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Jiang Yimao, pag

JIANG YIMAO

JIANG Yimao, originario della contea di Fengdu, Chongqing, è un famoso poeta della Cina contemporanea. È membro della Chinese Writers Association, della Chinese Poetry Association e della Chinese Natural Resources Writers Association. Alcune sue poesie sono state pubblicate in “Poetry Periodical”, “Chinese Poetry”, “Chinese Cifu”, “Poetry of China”, “Campus Literature·Youth”, “The Stars”, “Red Crag”, “River Yan” , “Letteratura della Grande Terra”, “Letteratura del Nord”, “Talenti cinesi”, “Guangming Daily”, “Tibet Daily”, “Giornale delle risorse naturali della Cina”, “Serata di Chongqing”, “Serata della città di primavera”, “ People's Daily Online", "Xinhua Net", Phoenix e altri giornali e piattaforme. Le sue poesie sono state ospitate in una varietà di antologie, come "Cent'anni di odi poetiche" e "Dodici poesie contemporanee" (la prima stagione). Ha vinto il 6° Premio di Poesia Cinese Contemporanea. Premio Collezione di Poesia e altri premi di concorsi nazionali di poesia. Ha pubblicato raccolte di poesie come "Fuori dalla finestra", "Salute alla gioventù", "Rime del cuore in stile antico" e così via.

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Ecco tre suoi brani, nella traduzione inglese di Shi Yonghao e nella libera versione italiana dall’inglese di Domenico Defelice.

Time and Tide

The knife forged by time and tide Serve not only to kill pigs But also to plough, to break water and to prune trees It anatomizes whatever in the world

Winds, snow, thunders and lightning remove the rust Sunshine, rains and dewdrops moisten the blade It scrapes off the illness rooted in the depths Carving the expectations embodying deity

The skillful wielding of the knife Memories stored by Heaven The chart of all beings All go through the ebb and flow of the river of time

Dusk Standing by the Window

The roaring waves Gradually die out towards the skyline The twenty-first floor Boasts a view of half of the new city

The light kneaded into pieces by the setting sun Spreads on the straight spine And the ribs of different lengths A film of golden glory

A few gray birds Fly between the ribs Flipping their wings at a set tempo Their flight, now high now low Is inscribing confusion on the spine The trees threading along the roads

Fail to find the nests built by themselves

Gazing at the paling dark clouds The vast forest seems to be suddenly expanding Through the lattice, the fresh breeze grabs my hair Making me instantly feel so void inside That my weight seems reduced To that of a grain of sand in the wall

Worries

Don’t worry That lingering fog will shroud the ridge The benevolence of the sun Will embrace it The long robe of the wind Will wrap it into the very image of the wind

I worry about the ditches assailed by the rainstorm Mud and sand will flee to the depths Crowding at the window of the stream Those who come to dredge Cannot reach the window lattice The flooding stream Will inundate the virtuous nature like water (Translated by Shi Yonghao)

Jiang Yimao, male, a native of Fengdu County, Chongqing, a famous poet in contemporary China. He is a member of Chinese Writers Association, Chinese Poetry Association and Chinese Natural Resources Writers Association. Some of his Poems have been published in “Poetry Periodical”, “Chinese Poetry”, “Chinese Cifu”, “Poetry of China”, “Campus Literature·Youth”, “The Stars”, “Red Crag”, “River Yan”, “Literature of the Great Earth”, “Northern Literature”, “Chinese Talents”, “Guangming Daily”, “Tibet Daily”, “Newspaper of China’s Natural Resources”, “Chongqing Evening”, “The Spring City Evening”, “People’s Daily Online”, “Xinhua Net”, Phoenix and other newspapers and platforms . His poems have been selected into a variety of anthologies, such as “Hundred Years of Poetry Odes” and “Twelve Contemporary Poems” (the first season). He has won the 6th Contemporary Chinese Poetry Award·Poetry Collection Award and other national poetry competition awards. He has published poetry collections such as “Outside the Window”, “Salute to the Youth”, “Ancient Style Heart Rhyme”, and so on.

TEMPO E MAREA

Il coltello è forgiato dal tempo e dalla marea Serve non solo per uccidere i porci Ma anche per arare, rompere l'acqua e potare gli alberi Anatomizza ogni cosa al mondo

Venti, neve, tuoni e lampi rimuovono la ruggine Sole, pioggia e gocce di rugiada inumidiscono la lama Raschia via la malattia radicata nel profondo Scolpisce le aspettative che incarnano la divinità

L'abile maneggio del coltello Ricordi immagazzinati dal Cielo Carta nautica di tutti gli esseri Tutti dovendo attraversare flusso e riflusso del fiume del tempo

AL CREPUSCOLO IN PIEDI VICINO ALLA FINESTRA

Le onde ruggenti A poco a poco si estinguono verso l'orizzonte Il ventunesimo piano Vanta la vista di metà della città nuova

La luce frantumata dal sole al tramonto Si estende sul dorso dritto E le costole diversamente lunghe Sono un film di gloria dorata

Uccelli grigi Volano tra le costole Sbattendo l’ali a tempo stabilito Il loro volo, ora alto ora basso Mette disordine sulla colonna vertebrale Gli alberi che sfilano lungo le strade Non riescono a trovare i nidi da loro costruiti

Guardando le pallide nuvole scure La vasta foresta sembra all’improvviso espandersi Attraverso il reticolo, la brezza fresca mi afferra i capelli Mi fa sentire all’istante così vuoto Che il mio peso sembra ridotto Ad un granello di sabbia nel muro

PREOCCUPAZIONI

Non preoccuparti La nebbia persistente avvolgerà la cresta La benevolenza del sole L’abbraccerà La lunga veste del vento L’avvolgerà nell'immagine stessa del vento

Mi preoccupo per i fossati assaliti dal temporale Fango e sabbia fuggiranno negli abissi Comprimeranno la finestra del ruscello A quelli che verranno a dragare Sarà impossibile raggiungere il reticolo della finestra Il torrente in piena Inonderà la natura virtuosa come l'acqua (Libera versione dall’inglese di Domenico Defelice)

IL MELO

Il melo pena stracarico di frutti nella calura. Fulmini squarciano il cielo in questa notte di tempesta che vibra e scuote il battito già alterato.

Il riposo non ha spazio e le pietre del mio vuoto sbattono tra di loro.

Sarà così

forse nell’ombra del dopo respiro quando attoniti vagheremo tra l’abbaglio e l’oscuro con il pesante fardello di una vita da espiare.

Laura Pierdicchi Mestre, Venezia

ARIA TUTTA SORRISO

Lungo il sentiero di trifoglio e gramigna ho raddrizzato una lumaca rovesciata. Grazie sembrava dirmi con i suoi tentacoli impazziti.

Sole improvvisamente dolce, aria tutta sorriso e tra le canne di bambù salmodiante l’usignolo in preghiera.

Domenico Defelice

AALLELUIA! AALELUIA! ALLELUUIAAA!

