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24 Hour Pizza People - Una passeggiata tipografica - 24hpizzapeople.com
Le lettere non comunicano soltanto il messaggio che possiamo leggerci sopra. Le lettere hanno anche un sapore, trasmettono qualcosa, possono addirittura suonare: c’è una designer — Sarah Hyndman — che si occupa di psicologia della tipografia e tiene laboratori durante i quali chiede ai partecipanti di indovinare il tipo di musica incisa su un vinile, avendo come unico indizio un carattere tipografico attaccato al posto dell’etichetta del disco. E non è così difficile: ci sono lettere dure e lettere morbide, lettere jazz, lettere metallare, lettere soul. I caratteri, che siano stampati, incisi, fusi, battuti o dipinti, raccontano storie.
Bologna ha avuto e dato tanto alle lettere. A Bologna c’erano i Glossatori, i giuristi che tra il XI e il XII secolo, all’interno dell’Università, annotavano i testi di diritto, apponendo commenti manoscritti a margine o tra le righe della pagina. Erano talmente celebri che ancora oggi, in Piazza Malpighi e in Piazza San Domenico, si possono ammirare dei mausolei a loro dedicati. A Bologna è stato scritto il “Liber Paradisus”, il libro che nel 1256 abolì la schiavitù e proclamò— prima città in assoluto a farlo — la liberazione dei servi della gleba.
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Fu un Bolognese, l’orafo e punzonista 1 Francesco Griffo, a inventare, a cavallo tra il ‘400 e il ‘500, il corsivo tipografico. Da Bologna arrivava anche Francesco Simoncini, che progettò il Garamond Simoncini, utilizzato da Einaudi e molte altre case editrici per i loro libri.
E poi ci sono le lettere della strada, quelle delle insegne e dei numeri civici, dei tombini e dei cartelli. Il designer e storico dell’arte inglese James Clough — autore del libro “L’Italia Insegna” (Lazy Dog, Milano, 2015) — le chiama scritte urbane. Tali scritte riflettono la società che le ha prodotte, parlano di una città e di ciò che è stata. Le targhe, le vetrofanie e le insegne storiche italiane, quindi, possono anche essere molto diverse da quelle di Parigi, ad esempio, di Barcellona 3 o di Londra. «Le migliori insegne inglesi — scrive Clough — tendono a essere più “borghesi” e molto più prevedibili del miglior lavoro italiano».
Basta passeggiare, soprattutto per il centro storico, per trovare segni del passato attraverso le lettere. Il modo in cui sono state scritte, lo stile, il colore, il supporto sul quale sono disegnate, il materiale con cui sono costruite: ogni elemento dà indizi temporali, anche molto precisi. Indizi che inevitabilmente si intrecciano con la Storia e con le storie, quella dell’arte, dell’industria e dell’economia, dell’urbanistica, della manifattura, e di tutte le persone che ci sono dietro. In questo mio viaggio nel tempo — che ovviamente non può essere esaustivo vista l’abbondanza di materiale visibile in città — ho deciso di non preoccuparmi della cronologia ma di seguire un itinerario più o meno casuale, da flaneur, tra luoghi del cuore e della memoria e quelli che più mi hanno incuriosito in anni di passeggiate per la città.
Comincio dalla periferia, dal mio quartiere, il Navile. Più precisamente dal Parco della Zucca. Qui, su due lati di un palazzo signorile dell’800, si può ancora leggere TRAMVIE DI BOLOGNA, scritto in grandi lettere di metallo. In quella che all’epoca era una zona piena di orti, nel 1880 venne costruito da un’azienda belga il deposito della tramway. Prima trainati da cavalli e in seguito elettrici, i tram rimasero lì fino al 1963.

L’arrivo del tram fu solo uno dei motivi di vanto della città, che tra la seconda metà dell’800 e gli inizi del ‘900 visse un grande periodo di rinascita civile, economica e artistica dopo le guerre d’Indipendenza. È allora che vennero dipinte, scolpite, soffiate, battute molte delle insegne storiche che oggi si possono ammirare in centro, sempre più spesso fotografate da appassionati e catalogate su piattaforme come Instagram.
