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alla conquista del lavoro. donne e saldatura un percorso storico di emancipazione tra stereotipi e professionalità

Il settore della saldatura industriale è uno specchio interessante per raccontare il percorso verso la parità di genere nel mondo del lavoro.

di Giuliana Crocco e Fabio Targa*

Giuliana Crocco si è occupata per molti anni di prodotti e servizi per la saldatura per un gruppo internazionale; attualmente opera nel settore dei gas industriali. Fabio Targa è presidente di anasta (associazione nazionale aziende Saldatura, Taglio e Tecniche affini) che raccoglie i principali produttori italiani di materiali per la saldatura dei metalli.

*L’articolo è pubblicato sul numero 6/2020 della Rivista Italiana della Saldatura

era inevitabile che nel lungo percorso verso la parità di genere, le donne facessero il loro ingresso anche nel mondo industriale e quindi in quello della saldatura; quando questo accadde, nel 1914, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, non c’era tuttavia ancora nessun fervore femminista che incitasse le donne ad impugnare un cannello. Si trattò piuttosto di emancipazione lavorativa. L’assenza di molti uomini chiamati al fronte in tutte le nazioni coinvolte nel conflitto, spinse le donne delle classi popolari a sostituirsi ai loro mariti e figli in tutti quei settori necessari alle sopraggiunte esigenze belliche, compresi quello meccanico e metallurgico. Malgrado l’atteggiamento bigotto e androgenico del tempo, «nelle fabbriche metalmeccaniche, la presenza femminile era talvolta avvertita, come un sovvertimento dell’ordine naturale ed un attentato alla moralità», le donne diventarono operatrici nei trasporti pubblici e nei servizi, impiegate e operaie a supporto dell’industria meccanica e bellica per la produzione di armi, equipaggiamenti e tecnologie militari. In questo contesto, tra le mansioni professionali da ricoprire vi erano ovviamente anche quelle dei saldatori. Nonostante la scarsa o del tutto assente conoscenza del triangolo del fuoco, del dardo, della zona riduttrice o del pennacchio, ciò non impedì alle donne di eseguire saldature con processo ossiacetilenico qualitativamente equivalenti a quelle dei loro colleghi maschi. In Inghilterra, Francia, Germania, Austria e Italia, grazie agli ingenti investimenti statali legati alle commesse militari, i segmenti industriali di maggior richiamo per le donne che saldavano e tagliavano i metalli erano quelli delle armi e munizioni e dei mezzi di trasporto terrestri

Partecipanti al campionato di saldatura femminile dei cantieri navali Ingalls, Pascagoula, Missisipi, US, in posa durante un corso di formazione, 1943. Fotografia di Beebe Spencer, U.S. national archives.

Due membri del Women’s army Corps osservano il lavoro di una donna saldatore presso l’alabama Dry Dock and Shipbuilding Company (US), 1943, Doy Leale McCall Rare Book and Manuscript Library, University of South alabama (US).

e navali. È in questo contesto storico che in Italia si consolidarono molte realtà industriali quali Ansaldo, Fiat, Breda, Riva, Beretta e vari cantieri navali come quelli di Riva Trigoso, Livorno e Taranto, per citarne alcuni. Le fabbriche di munizioni, dove la saldatura ossiacetilenica trovava impiego per la finitura di bombe e siluri, rappresentavano un alto rischio per la salute e la sicurezza della forza lavoro. In Inghilterra le lavoratrici di questo settore furono soprannominate Munitionettes e in seguito tristemente ricordate come Canary Girls con i loro Canaries Babies. Il soprannome “ragazze canarino” era dovuto agli effetti dell’esposizione ripetuta al Tnt, che avendo conseguenze tossiche per l’organismo, trasformava la pelle in un colore giallo-arancio che ricordava il piumaggio di un canarino. La costruzione su scala industriale di sommergibili era allora distribuita in Europa tra Inghilterra, Germania e, in misura minore, in Austria. Quella dei Mas (Motoscafo Armato Silurante), utilizzati dalla Regia Marina Italiana, fu realizzata in Italia inizialmente nelle officine Fraschini di Milano e successivamente dal Cantiere Orlando di Livorno, da dove uscirono quelli impiegati da Gabriele D’Annunzio nella famosa “Beffa di Buccari” del febbraio del 1918. Un esempio interessante dell’impiego delle donne nella saldatura riguarda la compagnia di aviazione Sopwith Aviation di Kingston upon Thames (Uk), dove tra il 1914 e il 1918 vennero prodotti oltre 13.000 aerei, incluso il famoso caccia Sopwith Came, nella quale una buona parte della forza lavoro era di sesso femminile. È proprio

