6 minute read

di Angelo D’Onofrio, psicanalista

Salute e stili di vita

Angelo D’Onofrio, psicologo e psicoterapeuta di formazione ed orientamento psicoanalitico. Già docente di Psicologia dinamica presso il Centro Ricerche Biopsichiche di Padova e coordinatore della sezione veronese “G. Guantieri” della Società Italiana di Medicina Psicosomatica dal 2014 al 2016, ha pubblicato diversi libri ed articoli su varie riviste.

Advertisement

Usi, sensi, funzioni per una parola sono infiniti. Dentro un discorso c’è quello che l’interlocutore vuol dirci, quel che pensa di dirci, quel che riesce a dirci, quel che noi pensiamo voglia dirci, quello che, in quel momento e con la nostra storia, siamo in grado di cogliere, ma ci può essere anche un altro voler dire, che sfugge a lui e a noi. Si passa, insomma, da un monosenso a un plurisenso.

Davanti al terapeuta c’è un groviglio di parole, pasticci di parole, di fatti, di emozioni. A lui spetta il compito di decifrare, con l’aiuto del paziente, il testo, che altrimenti rischierebbe di essere incomprensibile. Perché ci si ammala? Che cosa si ammala? La persona? La sua storia? Il suo modo di raccontarla?. Non è possibile, pertanto, un “intervento chirurgico”, chiamiamolo così, perché non sappiamo dov’è davvero “il male”: nella testa? Nel cuore? Sulla bocca? Dove? Dare aiuto a chi? Una persona è un insieme di tante parti. Per alcuni pazienti conta solo eliminare il sintomo, che denuncia il malessere; per altri lo stesso è, invece, un’occasione per andare più a fondo e cogliere l’opportunità del cambiamento implicito nel disturbo. Insieme al testo, bisogna anche tener conto della voce che lo presenta, perché parole e voce sono inseparabili. Per chi come me, psicoanalista, è impegnato quotidianamente in attività di conversazione, è davvero centrale il problema della parola, di chi la dice e di chi l’ascolta, del significante e del significato, del modo di dire le parole e, infine, della differenza tra dire e parlare. Si può, infatti, parlare, parlare senza dire assolutamente nulla, perché le parole sembrano quelle di un bel “libro stampato”. Così non viene fuori nulla di non previsto che abbia a che fare con le emozioni, cioè con la “carne viva”. Insomma, viene rovesciato solo un fiume di parole che inondano e annegano l’altro. Si può anche non parlare e, nello stesso tempo, dire molte cose. Nel mio lavoro è importante il racconto del paziente, che racconta il suo “racconto”, seguendo un procedimento autologico, cioè descrive se stesso mentre descrive il fenomeno osservato. È nel suo racconto, non certo nella cartella clinica o nella gabbia della diagnosi, che troviamo le sue emozioni testimoniate dalle croste che celano le cicatrici che, a loro volta, coprono ferite ed emorragie. Il racconto del paziente è un testo plurimo, fatto di parole imbavagliate, e, in certi casi, liberate in altri, incastrate nel corpo, a volte capricciose, ingovernabili, anamorfiche…, ma quasi sempre parole “malate” come la malattia che provano a raccontare, ma anche parole che svelano oppure occultano. Occorre ascoltare con grande attenzione la costruzione del racconto, perché è lì che va individuato il vero significato del malessere, nelle zone buie della narrazione, nelle quali il paziente teme di entrare per non incontra-

