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Chi è Stato è Stato Alessio Pracanica

Chi è Stato è Stato

Alessio Pracanica

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Molti di noi hanno ancora negli occhi le immagini del 27 luglio 1992, i funerali della scorta di Paolo Borsellino. Pubblici, a differenza di quelli del magistrato, che la famiglia scelse di celebrare, non a torto, in forma privata. Ricordiamo il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, sottratto a stento alle ire di una folla inferocita. I fischi e gli insulti contro la classe politica. Lo sgabello, con fregi papalini, lanciato da un agente in borghese contro il capo della polizia Parisi e fermato al volo, in zona cesarini, dalla provvidenziale mano di Giuseppe Ayala. Uomo di riflessi pronti, più che di ferrea memoria. Segnali forti, squillanti, inequivocabili. Di una tanto sospirata riscossa nazionale. Di un paese e di una Sicilia finalmente stanchi, dopo anni di incontrastato dominio mafioso. Riscossa solo apparente, sognata forse. Ché terminato lo psicodramma, il tutto si risolse nel solito abuso toponomastico. Vie, corsi, strade, piazze, rotonde, svincoli, rondò. E poi scuole, caserme, uffici, financo palazzetti e palestre. Ognuno con la sua bella targa, in candido travertino, con la scritta Falcone o Borsellino. Oppure Falcone e Borsellino. Insieme, together. Come Batman & Robin.

Sullo sfondo, l’insicura certezza dell’arresto di Matteo Messina Denaro. Continuamente dilazionato come la rivoluzione di Gaber. Oggi no, doni forse, ma dopodomani sicuramente. A distanza di trent’anni, possiamo serenamente affermare che ogni problema è stato riposto. Rimosso e obliato. La mafia, bontà sua, ha rinunciato alla strategia stragista. Rifugiandosi in un’invisibilità che, nella generale percezione, viene spesso interpretata come ritirata, indebolimento, se non addirittura scomparsa. Dimenticando che le mafie sono più forti proprio quando non si vedono. L’assenza di sagome in gesso sui marciapiedi e di sirene ululanti significano solo che ogni torta viene equamente divisa. La macchina corruttiva è

ben oliata, la roba arriva puntualmente e gli appalti vanno a chi di dovere.

Che non c’è nessun valido motivo per sparare. Quanto a Matteo Messina Denaro, invece di confidare realisticamente che un bel dì decida di autopensionarsi, come i suoi predecessori, si continua a millantare un suo futuro arresto. Quando? Domani forse no, ma dopodomani… Cose dette, ridette e risentite, con ormai ben poco risentimento, da parte degli ascoltatori. I tempi del lancio di sgabelli sembrano lontani come il ratto delle Sabine o le guerre puniche. More solito, ci si limita ad auspicare ferme risposte e severe punizioni. Senza un’idea, un’ideuzza, un’ideuncula per contrastare una criminalità che invece si

aggiorna con il tempismo e la puntualità di un manager. Come quella, per esempio, che ebbe Giovanni Falcone, di colpire le mafie nel più sensibile dei punti, il portafogli. La pubblica opinione, felicemente assuefatta ad ogni genere di narrazione, assiste placida anche a teatrini degni di ben altre tragedie. Come la famigerata trattativa statomafia. Ci fu? Non ci fu? Giammai! Che le Istituzioni, alte e solenni, certe cose non le fanno. Oppure no! Alt! Ci fu, ma per nobili motivi, cristiane motivazioni e pii desideri di non violenta pacificazione. E l’autore? O gli autori? E la strategia della tensione, i servizi deviati, i concorsi

esterni, Provenzano che attraversa lo Stivale in ambulanza per operarsi in Francia, le agende rosse, le intercettazioni distrutte, i papelli? Sull’argomento potremmo affermare tutto e il contrario di tutto, stante la nebbia, greve e trasparente, che aleggia sui fatti. Permettendo agli ipovedenti volontari di non vedere. Dopo trent’anni resta un solo fatto, certo e incontrovertibile. Chi è stato, ha enormi responsabilità. Chi non lo è, pure.