29/8/2022 O che bei programmi, marcondinondinondello, o che bei programmi, marcondinondinondà! Berlusconi, tutto per Didù; la Meloni, per la “pet therapy” – mica siamo italiani!; Salvini, per agevolare l’acquisto dei cibi per cani; Letta, per più canili e gattili! Alleluia! Alleluia! Nessuno ha programmi per i bambini, il futuro è degli animali.

Domenico Defelice

Recensioni

GIANNI RESCIGNO

DOVE IL SOLE BRUCIA LE VIGNE

Genesi Editrice, Torino, 2003, € 8,00, pagg. 69.

L’intensità del calore straordinario donato dall’influente astro diurno, il sole, pare sia stata agevolmente introiettata in questa ‘calda’ collezione di poesie di Gianni Rescigno, la quale (silloge) facendola scorrere sotto i nostri occhi si rivivono in un lampo tutte e quattro le stagioni dell’anno.

C’è stato un grande ma sventurato artista d’oltralpe nel passato che nei suoi dipinti, oltre ai colori ad olio, pareva esserci assieme agli effetti positivi derivanti proprio dalla stella fissa vicina al nostro globo, dopo i pianeti Mercurio e Venere, e attorno alla quale si muovono i corpi celesti della nostra galassia, il protagonista in assoluto generante energia necessaria per la vita, in altre parole ancora il sole. Lui si chiamava Vincent Willem Van Gogh (1853-1890), nome già assegnato al fratellino morto un anno prima e che costituì uno scomodo ‘testimone’ ricevuto da Vincent, che porterà fino alla sua fine avvenuta all’età di appena trentasette anni quando il pittore del Brabante olandese, zona confinante col Belgio, deciderà di mettere la parola fine alla sua disagiata esistenza.

Non si sa se lui ebbe più ‘fame’ d’affetto umano o di luce solare nella sua breve esistenza – non ebbe a che fare col disegno e la pittura prima dei ventisette anni – tese le mani ad ambedue le fonti senza raggiungere mai nemmeno l’anticipo della cosiddetta soddisfazione e così ci furono tele con prati invasi da papaveri oppure con l’ultimo cattivo presagio segnato dai corvi neri (tela-testamento spirituale di Van Gogh del luglio 1890); vasi di fiori tra cui i girasoli, terreni colmi d’ariste per essere falciate, vedute di case dei contadini invase e permeate da quel ‘calore straordinario donato dall’influente astro diurno’ che lui vedeva come il padre che avrebbe voluto, il fratello, l’amico o la semplice consolante estatica divinità soccorritrice. Ora, è in queste poesie rescigniane che s’avverte quel medesimo abbraccio di vampa che può arrivare persino ‘a bruciare le vigne’, tant’è la potenza dei raggi solari specie quando essi allo zenit risultano perpendicolari alla Terra illuminata e in piena estate è facile intravedere strani effetti ottici come «[…] Forse è pietra che arde/ - mi rispondevi quasi dispersa/ nell’intoccabile – forse grande/ cerchio che ci conta gli anni/ e ce li brucia ma io sono ignorante:/ è cosa da libri questa./ È certo cuore di grano/ forza di voli/ verde di piante che hanno/ parole scritte sulle foglie./ È il cristallo dei nostri occhi/ lucidato da speranza/ se guardano lontano/ e sognano l’amore./ Padre dei tempi/ con tristezze e felicità di giorni./ Punto fisso che ci aspetta/ ci attrae: noi piccoli piccoli,/ le spalle curve, soli in compagnia/ di preghiere per trapas-

sare/ il suo spirito e sparire.» (Dalla poesia d’apertura, pag. 19).

Dicevamo delle quattro stagioni da vivere nel lasso temporale di lettura della stessa crestomazia, ebbene, si sa, il sole cambia nell’attraversarle ognuna e così, ad esempio, i raggi solari di settembre sono più obliqui rispetto al periodo precedente estivo, perché agguantano linee di fuga per trascinare l’umanità del nostro emisfero verso giornate più miopi (nell’emisfero australe è al contrario perché subentra la primavera), con meno ore di luce soprattutto dopo l’ultimo equinozio che da l’input all’autunno.

L’autunno, appunto, era l’ineluttabile momento in cui Gianni Rescigno registrava l’aggiunta di un anno alla sua vita – nato il 30 ottobre – e maggiormente sentiva di ‘rinascere’ nel vino, uva che diventa mosto, nell’olio con la macina delle olive, nelle foglie che diventano d’oro e si staccano per sempre, nella terra che diventa più madre e più sola, poiché «Entra ottobre./ Smorza fuoco di scogli./ Con giri di rondini inquiete/ appanna d’ombre le spiagge./ Smania il pettirosso vagabondo./ Dà l’addio di settembre/ a ville inanimate./ I venti non lavati/ quasi inerti/ cambiano cammino./ Di rosso arde il giallo./ S’abbassano le voci./ S’ode tutto respirare./ Respirano le ore/ in spazi enormi di silenzio./ Ore di luna./ Ore di pensiero./ Ore dietro le porte/ della sera…/ Dietro le porte della sera/ pronte a spiare/ il singulto della rana/ che naufraga nel sole/ ancora fuso nelle pietre.» (Pag. 40).

A questo punto, riassumendo, se i nove pianeti ruotano attorno al sole – quando si comprovarono le teorie dell’eliocentrismo venne stravolta l’intera concezione umana e ci fu il meraviglioso evento dell’Umanesimo e del Rinascimento – allora attorno al sole di Gianni Rescigno hanno mulinato persone e cose a lui molto care, anche animali di scarsa importanza coi quali non può esistere l’affezione, il passato e il presente seppure lacunosi, le generazioni in continuo evolversi per succedersi l’una all’altra senza alcuna possibilità di fermare le cose che così sono sempre andate.

«Siamo poveri/ troppo poveri di forze Signore/ per camminare diritti sui dolori./ Siamo vecchi col pensiero che pesa/ l’amore negli occhi: quella lacrima/ ch’ogni tanto ci sfugge/ per brillare un attimo nella luce/ e subito nettata dal dorso della mano./ Siamo carichi di preghiere di parole/ tutto mai pronunciato a voce chiara./ Siamo ciechi ormai/ perché dentro ci splende un altro sole./ Quello tuo Signore/ che si trova alla fine/ e mai pensavamo d’averlo dall’inizio.» (Pag. 32).

È vero, esiste anche soprattutto il ‘sole’ interiore che è la Fede in Dio che ha fatto tutte le cose e per ultimo ha creato l’abitante della Terra, dalla cui costola è nata la sua compagna per non restare da solo. E noi siamo poveri quando non ricordiamo questo che fa parte della nostra genesi.

Dunque, sole e calore sono la stessa cosa: quando s’intravede l’uno di conseguenza c’è anche l’altro come a dire che se c’è la gioventù accanto c’è l’entusiasmo; se c’è il profumo dei fiori allora ci sono gli insetti a svolgere l’impollinazione; se compare l’arcobaleno vuol dire che ha piovuto da poco; se l’indole di un bambino è satolla vuol dire che c’è stato abbondante amore materno e così via.

