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3. Quattro modelli di business

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Nota degli autori

Nota degli autori

3. Quattro modelli

di business

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Vediamo in questo capitolo un’applicazione delle nove particelle elementari che compongono l’economia circolare, attraverso quattro categorie di modelli di business, esplicati attraverso rilevanti casi studio selezionati. Questi modelli offrono una categorizzazione generalista, che tuttavia può risultare utile al lettore per capire quali azioni intraprendere nel proprio business e comunicarle facilmente. Ci faremo aiutare da numerosi esempi, alcuni recentissimi, per capire come cambieranno le strategie di profitto delle aziende.

Dal possesso all’uso. Il prodotto come servizio

Secondo Walter Stahel, esistono varie modalità di innovazione per potenziare l’efficienza dei materiali nell’economia circolare: innovazioni tecniche, commerciali e d’uso. Proprio da queste ultime si vorrebbe partire, poiché di tutti i modelli di business dell’economia circolare forse sono quelli meno automatici. Si pensa sempre a cicli ristretti della materia, riuso, riciclo, upcycle, cicli virtuosi della materia. Ma se il primo punto fosse invece limitare il consumo e permettere ai produttori un controllo totale sul prodotto? Poniamo che abbiate un’automobile ma la usiate solo sei giorni al mese, durante i weekend. Vivete in città, è un problema spostarla, tro-

vare parcheggio. La muovete solo quando è necessario. Nella vostra auto è presente una quantità di materia impressionante: leghe di metallo, circuiti, gomma, rame, radica, vetro. Tutte le unità di materia sono impiegate solo pochi giorni al mese. Il prodotto in ogni caso ha una sua obsolescenza, anche se non viene impiegato. Dovete tenere due treni di gomme: uno per l’estate e uno per l’inverno. Entro pochi anni il vostro motore Euro4 forse non potrà più circolare. Dovete pagare bollo e assicurazione ogni anno. Per il produttore questo significa minore controllo sulle parti dell’auto, minor manutenzione target per massimizzare la longevità del prodotto. Dunque perché possedere il prodotto quando si può usufruire del suo servizio e pagare l’accesso, piuttosto che il possesso? Presentiamo quindi un modello chiave dell’economia circolare: il prodotto-come-servizio (product-as-a-service). In questo modello di business, che negli ultimi anni si è diffuso praticamente in qualsiasi settore, è l’industria o un soggetto commerciale a mantenere il possesso del prodotto, massimizzandone l’uso e coordinando interamente la parte di gestione, manutenzione, upgrade, riuso, rigenerazione, smaltimento. Mantenendo cioè un pieno controllo sulla materia e massimizzandone ogni suo aspetto, secondo le nove particelle elementari dell’economia circolare. Questo modello di business può essere erogato in cinque modalità. La prima può essere definita “prezzo per l’uso”. Il cliente compra l’output del prodotto come quantità di dati usati, ore d’impiego, consumo materiale, chilometri percorsi ecc. Invece di una lampadina possiamo comprare 10.000 ore di illuminazione garantite. La seconda è un classico ampiamente impiegato nel settore automobilistico corporate, il leasing: i clienti ottengono il diritto contrattuale d’uso di un prodotto per un lungo tempo e solitamente l’accesso è limitato ed esclusivo. È la peggiore delle forme di business del prodotto come servizio. Il terzo modo è il noleggio. Sebbene sia simile al leasing, risulta più flessibile e di minor durata (da pochi minuti a meno di 30 giorni). Il noleggio offre meno personalizzazioni, ma ne massimizza l’uso (dato che l’accesso può essere non-esclusivo, come nel car sharing) e quindi anche il potenziale profitto.

Illustrazione di Michela Lazzaroni

C’è poi l’accordo di performance: l’acquirente compra un servizio predefinito e l’alta qualità correlata al fine di ottenere risultati specifici, per esempio la riduzione dei costi in bolletta di energia o acqua, assistenza garantita 24/7, riduzione delle emissioni, massimizzazione dell’efficienza complessiva. Questo tipo di contratto è di particolare interesse per chi gestisce edifici e ambienti complessi, o tecnologie energivore. Quinto e ultimo, lo scambio d’uso. Si ispira al baratto ma funziona come una banca del tempo. Praticamente posso scambiare per l’uso di un prodotto l’uso di un altro prodotto. Il modello fa riferimento in particolare all’impresa sociale, dove è possibile scambiare l’uso di un prodotto (quindi una transazione di valore limitata nel tempo) con un’opera sociale. Sebbene il modello sia pressoché sconosciuto, con le attuali tecnologie digitali sarebbe possibile per esempio scambiare l’uso di un’ora di car sharing con due ore di assistenza sociale a persone anziane. Oppure l’uso del proprio trapano in cambio di un’ora di baby-sitting. Esistono programmi come le banche del tempo, in cui si scambia un uso o un servizio in maniera similare. Anche se hanno un grande potenziale, specie in relazione alle nuove forme dell’abitare (come i co-housing o gli eco-quartieri), rimangono ancora esperienze limitate. Questi modelli possono consentire ai consumatori di risparmiare e permettono di avere prodotti manutenuti o di ultima generazione, anche quando il cliente non è in grado o non ha tempo di gestire tutti i prodotti che possiede. Inoltre, l’impresa può modificare i propri modelli di profitto, sia mantenendo il controllo sulla materia e sulle tecnologie, sia andando a operare in fasi (per un prezzo) che oggi non svolge (riparazione, rental-office, gestione integrata proprietà), spingendosi in campi che ancora non è facile prevedere, ma che è molto probabile che creeranno nuovi processi di innovazione.

Non mancano gli esempi di prodotto come servizio. Michelin per esempio offre oggi pneumatici in forma di “prodotto-come-servizio”. Grazie a Michelin Solution è possibile prendere in leasing, con un accordo di performance, le gomme. Dal 2011 Michelin Fleet Solutions ha contrattualizza-

to oltre 300.000 veicoli in oltre 20 paesi europei. Il gruppo in questo modo è in grado di offrire pneumatici di elevata qualità ogniqualvolta si rendano disponibili aggiornamenti o servano interventi di manutenzione e sostituzione, con lo scopo di ottimizzare le flotte di veicoli iscritti al servizio e diminuire i costi per la compagnia legati alla cessione del prodotto. Non cedendo il prodotto, e quindi mantenendo il pieno controllo sulle proprie gomme, Michelin può ritirarle quando si stanno per usurare in maniera critica, estendendone la validità tecnica attraverso la ricostruzione o la riscolpitura. La compagnia di Clermont-Ferrand ha stimato che la ricostruzione richiede la metà del materiale grezzo di gomma rispetto a quello che serve per le gomme nuove, pur riuscendo a garantire il 90% delle performance di un pneumatico prodotto ex novo. In ogni caso il pneumatico è monitorato e seguito dalla compagnia che conosce perfettamente modalità di allineamento, tempi di invecchiamento e sostituzione. Il business circolare di Michelin non si ferma qua. Il gruppo francese ha attivato simultaneamente quattro leve per usare le risorse in maniera efficiente, seguendo le 4R, ridurre, riusare, riciclare e rinnovare. Da un lato, infatti, questi pneumatici, anche quando sono nuovi impiegano una quantità di gomma inferiore rispetto ai competitor. I servizi addizionali garantiscono profitti extra, in cambio della massimizzazione dell’efficienza di consumo per i camion (e gomme sempre di ottima qualità). Infine, nel momento in cui i copertoni non possono più essere riusati e riparati, Michelin ha realizzato Tire Recycling (TREC), un progetto che impiega gli pneumatici a fine vita sia per realizzare gomma di alta qualità rigenerata da impiegare in nuovi copertoni, sia per produrre etanolo dalle gomme che non possono più essere utilizzate. L’etanolo è un agente chimico che può essere usato per sintetizzare un buon numero di materiali. Infine, grazie al programma BioButterfly, Michelin usa l’etanolo per produrre butadiene (solitamente derivato dal petrolio).

