Aprile II 2017

n°11 aprile 2017

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“il giornalino degli studenti”

Ciao a tutti, per chi non mi conoscesse mi presento, sono Lorenzo Ferri, ex-rasta contento sia di aver fatto i dreadlocks un anno e mezzo fa, sia di averli tagliati un mese fa. A posteriori sento di poter dire.... (continua a pag. 13)

Lo scorso 2 aprile si è giocata NapoliJuventus.

Questa partita è stata attesissima da tutti gli appassionati di calcio, ma soprattutto dai tifosi del Napoli, per il ritorno di Higuain... (continua a pag. 4)

Quentin Tarantino non è certo un regista che merita mezze misure: o lo si ama alla follia oppure lo si odia profondamente. Sono ormai 24 anni che Il cineasta nato a Knoxville, Tennessee, nel lontano 1963, divide la critica e fa discutere di sé grazie ad uno stile di film assolutamente originale e caratteristico. Visto da sempre con un certo sospetto dai critici cinematografici, Tarantino... (continua a pag. 6)

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Indice

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La legge è veramente uguale per tutti?.......................................3 Un’ inutile e ingiustificata violenza.............................................4 I migliori film di Quentin Tarantino............................................6 La felicità...................................................................................11 Le 10 domande che un rasta deve aspettarsi............................13 Ecce Homo................................................................................16

? u t e h c n a e r a p i c e t Vuoi par a o l o c i t r a o u t l i i Inviac m o .c l i a m g @ a n a r o j a m a r e etcet

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Attualità

3 La legge è veramente uguale per tutti?

Elisabetta Palmieri, 1b

Il mese scorso il cantante Adriano Celentano ha denunciato (pubblicamente) un sospetto furto avvenuto nella sua villa in provincia di Lecco, in una zona della provincia lombarda con una sola caserma, costituita da 8 carabinieri.

Dopo questa notizia la quasi totalità delle forze dell’ordine della provincia di Lecco si è mobilitata per difenderlo, causando così un problema legato alla sicurezza dei cittadini.

Questo episodio mi ha ricordato il racconto intitolato: ”Il camaleonte” di Checov; questo è un racconto che narra di un ispettore di polizia che cambia opinione in base al ceto sociale del colpevole (anche se in questo caso si potrebbe parlare del “ceto sociale” della persona offesa: Adriano Celentano). Personalmente io sono convinta del fatto che ogni cittadino debba avere gli stessi diritti di fronte alla legge. Tanti cittadini, che non hanno avuto la “fortuna” di chiamarsi Adriano Celentano, purtroppo questa possibilità non l’hanno avuta. Infatti i carabinieri si sono concentrati sul furto a casa di Celentano, ignorando completamente il fatto che i furti siano frequenti anche per gli altri cittadini.

D’ altro canto, non trovo neanche giusto che Celentano non abbia diritto che le forze del’ ordine vigilino sulla sua casa, ma trovo scorretto il comportamento delle forze dell’ordine che,

verosimilmente, decidono di scegliere di difendere quel cittadino che ha avuto accesso alle prime pagine dei giornali.

Questo è uno dei tanti episodi che ci dimostra che la frase: ”La legge è uguale per tutti” non è sempre veritiera. Questa ingiustizia riguarda anche i presunti colpevoli.

In altre parti del mondo, come per esempio gli Stati Uniti - una nazione conosciuta come una super-potenza mondiale -, la legge sembra variare a seconda della classe sociale del soggetto coinvolto nell’indagine. Gli Stati Uniti, infatti , hanno spesso condannato delle persone innocenti alla sedia elettrica, semplicemente perché, da quanto è stato chiarito dopo molti anni dalla condanna, non avevano abbastanza soldi per pagarsi un avvocato in grado di difenderli. Questo potrebbe essere il caso di George Stinney, un quattordicenne di colore, ingiustamente accusato di aver ucciso 2 bambine molti anni fa. Anche dall’altra parte del mondo, la mancanza di eguaglianza tra classi sociali davanti alla legge è un fenomeno purtroppo diffuso. In Cina , secondo delle voci popolari, spesso alcuni ricchi assassini pagano delle persone, di ceto sociale meno agiato, per confessarsi colpevoli al loro posto.

La verità è che la giustizia non sarà mai uguale per tutti fino a quando la gente non la smetterà con questi, diciamo, pregiudizi.

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Attualità

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Alessandro Bruzzano, 3a

Un’inutile e ingiustificata violenza Lo scorso 2 aprile si è giocata NapoliJuventus. Questa partita è stata attesissima da tutti gli appassionati di calcio, ma soprattutto dai tifosi del Napoli, per il ritorno di Higuain, attaccante della Juventus ed ex Napoli, al San Paolo. Il trattamento riservatogli (ogniqualvolta ha toccato il pallone, è stato fischiato contemporaneamente da tutti i tifosi del Napoli presenti allo stadio, oltre agli insulti e alle minacce che ha ricevuto dopo il suo trasferimento a Torino) mi ha fatto pensare al potere e all’autorità che gli ultras di una determinata squadra credono di avere e che portano spesso ad atti di vandalismo di stadi e città, a risse tra tifoserie avversarie, e talvolta alla morte di un tifoso. Questi atti di violenza ingiustificata, razzismo, bullismo, la maggior parte delle volte sono causati da una decisione dell’arbitro contraria all’opinione della curva o da inspiegabile odio reciproco tra i tifosi.

