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Photogra Phy Meets Pasolini

By Paolo Patui

Although it was the cinema that gave him his notable popularity (albeit criticised and obstructed), Pasolini was not born either as a director or as scene writer. He had no academic foundation or rudiment, nor the expertise approved to deal with the film set, the film narrative, the ordered, and tested, and comforting sequence of images, sounds, expressions, actions, and frames. This peculiarity might be perceived as a form of weakness (many directors looked at it in that way at his time and still do today), but in Pasolini it becomes instead a disruptive and provocatively revolutionary force. His lack of a codified grammar and his ignorance of the consolidated film language that has been handed down from a school to another, is precisely what gives him his bright inspiration and his completely unconventional visionary capacity. It is exceptionally innovative, divergent, and sincerely spurious, precisely because it free from any kind of ostentation. Pasolini's films present a form of language that the audience, and very often the critics too, were not and still is not familiar with. Therefore, the audience and the critics must learn to decode it through a new semantics and a new code. Bernardo Bertolucci show it well in the introduction he wrote for the ponderous but also indispensable volume dedicated to Pasolini's films (Pier Paolo Pasolini, edited by W. Siti e F. Zabagli, Per il cinema, Mondadori, 2001): "I was expecting everything, except to witness the birth of cinema. He nailed the movie camera in front of faces, bodies, shacks, and dogs in a sunlight that looked sick to me, but that reminds him of the gold grounds: he only filmed frontal shots that ended up as little tabernacle frames of the underprivileged's glory."

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Pasolini's film technique is thus often held in a face: there would not even be need for a story to justify the existence of a logical and chronological sense. The depth of those film sequences is indeed usually due to an expression, a strength, an energy triggered by the seemingly immobile close-up or by a glaze that is almost never directed to ourself. It is rather capable of vanishing into invisible horizons, if not penetrating inside our souls through the movie screen. Pasolini challenges the most conventional rules of editing, dwelling on faces, appearances, attitudes, looks, lips, wrinkles, scars that, in their apparent immobility, speak, live, tremble, suffer, hope, participate in the mysterious drama of history and humanity.

Few directors enjoy such shots, now as then: perhaps only the Korean Kim Ki-duk is on par with Pasolini's technique. In 3-Iron (Silver Lion for Best Direction at the 61st Venice International Film Festival in 2005), even if he uses quite different technological means, Kim Ki-duk eliminates dialogues and words between actors throughout the film, except in very short scenes, leaving room for eloquent and incisive close-ups and shots.

The choice of dwelling on human faces, giving them this unusual importance, might suggest that Pasolini is somehow doing a physiognomic research, if not a deliberate reference to the face used as an amplifier of a state of mind. This had already been tested on several occasions and at various times by a figurative art that was induced to do so by the need to describe in this way a character.

Yet, the face and faces in Pasolini's films are not mere physiognomy. It would really be simplistic to consider them as such. Instead, it is a definite artistic mark, a sign that inevitably forces anyone who embarks on the journey of this corsairfilmmaker's films to make a sudden diversion, an unpredictable deviation from tried communicative codes. It is precisely this deviation that imposes and demands unusual attention, unusual in-depth study and exploration. But at the same time, 'that' films declare the state of mind of characters who depict, in an emblematic yet very simple manner, a human condition shamelessly described and unmasked, in contrast to what we find in much (too-many) traditional and scholastic cinematography.

In this varied and exciting photographic collection, entitled "Il volto smascherato" (the unmasked face), portraits unequivocally and powerfully demonstrate how a look, a physiognomy, or an expression of face or a close-up, can say, speak or confess.

Benché a dargli una considerevole (seppur contestata e contrastata) popolarità sia stato il cinema, Pasolini non nasce regista, non nasce sceneggiatore, non ha affatto le basi e i rudimenti accademici, le competenze riconosciute per poter affrontare il set cinematografico, la narrazione filmica di una storia, la sequenza ordinata, collaudata e rassicurante di immagini, suoni, espressioni, azioni, fotogrammi.

