Giugno 2016

n° 6 giugno 2016

EtCetera Majorana Desio

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Liceo Majorana Desio

iornalin

“il giornalino degli studenti”

Molti majorani che stanno per concludere il loro quinto anno hanno voluto lasciarci un saluto... (continua a pag. 10)

LECTIO BREVIS

Majosaluti

Last Day Show

IT’S OVER

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Indice

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Intervista ai Memoria dell’Acqua.........................................................................3 Prince: chi era e come è morto.............................................................................6 Letteratura applicata.............................................................................................8 Majosaluti............................................................................................................10 How to Majo.......................................................................................................12 Distanze...............................................................................................................14 La ‘Ndrangheta a casa nostra?...........................................................................16 Terzo tempo.........................................................................................................18 Riccardo Sala, ex

Forse non tutti sanno che... … la consonante e la vocale più usate nei vocaboli italiani sono la r e la i … un Russo ha installato una spina della birra al posto del rubinetto … la banconota da 500 euro è la più usata per scopi illeciti … i Moai dell’isola di Pasqua non hanno solo la testa, ma anche il busto … la festa dei lavoratori in ricordo di uno sciopero represso nel sangue nel 1886 negli USA … i nomi de La Rinascente e della Saiwa furono inventati da D’Annunzio … una donna americana ha sparato ai cellulari dei figli perché li usavano troppo … il gesto delle corna dell’iconografia rock e metal deriva da un gesto scaramantico italiano … la barba sembrerebbe influenzare inconsciamente i giudizi penali negativamente … che se si moltiplica un numero per zero si ottiene zero.

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Musica

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Lorenzo Ferri, 3A

Intervista ai Memoria dell’Acqua In occasione del contest musicale che il Majo proporrà quest anno, Etcetera vi darà l’occasione di conoscere le band che vi parteciperanno grazie a questa nuovissima rubrica.

L’intervista di questo numero ha come protagonisti i Memoria dell’Acqua, band composto dal “majorano” Simone Vitiello (3°B), e da Silvia Vavassori e Andrea Cappelletto.

Finalmente un gruppo che mostra un po’ di patriottismo. Qual è il significato del vostro nome?

Viti: Nasce da un mio interesse mai veramente approfondito per la medicina omeopatica. La “Memoria dell’Acqua” è una teoria proto scientifica formulata da un certo Masaru Emoto: questo pseudo scienziato ha fotografato dei cristalli d’acqua che, sottoposti a diverse emozioni attraverso una musica particolare, hanno assunto forme più disarmoniche con una musica più negativa, più armoniche con un’emozione positiva. Tutto questo non l’ho saputo prima di tre mesi dalla scelta del nome (ride, ndr). Più che altro è un nome lungo, è femminile, quindi suona bene ed è originale.

Come gruppo che produce inediti, avete un genere nel quale vi riconoscete o qualche ispirazione particolare per i

pezzi ai quali state lavorando?

Viti: Direi che siamo Pop Rock, anche se mi lascio influenzare molto dalla musica che ascolto. In questo periodo per esempio sto ascoltando molto i Radiohead e sto sentendo anche qualche gruppo nuovo che mi hanno consigliato. Siamo ambiziosi ma nel voler creare un prodotto pop curato, non vogliamo essere progressive, mettere in mostra la tecnica, vogliamo fare un prodotto semplice ma non essenziale, che puoi anche canticchiare sotto la doccia ma che sia curato bene.

Parlateci dei vostri inediti.

Viti: Li stiamo suonando in un po di locali, in attesa di finire di registrare. Abbiamo fatto questa scelta ardita decidendo di scriverli in italiano. Lo abbiamo fatto perché l’italiano ti da l’impulso per cercare soluzioni melodiche alternative, ti spinge a trovare soluzioni alternative, cosa che magari non fa l’inglese La procedura di “produzione” è semplice: metto prima giù la musica, poi canticchio qualcosa su magari in inglese e poi l’italiano viene da se. i testi seguono molto la musicalità del pezzo, e le parole derivano più dal mio mood mentre ascolto il pezzo più che da un ragionamento complesso. Nei nuovi pezzi invece sto cercando di usare più il raziocinio. Al momento abbiamo prodotto 7-8

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Musica

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inediti, stiamo registrando dal 7 dicembre un EP, e devo dire che siamo stati fortunati a trovare un fonico molto competente, che ci sta aiutando nel percorso di crescita che stiamo avendo, dato che quando abbiamo iniziato non avevamo mai messo piede in uno studio.