qui che nel 1916 venne istituita la Society of Women Welders (Ssw, società delle donne saldatrici), nata per migliorare le condizioni economiche e lavorative delle donne saldatore delle grandi aziende della contea inglese che, per lo stesso tipo di lavoro, venivano pagate il quaranta per cento in meno dei saldatori maschi. Alcune di queste erano suffragette già abituate alle campagne politiche, come Ray Strachey, divenuta in seguito scrittrice e politica di livello nazionale. Così, con l’aiuto della Women’s Trade Union League (lega sindacale femminile) e della London Society of the National Union of Women’s Suffrage Societies (lega delle suffragette), le ragazze della Ssw riuscirono a negoziare con successo un aumento di stipendio da 8 a 9 pence l’ora, avvicinandole alla paga oraria dei saldatori maschi di uno scellino. Negli Stati Uniti, invece, dove le aziende di munizioni e armamenti richiamavano oltre 2 milioni di donne, inizia ad affermarsi anche l’industria aeronautica con il successivo sviluppo della produzione delle prime portaerei per consentire il trasporto dei velivoli. Va ricordato che la prima portaerei americana, Uss Langley, è entrata in servizio subito dopo il primo conflitto mondiale nell’aprile 1922. Questa Invasione di campo femminile scemò però rapidamente e, con la fine della guerra, si assistette ad un progressivo licenziamento delle donne in gran parte dei settori industriali, ad eccezione del tessile e dell’alimentare. Ben presto decine di migliaia di donne tornarono al focolare originario nei rispettivi Paesi. Di lì a poco, ci penserà ancora una volta lo spirito politico del tempo, che non aveva fatto tesoro delle tante croci piantate su ossari e cimiteri di guerra, a fornire alle donne una seconda occasione per sostituirsi massicciamente ai maschi e tornare, ancora una volta, nelle industrie a saldare e tagliare con l’acetilene e a sperimentare l’emergente tecnologia della saldatura ad arco.

Fra le due guerre

A cavallo delle due guerre si assistette ad una corsa all’industrializzazione civile e militare nella maggior parte dei paesi industriali con e senza regimi totalitari al potere. In Italia, questo periodo di “tregua”, fu caratterizzato dall’espansione coloniale con le guerre di Etiopia e Corno d’Africa, dalla successiva costituzione del vicereame dell’Africa Orientale Italiana e dal supporto alla Spagna totalitaria franchista. Successivamente il Paese vide un crescente sviluppo dell’industria bellica con grande dispiegamento di mezzi. Solo in Spagna, ad esempio, furono inviati 763 aerei, 1.930 cannoni, 149 carri Ansaldo, 8 autoblindo Lancia, oltre 240.000 fucili e 7.663 automezzi. La maggior parte degli armamenti destinati alle conquiste espansionistiche andarono perduti, per la lontananza, usura o per gli oneri per riportarli a casa (come quelli rimasti in Africa), o ancora lasciati al Generale Franco che non li pagò mai. Il tutto per un valore di circa 12 miliardi di lire dell’epoca. La Francia, nonostante il disordine finanziario in cui versava nel dopoguerra, fu in grado – grazie ad una politica di ammodernamento e di produzione in serie – di riprendersi velocemente. Nel 1923 il reddito nazionale, considerato al netto dell’inflazione, era tornato al livello del 1913 e nel 1929 (prima della grande depressione) era superiore ad esso di un terzo. Questa ripresa, iniziata durante la guerra, continuò nel decennio successivo alla sua conclusione e si sostanziò sia in una forte crescita della produttività del lavoro operaio (anche femminile), sia nell’espansione dei settori più avanzati (chimica, elettricità, produzione di mezzi di trasporto),. In Germania invece tra il 1933 ed il 1939, dopo anni di crisi economica e sociale alleggerita in parte dal piano Dawes, la politica di Hitler mobilitò grandi risorse verso l’industria soprattutto metallurgica, meccanica e chimica; infatti, del 1936 la pianificazione al riarmo, secondo cui la Germania doveva essere in grado di sostenere una guerra entro quattro anni. Negli Stati Uniti, si assistette ad un’alternanza di periodi più o meno floridi, passando dai ruggenti anni Venti alla grande depressione, per approdare infine al New Deal di Franklin Roosevelt, che guidò il paese fino al superamento della crisi avvenuto definitivamente dopo la seconda Guerra Mondiale. Questo rilancio generalizzato delle attività produttive incoraggiò l’assunzione delle donne in tutta Europa, Stati Uniti e Unione Sovietica, soprattutto nel settore tessile, chimico e ovviamente anche in quello meccanico e bellico. Durante il ventennio che precedette la Seconda Guerra Mondiale i procedimenti di saldatura cambiarono. Grazie a potenti generatori elettrici si approdò alla saldatura ad arco, (già largamente utilizzata negli Stati Uniti e in Inghilterra), dapprima quella ad elettrodo non protetto, in seguito quella ad elettrodo rivestito. È del 1933 la prima nave interamente saldata in Italia, la cisterna Sesia di mille tonnellate, realizzata a Monfalcone per la Regia Marina Militare. Fino ad allora infatti, le navi presentavano lo scafo con lamiere interamente chiodate, con