Ne sono esempi la devastazione della fontana della Barcaccia a Roma da parte dei supporters del Feyenoord

nel 2015, con un ammontare dei danni di circa 5,2 milioni di euro, e senza un’adeguata punizione per quei tifosi a causa dell’ “inesistenza di immagini-video della Barcaccia”; l’accoltellamento del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo per mano di un tifoso milanista nel 1995 e l’uccisione di Ciro Esposito, giunto a Roma per supportare il Napoli nella finale di Coppa Italia, da parte di un ultrà romanista (e la Roma non era neanche finalista quell’anno, ma lo era la Fiorentina) nel 2014.

L’episodio che è più di tutti manifesto della violenza negli stadi è la cosiddetta strage dell’Heysel, dal nome dello stadio belga luogo dell’avvenimento.

Circa un’ora prima della finale di Champions League tra Juventus e Liverpool, gli Hooligans, ossia i tifosi inglesi più violenti e ribelli, dopo aver sfondato le reti divisorie, con scopo intimidatorio, a detta degli inglesi, entrarono nel settore occupato dai tifosi italiani, che intimiditi per il mancato intervento delle forze dell’ordine, che, essendo impreparate a tale situazione, ostacolavano le vie di

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Attualità

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fuga degli italiani, si ammassarono contro il muro opposto al settore della curva occupato dai sostenitori del Liverpool. Questo ad un certo punto crollò per il troppo peso e moltissime persone rimasero schiacciate, calpestate dalla folla e uccise nella corsa verso una via d’uscita, per molti rappresentata da un varco aperto verso il campo da gioco. Delle oltre 600 persone coinvolte direttamente, ne morirono 39 di cui 32 italiane.

Come risposta al comportamento violento e scorretto negli stadi, diversi stati hanno adottato misure di sicurezza, leggi e punizioni per eventuali altri scopi ribelli.

In Inghilterra ad esempio diverse e severe sono state le punizioni e le restrizioni nei confronti degli Hooligans. In Italia, dopo l’uccisione di Ciro Esposito, è entrato in vigore il Daspo internazionale. Il Daspo (da D.A.SPO., acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive), è una misura prevista dalla legge italiana al fine di contrastare il fenomeno della violenza negli stadi o palazzetti di qualunque disciplina sportiva. Il primo ad essere colpito da questo tipo di provvedimento è stato un tifoso livornese che

a Cannes, durante l’amichevole Olympique Marsiglia - Livorno, ha lanciato all’interno dello stadio un candelotto fumogeno.

Lo sport dovrebbe essere un mezzo per entrare in comunicazione con altra gente, stare insieme, divertirsi; dovrebbe unire i tifosi, indipendentemente dalla propria squadra; che siano 40, 90 minuti, 2 ore, o quanto duri una partita, in questi momenti ciascuno, oltre che per la propria squadra, dovrebbe tifare per lo sport, per un gioco corretto e rispettoso, che concilii tutti quanti, con il solo scopo di divertirsi. Ogni forma di violenza legata allo sport, ma in generale qualsiasi tipo di violenza è immorale. È possibile che un arbitro sbagli, anche se molti errori arbitrali in una singola partita che favoreggiano una sola squadra fanno arrabbiare (qualsiasi riferimento a Inter-Roma dello scorso 26 febbraio è puramente casuale), come è giusto che ognuno esprima la propria opinione su una decisione o su una squadra. Mia madre dice spesso quando guardo una partita di calcio che è un gioco stupido. Beh, il calcio è tutt’altro che stupido; sono i tifosi ad esserlo.

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Film

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Alessandro De Marchi, 3a

The Wonderful Eight: i migliori film di Quentin Tarantino Quentin Tarantino non è certo un regista che merita mezze misure: o lo si ama alla follia oppure lo si odia profondamente. Sono ormai 24 anni che Il cineasta nato a Knoxville, Tennessee, nel lontano 1963, divide la critica e fa discutere di sé grazie ad uno stile di film assolutamente originale e caratteristico.

Visto da sempre con un certo sospetto dai critici cinematografici, Tarantino è stato più volte definito “Re del Pulp” a causa del suo cinema capace di ibridare generi e forme della cultura di massa e di creare uno stile “cannibale” che si nutre di classici d’autore e film di serie B.

sceneggiatura “esplosa” ovvero che rifiuta la struttura drammaturgica classica in favore dell’utilizzo di sequenze non cronologiche e di distonia tra fabula e intreccio.

Ogni pellicola di Tarantino è un mix esplosivo di contenuti che il regista mette insieme come un abile dj, dosando alla perfezione azione e contemplazione, polvere (da sparo) e sangue.