Philips offre un altro esempio interessante. La nota compagnia di illuminotecnica di Eindhoven, Paesi Bassi, ha lunghi trascorsi nella filiera della

raccolta e del riciclaggio delle lampadine. Certo, come abbiamo detto alcune lampadine realizzate da Edison cento anni fa sono ancora perfettamente funzionanti, ma anche la compagnia orange ha fatto del suo meglio per massimizzare la durata dei suoi prodotti e garantirne il ciclo della materia. In Europa, Philips opera in ventidue sistemi di raccolta differenziata, che ritirano oltre il 40% di tutte le lampadine contenenti mercurio presenti sul mercato, con un tasso di riciclo del 95%. Ma il reale ingresso nell’economia circolare Philips l’ha fatto nel momento in cui ha deciso di massimizzare il ritiro della merce per il riciclo e riuso, introducendo il “prodotto-come-servizio” per l’illuminazione. La compagnia ha spiegato di aver adottato il sistema di leasing per poter raggiungere il più alto numero possibile di clienti. In questo modo Philips rimane proprietaria del prodotto, i clienti non devono pagare il prezzo pieno all’acquisto, massimizzando la gestione del fine vita delle luminarie. Allo stesso tempo i clienti si possono garantire i migliori prodotti, con ottime performance di consumo (garantite) e di efficienza, minimizzando l’impronta ecologica della materia.

Un’ulteriore soluzione di “prodotto-come-servizio” (meglio noto con la sigla PaaS, Product-as-a-Service) è il car sharing Car2Go del Gruppo Moveel, di proprietà di Daimler AG. Vengono Il sistema usa delle Smart ForTwo elettriche (in alcuni paesi rimangono ancora quelle a benzina, ma presto saranno sostituite), piccole auto perfette per brevi noleggi urbani, in media 10-20 minuti. Il sistema, che si interfaccia con gli utenti tramite una app da scaricare sullo smartphone, consente di prendere l’auto in qualsiasi parcheggio della città e di lasciarla una volta terminato il noleggio, purché entro i confini urbani. La app indica su una mappa l’auto più vicina, e consente poi di aprire e chiudere il mezzo. I prezzi oscillano intorno agli 0,35 euro/minuto. In questo modo la compagnia rimane proprietaria delle auto, ne controlla il funzionamento e la manutenzione, ma soprattutto i mezzi, che sfruttano energia rinnovabile, rimangono in funzione per gran parte della giornata.

La sharing economy – Car2Go o la concorrente Drive Now ne sono esempi – indubbiamente può essere considerata in alcuni casi un sottoinsieme dell’economia circolare, dove il modello di business è il prodotto come servizio. Ma non tutta la sharing economy è inscrivibile nell’economia circolare, specie se non rispetta gli assunti legati alle particelle elementari. Uber, classico esempio di sharing economy, infatti, sebbene offra un prodotto come servizio, non è sostenibile né ambientalmente né socialmente.

A Singapore, Justin Taylor, l’amministratore delegato di Kaer, azienda specializzata nel settore del raffrescamento degli edifici, ha lanciato l’aria condizionata come servizio, ACaaS. Secondo Taylor, la priorità dei proprietari degli edifici e dei loro clienti non è possedere i condizionatori, ma avere aria fresca. Oggi il 50% dei dipendenti della Kaer si occupa dei clienti che usano l’aria condizionata come servizio, e fa sì che abbiano condizionatori sempre perfettamente funzionanti. Ricercatori e ingegneri lavorano per trovare modi attraverso i quali garantire un’efficace distribuzione dell’aria, maggiore comfort e migliore qualità dell’aria interna agli edifici. A sua volta, la divisione asset management cerca di migliorare l’esperienza dei propri committenti, dei clienti dei committenti e di tutti gli utenti finali degli edifici a cui forniscono ACaaS. Questo sistema è usato in data center, impianti di trasformazione alimentare, istituti scolatici, uffici e persino centri commerciali. “Il modello ha raggiunto oltre 25.000 RT (Refrigerator Ton, l’unità di potenza che misura il consumo di aria condizionata), utilizzati per raffreddare quasi 500.000 metri quadrati di spazio. Anche se l’azienda è attiva a Singapore, in Malesia, Indonesia e India, il servizio è offerto, al momento, solo a Singapore e in India”, spiega Antonella Totaro, esperta di prodotto-come-servizio. Con l’aria-condizionata-come-servizio i proprietari degli edifici pagano per uno spazio fresco e confortevole senza anticipare le spese per i macchinari. Semplicemente, viene loro addebitato un costo fisso mensile o una cifra corrispondente al consumo effettivo (pay per use) in dollari per tonnellata di refrigerante all’ora. In questo modo, Kaer affronta l’apparente paradosso di applicare un model-

lo di business che abbassa la domanda del prodotto che vende, paradosso che viene ingegnosamente risolto utilizzando una struttura di prezzi in cui i risparmi ottenuti sono condivisi con il cliente.

Altri esempi interessanti di PaaS sono legati agli oggetti di uso domestico. Si chiamano Tool Libraries e funzionano proprio come una normale biblioteca. Solo che, invece di prendere in prestito libri, si possono noleggiare attrezzi per il giardinaggio, l’idraulica, la falegnameria, ma anche passeggini, giochi in scatola, imbraghi per arrampicata e tecnologie più complesse come droni, robot e cuffie VR, tutti a basso costo o, in alcuni casi, gratuitamente. L’obiettivo comune è favorire il riutilizzo e la condivisione per aumentare l’accesso ai prodotti a prezzi abbordabili, riducendo consumi e sprechi. “Una delle più famose è la Library of Things di Londra, dislocata in diverse zone della capitale inglese sotto forma di chioschi self-service in spazi condivisi come biblioteche e centri comunitari”, racconta ancora Antonella Totaro. “Nei chioschi sono presenti attrezzi per il fai da te e il giardinaggio, oggetti per imparare nuove abilità come macchine da cucire e ukulele, cose per organizzare incontri come gazebo e altoparlanti, e utensili per cucinare come estrattori e gelatiere. È possibile sfogliare online il catalogo degli oggetti, prenotarli e ritirarli presso il chiosco locale. Ogni oggetto viene riposto nel suo armadietto: chi lo prende in prestito riceve un codice per sbloccarlo in modo da poterlo ritirare, insieme agli altri materiali necessari per il suo utilizzo come la carta vetrata o le pastiglie per pulire i tappeti. Una volta terminato l’utilizzo, l’oggetto viene restituito alla biblioteca, pronto per essere utilizzato dal prossimo utente. Le persone tendono a prendere gli oggetti per un giorno o due, ma i prestiti possono durare anche una settimana o due.” Prima del COVID-19, gli oggetti erano anche il pretesto per unirsi e creare eventi come i Repair Party e Mending Meet-Ups per riparare oggetti elettronici e vestiti oppure organizzare lezioni di fai da te. Non mancano anche le soluzioni italiane. A Bologna nel 2016 ha aperto Leila, strutturata come un sistema di piccoli punti di condivisione in di-

versi angoli della città emiliana a cui si è aggiunta nel settembre 2020 una vera e propria biblioteca. “Sono disponibili 220 oggetti. Ogni anno l’utente versa una quota associativa di 20 euro che serve per le spese di gestione e si impegna al tempo stesso a mettere a disposizione almeno un suo oggetto”, spiega Antonella Totaro. “A Palermo esiste Zero, la prima biblioteca delle cose siciliana, costo di tesseramento 10 euro, mentre a Firenze c’è l’Oggettoteca, che richiede anche di condividere uno o più oggetti al momento del tesseramento.”

Gli esempi sono sempre più numerosi, dagli attrezzi agricoli e dai vestiti come servizio (si veda il paragrafo sulla Circular Fashion), passando per i macchinari da prototipazione (come il Pro-M Facility di Rovereto) fino ai gadget hi-tech (Grover). Questo permetterà alle compagnie di mantenere la proprietà degli oggetti commercializzati, aprendo innumerevoli opportunità per le strategie di rigenerazione, riciclo e life-extension. Si tratta di una svolta che consentirà di aumentare l’uso rispetto al possesso, rendendo le nostre vite più flessibili, nomadi e libere dal peso della materia. Non per tutti, certo. Il possesso rimane un elemento radicato nella psiche di molti, una sicurezza legata alla proprietà e all’uso esclusivo delle cose. Nessuno auspica una condivisione comune dei beni. Ma il fatto che imprese e multinazionali disporranno di un capitale materiale sempre più significativo potrà avere conseguenze imprevedibili. L’incrocio tra EPR, nuove filosofie di consumo, strategie di tracciamento dei prodotti e dei materiali, nuove tecnologie per il riciclo, sistemi di tracciatura degli elementi chimici, indubbiamente porterà a un’accelerazione della transizione circolare, aprendo davvero a sistemi collettivi 2.0. Dove l’azienda non ha solo la responsabilità della raccolta del prodotto a fine vita per evitarne la dispersione, ma deve implementare vere e proprie strategie industriali, basate su sistemi di riciclo, rigenerazione e riutilizzo per ridurre l’approvvigionamento di materie prime da fornitori esterni. Per questo servirà un nuovo modo anche di “disegnare” i prodotti, che tenga conto dei concetti di modularità (lo vedremo a breve con la rigenerazio-

ne), di resistenza, di alleggerimento, di reversibilità, di product-user-journey (ovvero di design dell’intera esperienza tra utente e prodotto, dall’acquisizione alla dismissione-restituzione). Concetti che saranno alla base delle riflessioni di un mondo, quello dei designer, che non ha ancora davvero interiorizzato questa sfida.