«T’insegnerò a guardare la luna/ quando il cielo sarà tutto suo/ e i grilli avranno la notte per platea.// Sarà il silenzio a battere le mani:/ noi della terra nascosti dietro/ i fichidindia a spingere lo sguardo/ là dove l’aria scende a palpiti/ lungo i raggi delle stelle.// T’insegnerò che il cielo di San Giovanni/ è fatto di miracoli, che il tempo/ delle vigne e del grano è pronto/ a dare pane e vino alla fatica.» (Pag. 26).

Isabella Michela Affinito

ROLANDO BALLERINI

IL LIBRO DELL’AMICIZIA

Barbera Editore, 2009

Molto antico è il concetto di amicizia, di cui si occupò Aristotele nella sua Etica Nicomachea, nella quale definì l’amicizia strettamente connessa alla Virtù e la ritenne la cosa che maggiormente necessita nella vita, perché a nulla valgono senza l’amicizia beni quali la Ricchezza e il Potere.

Per meglio individuarla è da dirsi che essa si distingue dall’amore perché non ne ha il Pathos e perché questo implica il desiderio e l’eccitamento dei sensi. L’’amicizia non va inoltre confusa con la Benevolenza perché, come dice Aristotele, questa può rimanere nascosta e può dirigersi anche verso persone ignote, mentre l’amicizia comporta una concordia di atteggiamenti pratici, così come la concordia politica. L’amicizia implica inoltre un rapporto di simpatia reciproca e di affinità elettiva tra gli amici stessi.

Dopo Aristotele approfondirono il concetto di amicizia gli Epicurei, per i quali essa sta alla base della loro condotta pratica, essendo una delle manifestazioni della condotta del saggio. Quanto ai romani, Cicerone, nel suo Laelius o De Amicizia, cercò di dare un fondamento etico al concetto di amicizia, sciogliendolo da ogni utilitarismo di stampo politico.

Con l’avvento del Cristianesimo poi, venne dato all’amicizia un valore più esteso, riguardante tutto

il prossimo, il che va ben al di là della concezione aristotelica, che vede nell’amico un altro se stesso.

Di questo argomento si è occupato Rolando Ballerini, in un volumetto dal titolo Il libro dell’’amicizia, contenente delle massime di autori vari riguardanti l’amicizia attraverso i secoli (Barbera Editore, 2009). Le massime qui raccolte contengono tutte una riflessione sull’amicizia e danno luogo ad un’approfondita riflessione su questo argomento, cominciando dal detto di Giovanni Papini, il quale osserva che in ogni nemico potrebbe nascondersi «un amico che sonnecchia», in attesa «dell’ora sua».

Troviamo poi, tra le molte massime della raccolta, un detto di Paul Claudel, per il quale «La chiave di un uomo si trova negli altri» e un pensiero di François de La Rachefaucauld, secondo il quale «si perdonano facilmente agli amici i difetti che non ci riguardano». C’è tra queste massime inoltre una di Baltasar Gracian, secondo la quale «non c’è deserto peggiore di una vita senza amici» e un’altra di Ralph Waldo Emerson, secondo cui «L’amico è la persona davanti alla quale posso pensare ad alta voce».

Sul pensiero della rarità dell’amicizia riflette Marco Tullio Cicerone, osservando che «Ogni uomo può dire quante oche o quante pecore possiede, ma non quanti amici». Una riflessione invece sul valore morale dell’amicizia ce la diede Giacomo Leopardi allorché scrisse: «La virtù è il fondamento dell’amicizia, né può essere amicizia senza virtù».

Per Hazrat Alì «l’amicizia è la parentela più stretta», mentre per Camillo Sbarbaro l’amico è colui col quale «puoi stare in silenzio», che è una riflessione molto profonda. Amaro è invece un proverbio canadese sull’’amicizia, secondo il quale «Se sei amico dell’orso, tieni vicina una scure»; così come lo è quello di Publilio Siro, per il quale «La prosperità genera amici, le avversità li mettono alla prova».

Acuta è pure la riflessione di Lucio Anneo Seneca, secondo il quale «Nessuno può vivere felice se bada soltanto a se stesso. Si tinge invece di poesia la massima di Allen R. Foley, per il quale «La morte di un amico, come la caduta di un pino gigante, lascia vuoto un pezzo di cielo».

Significativo è infine, per un uomo che finirà suicida, l’aforisma di Cesare Pavese, secondo la quale «La massima sventura è la solitudine»

Un’interessante raccolta di massime, questa di Rolando Ballerini, che dà luogo a profonde riflessioni su un tema come quello dell’amicizia, tanto importante per l’uomo che è destinato a vivere in società. MANUELA MAZZOLA

FRAMMENTI DI VITA Tra passato, presente e futuro

Prefazione di Marina Caracciolo, Il Convivio Editore, 2020, € 8,00 pp. 35

Frammenti di vita. Tra passato, presente e futuro comprende trenta poesie di Manuela Mazzola, la quale crea un intreccio di versi nel ricordo del passato, attraverso il presente fino ad immaginare un futuro migliore.

In copertina troviamo un dipinto di Paolo Sommaripa del 2017, La mareggiata, nel quale è raffigurato il busto di una statua classica che simboleggia il passato ed il mare mosso dai venti, che ricorda il sentire inquieto dell’animo umano nel presente e nello sfondo un gabbiano che affronta le intemperie, forse per cercare cibo, nel naturale istinto che porta ogni creatura terrestre alla vita e dunque al futuro.

È presente un forte sentimento di speranza, infatti la poetessa non si scoraggia, la sua anima volteggia come fosse ballerina.

A tratti le poesie sono visionarie: “Mi muovo nella casa/ come fossi alito di vento,/ non tocco il pavimento/ lo sfioro”; oppure: “Oltrepasso il varco/ e dalla parte opposta trovo i miei cari”.

Sembra essere una catarsi: la Mazzola si libera di un passato che sembra avere ancora un certo peso, per tirare, forse, le fila di una vita che è ancora nel mezzo del suo cammino.

“Con un tocco rapido/ getto via l’ultimo granello. Ora il passato non ha più radici nel presente. Conta solo il futuro”.

Nella prefazione Marina Caracciolo approfondisce il discorso: “La vita stessa è vista allora come una realtà frammentata: un quadro costituito dai cocci di uno specchio in cui si scorgono figure disarticolate e moltiplicate, e che però, con costanza e pazienza, si cerca di ricomporre per dar loro un senso, una ragione, un valore che trascenda l’effimero e l’inspiegabile. Anche il futuro è raffigurato come qualcosa di imprevedibile, di oscuro, un segreto che giace sotto un cumulo di ceneri: un territorio in cui però bisogna avere il coraggio di entrare, anche di esservi scaraventati dentro come da un vento impetuoso, per sradicarsi con forza dalle radici delle memorie, per vivere pienamente il presente e affrontare giorno per giorno l’esistenza che verrà”.