Nel 1860 venne addirittura istituita a Bologna una Commissione d’Ornato che, prima di essere abolita, nel 1910, aveva il compito di «tutelare gli elementi e i motivi architettonici presenti nelle strade, nelle piazze, nei palazzi», come scrive Alessandro Molinari Pradelli nel libro “Bologna in vetrina. Dall’Unità d’Italia alla Belle Epoque” (Cassa di Risparmio di Bologna, Bologna, 1994), che prende in esame proprio quegli anni. Secondo Pradelli, che ha svolto numerose ricerche e riporta nel libro disegni e fotografie, è agli artigiani che va il merito dello splendore artistico e decorativo di quell’epoca. La gran parte delle vetrine e dei manufatti è andata purtroppo perduta. Degli esempi che ancora rimangono, invece, in molti casi a perdersi è stata la memoria. Pochi, pochissimi, anche tra le rare attività che esistono ancora nei luoghi in cui sono state per decenni,

Ciò non toglie che, per chiunque abbia la curiosità e la voglia di guardare e cercare (magari con l’aiuto della sezione “Botteghe Storiche” sul sito turistico Bologna Welcome), il viaggio nel tempo possa offrire belle soddisfazioni. Si può immaginare di entrare nell’Albergo Diurno Cosbianchi, che ha chiuso nel ‘98, ma l’insegna del 1911 con decorazioni floreali in stile liberty è tuttora al suo posto, accanto al voltone del Podestà, insieme ai prezzi per un bagno o un tavolo da scrittura. Si può poi andare a bere un caffè al Bar Vittorio Emanuele (oggi un più signorile Caffè Vittorio Emanuele) lì vicino, magari prima di andare a vedere uno spettacolo al Teatro Modernissimo, in Piazza Re Enzo, con l’insegna a mosaico, sotto la quale ora c’è un altro negozio di abbigliamento. Oppure andare, con la mente, ad acquistare i tessuti da F. G. Pasquini, nella stessa via IV Novembre della cappelleria di mio padre. O ancora, chiedere le carni bovine e ovine di Baraldi nel negozio di lusso che ora c’è al suo posto in via Clavature. Quest’ultima, e il dedalo di vie e vicoli chiamato Quadrilatero, è forse l’area a più alta densità pittogrammi ben più moderni di lettere dal passato della città. Sono decine gli esempi, ed è sufficiente anche una breve passeggiata per accumulare stili, epoche, materiali, differenti gradi di abilità (perché non mancano gli esemplari un po’ più rozzi, ma ugualmente interessanti). Qui c’era la Cartoleria e Legatoria di Libri con Fabbrica di Registri all’Insegna del Palombo, chiusa pochi anni fa. C’erano, dal 1831, gli articoli casalinghi di Giulio Schiavi. C’era l’Ottica A. Paoletti, sulla cui insegna si può vedere quella che probabilmente è firma del pittore: Boschi Zuin. C’era la ditta Primo Garagnani, con uno splendido esempio di insegna in ceramica faentina. C’era — e c’è ancora — la Bottega della Luce, che non è l’unica ad essere rimasta al suo posto, riallineando gli assi temporali. Basta girare l’angolo in Via Drapperie per trovare l’Antica Aguzzeria del Cavallo, che esiste dal 1783 e si chiama così perché un tempo si potevano affilare le lame grazie a una mola tirata appunto da un cavallo. Poco oltre, la Pescheria Brunelli, che risale al 1924 e che James Clough, nel già citato “L’Italia Insegna”, inserisce tra le «scritte insolite ed eccentriche». E poi Atti, con le specialità bolognesi e l’ottimo pane (definito addirittura Pane di lusso sull’insegna originale dell’800), gestita dalla stessa famiglia per cinque generazioni. Subito accanto, la Ditta A. F. Tamburini, dal 1932 celebre in tutto il mondo per salumi e tortellini. Tamburini, come