Life-extension

Come abbiamo visto, oltre a massimizzare l’uso, una delle strategie per minimizzare i consumi energetici e di materia è quella di incrementare la durabilità, facendo vivere il prodotto il più a lungo possibile. Sempre più aziende stanno realizzando che longevità e durabilità di un prodotto, se venduto a un prezzo premium, permettono di fare extra-fatturato, come se esso fosse rivenduto più volte, ma usando un decimo della materia e dell’energia per i processi di produzione.

Se si fabbrica un tipo di prodotto, per esempio abbigliamento sportivo, che tende a usurarsi facilmente con il tempo, in cambio di un’elevata durabilità garantita è possibile chiedere ai clienti di pagare un prezzo superiore. Può anche trattarsi di tecnologie complesse: invece di sostituire un robot perché si rende necessario un upgrade, basterà aggiungere le componenti innovative. Allo stesso modo, un elettrodomestico può essere riparato e tornare perfettamente funzionante, magari con nuove componenti persino più efficienti. Il modello di business basato sull’estensione del ciclo di vita genera profitto allungando il “ciclo di vita d’uso”: dunque, più un prodotto viene usato e aggiornato e maggiore sarà il profitto per l’azienda. Esistono sei approcci per la life-extension, vediamo quali.

1. Durabilità. Un tempo era un assunto di base per i prodotti, che dovevano durare nel tempo. Oggi, dopo l’affermazione dell’obsolescenza pro-

grammata, tornare a creare prodotti di elevata qualità e durabilità è quasi una rivoluzione. Il guadagno si concentra sulla targhettizzazione dei clienti disposti a pagare un prezzo premium per l’extra-qualità, o dei clienti disposti a cedere la proprietà dell’oggetto in cambio della possibilità di usare il prodotto come servizio. In questo caso la durabilità e la resilienza dei prodotti diventano fondamentali per minimizzare il turnover del prodotto (pensiamo ad attrezzi o macchinari in leasing) e incrementare il profitto derivato dall’uso prolungato (con i correlati impatti ambientali risparmiati). La resilienza è la particella elementare fondamentale. Nella moda la durabilità può essere costituita dal disegno di indumenti che non passano mai di moda. Capi che possano durare una vita intera e, con un minimo di manutenzione da parte del consumatore, anche più di una generazione. Sono diversi i brand che puntano sul concetto di timelessness, il design senza tempo. Tra questi, l’italiana Boggi e la svedese Fjällräven (“volpe rossa”, da cui il nome del brand), azienda di abbigliamento e materiali per le attività outdoor fondata sessant’anni fa dallo svedese Åke Nordin. “L’estetica è importante, ma la funzionalità per noi viene prima di tutto”, racconta in un intervista su Materia Rinnovabile il direttore creativo della società, Henrik Andersson. L’obiettivo del marchio è “creare prodotti che siano i più semplici e funzionali possibile, caratterizzati da quello che definiamo timeless design, design senza tempo. In questo modo è più facile che persone di generazioni diverse e con differenti necessità d’uso li apprezzino e li adoperino. Un’altra parola-chiave è ‘versatilità’: se i clienti apprezzano un indumento che utilizzano per il trekking, vorranno indossarlo anche nella vita di ogni giorno, e in generale tenderanno a conservarlo più a lungo”. L’altra faccia della durabilità, opposta all’obsolescenza simbolica o culturale della moda, è quella squisitamente materica. Ovvero la necessità di produrre oggetti built to last, costruiti per durare, dai contenitori riutilizzabili ai componenti per elettrodomestici alle fibre resistenti.

2. Rigenerazione. Ripristinare prodotti usati come se fossero nuovi, attraverso un processo di rimodernamento. L’obiettivo sono i clienti che de-

siderano preservare il proprio prodotto, rotto o inutilizzabile, oppure sono disposti a pagare un prezzo scontato per oggetti che non sono nuovi di fabbrica ma sono perfettamente funzionanti, sostenuti da una garanzia identica o simile e supportati da servizi identici al “nuovo di fabbrica”, in un’ottica di taglio dei costi. La rigenerazione è un sistema particolarmente indicato per i dispositivi elettronici e gli elettrodomestici. Non ha senso, né economico né ambientale, riciclare un apparecchio elettrico che può essere riusato. Guardando al solo settore degli smartphone, secondo i dati raccolti da Green Alliance in A circular economy for smart devices mantenere uno smartphone in uso per un anno aggiuntivo significa abbattere il suo impatto di CO2 del 31%. A partire da questa considerazione alcune grandi aziende come Dyson, HP e Lenovo vendono apparecchi ricondizionati su siti web outlet dedicati, mentre da circa 30 anni IBM Global Asset Recovery Services ricondiziona apparecchiature tecnologiche. Tra i casi più interessanti di rigenerazione di apparecchi elettrici c’è sicuramente Dell, che nel Regno Unito vende a prezzi inferiori, rispetto ai nuovi, computer portatili, computer da scrivania e tablet, videogame ricondizionati, workstation e altro ancora. Gli apparecchi rigenerati non utilizzano la stessa quantità di nuovi materiali di un computer nuovo, ma sono coperti dalla stessa garanzia limitata e beneficiano dello stesso servizio assistenza dei nuovi apparecchi. Sono due le tipologie di prodotti rigenerati nell’outlet Dell: quelli ricondizionati che sono stati utilizzati e che, tornati indietro a Dell, sono stati sottoposti a un processo di rigenerazione per raggiungere nuovamente alta qualità e performance. E quelli che Dell definisce “Scratch & Dent”, vale a dire i prodotti rigenerati certificati con macchie o piccoli graffi che tuttavia non influenzano le prestazioni e le funzionalità della tastiera o del touch pad. I prodotti medicali ricondizionati di Philips sono un altro esempio di rigenerazione nell’economia circolare. Da 20 anni, infatti, il mercato dei macchinari medicali ricondizionati è andato crescendo, anche perché le strutture di cura hanno bisogno di espandere le proprie risorse entro un

budget limitato e senza compromettere la qualità. Attraverso l’unità di Refurbished System, Philips offre strumenti usati ma completamente rinnovati, aggiornati (vedi upgrade in basso) e testati. Con il programma Philips Diamond Select vengono messi in commercio dispositivi ricondizionati di prima qualità a costi inferiori, con la garanzia completa di Philips. Si tratta di un modello e di un’opportunità commerciale che Philips è stata tra le prime a cogliere. Tutto ciò è possibile sfruttando anche la creazione di un sistema di raccolta di componenti provenienti da attrezzature mediche che, dopo essere state recuperate, vengono disassemblate. Le componenti raccolte sono poi utilizzate come pezzi di ricambio o vengono destinate alla rigenerazione. Accanto alle grandi multinazionali che hanno intravisto nella rigenerazione un’opportunità di mercato, esistono diverse aziende che hanno come core business il ricondizionamento e la vendita di prodotti elettronici e di elettrodomestici. È il caso di Leapp (http://leapp.nl), che nei Paesi Bassi ha scelto di concentrarsi sulla rigenerazione e la vendita di prodotti Apple. Negozio online con alcuni punti vendita fisici, Leapp offre tutti i prodotti Apple, più o meno recenti, a costi naturalmente inferiori e ponderati a seconda dell’aspetto esterno, delle capacità hardware e di possibili imperfezioni. Dal 2013 la norvegese Norsk Ombruk lavora per rigenerare gli elettrodomestici. Lavorando in partnership con varie aziende del settore, la Norsk Ombruk allunga la vita di lavatrici, frigoriferi ed elettrodomestici mantenendo in circolo risorse e materiali, offrendo un’alternativa testata, garantita e consegnata al distributore scelto dal cliente. Nel 2015 l’azienda ha così rigenerato 8.180 prodotti elettronici ed elettrodomestici. Sono numeri relativamente contenuti, ma è un trend in crescita, e sono ormai numerose le nuove realtà che guardano alla rigenerazione come a un possibile mercato.