Lo stile poetico è delicato e visionario, il ritmo dei versi più lento e soprattutto più maturo rispetto alle altre due sillogi composte in età adolescenziale; il linguaggio rimane sempre semplice, senza retorica e senza inutili orpelli.

La poetessa in ogni lirica esprime le sue emozioni, le paure, le speranze che qualsiasi essere umano prova.

Tra i versi si possono trovare temi attualissimi come la mancanza di comunicazione come in La folla: “Le pareti sono trasparenti,/ ma nessuno vede l’altro./ Ognuno è intento/ a percorrere il suo sentiero”; oppure ne Il mondo capovolto in cui si accenna al femminicidio; oppure le difficoltà che deve affrontare una persona che non vuol essere omologata e dunque appare diversa agli occhi della folla.

Vi sono momenti in cui ci si può ritrovare, come lei stessa descrive, In un altrove: “Sono ferma, immobile/ con due sacchi pesanti/ sulle spalle. /A fatica mi trascino/ passo dopo passo/ e come un’ombra avanzo”.

Ma lasciando andar via le pietre del suo cuore, la poetessa si libera e ritrova all’improvviso nel grigio della polvere un guizzo, una scintilla e si riaccende la speranza, poiché è nella vita stessa che si trova il segreto per vivere serenamente, affrontando le possibili avversità.

Alessandro Baldi

ISABELLA MICHELA AFFINITO

AMICI DI IERI, AMICI DI OGGI…

Bastogilibri – Roma, 2022

Conosco da alcuni anni la poetessa, scrittrice, artista e studiosa instancabile Isabella Michela Affinito, non direttamente, ma attraverso la lettura di una parte della sua vasta, ricca e varia produzione letteraria, che include anche recensioni a vari miei libri (l’ultima su “Con il sommo Poeta Dante”, pubblicata da Pomezia-Notizie nel numero di giugno in corso). Incontro di anime, in cui l’amicizia e la corrispondenza di sentimenti di reciproca stima sono i tratti più evidenti nel nostro rapporto collaborativo a distanza.

Di lei, della sua esuberante vena comunicativa si può parlare sempre in termini elogiativi, in riferimento alla sua condotta comportamentale nei riguardi della cultura, del sapere come anelito inestinguibile ed espansione del Sé interiore.

Ancora in verde età, ha già prodotto una settantina di libri, encomiabili per qualità stilistico/espositiva e varietà di contenuti. Un vero spirito attivo, volitivo, creativo, in cui sono ampiamente presenti e facilmente riscontrabili quegli elementi distivi del saggio illuminato che ha raggiunto la pienezza della sua individualità: amore universale; atteggiamento di solidarietà verso coloro che soffrono; la gioia di condividere l’esistenza e i successi degli altri, l’equanimità nel giudizio di valore della personalità altrui…

La recente pubblicazione “Amici di ieri, amici di oggi” avvalora ampiamente la presenza di queste nobili qualità supreme.

La prefazione reca la firma di una amica “eccellente”: Marina Caracciolo, la quale, con esemplare avvedutezza, mette in rilievo il carattere propositivo di Isabella, la sua fine sensibilità verso tutto ciò che entra, direttamente o indirettamente nella sfera personale di cultrice di affetti profondi.

Dire che Isabella Affinito è sposa fedele del Daimon della poesia è affermare una vocazione preminente nella gamma delle sue disposizioni artistiche, che includono disegno, pittura, grafica, giornalismo, saggistica, critica cinematografica e letteraria. Personaggio eclettico, dotato di tante buone qualità, idee e sentimenti che ha sparso a piene mani nelle tante opere finora pubblicate e che lampeggiano con vigorosa densità nel recente volume, “Amici e di ieri, amici di oggi”, il quale, diviso in due parti, reca in copertina un “lavoro grafico” dell’Autrice, quale rappresentazione di una mensa conviviale, con nomi di amici per i quali è stata preparata.

Amici che sono “altrove”, sparsi per il mondo, viventi o trapassati, ma sempre presenti nell’espe-

rienza culturale e nell’immaginazione della Poetessa, ai quali può relazionarsi in qualsiasi momento e con i mezzi più svariati. La poesia, naturalmente, vibrazione dei più intensi affetti, li accoglie nel suo alone affettivo e simpatetico, ne rivela l’anima angelica, attiva, morale, umana con tutte le caratteristiche che costituiscono l’identità reale e l’integrità sostanziale psicofisica e operativa dell’amico/amica cui l’Autrice apre cuore e mente, privilegia con un omaggio aureo, vergato sulla carta con inchiostro indelebile, eterno: possesso privilegiato delle anime gentili, generose e altruiste. A tanto “slancio vitale”, inteso come libertà di attivare di continuo “il perfetto accordo tra le cose divine e umane”, che in Isabella si traduce in esigenza creativa e corrispondenza di “nobili sensi”, la Nostra aggiunge una lezione teorica di come “dovrebbe essere l’amicizia”, fondata su un tipo relazione che esclude gelosie e competizioni, e si traduce in in rapporto aperto, leale, improntato alla fiducia, alla simpatia e all’affetto reciproco: “Anche sotto una pioggia a / dirotto l’amico vero / aspetta per darti la / sua spalla forte quanto / basta per dimostrarti / la sua sincerità più rara di / un quadrifoglio.

Come dire, che incontrare “un amico vero” è godere di un salutare beneficio, di una “rarità” come il quadrifoglio, assurto, già presso gli Egizi a simbolo di fedeltà, felicità e rispetto.

La prima parte ospita 46 testi poetici, variamente dedicati, in omaggio a persone della cerchia famigliare, a compagne di scuola e d’arte, a famose personalità a cui si sente stretta da un legame reverenziale verso la loro condizione di “mito” popolare acquisita in vita con la loro non comune attività artistico o letteraria. Non mancano “legami speciali” di simpatia con i segni zodiacali, la luna, il vestito “bianco e blu”, gli alberi, la scultura, il Sé interiore, “l’amico senza nome”: agente mentale che guida l’individuo nelle scelte, nei comportamenti e azioni quotidiane e lo dispone all’ascesa al soprasensibile attraverso la forza della volontà, dell’aspirazione al Bene; disposizioni d’animo che fanno capo all’eros e alla bellezza. Innegabile, nella tecnica versificatoria dell’Affinito, la tensione verso un ideale di arricchimento cognitivo e di perfezione umana.

Nella seconda parte sono riportati tre articoli commemorativi dedicati rispettivamente al regista Federico Fellini, all’attrice Franca Valeri e all’attore Gigi Proietti; articoli precedentemente pubblicati sul periodico romano L’attualità.

A seguire, sette interpretazioni “sul tema natale” di Oriana Fallace, Federico Fellini, Giulietta Masini, Marina Caracciolo, Rossella Falk, Gigi Proietti e Anna Magnani.