Hai un pezzo tra quelli che avete prodotti fin ora che preferisci?

Viti: Allora personalmente il mio preferito è Paura del Buio, è un flusso di coscienza, e lo apprezzo molto musicalmente perché ha quell’attitudine che mi piace: vuole essere pop e mi piace il modo in cui riesce ad esserlo.

A livello di live, come vivete l’impatto sul palco e con che frequenza suonate dal vivo?

Cerchiamo di tenerci sempre attivi perché cresci molto: io personalmente non pubblicherei mai un EP o un CD senza prima aver suonato un po di volte live tutti i pezzi: il live è l’unica dimensione in cui possono nascere i pezzi, è li che poi capisci se il pubblico può apprezzare o meno. Il riscontro del pubblico poi alla fine è importante, a prescindere da quello che uno dice, penso siano pochi gli artisti che se ne fottono totalmente del consenso del pubblico. Suonare davanti a gente che ti acclama è sempre un vantaggio, però è importante anche suonare davanti a gente che non ti conosce, soprattutto se vuoi farti sentire e vendere un EP. E’ tutto possibile pubblico.

Com’è nato il gruppo?

Come gruppo siamo abbastanza vecchiotti, siamo nati nel 2012. Allora eravamo una cover band abbastanza scadente, ora siamo una band di inediti molto scadente. In realtà siamo migliorati molto. Prima eravamo in 4, c’era un’altra componente, poi abbiamo fatto scelte artistiche diverse e siamo rimasti in tre, e da gennaio dell’anno scorso è partita quest’idea degli inediti, che è un lavoro molto impegnativo ma appagante.

A livello musicale come nascono i vostri pezzi?

DI base scrivo tutto io, però inevitabilmente gli arrangiamenti prendono forma in sala prove, anche perché ognuno ci inserisce qualcosa di personale. Spendiamo moltissimo tempo sulla linea della batteria, sull’apporto ritmico che è assolutamente fondamentale.

Vi va di parlarci dell’EP? Su Facebook anche se non siamo molto social teniamo aggiornati tutti, dovremmo finire per fine aprile, inizio maggio. Pensavamo poi di fare qualche serata per presentarlo e farlo sentire un po live. Stare in studio è bello, ma i live sono fondamentali.

Quando avete iniziato a fare i primi live?

Abbiamo iniziato fin da piccoli a suonare, magari prima nei baretti qua in zona; Bisogna fare cosi, suonare in tutte le bettole, noi ce lo siamo fatto e ce lo stiamo ancora

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facendo, anche se ora ci sta girando abbastanza bene e spesso suoniamo in qualche localino carino.

Come ci preparate al contest?

Non ci abbiamo ancora pensato bene perchè stiamo ancora finendo l’EP e siamo molto presi da quello. In ogni caso sicuramente i pezzi dell’EP, e poi magari un altro in edito sarebbe carino.

Come fate a conciliare la voce col basso?

Beh lei è molto brava, sono tutti bravi, scusa se lecco un po il culo. Alla fine non è difficile, meglio così che come tanti bassisti che fanno solo la tonica dell’accordo.

Poi c’è un pezzo in cui canto io, variamo abbastanza.

Con quale frequenza provate?

D’inverno oramai una volta a settimana è il minimo, d’estate abbiamo fatto anche settimane rinchiusi, serve molto. Se suoni spesso poi dal live si sente, anche perché, nella mia concezione, in live non riporti il pezzo così come lo fai in studio, devi fare divertire la gente. E se provi tanto poi si sentono i suoni sono ben collaudati, anche se poi dal vivo sei tutt’altro che perfetto in ogni caso. Per dirti, quando suoniamo in studio siamo pop, mentre magari dal vivo esce fuori la dimensione più rock n’ roll.

Poi ogni gruppo ha la sua idea.

Cosa significa per voi aprire concerti di gruppi più esperti?

Ti caghi proprio in mano. Per questa cosa

dobbiamo ringraziare gli Aim, che sono un gruppo che prima di tutto consiglio, non è una leccata di culo, mi piacciono proprio. Abbiamo provato a suonare a tre dei loro concerti ed è un onore, anche se senti in ogni caso la tensione. Devi essere comunque bravo a cogliere l’occasione, magari anche perché aprendo i loro concerti ti spingi a suonare anche verso Cantù, Como, Milano, mentre quando fai serate tue sei “limitato” alla Brianza.

Quali sono i vostri progetti?

Abbiamo intenzione di portare in giro i nostri inediti soprattutto dopo l’uscita dell’EP. Suoneremo il 22 giugno al Rock On the Road e il 26 giugno a Cesano.