3. Ricarica. In molti casi, quando la funzione di un oggetto si è esaurita più velocemente del prodotto, può essere sostituita. Si va dai banali cari-

catori per i prodotti di pulizia agli oli da taglio per i macchinari industriali. Questa operazione ha senso soprattutto quando il valore del contenitore è superiore a quello del contenuto. Nei supermercati significa tornare a vendere in bulk, con contenitori portati da casa, eliminando il packaging, che oltre a inquinare influisce sui prezzi. In moltissimi paesi con economie sviluppate lo sfuso è tornato popolare dopo decenni di “usa e getta”: non solo tra i piccoli rivenditori, ma anche presso i supermercati che forniscono prodotti alla spina come detergenti per la casa e per la persona, bevande, farine e cereali. Tra gli esempi, Original Unverpackt in Germania, dove non esistono prodotti confezionati, e il franchising Negozio Leggero in Italia.

4. Restituzione e buyback. Si raccolgono prodotti usati per poi rivenderli in mercati che trattano seconda mano o prodotti rigenerati. Spesso gli oggetti hi-tech diventano impopolari oppure obsoleti in alcuni paesi ma continuano a essere usati in altri, oppure si ritagliano spazi in mercati di nicchia, come quello del collezionismo, il vintage ecc. La gestione di questi prodotti a fine vita è spesso affidata a realtà specializzate (mercatini vintage, raccolta e rivendita di tecnologie hi-tech ecc.). Negli ultimi anni anche i produttori si stanno avvicinando a questo mercato, in molti casi includendo il reselling nel proprio parco retail. Con l’app Depop, per esempio, si possono trovare abiti e altri oggetti di seconda mano, e ci sono alcuni oggetti di culto, in particolare nel settore hi-tech, come il telefono cellulare Nokia 3310 o i primissimi computer Macintosh, che continuano a essere ricercati, riparati e utilizzati dagli appassionati. Il settore del recommerce conquista sempre più acquirenti, che si rivolgono a quelle aziende, come l’americana ReCellular, che si occupano di rigenerare prodotti tecnologici, un’operazione che prevede il ritiro del prodotto usato, i test per valutarne il funzionamento, le operazioni per riportarlo alla condizione di “pari al nuovo” e la conseguente vendita a un prezzo che può arrivare fino al 70% in meno rispetto al prezzo del nuovo.

Uno dei problemi del buyback e della restituzione – ma che riguarda tutti i flussi di ritorno di materia dei prodotti – è quello della logistica inversa. Costi elevati e scarsa efficienza della catena logistica circolare fanno sì che spesso non sia economicamente vantaggioso riciclare materiali o recuperare componenti. Secondo l’esperto di circular economy Rémy Le Moigne, “la maggior parte dei prodotti non è progettata e concepita per la logistica inversa. Spesso sono difficili da compattare o smontare per ottimizzare il trasporto su camion. L’imballaggio, supponendo che sia ancora disponibile al momento della raccolta, di solito non è progettato per essere riutilizzato. Sono disponibili informazioni limitate per stabilire se i prodotti restituiti possano essere riutilizzati o debbano essere riciclati”. Fortunatamente ci sono esempi positivi. Ahrend vende una scrivania con un piano da tavolo facilmente smontabile per facilitare il trasporto. Orange spedisce i modem internet in una confezione che può essere riutilizzata quando il cliente desidera restituire le proprie apparecchiature. Per facilitare i resi di clienti e distributori, Xerox fornisce imballaggi protettivi che non richiedono nastro adesivo. Anche Ikea, il colosso degli arredamenti modulari, ha lanciato il suo piano di buyback, implementando ulteriormente la smontabilità dei suoi prodotti (a breve nelle confezioni potrebbero anche essere incluse delle istruzioni per lo smontaggio). Il programma “Buy Back” offre ai clienti la possibilità di restituire vecchi mobili Ikea in cambio di buoni spesa dal 30% al 50% del loro prezzo iniziale. “Una scelta sostenibile e vantaggiosa per tutti e per l’ambiente”, fa sapere la società, perché si darà una seconda vita ai mobili usati che potranno essere rivenduti nella sezione “As-Is” dei negozi. In questo caso il modello è semplice: lo scambio vecchio/nuovo è gestito interamente dal cliente, che però è agevolato nella procedura di unbuilding. Per Ikea questo è stato un passaggio ovvio, grazie a un design che, seppure non intenzionalmente, aveva già forti elementi di circolarità.

5. Upgrade. Invece di rimpiazzare totalmente il prodotto esistente, vengono aggiunte nuove capacità, nuove componenti, nuove funzioni o viene

modificato il design dell’oggetto. Il cliente target è soprattutto interessato a consumare contenuti, funzioni, stile, il suo obiettivo è quello di restare aggiornato agli ultimi upgrade tecnologici, l’ultima moda, l’ultima componente. Per concretizzarsi come allungamento della vita del prodotto l’upgrade ha bisogno in primis di modularità nella fase di progettazione, e deve essere già pensato nel design dei prodotti, siano essi grandi macchinari oppure accessori. Necessita, quindi, di una visione di lungo termine nella scelta delle componenti e dei materiali, oltre che nelle modalità con cui questi ultimi sono connessi e collegati tra di loro. Accanto al già menzionato Refurbished System di Philips, che prevede rigenerazione e upgrade nello stesso programma, anche Google, uno dei membri CE100 della Ellen MacArthur Foundation, sta spingendo con convinzione sull’upgrade dei suoi server. Il programma Server Upgrades è il processo di Google che consente di prolungare la vita utile dei server mediante l’aggiornamento di tecnologie (componenti) vecchie e non efficienti nei server. Le componenti principali che vengono aggiornate nei server sono gli hard disk, le unità disco, i moduli di memoria (DIMM) e i dispositivi flash (SSD). Le componenti che vengono rimpiazzate in seguito all’upgrade dei server sono inviate al magazzino e vengono riutilizzate reintroducendole nell’inventario. Una volta che le componenti sono nell’inventario, per Google sono equivalenti a quelle nuove, e possono quindi tornare nel ciclo. Un altro esempio di upgrade, relativamente diverso da quello di Google, è quello di Fairphone, l’azienda olandese che ha messo la modularità al centro del design del suo smartphone circolare. Il Fairphone 2, attualmente in commercio, è composto da sei moduli, e può essere aperto e smontato in 10 secondi. L’upgrade può essere effettuato dall’utente, che può sostituire la fotocamera vecchia con una nuova con più pixel, oppure può cambiare la batteria con una dalla durata maggiore. Inoltre, il Fairphone 3+ dispone di un’expansion port nella parte posteriore, connessa con il resto del telefono, che permette di integrare funzionalità aggiuntive e gli aggiornamenti che dovessero rendersi disponibili.

6. Riparazione. Il prodotto può tornare alle condizioni originali solo attraverso un intervento dedicato per risolvere il danno. È necessaria un’attenta pianificazione del customer care per le riparazioni, che spesso impone tempi lunghi e parecchie inefficienze, e porta i clienti a dire “conviene comprarne uno nuovo piuttosto che ripararlo”. Come tutti gli altri approcci per la life-extension, devono essere garantiti vantaggi in termini di costo, velocità, affidabilità, garanzia della durata. In Polonia, così come in Francia e in Italia, negli ultimi anni sono nati tantissimi centri non ufficiali di riparazione Apple dopo che la compagnia ha reso sempre più costosa e difficile la riparazione dei propri telefoni. Giovani imprenditori cinesi, forti di una rete commerciale di ricambi non ufficiali di qualità, hanno inaugurato un vero e proprio network di riparatori professionisti che, come avviene nella Chinatown di Milano, si scambiano know how, componenti, software di testing e persino clienti, quando la mole di lavoro supera la disponibilità. Altro fenomeno che interessa le grandi comunità di biker, da New York a Copenaghen, sono le ciclofficine popolari, ambienti dotati di attrezzatura specifica per la riparazione di biciclette, messi a disposizione da associazioni ciclistiche o collettivi, dove chiunque può riparare il proprio mezzo, anche con la collaborazione di altri utenti, lasciando un’offerta libera. Un approccio del genere implica un cambiamento nella mentalità dell’azienda che considera i clienti come proprietari dei prodotti e non solo come consumatori. La differenza tra possedere un prodotto ed essere un consumatore sta nella possibilità di riparare i propri prodotti, invece di limitarsi a mettere in circolo qualcosa di cui non si ha veramente bisogno. Interface, Ricoh, DeWalt, Caterpillar, Lenovo e Patagonia sono tra le aziende che hanno fatto della riparazione un elemento centrale del proprio modello di business. Caterpillar ha fatto della riparabilità dei suoi prodotti e dell’attenzione ai clienti due degli elementi del rilancio dopo la crisi nel 2009. Avendo prezzi più alti rispetto ai concorrenti, il modello Caterpillar deve essere meno costoso lungo l’arco di vita del prodotto, considerando quindi il prezzo di

