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cap.10 • A spasso per Atene
Capitolo 10
A spasso per Atene
«Dove eri finito?» si sentì domandare da una voce femminile piuttosto arrabbiata. «Quando mi servi non ci sei mai! Questa casa va a pezzi e tu perdi tempo a gironzolare per la città e a chiacchierare con i tuoi amici» continuò sempre più furibonda.
«Ma cara Santippe, ero ai Giochi olimpici! Lo sai che non potevo mancare» rispose Socrate alla sua fidanzata.
«Ah sì? E sentiamo, perché ai Giochi non puoi mancare, mentre a casa sì?» disse alzando ancor di più il tono di voce.
«Perché io sono uno dei personaggi più importanti di Atene» rispose il filosofo con un certo orgoglio.
«Ah ah ah ah ah! Questa è bella. Uno che va in giro a fare domande a destra e a manca per poi fermarsi a chiacchierare alla prima occasione sarebbe un personaggio importante?» disse per prenderlo in giro.
«Le mie non sono chiacchiere da mercato. Tutt’altro, io cerco di interrogare gli uomini per farli riflettere sui grandi temi dell’esistenza» rispose pacato il filosofo.
«Sai che ti dico? Io so solo che chi fa troppe domande prima o poi finisce nei guai» disse minacciosa la donna.
«Piuttosto mia cara, potresti preparare qualcosa da mangiare a questi miei amici?» chiese indicando Camilla, Adriano e Lorenzo, che nel frattempo avevano assistito in silenzio e un po’ imbarazzati alla sfuriata della donna.
«Che cosa? Ti presenti qui dopo essere sparito per giorni e pretendi pure che prepari il pranzo a tre stranieri? Te lo puoi scordare. Invece di farmi richieste assurde, prendi questa anfora e portala dal vasaio. Non vedi che si è staccato il manico? E ti raccomando: non la perdere per strada. È l’unica anfora rimasta in questa casa!» e detto questo Santippe sparì dietro una tenda.
«Scusate ragazzi» si giustificò il filosofo, «San-
tippe è un tipo nervoso, ma in fondo è una gran brava donna».
«Non preoccuparti, fai pure quello che ti ha chiesto lei. Noi ora dobbiamo incontrare al più presto Pericle» disse Camilla.
«Avete già un appuntamento?» chiese Socrate.
«Veramente no» rispose la ragazza.
«E allora come pensate di poter essere ricevuti dall’uomo più potente e famoso di tutta la Grecia?»
«Andiamo a casa sua e ci presentiamo. Sarà felice di ricevere gli inviati della Gazzetta di Clio» affermò convinta Camilla.
«Ah ah ah ah ah!» rise a crepapelle il filosofo. «Così facendo finirete dritti dritti in prigione, accusati di essere spie spartane».
«Perché?»
«Ma vi siete visti? Vestite come dei barbari, degli stranieri, si vede lontano uno stadio che non siete ateniesi. Per Pericle tutti gli stranieri rappresentano dei potenziali nemici».
«Già, Socrate ha ragione» disse Adriano.
«E ora come si fa?» domandò Lorenzo. «Questo è proprio un bel guaio».
«Non preoccupatevi. Conosco molta gente importante, vedrete che riusciremo a ottenere un
appuntamento da Pericle. Fatemi portare a riparare questa benedetta anfora e poi sistemiamo tutto».
Così uscirono e si diressero dal vasaio di fiducia della famiglia.
Era davvero una bella giornata. Sotto un cielo azzurro e limpido la città si mostrava in tutto il suo splendore. Le strade erano piene di gente e, nelle vie più strette, si faceva fatica a camminare.
«Seguitemi ragazzi, prendiamo questo vicolo. Arriveremo subito al centro della città dove si trovano le botteghe degli artigiani che fabbricano e riparano vasi e anfore» disse Socrate.
A un certo punto, all’imbocco di una strada molto più larga e percorsa anche da carri e carretti colmi di merci di vario genere, sentirono un vociare a loro familiare. Non potevano sbagliarsi. Da quelle parti doveva esserci una scuola.
Socrate si accorse che i ragazzi avevano rallentato la marcia e capì.
«Lì, dietro quelle mura, c’è la scuola più importante di Atene».
«Che cosa studiano i ragazzi ateniesi?»
«Fino all’età di sei o sette anni imparano a casa, spesso da uno schiavo colto, a leggere e a scrivere
su tavolette cosparse di cera sulle quali incidono le parole con un punteruolo. Poi, fino ai quattordici anni, frequentano scuole come questa. Studiano l’Iliade e l’Odissea…»
«I poemi scritti da Omero!» lo interruppe Adriano. «Che belle storie… la guerra di Troia, Ettore e Achille e poi Ulisse e le sue straordinarie avventure: le sirene, Polifemo, la maga Circe».
«Esatto. E poi studiano anche la matematica, la letteratura, la musica, l’arte e soprattutto la retorica» disse Socrate.
«La retorica?» domandò Lorenzo.
«Sì, l’arte del parlare bene, cioè dell’essere in grado di convincere gli altri e del saper organizzare un discorso in modo da avere sempre ragione» spiegò il filosofo.
«Come fa Camilla!» esclamò Adriano.
«Spiritoso!» replicò la ragazza. «Piuttosto, vorrei sapere perché parli sempre di ragazzi e mai di ragazze».
«Perché la scuola è riservata ai maschi. Le ragazze possono ricevere un’istruzione, anche di ottimo livello, ma solo a casa. Anche gli insegnanti delle scuole possono essere solo uomini» chiarì Socrate.
«Questa cosa proprio non mi piace!» esclamò
arrabbiata Camilla. «Niente Olimpiadi, niente scuola… Domani mi sentirà quel Pericle» e prese appunti.
Presto arrivarono nella piazza del mercato. La prima cosa che colpì i nostri viaggiatori fu un

gruppo di persone, uomini, donne e bambini, legati tra di loro da una fune.
«Chi sono?» domandò Camilla.
«Schiavi o prigionieri di guerra» rispose con naturalezza Socrate.

«Non è giusto!» protestò Lorenzo mentre, armato di pastelli e cartoncino, provava a disegnare quella scena.
«In che senso non è giusto?» chiese il filosofo.
«Nessuno ha il diritto di privare un altro essere umano della libertà e dei diritti» disse pensando soprattutto ad Alexis e Nikolaos.
«Ragazzo mio, gli schiavi sono fondamentali. Altrimenti chi lavorerebbe? Chi si occuperebbe dei campi, della costruzione delle case e dei templi, di trasportare le merci? Gli aristocratici? O forse i poeti e i filosofi? Impossibile» disse Socrate.
«Perché?» chiesero all’unisono i tre.
«Perché, per un Greco di un certo livello sociale, non è onorevole lavorare. Quindi il funzionamento della nostra società si bloccherebbe, come si arresterebbe anche quello delle società alle quali appartengono gli schiavi che avete appena visto. Domandate loro: che cosa pensate della schiavitù? Vedrete, vi risponderebbero che è necessaria» argomentò il filosofo senza, però, convincere fino in fondo i tre ragazzi.
A distrarre Camilla, Adriano e Lorenzo dai brutti pensieri suscitati dalla vista di quelle persone ridotte in quel modo ci pensarono decine di bancarelle che vendevano frutta, verdura, miele,
olio e vino, provenienti dalle campagne di tutta l’Attica, ma anche tante varietà di pane e una grande quantità di dolci. Tutto quel ben di Dio ricordò ai ragazzi che era ormai da un bel po’ che non mettevano qualcosa sotto i denti.
Il primo a dar voce alla fame fu naturalmente Lorenzo, che tanto generosamente si era privato della sua ultima tavoletta di cioccolato.
«Che bello sarebbe poter comperare qualcosa da mangiare…» sospirò. Socrate capì e iniziò a rovistare nelle tasche della sua tunica. Dopo un breve e affannoso cercare finalmente tirò fuori una dracma. «Ecco ragazzi, con questa faremo una bella colazione» e acquistò da un venditore ambulante del pane di sesamo e un cartoccio di olive verdi grandi e sode come prugne. Poi, lasciata l’anfora da un artigiano che si trovava proprio di fronte al mercato, si sedettero su un muretto per consumare quel pasto tanto desiderato.
«Questo è il centro di Atene» iniziò a spiegare il filosofo, «ci troviamo proprio nell’agorà, la piazza principale, che oltre a ospitare il mercato è anche il luogo dove si svolge l’ecclesìa, l’assemblea popolare, che controlla l’operato dei magistrati, approva le leggi preparate dalle autorità e decide
su questioni di grande importanza, come la pace e la guerra. In quel palazzo di fronte a noi, che si chiama Bouleutèrion, si riunisce il consiglio dei Cinquecento, eletto dal popolo».
«Questa è la democrazia!» esclamò Lorenzo che aveva già snocciolato la sua parte di olive e tentava di sottrarne qualcuna a Camilla.
«Bravo, proprio così. Il governo del popolo» confermò l’uomo.
«Una democrazia, ma certamente imperfetta!» precisò Adriano. «Anche se tutti i cittadini sono considerati uguali davanti alle leggi, il diritto a partecipare al governo della pòlis è però riservato solo ai cittadini maschi ateniesi, figli di padre e di madre ateniese, che costituiscono solo una minima parte della popolazione. Inoltre sono esclusi dai diritti politici i meteci, cioè gli stranieri liberi che vivono ad Atene, e le donne».
«È insopportabile il modo in cui trattate le donne» sottolineò nuovamente Camilla, che continuava a prendere appunti e a tentare di salvare le sue olive dalla fame di Lorenzo.
“Non proprio tutte le donne. Qualcuna, anche ad Atene, tratta male gli uomini” meditò Socrate, pensando a Santippe. Continuò però dicendo: «Avete ragione ragazzi, la nostra democrazia può

sicuramente essere migliorata, ma se paragonata alla tirannia è decisamente migliore». E mentre faceva queste osservazioni, un vasaio gli si avvicinò per consegnargli l’anfora riparata.
«Grazie Temistocle, hai fatto proprio un bel lavoro! Domani Santippe passerà a pagarti» e salutò l’artigiano.
«Bene ragazzi, ora vi accompagno da qualcuno in grado di procurarvi un appuntamento con Pericle. Si tratta di un suo grande amico, oltre che del più premiato autore teatrale di tutta la Grecia… ma affrettiamoci, tra poco dovrò tornare a casa, altrimenti chi la vuol sentire Santippe? Seguitemi…»
I quattro si avviarono, guidati da Socrate, lungo una stradina.