qualche eccezione nella metà degli anni Venti, dove si sperimentarono saldature lontane dai punti critici dello scafo e delle sovrastrutture. Un ulteriore passo in avanti, si verificò con lo scoppio della Seconda guerra mondiale che impose ritmi produttivi elevati che la sola saldatura a filo continuo, in particolare l’arco sommerso per saldature di grossi spessori, era in grado di garantire. È di questo periodo anche l’introduzione di impianti automatici per il taglio ossiacetilenico dei metalli.

Nella Seconda guerra mondiale

L’esperienza maturata dalle donne nella Prima guerra mondiale non aveva offerto loro più opportunità, ma di certo le aveva lasciate con una visione ed una prospettiva più ampia. Con l’arrivo della Seconda guerra mondiale fu molto più facile: il sentiero era stato spianato, le donne non avevano bisogno di dimostrare nuovamente il loro valore (Birkett, 2014). Dal 1939 al 1945 il richiamo di questo “esercito femminile senza armi” è nuovamente imponente. Molte meriterebbero di essere citate, in questo articolo riportiamo alcune esperienze che a noi sono parse particolarmente significative e talvolta ingiustamente dimenticate. «Due donne possono fare il lavoro di tre uomini» è soltanto uno dei numerosi detti che circolavano nella Gran Bretagna degli anni Quaranta, dove le donne erano spesso chiamate Wonder Women, espressione presa in prestito dal fumettista William Moulton, che nel 1941 ideò il suo personaggio più famoso: l’eroina Wonder Woman. Esattamente nello stesso anno, a Londra, iniziarono i lavori di ricostruzione del Ponte di Waterloo, che durarono 4 anni e coinvolsero 350 donne saldatori. Nel 1945, durante la sua inaugurazione, il Primo Ministro Herbert Morrison dichiarò: «Tutti gli Uomini che hanno costruito il ponte di Waterloo sono uomini fortunati». Dovranno passare ben 70 anni per un riconoscimento ufficiale a quelle donne. Nel 2015 infatti, grazie alla testimonianza della figlia di Peter Lind (Peter Lind & Company era l’azienda ingaggiata per la ricostruzione del ponte) e soprattutto alle foto trovate presso il Museo Nazionale di Scienza e Media, l’Ente Storico Ufficiale di Conservazione del Governo britannico, ha riabilitato e incorporato queste donne saldatore nei registri di storia del Ponte di Waterloo. Questa pagina di storia industriale è ben documentata anche dal cortometraggio “The Ladies Bridge Documentary” di Karen Livesey (Livesey, 2005). Restando in Europa, ma sul fronte orientale dell’Unione Sovietica, il coinvolgimento delle donne nelle dinamiche industriali e belliche, era già iniziato all’alba della Rivoluzione d’Ottobre, con la propaganda e l’impiego massiccio delle donne nell’industria degli armamenti (Figure 26 e 27). Va ricordato inoltre che, al contrario delle altre nazioni in guerra, la Russia zarista già dal 1917 fu l’unico stato belligerante a reclutare, addestrare e utilizzare in combattimento battaglioni di unità volontarie interamente femminili, i cosiddetti “Battaglioni Femminili della Morte” (McDermid e Hillyard, 1999). Nel dicembre 1941 gli Stati Uniti entrarono in guerra organizzando un imponente piano di riconversione industriale con l’obiettivo di trasformare la produzione civile in produzione bellica. Il nuovo modello femminile, simbolo delle lavoratrici impegnate in professioni faticose, era rappresentato nell’immaginario collettivo da Rosie