acquisto, i costi di manutenzione, i costi operativi, il periodo di utilizzo, l’aspettativa di durata e il valore di rivendita. Il fattore umano è cruciale nel processo di riparazione ideato da Caterpillar. I concessionari sono fondamentali per la velocità di riparazione e per la professionalità dei tecnici. Negli Stati Uniti, in particolare, Caterpillar non ha concorrenti per la capillarità della rete di assistenza, e tutti i macchinari permettono all’azienda di guadagnare abbastanza da parti di ricambio e servizi, al punto che i concessionari più grandi possono sopravvivere per anni senza vendere nessun macchinario. Un ciclo virtuoso che assicura stabilità, attirando più clienti e costruendo una base ancora più ampia di macchinari a cui garantire l’assistenza. Il punto di partenza per la riparazione e la rigenerazione dei pavimenti e dei tappeti Interface è ancora una volta la modularità. Essendo costruito in moduli, l’Interface Carpet permette di ridurre i costi di lavori e materiali, ma soprattutto elimina il bisogno di sostituire completamente il tappeto, visto che si possono riparare soltanto le parti necessarie. Oltre alla riparazione, a fine vita il tappeto ritorna in fabbrica dove è completamente rielaborato in un nuovo tappeto. Ciò è possibile anche grazie all’adozione di un sistema senza colla che non unisce il tappeto al pavimento.

Vediamo altri esempi di life-extension. H&M, il colosso svedese di vestiti low cost, ha lanciato nel 2013 un programma globale di raccolta in-store di vestiti a fine vita, in cambio di voucher da usare nei negozi del marchio. Un’iniziativa simile a quella di Marks & Spencer e dell’organizzazione non governativa Oxfam in Gran Bretagna, Shwopping, grazie alla quale i clienti potevano restituire nei magazzini M&S capi usati che venivano poi riciclati, e i proventi venivano usati per programmi di lotta alla povertà da parte della Ong. Per gestire il fine vita dei vestiti raccolti, H&M ha iniziato una collaborazione con I:CO, una compagnia specializzata in “logistica a ritroso” per l’abbigliamento, che gestisce la selezione manuale per il riuso, la rimessa in vendita come usato (rewear) di qualità, il riciclo o, nel peggiore di casi,

la termovalorizzazione dei vestiti per produrre energia. La più grande fabbrica di selezione e divisione di I:CO si trova in Germania, dove sono impiegate 600 persone, e la società ha impianti anche in India e negli Stati Uniti. Secondo le stime della compagnia, il ciclo più efficiente è quello del rewear, che corrisponde al 40-60% dell’output. Il ciclo successivo è quello del riuso (10%), in cui i tessuti, che non possono essere indossati, sono trasformati in altri prodotti, inclusi stracci, con un upcycling molto limitato di fibre in filati tessili. I tessuti inutilizzati, circa il 30% del totale, finiscono per essere usati per fabbricare prodotti come materiali di smorzamento e materiali isolanti nell’industria automobilistica. Quando queste tre opzioni sono state esaurite, i tessuti vengono avviati alla produzione di energia: I:CO stima che la quota di abiti raccolti che finiscono nei termovalorizzatori si aggiri intorno all’1-3%. L’obiettivo a lungo termine di H&M è trovare una soluzione per il riutilizzo e il riciclaggio di tutte le fibre tessili per nuovi usi, e di utilizzare filati realizzati con tessuti raccolti nei loro prodotti. Il surplus dal programma di raccolta viene donato alla H&M Conscious Foundation, per finanziare le innovazioni in termini di capacità di reverse product e in altre aree legate alla chiusura del ciclo sui tessuti. I principali flussi di entrate per la I:CO provengono dalla rivendita di capi di abbigliamento, in particolare quelli ad alto valore (soprattutto vintage), e materiali a cascata. Per H&M, il programma ha dato benefici importanti in termini sia di aumento del traffico nei negozi sia della fidelizzazione dei clienti. A latere trovano posto anche alcuni programmi dedicati. Per i jeans, H&M collabora con un fornitore in Pakistan per chiudere il ciclo di produzione. Dopo la raccolta a fine uso, i jeans vengono spediti alle strutture partner per essere ridotti in fibre da utilizzare come input per fare nuovi jeans (con un’aggiunta corrispondente al 20-25% di materiali vergini, a causa delle limitazioni nelle attuali pratiche di riciclaggio meccanico).

Patagonia, un’azienda americana di abbigliamento e accessori sportivi e outdoor, ha introdotto nel 2013, con lo slogan “If It’s Broke, Fix It”, Worn

Wear, un programma che punta a incoraggiare i clienti a prendersi cura dei loro capi, lavarli correttamente, ripararli se necessario e infine avviarli al riciclo quando non sono più utilizzabili. Partendo dal messaggio “riparare è un atto radicale” è stato poi costruito a Reno, in Nevada, il centro riparazioni Worn Wear di Patagonia. Qui vengono aggiustati circa 45.000 capi ogni anno, a cui si aggiungono le riparazioni effettuate dai rivenditori locali in vari paesi nel mondo. Ma non basta, perché la società ha avviato anche il Worn Wear Tour, un tour itinerante partito dagli Stati Uniti e che dal 2016 è sbarcato anche in Europa, che a ogni tappa offre la possibilità di riparare gratuitamente i capi Patagonia. Sono gratuiti anche i tutorial online, e sono state realizzate guide in diverse lingue per facilitare la riparazione dei capi a livello locale (evitando così di spedirli verso i centri di riparazione). Grazie ai processi di riparazione, l’azienda viene a conoscenza delle problematiche dei capi che produce, e può fornire ai propri designer dei feedback con cui migliorare i prodotti. Il programma Worn Wear ha l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale dei prodotti Patagonia e di incoraggiare i consumatori a cambiare la propria relazione con gli oggetti. Se da un lato la missione è quella di creare e vendere meno capi di abbigliamento non necessari, dall’altro Patagonia si assicura che l’abbigliamento, gli zaini e gli accessori rimangano in circolazione il più a lungo possibile. In questo modo, viene costruito un secondo ciclo di business accanto a quello della vendita, e il marchio consolida la propria reputazione nel settore della sostenibilità. Worn Wear è l’evoluzione naturale dell’iniziativa Common Threads (la prima iniziativa di riciclo/riuso del brand americano) per incoraggiare i consumatori a riportare indietro capi e oggetti per riparazione e riciclo.

Un passaggio interessante fatto da Patagonia è quello di responsabilizzare i consumatori nei confronti dei propri capi di abbigliamento. Essere responsabili di un capo vuol dire ripararlo quando si rompe, ma anche passarlo a un nuovo proprietario se non lo si vuole più. A tal proposito, negli Stati Uniti Patagonia ha lanciato una piattaforma online che vende i capi,

gli zaini e gli altri oggetti usati e in perfette condizioni restituiti dai clienti (buy back). Questi ultimi ricevono un credito fino al 50% del prezzo di vendita del prodotto che riportano indietro. Un nuovo ciclo chiuso e una nuova fonte di introiti per Patagonia.

