciati, i gesti, gli sguardi di quel mondo potevano ormai essere solo ricostruiti, non trovati.

Dopo tutto la fotografia, come ogni lingua, non è un semplice prelievo di mondo. È osservazione, meditazione e creazione di un mondo, un altro mondo parallelo a questo, fatto di immagini. La garanzia che questo secondo mondo abbia una qualche relazione col primo, una relazione sincera, quella garanzia non può essere affidata agli strumenti, ma solo alle intenzioni del fotografo. La fotografia è un’etica dell’intenzione, avrebbe detto sant’Agostino se l’avesse conosciuta.

Non c’è nulla di naturale, e neppure di soprannaturale, nel fotografare. Ciol lo sa, e questo gli ha permesso di realizzare in qualche modo il suo sogno di meccanico mancato, quello di “risolvere problemi”.

Come quello, delicato e dolente, di fotografare i partenti. Non dico i migranti. I partenti assoluti, quelli in viaggio verso un’esistenza che non prevede ritorno. Ai funerali, quando Ciol cominciò ad aiutare papà nel lavoro, si mandava a chiamare ancora il fotografo, perché venisse a fotografare il morto nella bara, in extremis, per ricordo, perché l’ultimo ritratto del defunto magari era anche il primo che gli fosse mai stato fatto.

E non era mica facile, fare un buon ritratto a un cadavere. Non è una cosa naturale. Quindi, con tutto il tatto del caso, Ciol si rivolgeva agli astanti e “facevo girare il morto”. Perché le camere ardenti son congegnate quasi sempre così, che il defunto ha alle spalle la finestra, della casa o della chiesa, e allora la luce non cade bene, da dietro, sul volto: lo drammatizza troppo.

A braccia, assieme ai parenti dolenti, girava dunque il morto di 180 gradi, in favore di luce; o forse un po’ meno, perché Elio, con la sua pratica esperta di ritrattista in studio, sapeva che doveva cadere obliqua sul volto, la luce, per un ritratto che non ammazzasse ulteriormente il cadavere. Me lo raccontava sorridendo, indulgente, come un aneddoto. Ma io penso che ogni buon fotografo, in fondo, non fa altro che “girare il morto” per restituirgli la vita. Anche quando fa un paesaggio, e non può certo girare la terra per farle prendere meglio il sole: però magari può aspettare quell’ora del giorno, scegliere quel punto di vista che infonde una vita nelle cose mortali.

E Ciol, da sempre, il mondo non lo prende così come lo vede, ma lo gira verso una luce che non coincide per forza con quella naturale, una luce che davvero resuscita il morto. Forse è quella sua Luce che qualcuno chiama silenzio. Il cartello sull’albero di Lourdes allude semplicemente a questo.

Nelle immagini in bianco e nero Elio Ciol si fa testimone di un paesaggio che non sfugge alla fragilità del tempo, di quel tempo in cui l’uomo è disposto a cancellare monumenti e memoria di un passato che sente ormai lontano. Nel 1996 Ciol visita le rovine di quella che fu la città di Palmira in Siria, un antico centro carovaniero che i Romani portarono al suo massimo splendore arricchendola con monumenti, terme, un teatro e una lunghissima via colonnata, divenuta simbolo della città. Oggi questo passato glorioso è stato in parte cancellato dai carri armati, missili e dinamite che hanno ripetutamente lacerato gli edifici monumentali più importanti come il tempio di Baal, i colonnati del Decumano, il teatro e i Propilei che avevano retto alle leggi del tempo e alle forze della natura. E’ in questa chiave che Ciol legge il tempo, la storia, come un

“soffio”, cioè un momento, una durata, che il fotografo riesce a catturare negli scatti governati dalle cromie del bianco e nero, in un silenzio quasi metafisico nel quale sono le forme a parlare e a restituire il senso dell’armonia. Altri complessi monumentali sottratti alla sabbia del deserto vengono catturati dal maestro friulano nelle immagini che raccontano il suo viaggio del 2002 nelle terre libiche. Leptis Magna - che i cammellieri beduini chiamavano la città delle ombre bianche per la presenza di statue marmoree affioranti dalla sabbia delle dune- e poi Sabratha, Cirene, Tolemaide, Apollonia e Tripoli, sono nuove protagoniste di un racconto che narra di antichi segni di vita che si trasformano dal passato, nella storia e diventano futuro. Il suo sguardo indaga e porta a meditare e ad interrogarsi sul senso della umanità dentro la storia.