Ringraziamo i Memoria dell’Acqua per l intervista e vi diamo appuntamento al prossimo anno!

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Musica

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Prince:

Giorgia Cassarino, 2c

chi era e come è morto Prince Rogers Nelson, nome d’arte Prince deriva dal nome della band dove il padre suonava, ovvero i “Prince Rogers Trio”. Prince è stato un cantautore, polistrumentista, compositore, produttore discografico, attore, regista e sceneggiatore statunitense, popolare soprattutto negli anni ottanta e novanta. La sua musica coinvolge diversi stili come funk, rock classico e pop, ma spesso si è confrontato anche con il rap e il rock sinfonico, producendo un crossover musicale molto apprezzato da fan e critici.

giovani colleghi di studio, scatenato, carismatico, strumentista ricco di talento.

Altre influenze esercitate sul musicista includono il dance rock, la disco music e la musica psichedelica, che ispirò alcune tracce quali Let’s Go Crazy da Purple Rain. La vita privata di Prince non è stata affatto rosea.

Da ragazzo era taciturno e passava le giornate nella cantina del suo amico Andre nel provare a suonare. Cercava di farsi notare il meno possibile, ma la svolta definitiva vi fu durante un pranzo, quando un gruppo di amici lo coinvolge in uno spettacolino musicale allestito in sala mensa. Rogers apparve trasformato agli occhi dei suoi

Il 21 aprile 2016 alle 10:07 questo famoso cantante viene ritrovato senza vita in un ascensore all’interno del complesso di Paisley Park, sua residenza situata a Chanhassen, alle porte di Minneapolis, all’età di 57 anni.

Nel 1996, all’età di 37 anni si sposò con Mayte Garcia di 22 anni e dalla quale ebbe un figlio chiamato Boy Gregory. Purtroppo il piccolo morì una settimana dopo la sua nascita a causa della sindrome di Pfeiffer, un difetto raro del cranio. La coppia annunciò il divorzio nel 1998. Nel 2001 Prince si sposò con Manuela Testolini per poi divorziare 5 anni dopo.

La causa della sua morte è un mistero. Da una seconda ricostruzione, secondo il sito TMZ che ha divulgato la notizia del decesso, sembra che sei giorni prima della sua morte sia stato sottoposto ad un trattamento urgente (tecnicamente il “save shot”) per un’overdose da oppiacei. Gli inve-

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Musica

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stigatori che indagano sulla morte di Prince hanno trovato su di lui e nella sua casa in Minnesota farmaci antidolorifici a base di oppiacei.

Secondo il Daily mail, che cita fonti del National Enquirer, prendeva questi forti antidolorifici proprio perché il cantante era affetto da Aids.

Lo ha detto un funzionario alla Cnn. Si tratta di pillole comunemente usate contro il dolore e gli investigatori le hanno portate all’agenzia del farmaco per avere nuovi elementi nel caso. Gli investigatori ritengono che il malore verificatosi circa una settimana prima della morte di Prince, sia stato, probabilmente, il risultato di una reazione a questi antidolorifici. Il suo manager smentisce tale ipotesi, affermando che la causa del ricovero fosse dovuta ad una brutta influenza, tant’è che il giorno successivo

Qualunque sia la verità sul motivo della sua morte, nulla toglie al fatto che quest’uomo sia stato un genio, capace di trasformare sé stesso e la sua musica in modo ineguagliabile.

Quest’uomo è stato ed è tanto grande da restare con noi per sempre, avendoci regalato un patrimonio musicale di grande rilevanza.

Prince ha partecipato ad un concerto per rassicurare i fan sulle sue condizioni di salute. Il 28 aprile è stata diffusa dal settimanale statunitense National Enquirer, un’indiscrezione da fonte anonima (non confermata ufficialmente) secondo la quale Prince sarebbe morto per complicazioni derivanti dall’AIDS, virus contratto nei primi anni Novanta e poi trasformatosi negli ultimi sei mesi in AIDS conclamato. Non aveva voluto sottoporsi a cure mediche specifiche. «Mi curerà la preghiera», avrebbe detto il cantante, che era testimone di Geova.

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Letteratura

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Vincenzo Guarino, 4I

Letteratura applicata #4 - L’ATTESA Alle volte capita – capita di sedersi su una poltrona, la sera, fuori il vento leggero muove le foglie in un chiarore che stenta ad abbandonarsi al buio, le famiglie si ritirano nell’intimità delle loro dimore, si crea un indicibile silenzio; dentro si rimane a fissare una parete e si pensa. Capita.