Questa particolarità, che potrebbe essere avvertita come una debolezza (così come è stata considerata da molti registi cinematografici a suo tempo, come tuttora) in Pasolini diventa invece una forza dirompente e provocatoriamente rivoluzionaria. È proprio quella sua mancanza di una grammatica codificata, è proprio quel suo ignorare l'alfabeto filmico consolidato e tramandato da scuola a scuola, a permettergli un’illuminazione accecante, una capacità visionaria completamente fuori da ogni schema e per questo motivo eccezionalmente innovativa, divergente e puramente spuria, perché scevra da manierismi di ogni tipo. Il cinema di Pasolini è un linguaggio a cui il pubblico, e molto spesso anche i critici, non era e non è abituato e che, quindi, pubblico e critici, devono imparare a decodificare attraverso una semantica e un codice nuovi. Lo testimonia bene Bernardo Bertolucci nel suo intervento di introduzione al ponderoso quanto indispensabile volume dedicato al cinema di Pasolini (Pier Paolo Pasolini, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Per il cinema, Mondadori, 2001): "Mi aspettavo di tutto, ma non di assistere alla nascita del cinema [...] Inchiodava la macchina da presa davanti alle facce, ai corpi, alle baracche, ai cani randagi nella luce di un sole che a me sembrava malato e a lui ricordava i fondi oro: ogni inquadratura era costruita frontalmente e finiva per diventare un piccolo tabernacolo della gloria sottoproletaria".

Accade allora che spesso il cinema di Pasolini sia tutto là, racchiuso in un volto: non vi sarebbe nemmeno bisogno di una storia che giustificasse l‘esistenza di un senso logico e cronologico. A dare spessore, infatti, a quelle sequenze cinematografiche sovente è un'espressione, un'intensità, un’energia trasmessa dall'apparente immobilismo di un primo piano o da uno sguardo quasi mai rivolto a se stessi, semmai capace di svanire in orizzonti invisibili, se non addirittura di penetrare attraverso lo schermo cinematografico fin dentro il nostro animo. Pasolini sfida le più convenzionali regole del montaggio, indugiando su facce, volti, atteggiamenti, sguardi, labbra, rughe, cicatrici che nella loro apparente immobilità parlano, vivono, tremano, soffrono, sperano, partecipano al dramma misterioso della storia e dell'umanità.

Pochi allora e pochi oggi i registi che amano simili inquadrature: forse regge il parallelo solo il coreano Kim Ki-duk, che in Ferro 3 – La casa vuota (Premio speciale per la regia alla 61ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia del 2005), con ben altri mezzi tecnologici, elimina dialoghi e parole fra gli

Vincenzo Avallone

Piccolo Birbante attori per tutta la durata del film, tranne che in piccolissime scene, lasciando spazio ad inquadrature e primi piani eloquenti e incisivi.

La scelta di soffermarsi sul volto umano conferendogli questa inusitata importanza, potrebbe suggerire che in Pasolini vi sia una sorta di ricerca fisiognomica, se non un voluto riferimento al volto utilizzato come amplificatore di uno stato d'animo, così come sperimentato in più riprese e in varie epoche da tanta arte figurativa indotta a ciò dalla necessità di descrivere in quel modo il carattere di un personaggio rappresentato.

Eppure, il volto e i volti nel cinema di Pasolini non sono pura e semplice fisiognomica. Sarebbe davvero riduttivo considerarli così. Si tratta invece di una cifra artistica ben precisa, un segno che inevitabilmente costringe chiunque percorra l'avventura cinematografica di questo regista corsaro a una deviazione improvvisa, uno scarto imprevedibile rispetto a collaudati codici comunicativi. È proprio questa deviazione a imporre e pretendere una attenzione insolita, un approfondimento e un sondaggio perlustrativo inconsueti. Ma nello stesso tempo “quel” cinema dichiara lo stato d'animo di personaggi che raffigurano, in maniera emblematica eppure semplicissima, una condizione umana descritta e smascherata senza alcun pudore, rispetto invece a ciò che è riscontrabile in molta -troppa- cinematografia tradizionale e di scuola.

In questa variegata ed emozionante raccolta fotografica, intitolata Il volto smascherato, sono raccolti ritratti capaci di dimostrare in maniera inequivocabile e potente quanto uno sguardo, una fisionomia, un’espressione emanati da una faccia e da un primo piano, sappiano dirci, parlarci, confessarsi.