Rigenerazione, remanufacturing e catena di produzione circolare nell’industria

Nella piramide della sostenibilità, dopo la riduzione dell’uso di materia vengono il riuso e la rigenerazione, ovvero il reimpiego di oggetti o di loro parti in processi di artigianato o industriali. Quanti oggetti vengono buttati nonostante abbiano parti perfettamente funzionanti, e che quindi, previo test di qualità, potrebbero essere reimpiegate dal produttore o da imprese terze? È uno dei processi più interessanti dell’economia circolare, che va ben oltre l’importante riuso creativo, quando artigiani e artisti usano oggetti e materiali scartati per realizzare nuovi prodotti, dalle borse di Freitag, fatte con cinture di sicurezza e vecchi manifesti in tessuto non tessuto, fino alle residenze d’artista nei centri di raccolta, la più famosa delle quali è l’Artist in Residence presso Recology, a San Francisco. La rigenerazione per scopi industriali interessa soprattutto componenti pesanti o complesse, dai telai delle auto alla sensoristica avanzata, dagli schermi dei televisori ai componenti di arredamento. Se il recupero è un’arte vecchia come il mondo (ma vedremo tra poco le infinite opportunità dell’upcycling), la rigenerazione industrializzata, in cui le parti recuperate rientrano nella catena di produzione attraverso sofisticate procedure di tracciamento, test di qualità e nuovi modelli di business, si è fatta strada solo nell’ultimo decennio. Uno dei settori che guarda sempre più in questa direzione è quello dell’automotive, e in generale delle macchine pesanti, dato che le emissioni complessive prodotte da un

veicolo durante il suo intero ciclo vita si generano quasi per il 50% per la mera costruzione. La parte restante ha origine dal consumo di carburante per il trasporto.

Il mondo dell’automobile è indubbiamente un mondo di sprechi: per muovere ogni persona servono immense quantità di petrolio, oltre che un’enorme quantità di materia, che assume la forma di componenti destinate a finire nello sfasciacarrozze, dopo essere state – nel migliore dei casi – disassemblate. Sebbene questa operazione sia a tutti gli effetti considerabile come un elemento di economia circolare (così come lo sono tanti mercatini dell’usato!), spesso non è un modello sistematico e industriale. Per un pezzo recuperato altri cinque rimangono inutilizzati, esposti alla ruggine e alle intemperie in un piazzale in periferia. Forse i dirigenti di Renault stavano guardando proprio uno di questi sfasciacarrozze quando hanno avuto l’idea di rivoluzionare il proprio modello di business. Il gruppo automobilistico francese, infatti, è stato il primo a realizzare una fabbrica per il remanufacturing, di automobili. Il remanufacturing si occupa di reingegnerizzare alcuni sottogruppi meccanici (per esempio pompe dell’acqua o parti del motore) fuori uso e di gestire e trattare un ampio spettro di materiali dismessi dai veicoli destinati alla rottamazione. Le lavorazioni sono pensate per potenziare gli attuali processi di riciclo delle componenti, diffusi tra molti produttori, minimizzando – attraverso un design intelligente delle parti nuove – il lavoro di modifica o di trasformazione delle componenti stesse. Dunque i nuovi volanti, per esempio, sono disegnati partendo da quelli delle auto precedenti, e le migliorie tecniche diventano addizionalità sui pezzi esistenti recuperati. Dopo essere stati rigenerati vengono testati per certificarne la sicurezza e montati sui veicoli di ultima generazione. In questo modo si favorisce un ciclo ristretto (closed loop) della materia, trasformando rottami in pezzi di alta qualità, evitando completamente il downcycling. Renault lavora inoltre con imprese di riciclo e gestione dei rifiuti, inclusi la rete francese specializzata nel riciclo dell’acciaio (Indra) e il colosso Suez Environnement/Sita, per potenziare

le proprie capacità di gestione del prodotto a fine vita e migliorare il design, garantendo un approvvigionamento costante – passaggio fondamentale per la materia prima seconda – di materiali per componenti e parti. La fabbrica, appropriatamente chiamata RE-Factory, si trova a Flins (in precedenza era nel mega-complesso Renault di Choisy-le-Roi), alla periferia di Parigi. Qui 400 addetti lavorano per reingegnerizzare componenti che vengono venduti al 50-70% del prezzo originale, con una garanzia di un anno. Le operazioni di remanufacturing portano entrate per circa 250 milioni di euro l’anno, e Renault punta ad avere 3.000 occupati nella RE-Factory entro il 2030. “Questo impianto, che ha l’obiettivo di un bilancio di CO2 negativo entro il 2030, è pienamente in linea con la strategia globale del gruppo, combinando economia circolare, riduzione delle emissioni, sviluppo delle competenze e creazione di nuove attività generatrici di valore”, ha aggiunto Luca de Meo, CEO di Renault.

Il lavoro è semplificato, si legge sul sito di Renault, da un design appropriato del prodotto, per rendere facilmente scomponibili o riutilizzabili le varie parti (come le trasmissioni), in modo che il processo di differenziazione (sorting out) venga ottimizzato, sia per tempi sia per costi. Questo processo, che richiede meno materia e necessita di più forza lavoro (con una riduzione dei costi per le materie prime e maggiori risorse per l’occupazione), porta a un bilancio netto favorevole per l’impresa, visto che si riducono l’uso di macchinari, robot, macchine da taglio. Renault, inoltre, sostiene di aver ridotto i consumi di elettricità dell’80%, quelli idrici di quasi il 90%, e la produzione di rifiuti del 77%. E nemmeno li chiama più rifiuti, ma materia inutilizzata. In attesa di trovare soluzioni anche per quel 23% oggi destinato alla combustione. Il modello di economia circolare di Renault (che dal 2014 è global partner della Ellen MacArthur Foundation) non si ferma solo alla rigenerazione. La casa automobilistica, fondata dai fratelli Louis, Marcel e Fernand Renault, invece di acquistare i macchinari per le proprie catene di montaggio ha trasformato la propria catena di montaggio in un modello basato

sul servizio dei macchinari. Renault ha lavorato con i propri fornitori per identificare una serie di benefici reciproci e rendere più resiliente, efficiente e circolare il modello. Per esempio, fino a qualche anno fa acquistava i macchinari per l’uso dei fluidi da taglio per i propri centri di produzione, ma doveva gestire la manutenzione del servizio in-house. In questo modo l’olio da taglio, fondamentale per i lavori di taglio meccanico e filettatura, necessitava di essere continuamente sostituito, recuperato e gestito come un rifiuto speciale. Per ottimizzare il recupero, Renault ha invitato i fornitori a gestire autonomamente la manutenzione e la sostituzione dei fluidi da taglio. I fornitori hanno raccolta la sfida e ridisegnato completamente i macchinari e il servizio, riducendo i costi e aumentando la durata di vita della macchina. Nel primo anno Renault ha rilevato una riduzione dei costi proprietari del 20%, senza contare i costi necessari per la realizzazione e il potenziamento di un sistema di depurazione delle acque, interno alla fabbrica (i fornitori hanno internalizzato la depurazione, incrementandone l’efficienza). In questo modo la quantità di acqua da depurare si è ridotta del 90%. Per il fornitore tutto ciò si è tradotto in un recupero della materia, in una riduzione dei costi e in un aumento degli introiti legati ai servizi.

Non solo: Renault è stato il primo produttore di automobili ad adottare il modello di lease per le batterie delle auto elettriche, per mantenere il valore residuo dei veicoli elettrici (per incoraggiare un consumo più elevato) e realizzare batterie completamente tracciabili, garantendo un alto tasso di raccolta per la reingegnerizzazione a circuito chiuso o il riciclaggio. Secondo Philippe Klein, vicepresidente esecutivo della divisione Product Planning, Programs & Light Commercial di Renault, “l’economia circolare ha avuto impatti positivi su tutto il nostro business. I picchi negli acquisti di materia prima, tipo quelli del 2004, quando il prezzo dell’acciaio schizzò a +40% in un anno, non hanno più grandi impatti sui costi di produzione. È molto complicato prezzare la volatilità di queste materie prime, che subiscono gli andamenti del mercato e non costituiscono una funziona-