E a cos’è, che si pensa? Si riavvolge il nastro della giornata, si rivedono immagini, si odono rumori, magari se ci si concentra particolarmente si risale anche ad odori: la vita insomma, nulla di nuovo. È che tra un’immagine e l’altra, tra un suono e l’altro, tra un odore e l’altro, vi sono degli spezzoni, dei bui, dei vuoti, vero e proprio nulla. La fila alla cassa del supermercato, il traffico intenso sulla statale, il treno che non arriva e noi sulla banchina di una stazione. E tali buchi, a pensarci, non sono pochi nel corso di una giornata; per quale motivo, pur sapendo che il nostro tempo è limitato, ne perdiamo gran parte nelle attese? Cosa vuol dire attendere?

L’attesa è, in un certo senso, un riconoscimento di civiltà, un patto tacito stipulato tra gli uomini sul modello di quello che hanno dovuto accettare nel momento della creazione.

Ma si tratta di qualcosa di utile, di positivo, che ci arricchisce o che invece ci priva

di qualcosa?

Una possibile risposta la si potrebbe trovare osservando la natura.

Perché una mela ha necessità di maturare?

Perché le foglie, prima di rinascere floride e splendenti devono cadere? Perché un uomo acquisisce maturità, spessore, senso di compiutezza con il passare del tempo, attendendo? Non è poi ogni altro gesto che compiamo un’attesa di qualcosa d’altro, un’esemplificazione della natura umana mai paga e sazia e sempre alla ricerca di qualcosa d’altro che la soddisfi?

Attendere è ciò che rende migliori, non solo noi come uomini, ma tutto ciò che ci circonda, tutto ciò che facciamo – attendere qualcosa significa dare importanza a quella cosa, renderla speciale, unica, intima, elevarla ad una sfera che quasi trascende l’umano e la tendenza dell’uomo all’insaziabilità: ottenere qualcosa dopo averla attesa a lungo significa sentirsi finalmente colmi per un momento, sentirsi compiuti, senza la necessità di raggiungere altro, senza il desiderio di volere altro – significa sentirsi parte dell’universo, liberarsi della condizione di uomini, per istante, solo uno. Già, perché non siamo in grado di liberarci della nostra voracità di desiderio, non possiamo liberarci in eter-

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Letteratura no della nostra natura; il desiderio ci porta ad uscire dal presente eterno in cui ci troviamo, ci porta al movimento, al divenire, ci riconduce all’attesa somma della nostra vita: quella della morte. Ma se dunque un nuovo desiderio è una produzione di movimento, attendere a lungo non significa forse posticiparne la generazione, dunque posticipare il divenire e allungare la condizione di presente eterno; allontanare la morte?

Un’esemplificazione letteraria di questo concetto è rintracciabile in Gabriel Garcia Marquez, grande scrittore sudamericano deceduto qualche anno fa, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1982.

Questa sublimazione dell’attesa, in grado di farci sentire in sintonia con l’universo, la troviamo principalmente in due grandi libri di Marquez: il monumentale Cent’anni di solitudine e L’amore ai tempi del colera. Vi racconterò di quest’ultimo in quanto credo possa esemplificare in modo più immediato e chiaro ciò che è stato detto sull’attesa.

Questo libro narra la storia di un uomo, Florentino Ariza, che un giorno, poco più che vent’enne, incontra una ragazza, Fermina Daza, di cui si innamora. Varie circostanze portano i due ad essere lontani, separati, ma Florentino Ariza persevererà il suo amore, tra varie avventure e peripezie, per cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese, fino a quando questo non troverà finalmente compimento.

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Siamo nella parte finale del libro, i due sono ormai vecchi, protagonisti di un viaggio in battello nel quale si sono finalmente riusciti ad amare: Florentino Ariza, dopo aver aspettato tanto, ha finalmente raggiunto il suo desiderio, e la lunga attesa lo porta ad allontanarsi, per un momento, dalla sua condizione di uomo, a provare sazietà, compimento, immortalità.

“Il capitano guardò Fermina Daza e vide sulle sue ciglia i primi bagliori di una brina invernale. Poi guardò Florentino Ariza, il suo dominio invincibile, il suo amore impavido, e lo spaventò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti.

«E fin quando crede che possiamo proseguire questo andirivieni del cazzo?» gli domandò.

Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni con loro le notti.

«Tutta la vita» disse.”