Nel soffio della storia

Leptis Magna

Particolare dell’ Arco di Settimio Severo ottobre 2002

Sabratha Fontana di Flavio Tullio, ottobre 2002

Sabratha Fregio del Tempio Sud, ottobre 2002

Sabratha - Tempio di Iside – A, ottobre 2002

Sabratha - Foro, ottobre 2002

Apollonia - Palazzo del Dux, ottobre 2002

Tripoli

2002

Il visitatore viene accompagnato in un viaggio visuale fatto di descrizioni chiare e nitide della natura, senza velature o filtri. L’esistenza del profondo rapporto che lega l’uomo ad essa è messo in risalto dalla ricerca compiuta da Ciol. Le immagini sono luminose ed equilibrate, il racconto viene costruito attraverso un gioco simmetrico e le fotografie entrano in dialogo tra loro grazie alla disposizione in dittici e trittici che il fotografo ha saputo ben organizzare. Ciol mette quindi in relazione gli scatti e li fa comunicare creando un ritmo narrativo in cui lo spettatore è invitato a scorgere i collegamenti che uniscono le foto, legami estetici in cui i pochi elementi presenti riescono a costruire la scena. Nel trittico Versutta: dimora e canto di Pier Paolo Pasolini, dedicato ai luoghi pasoliniani, la chiesa, la fontana e la panchina sembrano rievocare le sue poesie dialettali friulane, semplici e autentiche. In altre immagini il legno crea un disegno geometrico di grande ordine, in un reticolo in cui a parlare è il particolare. In altre è il suono cristallino del freddo, i muri di pietra o la morbidezza della neve dalla quale sembrano emergere i segni della fede. In Viti come disegni Ciol con molta naturalezza immortala i disegni che formano le viti, simboli di benessere e fecondità, le linee si inseguono come fossero gradini di antichi anfiteatri naturali che trasformano e movimentano il paesaggio. La fotografia di Ciol è di intenso valore spirituale, attraverso il suo obiettivo si legge il grande rispetto che ha per la natura e ci invita, con estreme delicatezza, ad entrare e a dialogare con essa.

Il fascino del vero

Versutta

Ritmi fluenti Tagliamento, 1990-1993

Attimi di luce, A

Valli del Natisone, 1989

Val d’Aupa, 1987

Val d’Aupa, 1987

Attimi di luce, B

Forni di Sopra, 1989

Pontebba, 1987

Sauris di Sopra, 1984

In questa sezione sono raccolte alcune delle fotografie di Elio Ciol presenti nei musei e nelle collezioni internazionali:

Metropolitan Museum of Art, New York;

International Museum of Photography, Rochester, New York;

Center for Creative Photography Tucson, Arizona;

Humanities Research Center, University of Texas, Austin;

The Art Museum, Princeton University, New Jersey;

Centre Canadien d’Architecture, Montréal, Canada;

The Art Institute of Chicago;

Victoria & Albert Museum, Londra;

The University College of Wales, Aberystwyth;

RosPhoto, San Pietroburgo;

Musée de la Photographie, Charleroi;

Civici Musei e Gallerie di Storia e Arte, Udine;

Museo A.S. Pushkin – Mosca

Fondazione Concordia Sette – Pordenone

Galleria di Arte Contemporanea Pro Civitate Christiana, Assisi; e in numerose gallerie private.

Elio Ciol nei musei e nelle collezioni fotografiche

Duomo - Milano - 1954 - Victoria and Albert Museum Londra

Eur – Roma - 1955 - Centre Canadien d’Architecture New York

Basilica nella nebbia - Assisi - 1957 - Rosphoto San Pietroburgo

Stazione di Milano “A”

1961 - Museo A.S. Pushkin Mosca

In attesa - San Giovanni di Casarsa

1959 - Museo A.S. Pushkin Mosca

Il rapporto tra Ciol e Pasolini inizia con uno scatto fotografico in cui viene narrata la volontà di un gruppo di adolescenti di dare dignità linguistica e letteraria alla tradizione dialettale. Pasolini e i suoi amici fondano nel 1945 la ”Academiuta di lenga furlana”, dedicata al fratello di Pasolini, Guido, ucciso da alcuni partigiani pochi giorni prima. Gli incontri della domenica pomeriggio diventano occasione di dibattito oltre che di letture poetiche ed ascolti musicali. Questo momento segna la consacrazione della vocazione poetica di Pasolini, resa più concreta con il successo del film a Pier Paolo

“Il vangelo secondo Matteo”. Elio Ciol è alla presentazione della pellicola ad Assisi nel settembre 1963 e attraverso alcune immagini riesce ad evocare la portata culturale dell’uomo Pasolini.

Sembra che Ciol legittimi e sancisca la grandezza di Pier Paolo attraverso inquadrature e scatti spontanei che ritraggono Pasolini tra folla in momenti di vita quotidiana o mondana, come ad esempio l’arrivo a Casarsa con l’amica Maria Callas. Di grande suggestione sono gli scatti realizzati da Ciol durante il funerale di Pasolini a testimoniare l’affetto della gente nell’ultimo abbraccio a lui dedicato.

Attraverso il bianco e il nero Ciol riesce a descrivere colore, spirito e passione di un uomo che ha vissuto il suo tempo come giovane rivoluzionario, vestito del suo spessore intellettuale e poche altre armi.

P.P.P. annuncio ufficiale del film “Il vangelo secondo Matteo” alla Pro Civitate Christiana durante l’OCIC - Assisi, settembre 1963

P.P.P. in occasione dell’annuncio ufficiale del film “Il vangelo secondo Matteo”- Assisi, Eremo delle carceri – settembre 1963