Chiude la rassegna encomiastica la biografia dell’Autrice, che espone i risultati e i meriti della sua attività professionale.

Un’attività multipla, severa, meticolosa, appassionata quella di Isabella Affinito, spirito libero e investigativo, capace di muoversi nel mondo dei grandi artisti, passati e presenti, ma anche di sapersi rapportare con benignità e sorriso sulle labbra nel mondo dell’anonimato, di penetrarlo e riviverlo in una corrispondenza affettiva, gioiosa, sotto lo stimolo di una franchezza attrattiva, quale armonica, naturale disposizione altruistica.

La sua avventura umana e professionale è sicuramente caratterizzata da una esperienza gratificante, unica, motivata da interessi molteplici, corollari di una cultura strabocchevole, varia e profonda. Non si passa così facilmente da una disciplina cognitiva all’altra, con esiti da encomio, senza il dono e l’illuminazione di una saviezza prodiga e matura.

Antonio Crecchia

ROSANGELA ZOPPI TIRRÒ

LA LINGUA DI ROMA dialetto, proverbi e modi di dire

Prefazione di Filippo Ceccarelli; Gangemi Editore International, collana Linguistica, 2021, pagg. 512

+ 16 tavole a colori fuori testo, € 44,00

Raramente ci è capitato di leggere un volume di oltre 500 pagine - di formato 17 x 24, giustezza 13,50 e carattere corpo nove ad interlinea singola e non provare noia o stanchezza alcuna dall’inizio alla fine. Segno che l’Autrice sa affascinare con la chiarezza, la fluidità del dettato, la leggerezza con la quale porge argomenti non certamente da romanzo; si tratta, infatti, di un corposo saggio sulla lingua millenaria di Roma, che sbagliando chiamiamo dialetto; e la fluidità del racconto e la sua pastosità, Rosangela Zoppi Tirrò riesce a mantenerle anche nei momenti in cui scende nei minimi particolari, nell’esame di ogni aspetto del tema, a tal punto che quasi ogni singolo proverbio e modo di dire risulta vasto e minuziosamente sviscerato da possedere propria autonomia. Ogni brano, cioè, non è spolveratina per darci un’idea; è <<molto più di una semplice elencazione di “modi di dire e proverbi” >>, scrive nella Prefazione Filippo Ceccarelli; ha vita propria ed è supportato da una enorme quantità di fonti documentarie che hanno chiesto un lavoro lungo e meticoloso, che può venire sopportato solo se alla base c’è un amore solido e profondo per la cultura e per la città più bella e più ricca di storia del mondo. Amore dato e ricevuto: <<Vorrei che il lettore – auspica l’Autrice – considerasse questo libro come una serie di brevi racconti tenuti insieme da quel magico sotteso fil rouge che è Roma>>.

Un saggio vasto, colossale, formato da centinaia di tasselli, ognuno dei quali studio a se stante – ripetiamo – e sapientemente cucito.

L’opera è divisa in due parti: la prima riguarda la lingua-dialetto romana sotto l’aspetto tecnico ed evolutivo nel corso dei secoli, fermentata dagli infiniti apporti venuti dall’esterno nel corso dei secoli, Roma essendo stata capitale del mondo e calpestata nel passato, ma anche ai nostri giorni, da gente di ogni nazione, ognuna delle quali ha cercato di parlare il latino a modo proprio, ognuna dando e ognuna ricevendo, in uno scambio che mai si è arrestato e mai si arresta.

“La seconda parte del volume – scrive Zoppi Tirrò – comprende proverbi, ma soprattutto modi di dire, per un totale di 133 voci. I romani, con la loro innata e celebrata arguzia, con la loro ironia e autoironia, con il loro senso pratico del vivere, con la sapienza che deriva loro da millenni di storia, hanno proverbi e modi di dire per ogni circostanza della vita”, e Ceccarelli conclude che “Un filo invisibile lega la prima alla seconda parte, ed è la poesia” .

Trattando della lingua di Roma, l’Autrice ha l’agio di interessarsi di personaggi, poeti e scrittori che hanno contribuito a diffonderla e a migliorarla, presentandoci, quando è possibile, di loro un profilo esauriente, come Adolfo Giaquinto, Giuseppe Martellotti, tanto per fare degli esempi; ma l’elenco dei poeti che incontriamo è assai lungo: Giuseppe Gioachino Belli è senz’altro il più citato; ecco Carlo Alberto Zanazzo; Giggi Zanazzo (caustico e sferzante verso i piemontesi che, col trasferimento della Capitale a Roma, hanno invaso e stravolto la città eterna con il loro agire e, in particolare, la loro parlata: “Si loro so’ Tajani, sor Andrea,/me fo tajà de netto li cojoni!”); il grande Trilussa; Sante Rinaldi, detto Risante (il quale, afferma Zoppi Tirrò, “non farà mai uso del fulmen in clausola, della cosiddetta botta finale, cioè del grasso e facile espediente conclusivo”); Giuseppe D’Arrigo; Carlo Pettrich; Cesare Pascarella; Camillo Fiorentini (Cacarone de Trastevere); Amilcare Pettinelli; Checco Durante; Mario Dell’Arco eccetera.

Rosangela Zoppi Tirrò non si limita ad indagare apporti, poeti e scrittori solo romani, ma deborda piacevolmente nei dialetti di altre regioni d’Italia e a volte va oltre confine, come in Svizzera e altrove. Inoltre, è creativa e stimolante, nel senso che invoglia alla partecipazione, come se anche chi legge potesse contribuire ad arricchirne il testo. Soffermandosi sul modo di dire ”Chiuso Frascati!”, per esempio, e sulla etimologia del termine “tropea” (sbornia e altro), precisa - ma lei non è d’accordo che per alcuni esso sia “di origine greca”. Anche a noi pare possibile, invece, visto che in Calabria, culla della Magna Grecia, c’è perfino una citta di nome Tropea, con un territorio famoso in tutto il mondo per le sue cipolle rosse e molto dolci.

Di molte storielle leggendarie da lei piacevolmente raccontate, a noi, durante la lettura, sono venute in mente altre versioni similari, come quella di marzo che, in origine, aveva 28 giorni e che se ne fa prestare tre da aprile per fregare la vecchia pastora. Ricordiamo una novella assai esilarante letta in una antologia delle elementari, nella quale protagonista era un uomo, vecchio e scaltro pastore. Marzo voleva bagnarlo, ma il guardiano di pecore lo gabbava sempre. Se marzo gli chiedeva: Dove vai, domani, pastore? lui gli rispondeva: Domani vado al piano, e marzo, quel giorno, al piano faceva il finimondo. Il furbo pastore, però, con le sue pecore se n’era andato al monte! Così per tutto il mese, finché marzo, facendosi prestare i giorni da aprile, non riesce a incastrarlo, scompaginandogli le pecore e riducendolo zuppo, fradicio come un Sangilormo (un santo, Girolamo, che, forse, ha a che fare con piogge e tempeste).