Perché, allora, tendiamo sempre più verso l’impazienza, verso l’annullamento dell’attesa? Probabilmente perché il rumore frastornante che noi stessi produciamo ci impedisce di pensare, la nostra natura vile, egoista, ignorante non può essere soppressa: il richiamo della morte è acuito dalle nostre imperfezioni, la parte più consistente di noi.

Attendere per civilizzarsi, attendere per sperare, attendere per migliorare: vale la pena, provarci?

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Saluti

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Lorenzo Ferri e Davide Ferloni, 3A

Majosaluti L’anno è agli sgoccioli, si svolgono le ultime verifiche, le medie sono quasi tutte sistemate, e per qualcuno si avvicina il tempo dei saluti.

La maturità, si sa è un passo importante, e molti majorani che stanno per concludere il loro quinto anno hanno voluto lasciarci un saluto. Noi di Etcetera abbiamo deciso di raccogliere i più belli e condividerli con voi nostri amati lettori…

“Mi mancherà molto l’ambiente, le battute e gli errori dei prof, prendere colloqui pomeridiani per cinque anni, distribuire fazzoletti, elemosinare la merenda…”

Silvia Corbetta “In realtà sono molto felice di andare via, sperando di farcela…”

Riccardo Arienti “Mi mancheranno i peni mondani della Perego…”

Caterina Fagiolari “Un saluto a tutti, forse ci rivedremo l’anno prossimo…”

Alessandro Bianchi “Sicuramente sarà un peccato lasciare questa scuola, con tut-

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Saluti

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te le iniziative che sono presenti, soprattutto il giornalino, che ci permette di avere notizie in generale su quello che accade. Un saluto a tutti, ci vediamo presto.”

Riccardo Nobili “Quest’anno maturità, speriamo in bene… Buona fortuna a tutti quelli che restano!”

Stefano Zuccarelli

“Ci mancheranno le croccantelle e i bagni!”

Matrina Carlin e Benedetta Macro “Mi mancheranno fossati, teatro, il progetto dell’ONU, ma non mi mancherà di certo il prof. Zuliani! Anche se bisogna ammettere che alla fine mi mancheranno un po’ tutti.”

Giuditta

“Era ora!”

Ludovico Benetel

“Mi spiacerà lasciare il Majorana, soprattutto per il giornalino, che è un’opportunità che non tutte le scuole hanno!

Ciao ciao giornalino, etcetera etcetera…”

Marco Artusa

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Scuola

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Riccardo Sala, Majores

How to Majo: #wearemajo Il percorso di pseudo guida di sopravvivenza ha attraversato tutti e cinque gli anni del liceo e si avvia alla conclusione.

In questo ultimo capitolo non rimane che tirare le somme e dare uno sguardo più generale su tutto il cammino al Majorana (quindi se anche non avete letto gli scorsi articoli capirete lo stesso).

L’incipit un po’ ironico dei capitoli precedenti sottolineava come l’obiettivo dello studente medio sia sopravvivere, ma in realtà per sopravvivere basta studiare.

Ok, detto così può sembrare banale, però semplicemente basta arrivare alle 8 del mattino seguire attentamente ogni lezione e alle 13 tornarsene a casa per poi mettersi a studiare e ripartire così il giorno dopo. Compiti, verifiche e interrogazioni, cinque anni passerebbero senza troppi intoppi.

Forse questo è il sopravvivere che alcuni docenti e genitori vorrebbero che gli studenti seguissero, una scuola senza distrazione, con studenti più simili a burocrati, impiegati frustrati che svolgono diligentemente solo il proprio lavoro, niente di più, niente di meno.

Il Majorana non è questo, o almeno finora non è stato così. Non è un freddo ufficio scandito da orari e consegne ben precise. In questa serie non si è parlato di come sopravvivere, ma di come vivere al Majorana il Majorana. Per anni si è ripetuto che il Majo è come una seconda casa, rubando lo slogan “Dove c’è Majo c’è casa” e questo per il clima particolare, accogliente, per il fatto che nessuno fosse escluso. Ultimamente, però, arrivano da diverse parti segnali del fatto che qualcosa stia cambiando o è già cambiata. Basta guardare la carenza di redattori su questo giornalino, davvero non c’è nessuno che abbia qualcosa da dire? Non ci sono discussioni o confronti se non per un drone.

A fare sono sempre gli stessi, sono sempre meno, sono sempre più carichi di responsabilità.