Parole, parole, parole… di Angelo D’Onofrio, psicanalista

Salute e stili di vita

re i propri pensieri, sentimenti, fantasie che potrebbero metterlo di fronte ad aspetti di sé poco conosciuti o addirittura inaccettabili. Del proprio disagio il racconto del paziente non dice tutto, né lui sa tutto. Spesso anche quando sa, finge di non sapere o si rifiuta di sapere. Tutto allora va a collocarsi nel sintomo. La storia di un sintomo è una storia da ricostruire: il sintomo, comunque, è la soluzione migliore che il soggetto ha saputo trovare per risolvere il suo conflitto. La malattia è il linguaggio per esprimere il proprio dolore. Dietro il “non posso” c’è il suo “non voglio”. Noi non possiamo renderlo capace del suo “non posso”; possiamo però aprire la porta al “non voglio”, possiamo aiutarlo a capire che ha dei conflitti che esamineremo insieme per capire di cosa si tratta. Non c’è una ricetta per ascoltare bene, non c’è un manuale che insegni “come ascoltare”. Dipende da noi, dal nostro orecchio, da come siamo dentro. Ascoltare è un insieme di qualità che appartengono alla struttura di chi ascolta. Qualità come prudenza, accortezza, coraggio del non senso, paradosso… Bisogna prendersi del tempo per ascoltare bene, senza avere fretta e saper aspettare, anche se non si capisce tutto subito. Ciascuno di noi ha tante storie da raccontare: l’infanzia, l’adolescenza, gli anni della scuola, il lavoro, gli amori, le malattie… Dare una nuova storia alla propria vita non è un lavoro facile, anzi è spesso doloroso, faticoso, irto di contraddizioni; né è possibile un percorso più breve, una scorciatoia, che pure qualcuno tenta. “Io sono così”: il definirsi (ad es.: sono fobico, sono anoressica…) è forse un modo per alleviare la tensione, identificandosi con una parte, ma non risolve il conflitto. È come un filo rosso per ritrovarsi in caso di possibili smarrimenti. Il paziente cerca nella stanza dell’analisi l’unità strutturale e, invece, capirà che quella stanza è il luogo nel quale si produce una pluralità di senso e anche una “pluralità” di se stesso.

Salute e stili di vita

Il soggetto pensa di andare nella stanza dell’analisi per incontrare l’analista. In realtà quell’appuntamento è con se stesso, la sua storia, perché possa finalmente incominciare a pensare. Il pensare può impaurire, perché costringe ad imparare qualcosa su se stesso. Così chi racconta comincia a scoprire che non è tanto importante ciò che balza subito all’occhio, quel che si colloca al centro, ma ciò che rimane ai margini, ciò che fa da contorno. Così da una trama apparentemente “senza senso” si può trovare “un senso nuovo alla trama”. Si realizza, pertanto, una nuova versione del passato, che ha imprigionato il paziente, ma che pure gli ha fornito la possibilità di giustificare tutto con il tornaconto (“se non fossi stato…”). C’è chi vorrebbe subito le risposte, perché le domande pesano, procurano ansia e il non sapere inquieta. Pertanto, è un “voglio sapere come eliminare il sintomo nel più breve tempo possibile”. Il soggetto vuole, in realtà, un atto analgesico, in quanto il restar sospesi è intollerabile, ansiogeno. La biografia costruita dal fato, quella fallimentare della vita già scritta, della strada obbligata da percorrere cede un po’ alla volta alla biografia della responsabilità personale. La malattia è il punto di crisi di una biografia. Marcel Proust scriveva: “Sembra che la natura sia in grado di darci solo malattie piuttosto brevi. La medicina ha inventato l’arte di prolungarle”. Aveva ragione? Lo stare empaticamente vicino al paziente in una relazione che consente scambi, esperienze, emozioni, lo aiuta a trovare, insieme a noi, le risposte al suo disagio, cosicché queste ultime non siano calate dall’alto né giungano attraverso consigli, perché con essi il problema si chiude, mentre il modo interrogante apre sempre nuove possibilità, lascia spazio a soluzioni che nascano proprio dalla maggiore libertà di movimento. Così, se esiste un racconto del malessere, c’è pure un malessere del racconto: è proprio quest’aspetto, cioè il modo di raccontare, che ci aiuta a cogliere più e meglio il disagio del soggetto rispetto all’elenco dei sintomi, cioè al racconto del malessere. Col tempo il paziente diventa un “narratore competente”, cioè impara a conoscere meglio se stesso, il suo passato riscoperto e rivisto, e pronto a guardare al futuro con i suoi progetti. Quando il soggetto esce definitivamente dalla stanza dell’analisi ha sotto il braccio lo stesso volume di racconti della sua vita con il quale è entrato, ma vi ha aggiunto correzioni, ha rivisto e corretto qualche battuta o, magari, ha imparato a pronunciarla diversamente: un libro, di cui voleva disfarsi, e che adesso ha imparato a portare meglio, senza sentirsi troppo affaticato. ●

This article is from: