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T 2 Cena Trimalchionis: l’ingresso di Trimalchione (Satyricon 32-34) LAT IT

T 2

Satyricon 32-34

ITALIANO

Cena Trimalchionis: l’ingresso di Trimalchione

Sfuggito alle insidie dell’invasata Quartilla, Encolpio si reca con Gitone e Ascilto nella casa di Trimalchione, dove avrà luogo una ricca cena. Il motivo epico della ékphrasis (cioè la descrizione di un’opera d’arte) viene parodizzato fin dall’ingresso dei nostri eroi nel portico della casa, sul muro del quale appare effigiato un grande molosso che incute loro spavento. Più oltre è dipinta in numerosi quadri la vita di Trimalchione, da quando giunse schiavo in Roma fino alla sua attuale ricchezza. In una pisside d’oro è addirittura conservata, come una sacra reliquia, la sua prima barba offerta in dono agli dèi. I tre giungono infine nella sala da pranzo, dove già vengono serviti i primi antipasti, e dove finalmente fa il suo trionfale ingresso il padrone di casa. Il lunghissimo episodio della Cena (26,7 - 78) è una straordinaria sequenza narrativa dominata dalla figura di Trimalchione, un grottesco miscuglio di istrionismo e di trivialità (emblematico lo stuzzicadenti d’argento), di linguaggio plebeo e di linguaggio semicolto, di vitalità e di angosciose ossessioni centrate sul motivo del tempo e della morte (le considerazioni sul vino centenario; lo scheletro d’argento; la sgangherata declamazione finale). Molti hanno voluto vedere in Trimalchione una raffigurazione plebea e caricaturale di Nerone; nonostante l’arbitrarietà dell’identificazione, restano molte affinità: la stravaganza artificiosa e tirannica del personaggio, la sua teatralità spettacolare, il suo volgare esibizionismo.

1. scacchiere

di terebinto: di un legno molto pregiato. [32] Ce ne stavamo immersi in questo mare di delizie quando, tra un grande strimpellio di canti e suoni, portarono Trimalchione e lo deposero in mezzo a un mucchio di cuscini imbottiti da scoppiare. Ci fu impossibile trattenere un riso piuttosto imprudente. Figuratevi un gran mantello scarlatto da cui scappava fuori la testa pelata; intorno al collo, tutto infagottato in quel mantello, si era avvolto un tovagliolo dal largo orlo rosso e ornato di frange che pendevano da tutte le parti. Al mignolo della sinistra portava un enorme anello dorato e, all’ultima falange dell’anulare, un anello più piccolo e, a quanto sembrava, tutto d’oro ma incrostato di piccole stelle di ferro. Per non limitarsi, poi, a questa sola ostentazione di opulenza, scoprì il braccio destro ornato da un braccialetto d’oro e da un cerchio d’avorio rilucente di fregi laminati. [33] Dopo essersi frugato in bocca con uno stuzzicadenti d’argento: «Cari amici,» disse «non avevo ancora nessuna voglia di venire nel triclinio, ma, per non farvi più struggere dal desiderio della mia presenza, mi sono sacrificato per voi. Permettetemi tuttavia di finire questa partita». Lo seguiva difatti uno schiavo con uno scacchiere di terebinto1 e dadi di cristallo; ed ebbi così occasione di notare una cosa di gusto squisitissimo: invece di pedine bianche e nere adoprava nientemeno che monete d’oro e d’argento. Mentre egli, giocando, esauriva tutto lo scelto e raffinato vocabolario dei trivi, fu messo dinanzi a noi, che eravamo ancora all’antipasto, un gran vassoio con una cesta nella quale si vedeva una gallina di legno con le ali aperte a ventaglio come fanno quando covano. Subito si avvicinano due schiavi, e, sempre a suon di musica – e che stridula musica! – si mettono a frugar nella paglia e tiran fuori delle uova di pavone che distribuiscono ai convitati. A questo colpo di scena, Trimalchione si volge a noi. «Amici miei,» dice «sono uova di pavone che ho fatto covare da una gallina. Perercole! Ho paura che ci sia già dentro il pulcino. Guardiamo un po’ se sono ancora mangiabili». Ci