L’anno scorso, un giorno qualsiasi, ero alle macchinette a prendere un caffè con Davide Taccagni e Gabriele Gatti, così parlando è nata l’idea di creare la televisione degli studenti. In quel momento era un’idea campata in aria, come tante di quelle che mi vengono, però ci abbiamo creduto, abbiamo iniziato a lavorarci col nostro gruppetto di 5/6 studenti e

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ora è diventata qualcosa che quasi si dà per scontata, qualcosa che genera polemiche all’interno, qualcosa che fa invidia all’esterno. Anche Majoradio è nata in un modo analogo, dall’idea di tre folli majorani.

Perché essere Majorani un po’ vuol dire anche questo, vuol dire essere folli, essere creativi, pensare qualcosa che ancora non c’è e farlo, farlo a modo proprio come non c’è in altre scuole.

Hai un’idea? Vuoi fare qualcosa? Bene e allora fallo, non aspettare che lo faccia qualcun altro al tuo posto perché non lo farà, non aspettare l’anno prossimo perché avrai altro per la testa, cogli l’entusiasmo del momento e quando hai un’idea seguila.

Recentemente ho avuto l’occasione di incontrare molti ex studenti, alcuni ancora universitari, altri anche di trent’anni fa e in realtà mi sono stupito del loro attaccamento a questa scuola dopo così tanti anni, perchè quella manciata di anni lontani, il Majo, hanno segnato un po’ la loro vita, nel bene e nel male. Qualcuno mi ha anche raccontato di come gli sia stato poi utile all’università e nella vita ciò che ha imparato qui, non solo le nozioni didattiche, ma proprio la mentalità e l’approccio.

Questo è il tempo in cui bisogna vivere, bisogna sperimentare, buttarsi, tentare.

Alla fine tutte le varie attività extra che

si fanno al Majo, senza cui certamente si potrebbe sopravvivere, aiutano a formarsi come persona, servono per provare a fare qualcosa di concreto, per trovare una passione, per esprimersi, per conoscere nuova gente e poi soprattutto, aspetto non secondario, ci si diverte un sacco.

Uno dei punti di forza del Majorana è lo spazio lasciato agli studenti e lo spazio che gli studenti si creano, il punto di forza sono le persone che lo compongono, quelle sono, come lo intendiamo noi, il Majorana. #ciòchenontiaspetti #admajorana #eatsleepmajorepeat #staymajo #wearemajo La serie finisce qui, continua tu.

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Matteo Grisi, 4A

Distanze “ Caro

Majorana,

che cosa ti sta succedendo?

Sono quasi quattro anni che ci conosciamo e mi ricordo che mi accogliesti come un amico, ma che hai cominciato da un po’ di tempo a diventare sempre più freddo e perfettino, sempre più burocratico e fiscale, e stai prendendo le distanze.

Mi ricordo, sai, di quanto fossero più alti i tuoi soffitti quando ero appena arrivato, dei giganti che sotto di essi portavano a spasso le proprie teste pensanti; mi ricordo l’infiammato dibattito indetto per l’elezione dei Rappresentanti, le aule ben popolate durante la lunga cogestione, le assemblee, che erano momenti fondamentali in cui gli studenti si riunivano volentieri per stare assieme e per incontrarsi.

Potrei dire che da un lato c’era più fiducia, più rispetto, più scambio umano, più condivisione e più intesa, e lo dico perché funzionava bene tutto anche senza bisogno di dirsi ogni minima cosa o di svolgere

complicate procedure burocratiche.

Non mi dimenticherò di come mi hai subito convinto a partecipare al MajoSuona, dicevi: “attività autogestita svolta per conoscersi suonando assieme”, e così era, e così risuonano le parole nella mia testa anche dopo tanto tempo.

Tra l’altro, la cosa migliore fu presentarsi al primo incontro senza nemmeno saper suonare il rullante e trovarsi a condividere chili di Nutella avanzata dall’ultima festa della scuola con quei giganti altrettanto buoni.

Non mi dimenticherò dei pranzi migliori della mia vita nella biblioteca, ogni giovedì, prima di fare teatro. Biblioteca dalla quale vengo cacciato se mi fermo a studiare senza permesso scritto e firmato in un pomeriggio in cui è di turno la persona sbagliata.

Erano tempi in cui non ricordo di aver mai visto professori che braccassero chiunque provasse a muoversi tra le sedi su venti-

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trenta metri di innocuo vialetto, né MajoTivù. È valsa davvero tutti quei soldi? Vorrei poi potermi ribellare quando vedo che, invece, il laboratorio di teatro deve alzare la quota di adesione per non crollare sotto al suo stesso sostenibilissimo peso.

Vorrei ribellarmi al non poter più tenere i miei voti tra le mani, su fogli di carta (ruvidi quattro i quattro in matematica), come ancora mi ostino a fare con appunti e compiti a casa, che comunque la piattaforma Spark e l’iPad che mi hai dato vogliono strapparmi per donarli all’evanescenza virtuale.

E vorrei anche smetterla di scrivere, perché avrei da dirti tante cose che ti piacerebbero ancora meno di quelle nelle righe che ho impilato qua sopra. Mi dispiace, quindi, di aver fatto come non vorresti: di essere stato personale e non oggettivo, di essermi basato sulle sensazioni e non sui dati, di averti scritto una lettera e non un vero articolo, di essermi preso la responsabilità delle mie parole e dei miei gesti.

Anche se ora ti vengono fatte bandiere e loghi, sono convinto

che i vestiti più belli delle tue tradizioni vengano sempre più sciupati, sgualciti e squarciati dall’uso improprio di parole come “patriottismo”, unghie di chi ci si aggrappa.

E forse, anche se non sono cambiato molto, non sono più come vorresti e speri già di avermi il più lontano possibile da te entro i prossimi due anni.

Forse lo spero anch’io.

Un saluto sinceramente caldo e caldamente sincero.

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Daniele Rigamonti, ex

La ‘Ndrangheta a casa nostra?

Mi sono informato su specifici avvenimenti di cronaca locale che hanno per forza di cose concentrato la mia attenzione sul tema della ‘ndrangheta sul nostro territorio. I fatti di cronaca locale a cui mi riferisco sono la chiusura di due esercizi commerciali in seguito alla revoca delle licenze da parte del comune su invito della prefettura di Monza, entrambi gli esercizi coinvolti si trovano nel centro di Seregno, a pochissima distanza da casa mia e forse familiari a molti di voi: stiamo parlando del “Tripodi Caffe” in piazza Vittorio Veneto e de“La Torrefazione”, in corso del Popolo, entrambi bar-caffetterie, il primo anche panettiere.

Il motivo giustificatore della revoca è appunto “sospetto di infiltrazione mafiosa”. La cosa più tragica è che non c’era molto di cui stupirsi: i rapporti che i gestori di questi locali hanno avuto e hanno tuttora con la ‘ndrangheta erano, se non risaputi, per lo meno intuibili. La Signora Marano, per esempio, entrata in possesso del bar “Torrefazione” nel 2014, è nientemeno che la moglie di Giuseppe Pensabene, già condannato a 15 anni di carcere perché capo nella

locale di Desio. Ancora più coinvolta risulta la famiglia Tripodi: Antonino è stato toccato dall’operazione Infinito per detenzione illegale di armi e ha già scontato 5 anni di carcere; in un box di sua proprietà infatti il 23 febbraio 2009 i carabinieri di Desio ritrovano pistole, fucili, esplosivi, e una serie di altri utensili non esattamente indispensabili per un panettiere.

Questo box, a quanto dichiarato dalla Corte di Cassazione su una parte dell’operazione Infinito “si è immediatamente presentato come luogo a disposizione della cosca per occultare armi o droga” e la stessa ordinanza, emessa per l’arresto di altri componenti del clan, riguardo al proprietario afferma “La persona del TRIPODI é in possesso di tutte le caratteristiche per svolgere la funzione di custode delle armi della cosca: è soggetto incensurato e fino a quel momento sconosciuto alle forze dell’ordine”.

Ma non solo Antonino si è dimostrato ben inserito nei legami con le cellule ‘ndraghetiste della Brianza ma anche i suoi famigliari non sono da meno: si

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legge infatti nella sentenza di primo grado del processo Infinito che lo ha condannato che “La madre di Tripodi, Crea Teresa, è sorella di Crea Paolo, menzionato quale capo locale di Desio, nella sentenza emessa dal Tribunale di Milano in data 21 ottobre 1997”, la moglie di Antonino è nipote di Pio Candeloro, anche lui pesantemente coinvolto nell’inchiesta Infinito. (“Il cittadino” n. del 1/03/16).

Quindi si sapeva.

Ecco, non colgo l’occasione per fare la morale a nessuno perché mi renderei inutilmente antipatico e perché sarei un ipocrita: anche io ci sono stato in quei posti a fare merenda e a bere il caffè.

Non c’è stata però una forte reazione della politica locale che si è dimostrata evidentemente incapace di condannare fermamente la realtà mafiosa sul territorio e anche solo di aprirsi a dialogare su questo tema.

