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Leggende di tipicità
La leggenda della costola del drago di Atessa
Nella cattedrale di San Leucio di Atessa (Chieti), in una teca, è custodita un’originale costola lunga circa due metri. Questo “tesoro” sembra essere la testimonianza della fine di una minaccia che per lungo tempo aveva terrorizzato il luogo. Al tempo, nella zona tra i fiumi Pianello e Osento, vi era una palude che divideva i villaggi di Ate e Tixa. Ma la palude non era il solo ostacolo che impediva agli abitanti di questi villaggi di potersi incontrare. In quella malsana palude, infatti, viveva un terribile drago che si cibava di ovini e bovini
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e che, negli ultimi tempi, pare avesse esteso la sua dieta agli umani. Un giorno San Leucio arrivò in pellegrinaggio in queste terre e, ascoltati gli abitanti, decise di affrontare la bestia. Per tre giorni il santo nutrì il drago con carni fino a saziarlo completamente, immobilizzarlo e riuscire a intrappolarlo. Dopo una settimana, San Leucio lo uccise conservandone il sangue – dalle proprietà terapeutiche - e una costola che donò agli abitanti dei due villaggi che festeggiarono l’avvenimento unendosi in un unico villaggio, Atessa.
La leggenda dell’Albana di Bertinoro
Siamo nell’estate 435 d.C., quando Elia Galla Placida, figlia di Teodosio I, ultimo imperatore dell’Impero Romano unito, per sfuggire alla malaria decise di allontanarsi da Ravenna - al tempo capitale dell’impero – per dirigersi verso le colline della Romagna. Lungo il suo viaggio decise di sostare in un villaggio adagiato su una collina di nome Monte dell’Uccellaccio. Sorpresi e ricchi d’orgoglio per la visita della nobildonna, gli abitanti del posto fecero assaggiare

all’imperatrice il loro vanto locale, il vino noto come Albana, che le porsero in un semplice calice di terracotta. Estasiata dalla bontà della bevanda, la nobile esclamò «Non di così rozzo calice tu sei degno, bensì di berti in oro, per rendere omaggio alla tua soavità!». Da allora il villaggio cambiò nome in quello che oggi conosciamo come Bertinoro e il suo Albana, già Doc dal 1967, è stato il primo bianco italiano a ottenere il riconoscimento Docg, nel 1987.
La leggenda delle spose di Monteviasco
Ranzoni, Morandi, Dellea e Cassina erano quattro briganti in fuga e c’è chi dice fossero disertori che scappavano dalla legge in cerca di un posto sicuro dove nascondersi, per poter ricominciare a vivere serenamente. Siamo nel varesotto, dove i briganti prima raggiunsero la Valtravaglia poi, attraverso la Val

Dumentina, giunsero nella Val Veddasca. Poco sotto la vetta del Monte Polà, individuarono un luogo lontano dalle rotte abituali, protetto da fitti boschi e con ottimi pascoli. I quattro costruirono le loro case con materiali locali, iniziarono a coltivare la terra e ad allevare alcuni animali. La loro vita sembrava davvero

cambiata in meglio ma, ahimè, mancava qualcuno: le spose. Dall’altra parte della valle, però, c’era il borgo di Biegno, nel quale i quattro avevano visto delle ragazze. Sistemate al meglio le loro case e preparati dei doni per le loro future consorti, gli ex-fuggitivi si prepararono per il loro ultimo “colpo”. Aspettarono che gli uomini di Biegno si allontanassero con le loro greggi verso gli alpeggi quindi, nottetempo, rapirono quattro ragazze che portarono al loro borgo improvvisato. Quando la popolazione di Biegno si accorse del rapimento, si mise subito sulle tracce dei quattro ma, una volta giunta al rifugio, scoprì che le ragazze avevano deciso di rimanere con i briganti, colpite dalla sincerità dei sentimenti. Li sposarono e nacque così il borgo di Monteviasco. Questa è la leggenda, ma è curioso che quei quattro cognomi siano oggi i più diffusi della zona.