Domenico Defelice

TITO CAUCHI

IMPERIA TOGNACCI Memoria e Mito

Introduzione di Isabella Michela Affinito; in copertina, a colori, foto di Imperia Tognacci – Editrice Totem, 2022, pagg. 122, € 15,00

La poesia di Imperia Tognacci è prettamente narrativa e lo dimostra il fatto che le sue sillogi non son composte da brani frammentari, son veri e propri poemi; lei ha il dono del racconto, nel quale ama coinvolgere il proprio io, avviluppandolo e vivificandolo al contatto con la Natura. Tema di fondo nei suoi versi è, perciò, il viaggio, sia esso interiore, metafisico, sia vero o verosimile, ciò che troviamo anche nella sua prosa, nei suoi romanzi, dove i personaggi non sono statici, mai sedentari, ma si muovono e agiscono spostandosi in luoghi diversi e, a volte, anche in nazioni diverse, come fa - un solo esempio - l’Annunziata di Anime al bivio. È un errore, quindi, separare in lei la prosa dalla poesia, così come hanno fatto finora autori e critici pure di chiara fama, i quali, nelle loro monografie sull’opera della nostra Autrice, si sono interessati dei suoi versi, e quasi solo dei versi, ignorando o accennando appena, alla prosa, ai suoi romanzi, ai suoi saggi. Per noi, La notte del Getsemani, Natale a Zollara, Il prigioniero di Ushuaia, Il richiamo di Orfeo, Nel bosco, sulle orme del pastore eccetera, è un errore separarli da Non dire mai cosa sarà domani, L’ombra della madre, Anime al bivio. C’è solo che, nei poemetti, il racconto è più stringato, più asciutto, reso quasi da sole immagini, sprazzi di luce che si attraggono e si respingono e che, alla fine, però, rappresentano, formano il medesimo tessuto dei romanzi, nei quali la Tognacci, invece, ama distendersi, riposarsi, accarezzare, tanto è vero che, anche nel dramma, c’è sempre l’alea del paesaggio, dell’erba, dell’albero, del sole, dell’aria, dell’interiore e della fede che addolciscono se non proprio placano. L’opera di Imperia Tognacci, quindi, andrebbe visitata e scavata in costante parallelo tra versi e prosa, non separando i due aspetti o ignorandone uno quasi del tutto, come – ripetiamo - finora s’è fatto.

Quanto sopra, non ha niente a che fare con questo lavoro di Tito Cauchi, che tratta sia della poesia che della prosa tognacciane senza approfondire né l’una, né l’altra, semplicemente perché non è stato il compito ch’egli s’è dato. Lo afferma lui stesso nella Prefazione: “Si tratta di una scelta sorta senza un progetto preordinato. La monografia non ha la pretesa di essere un vero e proprio saggio” . Ci troviamo, cioè, alla presenza di una antologia di recensioni, tutte sullo stesso autore, che, per ampiezza e natura, ognuna di esse può solo accennare, suggerire, come il critico in effetti fa, spingendosi solo a volte ad adombrare interpretazioni dissimili da quelle che vanno per la maggiore o al momento sotto il suo esame e facendolo sempre con pudore e timidezza, quasi chiedendo scusa.

Il lavoro è da prendere, dunque, come trampolino, spunto per nuovi studi, per scavi più intensi e meno selettivi sull’opera di Imperia Tognacci come su quella dei tanti autori dei quali finora Cauchi s’è interessato: Salvatore Porcu, per esempio, Carmine Manzi, Leonardo Selvaggi, Alfio Arcifa, Giovanna Maria Muzzu, Graziano Giudetti, Silvano Demarchi, Carmelo Rosario Viola, Rudy De Cadaval, tutti autori ancora quasi vergini, cioè inesplorati quasi totalmente e che hanno avuto, però, meritatamente spazio, negli anni, sulle pagine di Pomezia-Notizie, testata alla quale Cauchi non ha mai mancato di offrire la sua generosa firma. Tognacci e gli altri autori tutti frammentati e che attendono lavori sistematici. “Si vivono di riflesso mille vite e in un gioco di specchi ci ritroviamo in altrettanti frammenti – scrive Cauchi -, a volte, difficili da conciliare con la nostra identità. Penso che sia necessario predisporsi all’ascolto di tutte le voci, entrare in sintonia con il mondo circostante: qualcosa guadagneremo. Molte voci non fanno necessariamente coro, ma è possibile distinguere i vari idiomi come identità e ricchezza della moltitudine; rivelano lo spirito dei tempi, l’anima di chi opera e di chi dirige”. Condividiamo. Occorre essere grati, dunque, a questo critico, che ha sempre donato e dona senza nulla chiedere.

Domenico Defelice

GIANNI ANTONIO PALUMBO

POESIA IN CINQUE MOVIMENTI E DUE CONGEDI

Vitale Edizioni, 2022 – pagg. 32, s. i. p.

Gianni Antonio Palumbo è critico attento, che sa investigare con scrupolosità testi letterari; è narratore; è autore di teatro; è poeta.

Per la critica, citiamo il suo recente saggio su Sabatino Lopez, apparso sul semestrale La Vallisa n. 115 del luglio-dicembre 2020, nel quale non si limita all’esame delle opere teatrali di questo autore, ma getta uno sguardo d’insieme sul “teatro italiano (…) tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del XX secolo”, che “non va giudicato sulla scorta della sua portata innovativa sotto il profilo formale” del singolo autore – scrive, infatti, Palumbo -, ma la “attenzione dovrebbe (…) essere rivolta

all’intero teatro tra Ottocento e inizio del secolo scorso e potrebbe essere foriera di gradevoli sorprese”. Nell’indagine, Palumbo occhieggia ad altri grandi del teatro, come, per esempio, Goldoni e Pirandello. Per quanto concerne strettamente l’autore preso in esame, egli afferma che “alla base della Weltanschauung di Sabatino Lopez sembra esserci, prima ancora della goldoniana bonomia, l’impronta del terenziano Homo sum, humani nihil a me alienum puto, con conseguente confidente apertura all’altro e indulgenza verso le debolezze umane”. “Un teatro, quello di Sabatino Lopez –conclude Palumbo -, meritevole, insomma, di una riscoperta, perché, se alcuni testi appaiono ormai datati, sebbene non necessariamente privi di fascino, altri hanno decisamente ancora molto da raccontare, nel loro aderire al movimento incessante della vita, con i suoi paradossi, le piccinerie, lo sgretolio dei sentimenti e l’improvviso baluginare di possibili nuove stagioni”.

Per la narrativa, accenniamo al suo romanzo affollatissimo di personaggi Per Luigi non odio né amore - da noi recensito su Pomezia-Notizie del febbraio 2021-, un giallo, ma non soltanto tale.