Nonostante mi riferisca a tutta la politica seregnese, caso eclatante e che non posso purtroppo non menzionare è stata la dichiarazione nel maggio 2014 (quindi i rapporti dei Tripodi con la ‘ndrangheta erano già stati dimostrati) dell’allora sindaco Giacinto Mariani “E’ una panetteria come tutte le altre […] che ha una regolare attività sul territorio” in questa attività regolare l’ex sindaco aveva pure svolto una scena del suo

spot elettorale in vista delle elezioni europee. Pure il sindaco in carica Mazza ha dichiarato ad un giornalista del “Fatto Quotidiano” che non ci vede nulla di strano nell’andare a prendere il caffè in quel posto (vedi “Seregno: in Brianza campagna elettorale di Fi nel bar dell’armiere dei boss”).

Insomma tutti abbiamo sbagliato ma nessuno ammette le proprie responsabilità e in primo luogo non lo fa la politica. L’unico intervento, che peraltro ha suscitato parecchie discussioni in consiglio comunale, è stato del consigliere Leonardo Sabia (che ringrazio per l’utilissimo materiale fornito) che si è sentito rispondere con l’accusa di aver turbato “quella che poteva essere una seduta serena”.

Se questo significa rinunciare a parlare apertamente di argomenti scottanti io, da cittadino, non la voglio una seduta serena; voglio un dibattito serio su come affrontare la criminalità organizzata nella mia città, senza più rinvii e voglio che la politica e la cittadinanza si prendano le loro responsabilità, perché insomma come si può pretendere che i cittadini si mobilitino a combattere la mafia se i loro rappresentanti sono i primi a disinteressarsene?

n° 6 giugno 2016

EtCetera Majorana Desio

Sport

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Niccolò Barberio, 3C

Terzo tempo Benvenuti a “Terzo tempo”, l’unica rubrica calcistica che in soli quattro punti (escluso questo) riesce a descrivere e a catturare l’intera essenza di un intero campionato, l’unica rubrica sportiva che non ha ancora sfracassato i “cosiddetti” con il sogno del Leicester, l’unica rubrica che comincia quando il campionato è appena finito.

Ma lasciamo perdere...passiamo ad altro.

Ieri (sabato 14 maggio ndr) la Vecchia Signora ha festeggiato la fine del campionato travolgendo con un 5-0 una Sampdoria irriconoscibile rispetto a quella dell’anno scorso. Fortunatamente Ferrero, presidente della squadra genovese, era troppo fatto per accorgersene. Ancora una volta, la quinta di fila, la Juventus ha vinto lo scudetto: c’è ben poco da dire (e quel poco che c’è lo avrete già letto), se non che ha vinto la squadra più forte, e che lamentarsi degli arbitri è tanto inutile quanto stupido.

Non avrà vinto il campionato, ma secondo me, per quel che vale, il premio per il gioco più spettacolare va al Napoli di Sarri.

Ad avvalorare la mia tesi, vi è il gol da cineteca di Gonzalo Higuain ai danni di un Frosinone che da un po’ di tempo non è più tanto “culone”: stop di petto e rovesciata al limite dell’area.

Questo gol, tra l’altro, è il numero trentasei in campionato su trentacinque partite:

record storico.

Si, si, è tutto molto bello ed interessante: la Juventus ha vinto per la quinta volta consecutiva il campionato, il Pipita Higuain ha battuto il record di gol segnati in serie A, il Milan –e qui scusatemi per la scontatezza della battuta strariciclata– si è dimostrato la squadra di brocchi che ci si aspettava, l’Inter la solita torre di Babele, la Fiorentina la solita sostanza gelatinosa durante la seconda parte di campionato... ma vogliamo mettere tutto questo con il Sassuolo?

Già, perché, per chi se lo fosse inspiegabilmente perso, la squadra emiliana è arrivata sesta in classifica, piazzandosi in lizza per partecipare all’Europa League, salvo il fatto che questo Milan non batta la Juve nella finale di Coppa Italia. E quando questo accadrà, Balotelli vincerà il pallone d’oro.

Hellas Verona, Frosinone e Carpi sono retrocessi. I palermitani si sono salvati per un pelo battendo di misura un Hellas già in serie B. È davvero un peccato per gli emiliani: francamente, fra Carpi e Palermo avrei preferito si salvasse la prima squadra, che almeno non cambia allenatori più spesso di quanto la gente si lavi i denti.

n° 6 giugno 2016

EtCetera Majorana Desio

Last Day

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