lità addizionale per il cliente. Quindi un sistema di riuso e riciclo a ciclo chiuso è un’importante leva del risk management per questa compagnia. Inoltre, la profittabilità del sito di remanufacturing di Flins è molto più alta di quella di qualsiasi altro sito industriale del gruppo. Flins, anche presa come business unit individuale, ha dei guadagni decisamente elevati”. E proprio il settore automobilistico sembra essere uno dei più dinamici rispetto alla circular economy, vista l’ingente quantità di materiali, acqua ed energia che consuma. Dal 1° gennaio 2015 è entrata in vigore la Direttiva 2000/53EC sul fine vita dei veicoli: i paesi europei hanno l’obbligo di riciclare il 95% del peso di un veicolo, in misura dell’85% relativo al reimpiego/riciclo e del 10% relativo al recupero energetico, senza spese per il consumatore. Un segnale che molte aziende sembrano aver colto. Importanti investimenti sono focalizzati soprattutto sullo sviluppo di propulsori più sostenibili e di motori più efficienti, che siano elettrici, ibridi o a metano, alcuni in corso da oltre vent’anni (come Toyota, che ha fatto uscire la prima Prius nel 1997) e altri più di recente. In Italia il Gruppo Fiat Chrysler Automobiles (FCA) ha deciso di investire verso la circular. Il Gruppo, oggi fusosi con PSA (gruppo Peugeot) nella nuova multinazionale Stellantis – ha creato una vera e propria strategia di design di processo “circular” puntando su numerosi elementi, come l’utilizzo di materiali biobased, facilmente riciclabili, di fibre naturali come il kenaf e la juta, e di materia rinnovata come il nylon riciclato. Dal 2010 il gruppo ha registrato una riduzione del 27,5% dei consumi di acqua nella filiera, e sono diminuiti anche gli scarti (-18,7%) e le emissioni, di quasi un decimo. Il remanufacturing si concentra soprattutto sui ricambi, riducendo sia i costi per i consumatori sia il volume di scarti destinati alla discarica. Per toccare da vicino l’impegno del Gruppo bisogna visitare lo stabilimento di Cassino, in Italia, uno dei più avanzati al mondo, con 4.300 dipendenti che producono le Alfa Romeo Giulietta, Giulia e Stelvio. Lo stabilimento laziale di FCA è “zero waste” (obiettivo raggiunto dal 2000): neanche un grammo di scarti o di rifiuti industriali finisce a discarica. Dato che il 100% dell’energia elettrica utilizzata dallo stabilimento proviene da fonti rinno-

vabili e il 100% delle emissioni legate all’uso di energia termica è compensato, lo stabilimento di Cassino è anche “zero CO2 emission”. Tanta attenzione viene dedicata anche al recupero dell’acqua utilizzata nelle cabine di verniciatura per raccogliere le particelle di colore che non si depositano sulla carrozzeria. L’acqua viene raccolta, depurata e ricircolata nella medesima cabina. Ma ancora più innovative sono le tecnologie usate per la stesura della mano di fondo: per non impiegare nemmeno una goccia d’acqua sono state adottate delle cabine che impiegano una tecnologia “a secco”. Le particelle di vernice in eccesso sono raccolte da un flusso d’aria e assorbite da speciali filtri, che vengono poi avviati ad attività di recupero, rendendo “circolare” anche la vernice. Cassino è il primo stabilimento al mondo a impiegare questa tecnologia in ambito automotive. FCA riduce anche il prelievo di acqua a fini industriali dalla comunità circostante, impiegando per il consumo restante l’acqua piovana raccolta da un invaso da circa mezzo milione di metri cubi situato nello stabilimento, quanta ne scorre nel Tevere in mezz’ora. Inoltre, è presente un sistema di fitodepurazione costituito da un bacino ricco di piante acquatiche e microorganismi in grado di depurare l’acqua necessaria ai processi produttivi dello stabilimento. Anche da questo punto di vista lo stabilimento è quindi “zero water”. Un altro esempio di circolarità è dato da una sperimentazione in atto tra FCA e il Gruppo Cap, gestore del servizio idrico della città metropolitana di Milano: una Fiat Panda Natural Power, dal 2006 il modello più venduto in Europa nella fascia a metano, funziona impiegando biometano prodotto dalle acque reflue di circa 220.000 abitazioni. Una Fiat Panda alimentata al 100% o con biometano estratto da reflui fognari consentirebbe una riduzione di emissioni di CO2 pari al 97% rispetto a un modello a benzina: in sostanza quanto una vettura elettrica rifornita con “corrente” proveniente per intero da fonti rinnovabili, come l’eolico. Se la sperimentazione darà i risultati sperati – e in effetti sembrano incoraggianti – molte auto potranno essere alimentate grazie alla trasformazione dei depuratori cittadini in bioraffinerie.

Infine, ancora più di recente FCA ha lanciato Leasys CarCloud. Immaginate di prendere un’auto a Roma, usarla per qualche settimana, riconsegnarla alla stazione Termini, prendere il Frecciarossa e poi prenderne una nuova a Milano Centrale, guidarla, riconsegnarla a Torino, poi per le vacanze scegliere una berlina per un giro in Riviera. A oggi il CarCloud è una soluzione product-as-a-service molto più flessibile dei classici leasing. Il remanufacturing diventa ancora più attuale se collegato alla “rivoluzione 4.0”. Cioè IoT e interconnessione, big data, manifattura additiva, digital twin (le repliche digitali di oggetti fisici) e simulazioni. Si pensi solo al fatto che i prodotti e le componenti sensorizzati consentono di conoscere le caratteristiche del loro ciclo di vita (big data generati dai sensori e poi analizzati da intelligenze artificiali) e quindi di poterne gestire meglio la riusabilità. Per quanto riguarda la manifattura additiva, è evidente il ruolo che può avere nella rigenerazione di componenti, soprattutto se costosi e durevoli. Si tratta di una pratica già diffusa nel mondo dell’aerospaziale. Per esempio, l’italiana Avio Aero (gruppo General Electric) nel suo laboratorio di Bari, chiamato Apulia Additive Repair Center, ripara i suoi motori per aerei con delle stampanti 3D, poi li rimette in uso come nuovi. I digital twin e i software di simulazione sono indispensabili per progettare prodotti e componenti pronti per il remanufacturing, testandoli prima con un grado di precisione che va ben oltre la realtà, perché rendono disponibili numeri e dati che nella prototipazione fisica sarebbero impossibili da ricavare.

Secondo gli analisti, il remanufacturing è uno dei trend chiave dell’industria mondiale, destinato a crescere moltissimo nei prossimi anni. Nel 2015 in Europa il remanufacturing valeva 30 miliardi di euro e, secondo le stime dello European Remanufacturing Network, arriverà a 100 miliardi nel 2030. Già oggi, negli Stati Uniti vale circa 100 miliardi di dollari. I calcoli in termini di benefici ambientali (e di conseguenza anche economici) sono stati fatti dallo European Remanufacturing Network in riferimento al settore dell’auto: risparmio dell’88% sui materiali, del 56% sul fabbisogno energetico, del 53% sulle emissioni di CO2.

La rigenerazione, affiancata da altre strategie (riuso, riciclo) diventa il cuore della catena di produzione circolare in cui, grazie al supporto delle energie rinnovabili e di una forza lavoro specializzata e numerosa, azzera l’output come rifiuto. Come detto, può essere intersettoriale e interciclica (come per esempio dimostra la rigenerazione degli pneumatici Michelin) oppure avere un loop molto chiuso (come Renault), usufruendo del “prodotto-come-servizio” da fornitori e partner.

Vediamo quindi ancora un paio di casi studio per capire come viene declinato questo modello di business, che richiede un ciclo molto ristretto della materia. Tra i fornitori di componentistica, vale la pena menzionare la tedesca Bosch, che ha sviluppato il programma Bosch Exchange, per ridurre il volume delle materie prime utilizzate e mettere in commercio una vasta gamma di ricambi rigenerati e completamente garantiti. Sempre per la componentistica e ancora in Germania, i tedeschi di Knorr-Bremse sono specializzati nel rimettere sul mercato sistemi frenanti rigenerati. Nel settore dell’elettronica di consumo uno degli esempi più rilevanti di rigenerazione a ciclo ristretto è indubbiamente quello di Ricoh, noto produttore di stampanti, sistemi di gestione documenti e servizi IT. La compagnia giapponese di Tokyo, quasi vent’anni fa, si è data come obiettivo strategico il riciclo o il riuso di tutte le parti dei suoi prodotti, come stampanti, macchine fotocopiatrici e fax. Per questa ragione ha creato una linea di produzione con l’etichetta GreenLine, come esempio concreto di impegno a rigenerare e rimettere in circolo componenti. Oggi GreenLine è presente nei sei principali mercati europei ed è un caso di successo: è stata scelta da tantissimi clienti, e ha mantenuto il passo con i trend di crescita delle vendite della gamma di Ricoh. Il segmento GreenLine è cresciuto del 5%, oggi pesa per il 20% delle vendite totali e l’azienda sta cercando di far crescere di scala questa linea. I margini di profitto che emergono dai report aziendali sono sorprendenti: da uno e mezzo fino a due volte più alti rispetto a quelli dei prodotti tradizionali. Non solo rigenerazione, naturalmente. Come ogni compagnia che

ha abbracciato la visione dell’economia circolare, Ricoh rimette a nuovo i vecchi equipaggiamenti, supporta la raccolta dell’usato e il miglioramento additivo delle macchine. Per i prodotti che non possono essere rigenerati, rimessi a nuovo o implementati, Ricoh usa i componenti e ricicla materiali in impianti in-situ. Di recente la compagnia ha introdotto dei tritatutto per sminuzzare le componenti plastiche negli stabilimenti e nei magazzini regionali con lo scopo di rispedirle in Asia, dove vengono utilizzate per la produzione di nuovi componenti. La compagnia è in linea con gli obiettivi di comprimere l’input di nuove risorse di materia del 25% entro il 2020 rispetto ai livelli del 2007, e dell’87,5% al 2050, riducendo l’uso di materiali che sono ad alto rischio di esaurimento risorse (petrolio, rame, cromo) entro il 2050.