Per il teatro, invitiamo a leggere il suo dramma in due atti Le ombre, anch’esso apparso su La Vallisa già citata, ricco di temi e di metafore. La città della scena, Candevari, è la stessa del romanzo, città inventata, qui prettamente agricola, priva di prospettive innovative di vita, dalla quale i giovani anelano andar via, attratti dal luccichio delle luminarie e dal fervore che si intuiscono al di fuori delle mura; una città morta, annichilita dai pregiudizi inculcati e cristallizzati dalle fobie degli anziani, dominata dalla paura allucinante verso coloro che alla città stanno intorno e anelano entrarci. “Gli altri popoli vivono, si riproducono, folleggiano, danzano! – dice il giovane Aldo alla giovane Rosalina – Solo noi ci siamo rinchiusi in questo lutto perenne che non conosce variare di stagioni”. I giovani riusciranno a uscire per breve tempo, attraverso un varco nelle mura momentaneamente poco sorvegliato, ma vi rientreranno terrorizzati dalle Ombre e uno di loro ci rimetterà la vita. Le Ombre sono tutti coloro che anelano ad entrare in città, alcuni dei quali vi riusciranno, sempre attraverso quel varco, e faranno una brutta fine, perché verranno messi a morte senza pietà. Le Ombre sono tutti coloro che emigrano, che fuggono dalle guerre, dalle ingiustizie, dalle prigioni, dalle violenze, che trovano, comunque, violenza dappertutto, che portano, a loro volta, violenza, perché essa è dentro come fuori la città, essendo in ciascuno di noi. “Io so di cosa parlate – dice Cassandra al Pastore e agli altri, una delle ombre entrate in città e che verrà impiccata -. Avete paura delle ombre. Capisco i vostri timori, ma vi sbagliate. Altre ombre hanno distrutto la nostra vita. Guardateci, non siamo figlie della notte. Chiediamo solo di vivere, lavorare, amare, finire la nostra esistenza dolcemente nella vostra terra. Non è, in fondo, quello che chiede ogni essere umano?” Le Ombre sono ciò che in noi si annida e che o prima o poi esce e diffonde il suo veleno; sono le fobie, le apparenze ipocrite, gli interessi e le avidità di tutti gli sfruttatori, anche di chi le Ombre traghetta e che sembra farlo “con amore”, “biondo”, solare come un Dio, di “vent’anni al più”, così come appare ai giovani evasi momentaneamente da Candevari, “bellissimo”, tale che – sono le parole di Aldo -

“Lo avresti creduto un angelo”. “Lo avresti creduto”, perché, in realtà, non lo era!

E veniamo alla Poesia in cinque movimenti e due congedi, nella quale le ombre continuano e vi troviamo anche aspetti di teatralità, se non altro per il variare dei registri del narrato, nel quale si alternano o si mescolano il dramma e la preghiera, con le tante domande fino a sfiorare la concione, ben otto interrogativi pesanti nell’economia dei diciannove versi della prima strofa del “Preludio”. Interrogativi che proseguono, e se ne trovano tanti, ancora. E anche qui, come nell’opera teatrale, metafore e rimandi, richiamando e mescolando passato e presente (“Dove sono le donne di Auschwitz?/…/E siamo noi che non morimmo/e siamo vivi a stento”?), il classico al moderno, la poesia alla narrativa, la musica e la fede (“io,/l’italiano che, salendo da Gerico a Gerusalemme,/non si volse e passò altrove”), a dimostrazione della stratificazione culturale cellulare e sapienziale di Palumbo. Si va per cenni, certo, ma la poesia vuole questo, accennare più che narrare, proporre, suggerire e, così facendo, stimolare la fantasia del lettore, costretto a riempirne i vuoti.

Poeta civile e sociale, Palumbo non teme di sfiorare la retorica pur di colpire e lasciar segno. Troviamo nei suoi versi tutti quelli che sono i mali più pestiferi dell’uomo moderno, tutti provenienti dal suo interiore; ma non mancano i suoi aneliti e le capacità di riscatto, basta solo che lo si voglia e si persista nelle volontà fino alla vittoria, facendo emergere, finalmente, e trionfare i “reami/di luce” che ristagnano e rischiano di imputridire in ciascuno di noi, perché noi veniamo dalla luce, siamo polvere di stelle.

L’indifferenza, secondo Palumbo, non alberga soltanto in tutti noi, ma anche nella Natura, se è vero che mentre si svolge il calvario e la tragedia, “per le strade profumava il gelsomino”. È, dunque, una indifferenza generale, concreta, stratificata,

spietata; “È la cancrena di quest’occidente marcio” del quale facciamo parte. È che tutti, proprio tutti, abbiamo perso l’anima. L’Italia di oggi è più serva di ieri, dedita alla prostituzione, all’edonismo, a turpitudini d’ogni genere, non solo materiali, segue le mode non virtuose, “un’Italia urlante impietrita/che ha svenduto il suo candore al maestrale”, a un vento che non le appartiene, che però non respinge, o non può respingere, perché coinvolta nelle Ombre come tutte le altre Nazioni. Sta sempre a noi decidere, alla nostra volontà di resistere. Se ce la faremo, le avversità, le insidie, non mancheranno di tentarci e cercar di annichilirci, ma le Ombre si sbiancheranno e anche se “Costeggeremo polle di fango/(…) saremo più lindi” .

Tra i temi di peso è giusto ricalcare, prima di chiudere, la prostituzione, con la povera donna libica costretta “sul ciglio delle (nostre) strade”, trattata come “Un cane che non vuole scodinzolare/e deve farlo./Che non desidera piacere/e deve studiarsi di piacere”; e l’odio raziale, che alberga in ciascuno di noi anche se non sembra, giacché, in realtà, tutti “Siamo (…) uomini, fuscelli al vento,/che bruciano ai roghi della vanità” .

Non si direbbe, ma c’è questo e tanto altro ancora, in questo spillato di Palumbo. Pomezia, 16 agosto 2022

Domenico Defelice

MANUELA MAZZOLA

PAOLO SOMMARIPA pittore dell’Arte Immaginaria

Prefazione di Claudio Vannuccini, Il Convivio Editore, 2022, pagg. 160, € 20,00

Carta patinata, riproduzione a colori e a tutta pagina di 34 opere dell’artista (undici per il Sacro; undici per l’Umano; dodici per la Natura) e una esposizione lineare, senza retorica, compongono il volumetto – il secondo riguardante la pittura – che Manuela Mazzola ha voluto dedicare questa volta all’artista romano Paolo Sommaripa (nato il 26 gennaio 1959), cittadino pometino dal 1983, dove lavora e dirige una scuola d’arte figurativa.