Atti, l’Antica Aguzzeria, la Pescheria e molte altre, ha resistito ai terribili bombardamenti che la città (una tra le più colpite) ha subito durante la Seconda Guerra Mondiale, a partire dal 1943. Di quel periodo terribile rimangono esempi di un’altra tipologia di lettering: i pittogrammi, che segnalavano i rifugi antiaerei e i numeri per chiamare le squadre di soccorso. Su alcune colonne, lungo via Indipendenza si possono ancora vedere le V che segnalavano i condotti di ventilazione. In Strada Maggiore una C sta a significare che lì c’era una cisterna temporanea, che poteva essere utilizzata dai Vigili del Fuoco. In Vicolo delle Dame una freccia indica la presenza di un rifugio in Via Castiglione. Un segnale simile, in Via Benedetto XIV, convive con Altre frecce, in Vicolo Fantuzzi, avvertono della presenza di uscite di sicurezza, che venivano marcate pure con le lettere US, come quelle che si possono ancora vedere su una colonna di via Santo Stefano. Lungo la stessa via, al numero 45, vicino alla fermata dell’autobus, una scritta fornisce un indirizzo (Via Zamboni 13) e dei numeri di telefono per le richieste di soccorso. Passandoci davanti, ogni volta mi viene voglia di provare a chiamare. Chissà, qualcuno risponderà dal passato? Improbabile. Ma a parlare — lo ripeto — ci sono comunque le lettere. Parlano dai vecchi numeri civici, incisi in tanti stili differenti (compresi quelli che si possono ammirare sulla pavimentazione dei portici, davanti ad alcuni ingressi), che raccontano di una città organizzata in maniera completamente diversa rispetto a quella attuale. Parlano dalle tante fogge (e epoche) delle targhe che vietano l’affissione. Parlano dai tombini, gli anonimi tombini, anch’essi però, per chi presta attenzione, forieri di scoperte, tra pattern e lettere molto interessanti. Parlano da una bizzarra incisione — INQUILINI — sopra a un campanello in Via Castiglione 41. Parlano dalle insegne Posta e Telegrafo, alle quali quasi non si fa caso, sulla facciata del Palazzo delle Poste, inaugurato nel 1911 in Piazza Minghetti, mentre poco lontano, nell’adiacente Piazza del Francia, un orologio all’angolo con Via Castiglione ricorda le catastrofi che la grandine provocò nelle campagne bolognesi a fine ‘800. La struttura dell’orologio riporta infatti la scritta LA REALE GRANDINE, una compagnia di assicurazioni fondata proprio a Bologna nel 1891.

A proposito di orologi, in via Santo Stefano c’è un negozio molto curioso, Al Pêndol, un’oreficeria e orologeria in cui lavorava l’artigiano Giuseppe Fini, che il Corriere ribattezzò l’Hugo Cabret di Bologna. Fini, infatti, che cominciò in quella stessa bottega come fattorino negli anni ‘40 e che poi rilevò l’attività, nel ‘79 ha rifatto tutti i meccanismi dell’orologio più importante della città, quello di Palazzo d’Accursio, occupandosi poi della sua manutenzione per decenni. Ora il negozio è gestito dalla figlia. Passato il testimone, le storie continuano. Talvolta basta entrare e chiedere. Come nell’Antica Farmacia dei Servi, vicino alla Chiesa di Santa Maria dei Servi, dove mi hanno raccontato che l’insegna è probabilmente degli anni ‘30 ma un tempo in quello stesso spazio c’era l’ingresso dei cavalli che si recavano all’interno del palazzo. Poi, prima di diventare farmacia, venne trasformato in caffè chantant. Le decorazioni sono ancora lì, e chiunque entra ad acquistare un farmaco può immaginare di riviverne l’atmosfera.
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