the riveter (Rosie la rivettatrice), canzone di Redd Evans e John Loeb del 1942, a cui si ispirò Howard Miller per il manifesto propagandista che sosteneva l’impegno femminile nell’industria degli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale. In realtà all’epoca il poster originale di Miller venne visto pochissimo: rimase esposto solo un paio di settimane, nel febbraio 1942, all’interno di uno stabilimento della Westinghouse, ed era stato pensato per tenere alto il morale delle lavoratrici in fabbrica e non per reclutare nuova manodopera. I poster furono rimossi su pressione dei lavoratori maschi sindacalizzati, rimasti sul fronte interno, che erano contrari all’idea di far lavorare le donne come operatori di saldatura, di rivettatrici e operai edili, temendo che la femminilizzazione di queste professioni portasse ad una conseguente diminuzione dei salari. Il poster però ricomparve con successo tra gli anni Settanta e Ottanta, diventando un’icona del movimento femminista. Nel 1999 diventò un francobollo da 33 cent per le poste americane e nel nuovo millennio Hillary Clinton lo utilizzò nella sua campagna presidenziale del 2016. Una di queste famose Rosie fu Peggy Cittarella, di Somerville, impiegata di una fabbrica di caramelle, che poco prima dello scoppio della Guerra, volendo migliorare la propria situazione economica e sapendo che il mestiere del saldatore era molto richiesto e ben retribuito, riuscì ad iscriversi alla Newton Trade School come apprendista saldatore. La sua naturale bravura la portò a diventare insegnante nella stessa scuola. Allo scoppio della guerra, si offrì come saldatore presso il cantiere navale di Charlestown, dove dovette insistere e mostrare sul campo la propria

abilità per poter essere assunta. Lavorò per 13 mesi consecutivi e fu la prima donna a ricevere un premio ufficiale come miglior saldatore. Finita la guerra, tutte le donne che come lei saldavano nel cantiere sapevano di avere i giorni contati e furono infatti in grandissima parte licenziate. Peggy non ebbe più la possibilità di svolgere la propria mansione in un’officina, ma non smise mai di saldare presso la propria abitazione (Daniel, 2016). Durante la guerra, Franklin Roosevelt proibì la discriminazione razziale nelle industrie belliche, questo permise alle donne di colore di poter lavorare raggiungendo un’indipendenza economica e una ricchezza mai registrata in precedenza. Una delle operaie della Boeing, la signora Lou Annie Charles e altre donne saldatore descrissero, in un articolo apparso sulla piattaforma antirazzista inglese Shades of Noir, non solo quanto fosse duro lavorare, ma soprattutto la bellezza e la vitalità che tutto questo aveva portato loro. Tra le tante donne lavoratrici di colore, prevale la figura di miss Gladys Theus nota per la sua efficienza e per il suo talento nel saldare. Lavorò per la Company Permanent Metals Corporation, vicino ad Oakland, in California.

La saldatrice-apprendista Josie Lucille owens durante la costruzione della nave Liberty, SS George Washington Carver, varata il 7 maggio 1943. I cantieri navali Kaiser di Richmond, in California, occupavano durante l'ultimo conflitto mondiale quasi un migliaio di donne afroamericane, molte centinaia erano impegnate nella saldatura e taglio. national archives at College Park, US.

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