Il mondo del filmaker americano è popolato da personaggi eccentrici la cui superficie estetica viene sempre esaltata, spesso a discapito della profondità: gangster, pistoleri e soldati sono protagonisti di dialoghi prolissi ed ossessivi, finalizzati a far emergere l’ironia e il nonsense. Escamotage come lo “Small Talking”, ossia un dialogo insistito su un argomento frivolo e del tutto estruso dal contesto (ne sono celebri esempi il discorso sui cheesburger in Pulp fiction o quello sulle mance ne Le iene), diventano strumenti per filosofeggiare su qualsiasi cosa senza mai approfondire niente.

Sceneggiatore eccelso ancor prima che regista talentuoso, Tarantino ama la narrazione per ellissi: punta spesso sullo scarto narrativo e predilige la cosiddetta

Inquadrature ricorrenti, su tutte la ripresa dal basso verso l’alto, sono il marchio di fabbrica di Tarantino che finisce sempre per innaffiare di sangue

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Film

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le proprie pellicole con un marcato gusto per la violenza, perché Tarantino, non bisogna scordarlo, prima di essere un regista, è soprattutto un creatore di miti e di sequenze epiche.

Bene, tutta questa lunghissima introduzione mi è servita per tracciare le linee guida della filmografia di uno dei registi più influenti degli ultimi anni e appunto a introdurre quello che è il tema dell’articolo. Quale modo migliore per festeggiare il 54° compleanno del buon Quentin, se non con una classifica dei suoi film? Nessuno appunto.

Inoltre vorrei anche promuovere la meravigliosa iniziativa di TV8 che ha deciso di trasmettere in prima serata per sette lunedì altrettanti film di Tarantino, dando a tutti la possibilità di incontrare per la prima volta o di rivedere per la centesima i capolavori del maestro americano.

Bando dunque ad ulteriori ciance inizierei subito con la mia personale classifica dal peggiore (si fa per dire) al migliore fra i film di Tarantino. Proprio perché è personale probabilmente, se siete anche voi appassionati dei film di questo regista, la mia classifica sarà completamente diversa dalla vostra, ed è anche questo il bello del corpus cinematografico di Tarantino, corpus

in grado di spaziare tra i generi e gratificare i gusti più vari e disparati.

Con questo articolo, in conclusione, scritto forse più per chi ha già visto i film di Tarantino rispetto a chi deve ancora farlo, si pone come obbiettivi quelli di commentare brevemente i film, di dare un personale parere e anche certamente invogliare il lettore a scoprire quelle pellicole che non si ha ancora avuto il piacere di vedere. Come potrete inoltre notare se giungerete fino alla fine dell’articolo, nella descrizione dei film darò poco spazio alla trama, questo per non rovinare il piacere di scoprirla guardandoli. Ecco dunque finalmente la mia classifica: 8°- Grindhouse: death proof, a prova di morte: questo film del 2007 è probabilmente il meno noto ed anche il meno capito tra i film di Tarantino.

Le vicende ruotano intorno ad icone appiattite, bidimensionali, ridotte a superficie estetica. Eppure questo film ha un forte valore simbolico: il protagonista Stunt Mike, interpretato da Kurt Russel, rappresenta l’Hollywood degli anni 70 che ha ormai fatto la storia della settima arte, mentre le agguerritissime e bellissime giovani protagoniste rappresentano la nuova Hollywood che ha la meglio sul suo glorioso passato. Nonostante questo

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Film

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senso metaforico, il film risulta un Horror privo di ogni tensione che invece ci si aspetterebbe dal genere diventando in questo modo una sconnessa serie di scene di violenza fine a se stessa e mai avvertita come reale.

7°- Jackie Brown: ispirato al romanzo “Punch and rum”, si tratta di uno dei film più sottovalutati del regista, probabilmente a causa di uno sviluppo più tradizionale e rettilineo rispetto alle altre pellicole di Tarantino. Hostess dalla doppia vita, la Jackie del titolo contrabbanda denaro sporco per il losco trafficante d’armi Ordell Robbie (Samuel L. Jackson). Viene però smascherata dagli agenti anti frode che la invitano a collaborare. Dopo una iniziale riluttanza la donna troverà il modo di ingannare la giustizia e il proprio aguzzino. Jackie Brown risulta la pellicola più sobria di Tarantino, vi sono infatti “solo” due vittime, ma anche molto gradevole, merito soprattutto del cast stellare che comprende Robert De Niro, Michael Keaton e il già citato Jackson.

6°- Le Iene: l’esordio di Tarantino è di quelli con il botto. Veloci panoramiche da un personaggio all’altro introducono i gangster, seduti attorno ad un tavolo di un fast food intenti a chiacchierare di mance e del vero significato di Like

a Virgin di Madonna. È questo l’incipit di un film a metà strada tra le pellicole di gangster orientali e di rapine perfettamente organizzate. Ma se il sangue e le pistole non tardano certo ad arrivare, è la rapina la vera assente del film: viene mai mostrata ma solo raccontata dai protagonisti fuggiti in un deposito abbandonato. Le Iene procede attraverso flashback, humor caustico, dialoghi assurdi e violenza che colpisce allo stomaco dello spettatore mettendo in scena fin da subito le caratteristiche tipiche del cinema tarantiniano 5°- Kill Bill: riti di iniziazione, duelli western consumati però con lame affilate vere coreografe di morte e sangue. Kill Bill è la prima grande vetta stilistica di Quentin Tarantino che, tra una strizzata d’occhio ai kung fu movies orientali e il riciclaggio delle musiche del nostrano Ennio Morricone, narra la lucida e metodica vendetta della sposa (una suntuosa Uma Thurman). Uno dei soggetti classici del cinema, la vendetta, viene stravolta dal cineasta americano, abile a confondere e stordire lo spettatore attraverso continui flashback, dando incredibile lustro e epicità al genere dei film di arti marziali, da sempre considerato minore.

4° -The hateful eight: Tempi dilatati, cadenze solenni, lunghissime riprese

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Film

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di scene in esterno e ossessione per i primi piani negli interni, dialoghi serrati e prolissi nei quali la tensione cresce fino a raggiungere un climax insostenibile, preludio dell’inevitabile bagno di sangue. Tarantino, pur mantenendo uno stampo nettamente western con venature da giallo, utilizza il vecchio west come mero pretesto per costruire un lunghissimo indovinello di tre ore sulla falsariga di quelli di Agatha Christie. The hateful eight è un western di dialoghi ossessivi, un’opera dall’evidente impianto teatrale scritta in maniera magistrale da Tarantino che porta allo stremo il suo gusto per lo splatter e per le citazioni, in particolare ai “spaghetti Western” italiani, caratteristiche ricorrenti nei film del regista stesso. Nonostante la lentezza, questa pellicola risulta una delle più riuscite ma allo stesso tempo più crude grazie ad una violenza cinica e brutale che , secondo lo stesso regista, è base e fondamenta della nazione americana.

3° - Bastardi senza gloria: un film cult già grazie alla sequenza iniziale, un blocco di 21 minuti con l’azione ridotta ai minimi termini: un campo lungo su una fattoria francese e in sottofondo Per Elisa di Beethoven, tema musicale che, sottilmente, fa presagire l’invasione tedesca in terra transalpina. Difatti le S.S. del colonnello Hans Landa (Christoph

Waltz) - un villain spietato, erudito e poliglotta - sono a caccia di ebrei nella tenuta dei La Padite. Bastardi Senza Gloria rispecchia la volontà di Quentin Tarantino di guardare alla Storia. La pellicola altro non è che un pittoresco gioco al massacro in cui tutti vogliono eliminare tutti: Aldo Raine (Brad Pitt) è in missione segreta per uccidere Hitler mentre Shosanna (Melanie Laurent) ha un conto aperto con l’alto comando nazista,e infine il cinema (con la C maiuscola) ce l’ha con il corso della Storia, teatro di un Olocausto che sarà per sempre una macchia indelebile nelle coscienze. Si salvi chi può dunque da questa lotteria della morte, fatta di cadaveri che si accumulano nel corso del film, di continui rimandi al western all’italiana e di una sensazionale licenza d’autore che travalica i confini dell’ucronia (la Storia fatta con i se). Nel giocare ai soldatini, Tarantino si diverte a far morire Hitler nel “suo” cinema.

Il resto lo fanno un cast azzeccato e un’altissima regia in grado di mediare attraverso scene cult e dialoghi brillanti un tema scottante come quello della persecuzione ebrea.

2°- Django Unchained: Tarantino, per una volta tanto, riempie il suo cinema più di significati che di segni, contestualizzando l’odio razziale tematica sempre di estrema attualità -

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agli anni antecedenti la Guerra Civile americana. Storia di formazione e di amicizia virile, ma anche manifesto contro ogni forma di discriminazione.

Il film con Jamie Foxx e Christoph Waltz resuscita un genere caduto in disgrazia qual è il western, ritraendo un’America bigotta e ottusa, popolata da esseri viscidi e arroganti come il Calvin Candie di un magnifico Leonardo DiCaprio. Django Unchained rende omaggio ai maestri Leone e Ford aggiungendo venature pulp che caratterizzano il regista. Strepitosa la messinscena che ha luogo nella tenuta di Candieland, la cui magione, nel finale, viene inondata dall’immancabile sangue, capace di imbrattare pareti e fiori. I corpi esplodono in un rosso vivo che riempe ogni inquadratura e che sancisce l’iperrealismo del filmaker statunitense.

1°- Pulp fiction: al primo posto non poteva che esserci la pellicola capolavoro di Tarantino, il film che meglio esprime e rappresenta le caratteristiche ed il gusto cinematografico del cineasta di Knoxville. Cheeseburger, massaggi ai piedi, frappè da 5 dollari: attorno a questo caleidoscopio di temi futili ruotano dialoghi divaganti, che esulano dalla trama e che non sono mai funzionali al procedere dell’azione. Il

loro scopo è quello di dare risalto al nonsense, di spiazzare lo spettatore, il quale osserva sul grande schermo personaggi che prima vomitano parole e subito dopo proiettili, come se nulla fosse. Con la sua struttura narrativa a blocchi che si intersecano in continui salti temporali, separati da dissolvenze e da titoli introduttivi, Pulp Fiction disorienta lo spettatore, ostaggio di una sceneggiatura scandita da un killer che deve uscire con la ragazza del boss, un pugile che vince un incontro truccato che dovrebbe invece perdere e da una rapina in un fast food.

A completare l’opera ecco un valzer di personaggi cult che basterebbero a riempire tre film, una valigetta di cui non sapremo mai il contenuto accecante e il biblico discorso “Ezechiele 25-17”.

Tarantino si impadronisce di schemi e strutture dei film di gangster orientali, ricicla motivi e figure già viste altrove e stravolge così il cinema: l’impossibilità di identificazione da parte dello spettatore con i protagonisti, l’estetica da cartoon della pellicola e una certa anarchia narrativa rendono Pulp Fiction il capolavoro di Tarantino. Un film ridotto a pura superficie estetica, amorale e violento.

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Curiosità

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Luca Ronco, 1b

La felicità La felicità è lo stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfati tutti i suoi pensieri.

Le sue caratteristiche principali sono: serenità, appagamento, ottimismo ecc.

Quindi è quell’emozione che procura gioia e benessere in un momento della nostra vita.

Però essa può essere anche il raggiungimento di un desiderio o la soddisfazione di averlo realizzato.

Il bisogno di felicità può essere anche una soluzione ad un problema.

Essa dunque ha a che fare con la privacy che è essenziale per garantire la protezione della dignità umana e quindi garantire la sua felicità.

Rispettare la propria vita privata significa permettere di realizzare i propri sogni, quindi di non rinunciare alla felicità nelle forme in cui si identifica.

Dunque realizzare i propri sogni significa sviluppare pienamente se stessi, trovando il giusto equilibrio per raggiungere la felicità.

Essa può scaturire da cose molto semplici: il sorriso di un bambino, l’acquisto di qualcosa oppure la vittoria ai mondiali di calcio.

La felicità può essere considerata come il provare qualcosa di bello nella vita.

Da molti anni si pensa che esista un paradosso della felicità detto di Easterlin che consiste nel fatto che quando aumenta la ricchezza si è più felici, ma alcuni studi hanno dimostrato che poi inizia a diminuire.

Inoltre la felicità ha due componenti: il raggiungimento del benessere del corpo ma anche il raggiungimento della serenità dell’anima. Solo il raggiungimento di entrambi dà la felicità completa.

L’ONU, consapevole che la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, il 20 marzo 2012 di ciascun anno ha stabilito la Giornata Internazionale della Felicità in modo tale da

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Curiosità

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portare una crescita economica che promuova la felicità, il benessere delle persone e la diminuzione della povertà.

Essa viene celebrata attraverso attività educative di crescita della consapevolezza pubblica e viene fatta anche una classifica dei paesi più felici.

Ma la ”ricetta della felicita”’ andrebbe forse chiesta ai norvegesi perché sono loro al primo posto del World happiness report 2017, mentre l’Italia è solo 48esima: viene subito dopo Stati come Uzbekistan, Malesia e Nicaragua ed e’ tra i dieci Paesi con la maggiore diminuzione della felicita’ tra il 2005 e il 2015.

E comprensibilmente i dieci paesi con il maggiore calo nella valutazione della vita, secondo lo studio, in genere soffrono di un insieme di tensioni economiche, politiche e sociali. Tre di questi paesi (Grecia, Italia e Spagna) sono tra i quattro paesi dell’Eurozona più colpiti dalla crisi.

Per spiegare perché i paesi nordeuropei dominino la classifica

- un insieme di fattori tra cui buon reddito, assistenza sanitaria e sociale, buon governo, poca corruzione tra imprese e istituzioni, politiche ambientali - c’è un termine, recentemente introdotto nei vocabolari: Hygge, che indica il loro segreto che poi sta a significare un modo di approcciarsi alla vita, fatto di piccole cose e condivisione.

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Curiosità

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Lorenzo Ferri, 4A

Le 10 domande che ogni rasta deve aspettarsi Ciao a tutti, per chi non mi conoscesse mi presento, sono Lorenzo Ferri, ex-rasta contento sia di aver fatto i dreadlocks un anno e mezzo fa, sia di averli tagliati un mese fa. A posteriori sento di poter dire che essere un rasta è stato faticoso, non solo per le ore passate all’uncinetto a sistemare la mia acconciatura, o per le giornate passate coi capelli bagnati: essere un rasta è stato faticoso soprattutto per le numerose domande di amici, parenti e estranei, curiosi di sapere ogni dettaglio della vita della strana creatura nella quale mi ero trasformato. È per questo motivo che ho deciso di elencare qui di seguito “le 10 domande che ogni rasta deve aspettarsi”.

1- Ma i tuoi sono dreadlocks o rasta?