Un altro caso studio interessante nel settore macchinari da lavori pesanti (heavy duty machinery) è quello di Caterpillar, la compagnia statunitense leader mondiale nella produzione di macchine per attività di costruzione ed estrazione mineraria di cui abbiamo già parlato alle pagine 165166. Alcuni anni fa ha creato Cat Reman, un’unità per la ricerca di nuovi metodi per ridurre, riutilizzare, riciclare e recuperare materiali che in passato sarebbero finiti in discarica. Cat Reman riporta prodotti alla fine del ciclo di vita (il cosiddetto “core”) alla loro condizione originale. Ciò consente di ridurre i costi di proprietà e di esercizio, fornendo ai clienti prodotti di qualità pari a quella dei nuovi a una percentuale ridotta dei prezzi tradizionali. Dopo essere stato restituito a uno stabilimento Reman, il core viene disassemblato perdendo la sua identità originale. Ogni elemento passa attraverso un processo di pulizia ed è controllato sulla base di rigorose specifiche tecniche per determinare se può essere effettivamente recuperato. Dopo l’accettazione i componenti usurati vengono quindi convertiti in materiale pronto per la produzione attraverso tecniche avanzate di recupero, che impiegano lo stesso processo di progettazione applicato alle macchine Caterpillar nuove.

Upcycling. Il nuovo ciclo della materia, dal purgatorio al paradiso

Cosa succede quando prendiamo una materia che vale 10 e la buttiamo in una discarica? Il valore scende a -10. Se generiamo energia questa materia vale 3 (certo produce energia, ma ha un costo elevato, viene disperso tutto il lavoro incluso nella materia lavorata e potenzialmente è fonte di inquinamento, come tutto ciò che brucia). Se la ricicliamo, questa materia vale 9. E qualora volessimo raggiungere un valore superiore a 10? Possiamo trasformare il rifiuto di un prodotto in qualcosa che vale persino più del prodotto pienamente utilizzabile? Il potenziamento di valore esplica una componente fondamentale dell’economia circolare: quella migliorativa. I processi industriali possono fare “del bene” in due modi. In primo luogo, possono migliorare la qualità intrinseca del prodotto, sia per valore materiale sia per valore d’uso. In aggiunta, attraverso processi di upcycle possono sia accrescerne il valore sociale sia ridurne gli impatti ambientali. Il processo avviene secondo due filiere specifiche: • un processo industriale che usa lo scarto per realizzare prodotti di valore superiore, come fanno per esempio l’americana Looptworks con i filamenti di scarto di tessile industriale (impiegando etichette, frammenti di bottoni, scarti di tessuto); • un processo artigianale che prevede l’utilizzo di materie povere per scopi “nobili” come il design o le opere d’arte.

Il termine upcycle apparve per la prima volta in un articolo del 1994 di Reiner Pilz, direttore della Pilz GmbH & Co. KG, un’azienda tedesca che opera nelle tecnologie di automazione, controllo e sicurezza. Nell’articolo Pilz criticava il riciclo in maniera pungente: “Lo chiamo downcycling. Si rompono mattoni, si trita materia. Quello di cui abbiamo bisogno è upcycle: in altre parole, i vecchi prodotti possono dare più valore e non meno. Lo vedo nelle abitazioni. Davvero tutto ciò che andiamo demolendo, piastrelle,

assi, tubature, non è altro che una pila di materiale inerte mischiata a cemento?”. Chi ne ha veramente valorizzato il significato tuttavia è stato William McDonough (si veda l’intervista a pagina 146), codificandone il significato e sottolineando l’importanza di incrementarne il valore. Andando, come chiosa il titolo del libro, beyond sustainability, oltre la sostenibilità.

Gli esempi di upcycle nell’economia circolare non mancano. L’azienda inglese Elvis & Kresse Organization (E&KO) produce accessori di lusso, come borse e cinture, a partire prevalentemente dalle manichette antincendio usate dai pompieri, ma recupera anche i tessuti dei paracadute con microabrasioni e quindi non più utilizzabili, i ritagli della produzione del pellame. Inoltre, per realizzare fodere, packaging e i materiali di comunicazione della società recupera i sacchi in iuta del caffè, le scatole da scarpe e le confezioni in cui viene importato il tè. Allo stesso modo, il negozio di prodotti di design Garbage di Vienna utilizza molti tipi di rifiuti (per esempio sacchetti di plastica, birilli da bowling rovinati, palloni da calcio sfondati, vecchi giocattoli e monete fuori corso) per far realizzare da artisti e designer vasi, lampade, gioielli e pezzi d’arredamento dalle linee contemporanee.

Altro esempio è costituito da Eco-Sistemi, una start-up che sfruttando il principio dell’upcycle ha realizzato un depuratore per rimuovere la sostanza organica, contenente sia carbonio sia azoto, uno dei principali elementi inquinanti delle falde acquifere. Invece di impiegare costosi dispositivi prestampati, in cui far crescere lo spesso film di colonie batteriche responsabili della depurazione, sono stati impiegati banali tappi di plastica riciclati che, per forma e materiale sono perfetti per ospitare – carrier in termini tecnici – i batteri. Un anno di analisi ha mostrato che i tappi, oltre a non aver bisogno di alcuna trasformazione o lavorazione, possono anche ottenere risultati superiori ai dischi lavorati. E a fine vita i tappi, che sono composti di una plastica preziosa, possono comunque ancora essere riciclati dai consorzi delle plastiche.

Al di fuori dei processi industriali, l’upcycle si sta diffondendo nel mondo dell’artigianato di alta qualità e in quello artistico. Si tratta di dare nuova vita, attraverso un processo creativo, a ciò che verrebbe altrimenti buttato. Nell’arte si può rintracciare un’origine lontana nella cosiddetta “arte povera”, nata in Italia negli anni Sessanta come critica ai linguaggi e ai costumi della società di massa. Artisti come Boetti e Fabro usavano scarti industriali per creare nuove installazioni, attaccando il sistema consumistico e la produzione seriale. Oggi questa pratica è diventata di moda nell’arte, non si contano le presentazioni in cui gli artisti si esibiscono in virtuosismi di recupero (basta vedere il sito riciclarte.it).

Per gli artigiani l’artistic upcycling è una fonte di materia quasi gratis, oltre che uno stile apprezzato da molti. A Buenos Aires è sorto uno dei più grandi centri di riuso creativo, il Centro de Reutilización Creativa (ReMida BA), che produce accessori di moda, ecosartoria, arredamento di interni ed esterni e allestimenti per esercizi commerciali e fiere. Recupera plastica (bottiglie, bicchieri, imballaggi), carta (quotidiani, magazine), cartone, camere d’aria, pneumatici, Pvc, maglieria e stoffe, legno, alluminio e vetro. Il ReMida BA ha persino stipulato delle convenzioni con aziende partner che forniscono i loro scarti di lavorazione, che diventano materia prima seconda per la realizzazione dei manufatti. Il Centro insegna a non sprecare e a riusare materiali in maniera originale, una sorta di disintossicazione dall’economia lineare. Fa parte di una rete di centri internazionali (ReMida) che riflette criticamente sull’uso delle materie di scarto, fa esperimenti, crea filiere commerciali alternative e usa i materiali per realizzare spettacoli, scenografie, strumenti musicali, spesso per opere a tema ambientale, in modo da massimizzare l’impatto educativo.

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