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In Bosnia un progetto made in Albino

L’11 novembre una famiglia di richiedenti asilo ha trovato casa a Kakanj, una città a circa 40km da Sarajevo, grazie al progetto “Bosnia: Beyond the Emergency” finanziato da un comitato di realtà bergamasche coordinato da Caritas Bergamo e supportato da Caritas italiana.

Questo progetto propone un modello di accoglienza alternativo ai grandi campi profughi che attualmente rappresentano la principale forma di accoglienza per richiedenti asilo in Bosnia ed Erzegovina. La safe-house (luogo di rifugio sicuro) di Kakanj è una possibilità di integrazione per questa famiglia con la comunità locale. Il progetto è stato sostenuto a livello locale dall’ONG Alternativa attraverso corsi di lingua, accompagnamento nell’inserimento scolastico e lavorativo. Wilson e Renato, padre e figlio, sono originari dell’Ecuador, dell’America del sud, fuggiti dalla miseria e da una dittatura, e hanno passato gli ultimi anni in Ucraina, dove Renato ha frequentato la scuola. A febbraio 2022, con l’escalation della guerra in Ucraina, hanno lasciato il paese in cerca di un posto sicuro e si sono fermati al campo profughi di Ušivak, presso Sarajevo. La loro meta iniziale era l’Europa occidentale, ma dopo aver trascorso qualche mese in Bosnia-Erzegovina hanno deciso di restare e costruirsi una nuova vita.

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In questi mesi al campo di Ušivak, Renato ha potuto frequentare la scuola solo per poche ore alla settimana senza avere la possibilità di essere inserito in una classe, ma con il trasferimento nella nuova casa e presso la scuola di Kakanj potrà finalmente continuare a studiare in modo regolare ed avere dei compagni di classe.

Giulia Baleri di Albino racconta come è nato il progetto: “Il mio legame con questo progetto è iniziato più di un anno fa mentre lavoravo presso l’ufficio migranti della CGIL di Bergamo ed ero rappresentante per la Rete della Pace di Bergamo.

Mi è stato chiesto di occuparmi di quella che ancora era l’idea di un progetto am- bizioso e sperimentale cioè portare l’esperienza italiana dell’accoglienza diffusa dei migranti in un paese complesso come la Bosnia ed Erzegovina, avendo come fine ultimo l’apertura di una safehouse a Kakanj.

La gestione della rotta balcanica è sempre stata ad un livello emergenziale e la Bosnia ed Erzegovina è tutt’ora visto come un paese di transito dalla maggior parte dei richiedenti asilo che si fermano solo il tempo necessario per recuperare le risorse e le energie necessarie per tentare il “game” verso l’Europa, così i migranti chiamano il tentativo di attraversare la frontiera. Tra di loro però c’è qualcuno che decide di restare in Bosnia ed Erzegovina per costruirsi una nuova vita e credo che i loro diritti debbano essere rispettati e che meritino una possibilità di integrazione in un contesto più adatto alle loro esigenze, specialmente se si tratta di migranti vulnerabili o di famiglie.

Con il prezioso aiuto di chi aveva fatto parte del comitato Bergamo-Kakanj negli anni 90, quando flotte di bergamaschi partivano per aiutare le comunità e le famiglie locali, abbiamo organizzato la prima missione di verifica del contesto di Kakanj e abbiamo capito che era- vamo sulla strada giusta perché tutte le organizzazioni internazionali attive nella migrazione ci hanno supportato, a partire da Caritas italiana che ha fatto da guida al progetto.

Abbiamo iniziato quindi a collaborare con Alternativa, che da anni lavora nella città di Kakanj.

Questo progetto è stata per me l’occasione di conoscere la Bosnia ed Erzegovina, tanto da decidere di investire un anno nell’esperienza di servizio civile universale con Caritas italiana a Sarajevo. L’esperienza di servizio civile che sto vivendo, dopo sei anni all’ufficio immigrazione della CGIL di Bergamo, mi ha permesso di continuare a seguire il progetto da Sarajevo, mentre lavoro nel campo profughi di Ušivak e nel Social corner di Sarajevo.

Speriamo che in un futuro, dalla condivisione di questo pezzo di percorso, possano nascere nuove iniziative”.

Per sé aggiunge: “Sono stata fortunata a vivere questa esperienza, mettendo in pausa il mio lavoro per un po’. E’ stato anche un investimento su me stessa, ha significato aprire gli occhi su tanti nuovi mondi, immergermi in nuovi contesti sociali e misurarmi su questi”.