Il dubbio esistenziale. Questa domanda è una delle più frequenti, e talvolta può essere anche posta, da quelli che la sanno più lunga, come “ma i tuoi sono rasta vero? I dreadlocks sono diversi…”. Ora, cominciamo col dire che, a meno che non siate degli schiavisti, “avere” i rasta è alquanto difficile. Si definisce infatti “rasta” la persona che, di fatto, ha i dreadlocks.

Oltre a questo un rasta può anche essere

un adepto al rastafarianesimo o semplicemente alla cultura rastafari (delle quali parleremo in seguito). In ogni caso, i rasta non sono un tipo di capigliatura.

2- Ah ma quindi non sei italiano?

Spesso l’associazione rasta=straniero è semplice nelle persone con le quali non si è in grande confidenza, e c’è da dire che nel mio caso la carnagione e i lineamenti non aiutano. Tuttavia è importante sapere che tutti, dall’eschimese della Groenlandia al tuareg del Sahara, possono farsi i dreadlocks. Associare quindi il tipo di capelli a una nazionalità è sbagliato.

3- Ma quanto ci hai messo a farli? E come li hai fatti?

Informazione che può risultare interessante per chi fosse interessato a diventare un rasta, i tempi sono spesso lunghi. Quando li feci ci impiegai circa 8 ore, e ottenni dei dreadlocks lunghi circa 10 cm; ovviamente se i vostri capelli sono più lunghi di quanto lo fossero i miei, ci impiegherete più tempo. Le tecniche sono diverse, personalmente consiglio di realizzarli con l’uncinetto, evitando di mettervi in testa miele o altre sostanze viscose che alla lunga possono puzzare o attirare gli insetti.

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Per farli la prima volta rivolgetevi a qualcuno che sappia farli (come ad esempio il sottoscritto, ndr.), evitando i parrucchieri, che tendono ad utilizzare sostanze chimiche e a richiedere prezzi spropositati.

4- Ma quindi non si bagnano?

Ma magari! I dreadlocks, purtroppo, non solo si bagnano, ma impiegano tantissimo tempo per asciugarsi. Se siete intenzionati a farli, tenete in conto il torcicollo, il mal di testa, il raffreddore e il colletto della maglietta bagnato per tutta la giornata quando fate piscina a scuola. Proprio per questo li sconsiglio a chiunque pratichi degli sport acquatici… Tenete anche in considerazione che l’acqua tende a sciogliere i nodi dai quali i dreadlocks sono composti: se li bagnate in continuazione, dovrete sistemarli più di frequente.

5- Ma quindi non li lavi?

Nonostante tutte le “leggende metropolitane”, i dread si lavano, e se fatto con normale frequenza, proprio come qualsiasi altro tipo di capigliatura, non sono sporchi e non puzzano. Come si lavano? Semplice, ci si mette lo shampoo sulle mani (consiglio l’utilizzo del sapone di Aleppo), e si gratta il cuoio capelluto; i dreadlocks sono come delle spugne, e assorbiranno prima la schiuma e poi l’acqua, pulendosi sia superficialmente che all’interno di ognuno.

Il vero problema, come già detto in precedenza, starà nell’asciugarli.

6- Ma quindi ti crescono già intrecciati?

Purtroppo, anche questa rientra nella categoria dei falsi miti: i capelli di un rasta crescono come i capelli di una qualsiasi altra persona: sta a lui farsi martire e decidere di procedere alla dolorosa, lunga e faticosa operazione di intrecciamento delle basi.

Se siete interessati a farvi i dreadlocks, tenete in considerazione questo aspetto: intrecciare una ciocca di capelli per far sì che resti annodata a lungo fa molto, molto male.

7- Posso toccarli?

Aspiranti rasta preparatevi: orde di ragazze, ragazzi, mamme, nonne, cugini, lontani parenti e talvolta sconosciuti vorranno toccare i vostri capelli. Anche se vedere le vostre facce stupite quando prendete in mano un dreadlock è divertente, ricordate sempre che avete davanti a voi una persona, non un barboncino, va bene la curiosità ma nei limiti della decenza…

8- Ma quando vuoi toglierli come fai?

Lo ammetto, questa domanda mi ha sempre mandato un po’ in crisi: il momento in cui avrei rinunciato ai miei amatissimi dreadlocks mi spaventava e non avevo idea di cosa mi aspettasse sotto quella montagna di capelli. La risposta tuttavia è semplice: a meno che non abbiate in dotazione molta pazienza (ma davvero tanta)

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e molto balsamo (ma davvero tanto), nel momento in cui deciderete di privarvi dei vostri dreadlocks dovrete, di fatto, tagliarli. Un’avvertenza però: per evitare traumi, cercate di tenere 2-3 cm di capelli, in quanto a furia di tirarli, il vostro cuoio capelluto tenderà a cedere piegandosi verso la direzione in cui lo state forzando. Come risultato, se vi raserete a zero i capelli, potreste vedere la vostra testa attraversata da solchi che impiegheranno un paio di settimane per scomparire.

9- Ma quindi sei della religione di Bob Marley?

Domanda che può sembrare assurda e lascia spesso basiti, in realtà non è così rara.