dànno allora dei cucchiaini – ma che razza di cucchiaini! Pesavano almeno mezza libbra – e spezziamo il guscio di quelle uova, fatto di densa farina. Poco mancò che non buttassi via quello che mi era toccato perché mi sembrava di vederci il pulcino già formato, ma, in quel momento, sento uno pratico di casa che dice: «Ci dev’essere qualcosa di buono qui dentro!». Sicché tolsi il guscio con la mano e trovai un beccafico bello grasso che nuotava in un rosso d’uovo pepato. [34] Frattanto, Trimalchione aveva lasciato andare la sua partita e, fattosi servire tutto quello che noi avevamo avuto, ci aveva invitati ad alta voce a riprendere vino melato a volontà, quando l’orchestra dà un segnale e gli antipasti sono portati via da un altro coro che ci dava dentro alla più bella. In quella confusione un piatto d’argento cadde di mano a uno schiavo che si affrettò a raccattarlo. Trimalchione se ne accorse e, fatte dare al ragazzo tre o quattro sberle, comandò che il piatto fosse gettato ancora a terra.2 Poi arriva un cameriere con la scopa e spazza via il piatto d’argento insieme con gli altri rifiuti. Dopo di che, entrano due etiopi dai lunghi capelli crespi, con due piccoli otri simili a quelli che servono per innaffiar la sabbia negli anfiteatri, e ci versano del vino sulle mani: acqua, nemmeno una goccia. Facciamo al padron di casa i nostri complimenti per tante raffinatezze. «Marte» ci risponde «ama l’eguaglianza. Per questo ho voluto che ognuno avesse una mensa per sé. Senza contare che questi fetenti schiavi non ci soffocheranno tanto venendoci addosso a ogni momento». In quell’istante portarono anfore di vetro accuratamente ingessate; sul collo c’erano etichette con questa scritta: «Falerno del consolato di Opimio.3 Più di cento anni». Mentre decifriamo questa iscrizione, Trimalchione batté le mani. «Ahimè,» disse «il vino vive dunque più di noi, poveri omuncoli? Be’, trinchiamocelo tutto. Il vino è vita. E questo, poi, è opimiano autentico. Ieri ne ho fatto mettere in tavola del meno buono, e sì che avevo degli ospiti molto più di riguardo». Mentre noi attacchiamo a bere e andiamo debitamente in estasi davanti a tanta munificenza, entra uno schiavo con uno scheletro4 d’argento fatto in modo che le articolazioni e le vertebre potessero muoversi in ogni direzione; e lo fa cadere più volte sulla mensa e, data la mobilità delle giunture, gli fa prendere le posizioni più diverse. Allora Trimalchione declamò: «Ahimè, poveri noi, ché tutto è niente! Solo quattr’ossa restan dell’ometto. Tutti, nell’Orco, avremo questo aspetto: viviam, finché il destin ce lo consente».5

2. comandò... a terra: nella sua ostentazione di ricchezza, Trimalchione ordina di gettar via qualsiasi oggetto, anche costoso, sia andato in terra. Già in un passo precedente, all’ingresso delle Terme, Encolpio e Ascilto avevano assistito alla scena di Trimalchione «che, in pantofole, si divertiva con delle palle verdi. E non raccattava mai quella che era caduta a terra, ché c’era lì uno schiavo con un sacco pieno e riforniva di volta in volta i giocatori» (cap. 28). 3. Opimio: Lucio Opimio era stato console nel 121 a.C. 4. scheletro: «L’usanza è di origine egizia, ma la troviamo largamente documentata anche in Campania, specie a Pompei: lì sul litorale, dove tanto si erano fatte sentire le influenze dell’Oriente, e così viva era sempre stata la tradizione epicurea, sono tornati alla luce mosaici tricliniari decorati di teschi e di altri simboli di morte» (Ciaffi). 5. «Ahimè... consente»: due esametri e un pentametro, accostamento zoppicante che rivela l’approssimativa cultura di Trimalchione.

[35] Ai nostri elogi seguì una portata che, se non rispondeva esattamente alle nostre aspettative, attirò tuttavia gli sguardi di tutti per la novità della presentazione. Era un grande trionfo da tavola, di forma circolare, con i dodici segni dello zodiaco disposti in giro; e su ognuno di essi l’artefice aveva posto un cibo corrispondente: sopra l’Ariete dei ceci cornuti; sul Toro una bistecca di manzo; sui Gemelli testicoli e rognoni; sul Cancro una corona; sul Leone dei fichi d’Africa; sulla Vergine la vulva di una scrofetta; sulla Libra una bilancia che portava in un piatto una torta e nell’altro una focaccia; sullo Scorpione un pesciolino di mare; sul Sagittario un corvo; sul Capricorno una locusta di mare; sopra l’Acquario un’oca e sui Pesci due triglie. Nel centro, poi, una zolla tagliata con la sua erba sosteneva un favo di miele. Uno schiavetto egiziano portava in giro il pane in un piccolo forno d’argento, e anche lui straziava con voce orribile una canzonetta tolta dal mimo del «Mercante di laserpizio». Siccome noi avevamo accolto senza eccessivo entusiasmo dei cibi così ordinari: «Date retta a me» disse Trimalchione «mangiamo; questa è la legge della cena». [36] E aveva appena detto questo che si avanzano quattro servi a passo di danza, secondo il ritmo della musica, e tolgono la parte superiore del trionfo. Allora vediamo, su di un vassoio che stava sotto, pollame ingrassato, ventresche di scrofa e, nel mezzo, una lepre con le ali in modo da raffigurare Pegaso. Agli angoli del trionfo si vedevano inoltre quattro satiri armati di piccoli otri, intenti a versare salsa piccante sopra alcuni pesci che vi nuotavano come nello stretto di Euripo. Ci mettiamo tutti ad applaudire, a cominciare dai servi, e attacchiamo allegramente queste vivande prelibate. Trimalchione, rallegrato anche lui dalla sorpresa, gridò: «Taglia!». E immediatamente si fece avanti lo scalco che, con bei gesti cadenzati al suono dell’orchestra, affettò le varie pietanze: pareva un gladiatore che combattesse sul carro al suono dell’organo. Intanto Trimalchione insisteva calcando con intenzione sulla parola: «Taglia! Taglia!». Io sospettai che, sotto questo comando tante volte ripetuto, si nascondesse qualche piacevolezza e mi arrischiai a chiedere spiegazioni al mio vicino. Quello, ch’era abituato da tempo a giochetti di quel genere, mi rispose: «La faccenda è che lo scalco si chiama Taglia; sicché, ogni volta che Trimalchione grida: “Taglia!”, con una parola sola lo chiama e gli comanda quel che deve fare».

(trad. di U. Dettore)

Mosaico raffigurante uno schiavo che versa del vino, III secolo d.C. Tunisi, Museo del Bardo.