In lui – scrive la Mazzola –“il pensiero si fonda con la fantasia creando dipinti che prendono spunto dalla realtà e rivisti mediante le ali dell’immaginazione”; “In lui – continua l’Autrice – si uniscono l’agire e l’agito secondo una dinamica di molteplici flussi prodotti da altrettanti significati, provenienti da habitat culturali vissuti nel tempo e modificati attraverso il divenire di esso”. Realtà, fantasia, habitat: sarà senz’altro così; ma noi non conosciamo il pittore e, al di là di un’ottima mano, ci sembra, alla luce del solo qui riprodotto, che, in Sommaripa, del descritto Sommaripa ci sia poco e molto, assai molto, di altri artisti del pennello, lontani e vicini a noi. L’augurio è che noi ci stiamo sbagliando, ma abbiamo qualche dubbio che i suoi lavori – come egli stesso afferma – siano “tutti di pura fantasia” e che non abbia “mai seguito le correnti”. Le Madonne qui riprodotte sono quelle bizantine e di pittori italiani e stranieri nei secoli, sia nella postura, come nei paludamenti, come nei colori e nella loro stesura, sia ancora nei lavori sulla Natura, che suggeriscono Sironi – è quello che ci spunta sulla pena - e non solo.

Manuela Mazzola dà ampio spazio ai giudizi di molti sulla pittura di Sommaripa. Fattino Tedeschi, per esempio – di sicuro, il figlio del caro e indimenticabile amico poeta futurista Geppo Tedeschi –, evidenzia i “Colori, armonie di trasparenze, bellezze di forme che parlano di spazio, di passato, di ricordo antico dai profumi lontani che, solo la memoria di questo artista riesce a mettere in moto, esercitando col suo stato emotivo il ritorno alla bellezza di quel tempo”, e Moira Di Mario, de Il Messaggero, nel 2009 testimonia che Sommaripa è “Un maestro non solo di arte, ma anche di vita che ha dato tanto alla sua città. Spesso incompreso, ma mai arreso davanti alle difficoltà. Ed è proprio quell’energia e quell’entusiasmo che lo hanno spinto ad andare avanti, a proseguire il suo cammino, a contraddistinguerlo e a rendere i suoi

quadri sempre freschi, giovani”; Bruno Lanzalone, infine, scrive che “La figura è fondamentale nell’arte di Sommaripa, che, legato al mondo e alla storia, sembra, tranne rare eccezioni, rifuggire da astrattismi e si lega profondamente al figurativo”. Lanzalone è, comunque, uno dei pochi che, come noi, trova evidenti derivazioni nell’arte di questo pittore.

Domenico Defelice

CARLO TOSETTI

LA TEORIA DEL TRANSATLANTICO

Edizioni Cofine, 2022, Pagg 44, € 7,00

Il poema, La teoria del transatlantico, è composto da sette libri, ognuno dei quali da sette componimenti con sestine di endecasillabi, di cui il terzo e quarto verso in rima baciata. Si tratta di un'allegoria; si narra, infatti, una storia nella cui trama s'intrecciano numerosi simboli e vicende. “L'allegoria della nave – scrive nella prefazione Anna Maria Curci - per l'esistenza e l'organizzazione della comunità umana, alle prese con lo scorrere della storia da un lato e le scelte individuali dall'altro, ha uno sviluppo che ha gettato le sue àncore in posti molto distanti nel tempo”.

Lo stile ricercato, grazie all'uso di un linguaggio non comune, tratta fatti crudi, considerazioni e critiche alla modernità come l'utilizzo di macchinari che vanno a sostituire l'uomo, il potere di pochi, la sottomissione dei più bisognosi, ma anche il classicismo e l'importanza del donare. Temi raccontati con eleganza e schiettezza. Un poemetto di trentaquattro pagine denso di riferimenti storici, di fatti che lasciano riflettere il lettore. Tra i versi emerge anche l'apparenza quale simbolo di una società, che se non è corrotta, sicuramente è collusa, finge e si compiace di ciò che fa mentre “nulla cambia dell'apparente ardore/ d'opulenza che solchi a trenta nodi,/ dell'inganno d'un lusso che consoli [...]Cela la lingua d'aristocrazia,/ - dietro ai modi affettati nella sala, / dietro alle piccole opere impiattate -/ fatiche più di quanto figurate:/ estinta l'aria dai perenni fuochi, / dei girarrosti e forni la fornace […] Come a ogni rispettata società/ spetti il lucro, questo anche è il navigare: / finché il belletto regge la finzione,/ a spingere la nave è l'addizione/ dei singoli biglietti e l'investire/ ricchi soci l'ingente capitale”.

Il termine apparente, (che sembra ma non è, che è solo in superficie o particolarmente falso) occorre cinque volte nel testo ed è la parola chiave attorno alla quale gira la teoria.

Sono uguali la nave e la teoria: essa persiste indoma, anche se muore. La nave, la teoria e la società: dall'elegante linguaggio all'aspra critica a questa nostra comunità, la quale ha gettato le sue basi diversi secoli fa e che non è ancora pronta a cambiare rotta nonostante il pericolo imminente.

L'autore ha pubblicato, inoltre, Le stelle intorno ad Halley (Libroitaliano, 2000), Mus Norvegicus (Aletti 2004), Wunderkammer (Pietre Vive 2020). Ha vinto numerosi premi ed è presente su riviste e lit-blog con recensioni e scritti.

Manuela Mazzola

ROBERTO COSTANTINI

IL CANTO DEL TEMPO

Genesi Editrice, 2022, Pagg. 134, € 14,00

Il canto del tempo. Cos'è un canto? E' l'esecuzione vocale di una melodia o di un ritmo, ma anche un componimento poetico; e il tempo? E' la percezione e la rappresentazione della modalità di successione degli eventi e del rapporto fra essi. Dunque, il poema di Roberto Costantini può essere definito come la poesia che racconta la vita.

Da questo viaggio sono ritornato nuovo, a tutti gli effetti. Non ho avuto necessità di immergermi fino al fondo dell'abisso per poter fare esperienza del sublime, per sentirmi parte di quanto mi circonda al punto da farmene attraversare.

Un viaggio nei ricordi della vita, forse dolorosi, ma senza rimpianti. Nel tempo e oltre, malgrado i vapori di sangue e malgrado ritorni quel tuo gesto empio ad aggredire l'infanzia mia. Il sole tuo malgrado risorge.

Nonostante le difficoltà, la sofferenza causata dalle azioni e dalle decisioni di altri, la vita del poeta è andata avanti, guardando a ciò che resta di positivo e sentendosi parte integrante della natura, dei suoi odori, dei suoi frutti: “Odora dentro forte/ la prima pioggia grigia”; Portami là dove canta/ il verde incendiato d'acqua; e senza te io i boschi/ non li vedo e non li vivo/ non li respiro come vorrei/ come li sogno […] Amo perdermi/ quando scocca settembre/ nelle ampie nebbie lacustri. Nessun rimpianto, oggi, nel crocicchio,/ nessuna necessità di consolazione./ Solo bellezza, un respiro”.

Il mondo – scrive Sandro Gros-Pietro nella prefazione - è tutto ciò che esiste nella realtà e che ricade sotto la sperimentazione dei nostri sensi, ma anche aumentato a dismisura da tutto ciò che esiste unicamente nella nostra fantasia. A questo indirizzo, si trova la poetica di Roberto Costantini, contenuta in Il canto del tempo, ma già in fieri nel suo precedente libro”.

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