In questo caso le tematiche da affrontare sono due. Punto uno: per quanto io ammiri Bob Marley per la sua musica e per il messaggio che ha cercato di trasmettere, essere continuamente paragonato a lui è fastidioso. Io sono Lorenzo Ferri, non Bob Marley, e come a voi dà fastidio se la nonna vi chiama El Shaarawy per la cresta o lo zio vi chiama Justin Bieber per il ciuffo, alla lunga l’appellativo che date ai rasta può risultare seccante (e far apparire voi come dei matusa). Punto due: rasta non è uguale a rastafariano. Il rastafarianesimo è una religione che nasce dall’unione del cristianesimo, del movimento nazionalista etiope (e quindi non ha origini jamaicane, a differenza di Bob Marley) e da alcune tradizioni tribali dei popoli del corno d’A-

frica. Come è sbagliato associare un’acconciatura a una nazionalità, è anche sbagliato farlo con una religione.

10- Zio, hai mica da fumare?

Ora, tralasciando moralismi pro o contro l’utilizzo di cannabis, voglio fare un discorso più incentrato sul buon senso: andare da un ragazzo, che sia rasta o meno, e chiedergli davanti a amici e talvolta parenti, se ha della marijuana da vendervi (ricordo che a prescindere dalle posizioni politiche, la vendita di tale sostanza è ancora illegale nel nostro paese), può risultare molto sgradevole e imbarazzante. Cercate sempre di porvi nei panni della persona alla quale state ponendo la domanda: a voi farebbe piacere se vi venisse chiesta una cosa del genere davanti ad amici e parenti? Ricordate che un rasta non fa per forza uso di determinate sostanze e non vive per forza in ambienti in cui tali attività sono sdoganate.

Detto ciò, nonostante tutte le difficoltà, io sono contento di essere stato un rasta per un determinato periodo della mia vita: è stata un’esperienza che senza dubbio mi ha accompagnato, e ora non sono certamente la persona che ero un anno e mezzo fa. Anche se non sono più sulla mia testa, i miei trentanove dreadlocks resteranno sempre una parte di me, tant’è che li conservo ancora in una scatola in camera mia, con tanto di uncinetto e naftalina.

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Letteratura

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ECCE HOMO

Vincenzo Guarino, 5I

#7 – Ciclo dell’incomunicabilità: Proust e l’arte “Ero arrivato, a Balbec, a ritenere il piacere di giocare con delle ragazze meno funesto della vita spirituale, alla quale almeno resta estraneo, dell’amicizia di cui tutto lo sforzo è di farci sacrificare l’unica parte reale e incomunicabile (se non attraverso l’arte) di noi stessi a un io superficiale che non trova come l’altro gioia dentro di sé, ma prova un intenerimento confuso a sentirsi sostenuto da supporti esterni, protezione che gli si accorda, espande la propria euforia in consensi, e si meraviglia di qualità che chiamerebbe difetti e che cercherebbe di correggere se le avesse in se stesso.”

Siamo nel terzo volume della Recherche (Alla ricerca del tempo perduto) di Marcel Proust. Proprio nel volume dedicato al suo ingresso nell’alta società parigina – in cui vi sono ampie sezioni che descrivono i vari salotti organizzati da componenti dell’aristocratica famiglia Guermantes e a cui egli, Marcel, assiste – appare questa riflessione, lapidaria, cruda, che va a smascherare la profonda finzione che sta alla base dei rapporti sociali. Non è la prima volta che Proust, nel corso della sua opera, si dedica a questo tipo di riflessione, né l’ultima.

La nostra vera natura è sepolta nell’abisso della nostra anima; noi ne abbiamo la percezione ma non possediamo i mezzi per fissarla in una forma che la renda chiaramente conoscibile, afferrabile, prima di tutto a noi stessi. A questo punto, in queste condizioni, entriamo in contatto con gli altri: con un vano sforzo – che ad un consapevole osservatore esterno susciterebbe probabilmente un riso misto a commiserazione (che richiama l’umorismo pirandelliano) – tentiamo di tirare fuori dalla nostra interiorità la nostra vera essenza, arrancando, storpiando e contorcendo il nostro messaggio con le parole, la voce, i gesti corporei; il nostro interlocutore percepisce un messaggio già di per sé storpiato dalle nostre parole, dalla nostra voce, dai nostri gesti e che a sua volta storpia e modifica amalgamandolo a quella che è la sua propria realtà, la sua propria essenza. Qual è il risultato dell’interazione? Il “sacrificare l’unica parte reale e incomunicabile di noi stessi a un io superficiale” e questo sacrificio, questo adattarsi a qualcosa che sappiamo non essere noi, ci crea quel disagio di cui si era parlato in uno degli articoli precedenti,

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un dislivello, una scomodità.

Bisogna pur sempre considerare, però, quel «se non attraverso l’arte» che Proust inserisce quasi timidamente, tra parentesi, ma che esprime un concetto fondamentale, essenziale: per Proust si può scavare nella nostra anima per arrivare a fissare qualcosa di essa, ad estrapolare finalmente qualcosa di concreto, un frammento che possa farci dire «eccola, la mia anima». La cosa interessante, forse un po’ paradossale, è che pur ammettendo la sterilità della comunicazione sociale questa rivelazione si ottiene sempre attraverso una sorta di relazione con gli altri uomini; non si tratta, tuttavia, di sterile comunicazione corporea per mezzo di una voce o di un gesto per l’appunto proveniente del nostro corpo: sono le nostre anime a comunicare. In che modo possono comunicare le nostre anime? Attraverso l’arte, ci risponde Proust. E questa comunicazione ci permette di arrivare a comprendere qualcosa di noi stessi, ma non solo: essa ci dimostra come nel corso di tutta la storia dell’umanità ci sia stato o ci sia qualcuno avente un frammento di anima comune ad uno nostro, capace di generare un’affinità d’anima.

Per quale motivo leggiamo? Perché andiamo ad una mostra ad osservare dei quadri? Perché ascoltiamo musica? Perché nell’arte noi troviamo respiro – troviamo

la possibilità di dire «è esattamente questo che provo!», «è esattamente questo che sono!»; perché nell’arte si compie la vera comunicazione, profonda, fertile, efficace; l’arte è comprensione – l’arte sembrerebbe essere l’unica vera forma di socialità.

Questo concetto riguardo l’arte – di come essa sia in grado di rivelarci in modo concreto qualcosa che sta all’interno di noi – è espresso in una riflessione che si trova nel primo volume dell’opera, intitolato Dalla parte di Swann: “Sapeva che il ricordo stesso del pianoforte falsava ancora di più lo schema con cui concepiva le cose di musica, che il campo aperto al musicista non è una meschina gamma di sette note, ma una tastiera incommensurabile, ancora quasi del tutto sconosciuta, in cui solo qua e là, separate da spesse tenebre inesplorate, alcuni dei milioni di tasti di tenerezza, di passione, di coraggio, di serenità che la compongono, ognuno diverso dall’altro come un universo lo è da un altro universo, sono stati scoperti da pochi grandi artisti che, risvegliando in noi il corrispondente del tema che hanno trovato, ci rendono il favore di mostrarci quale ricchezza, quale verità nasconda, a nostra insaputa, quella grande notte inesplorata e scoraggiante della nostra anima che noi scambiamo per vuoto, per un nulla.”

Dunque, questo è lo scopo di Proust, questo è lo scopo della Recherche: un’immersione

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totale nell’arte e nell’individualità che l’autore compie nella speranza di poter comunicare (a se stesso soprattutto) la sua vera natura, la sua vera essenza. L’arte, infatti, è presente negli innumerevoli riferimenti che l’autore fa alla musica, alla pittura, all’architettura, alla scultura, alla sua amata letteratura (più di trecento sono gli autori citati e studiati, fra scrittori, filosofi, compositori e pittori), ma non solo, Proust stesso, nello scrivere, sta producendo arte.

Vi è poi un altro elemento importantissimo per comprendere l’essenza propria del soggetto secondo Proust, ossia la memoria involontaria: un suono, una percezione, un’immagine apparentemente insignificanti richiamano alla mente un ricordo passato che provoca un’emozione fortissima in noi, un’emozione difficile da comunicare, da esprimere, come se con essa si andasse a toccare un «punto vivo» di noi, per dirla alla Pirandello – come se si raggiungesse finalmente il fondo ultimo della propria interiorità. Famoso in questo senso è l’episodio della madeleine immersa nel tè che provoca al narratore ricordi, sensazioni tali da portarlo alla commozione.

Ma come accade solo ai grandi scrittori, questa ricerca di Proust non si ferma al contenuto, bensì, si compie anche dal punto di vista stilistico e formale: questa volontà di indagine porta ad uno stile

estremamente analitico, ad una scissione continua di ogni aspetto del reale osservato via via in qualcosa di sempre più piccolo: nel suo periodo Proust scava, scava, scava, come desideroso di arrivare ad una verità ultima, al «punto vivo» di cui si è parlato in precedenza. Questo spiega i periodi lunghi, articolati, interminabili che contraddistinguono la sintassi della scrittura proustiana.

L’opera termina con il protagonista, il narratore, Proust che comincia a scrivere il libro che stiamo leggendo: mentre tutto viene disciolto dal tempo, la visione interiore, vale a dire la propria singola realtà di un soggetto, studiata e approfondita, diviene arte, per durare fuori dal tempo. È così approdato alla vera comunicazione, con quest’arte fuori dal tempo, Marcel Proust?

“Non ripensai mai più a quella pagina, ma in quel preciso momento, quando, su quell’angolo del sedile dove abitualmente il cocchiere del dottore sistemava in un cestino il pollame che aveva acquistato al mercato di Martinville, ebbi finito di scriverla, mi sentii così felice, sentivo che mi aveva così perfettamente liberato di quei campanili e di ciò che si celava dietro di essi, che quasi fossi stato io stesso una gallina e avessi appena fatto un uovo, mi misi a cantare a squarciagola”

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