Maxim | Tribù Metropolitane | Carlo Gambardella

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!"#$%&'"# ()*" Viaggio nel mondo incantato delle Drag Queen attraverso le storie di cinque ragazzi che, attraverso il coraggio della loro scelta, hanno cambiato la loro vita. di Carlo Gambardella foto di Piero Capannini e Riccardo Ghilardi

Non esiste un motivo preciso per cui si sceglie di diventare drag queen. C’è chi lo fa per lavoro, chi per gioco, chi per riuscire ad esprimersi, chi per completarsi, chi per semplice inclinazione. In ogni caso, questa seconda identità finisce col rappresentare, per ciascuno di loro, una seconda opportunità. Per vivere una vita più felice, ogni giorno, come in una favola.

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Francesco aka “Tekemaya”

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Dario aka “Eva Paradis”

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FRANCESCO aka “

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Roma, ore 10. Nei pressi del Gazometro, moderno Colosseo simbolo dell’ex quartiere industriale, la città sembra ancora addormentata. Anche nella camera da letto di Francesco, dove le serrande abbassate lasciano filtrare appena qualche debole raggio di luce, la sveglia sta suonando a vuoto da un bel po’. Nella penombra s’intravede un vestito impreziosito da tante piume e paillettes e, in ordine sparso, un numero imprecisato di scarpe, cappelli, parrucche e collane. Un caos che Francesco ama definire il suo “disordine buono”. Eccolo, Francesco. Avvinghiato al letto e ai suoi inseparabili quindici cuscini, dopo un’intera notte di lavoro in discoteca come Drag Queen nei panni di “Tekemaya”, con gli occhi ancora chiusi sta provando a disinnescare quella diavoleria che gli sta bombardando i timpani. Richiamate dal trambusto, arrivano sul suo letto anche Mariuccia e Anna, il suo cane e il suo gatto. “Ce l’avete tutti con me, stamattina?”. È la resa finale, hanno vinto loro. Fa uno sbadiglio e, con un pizzico di nostalgia, torna con la mente ai tempi in cui, nella sua amata Puglia, mamma lo coccolava ogni mattina portandogli a letto l’impareggiabile caffè salentino. Infine si alza e, spalancando la finestra, permette alla luce del sole di restituire tutti i colori alla sua stanza. Con aria compiaciuta si guarda intorno e ammira la parete zebrata, i quadri in stile pop art, le tante foto dei suoi amici e, esposto in bella mostra, l’autografo

Nico aka “She-Male”

con dedica ricevuto da Loredana Berté. E poi, ancora, la poltrona rossa, le tante sedie dai colori sgargianti e la sua Barbie “Wonder Woman”, un regalo speciale che custodisce gelosamente da anni. Gli tornano subito in mente le parole di suo fratello: “In questa stanza ti manca soltanto il prato inglese e una fontana. Poi, c’è davvero tutto…”.

Ci pensa su e scoppia a ridere da solo. Poi prepara la colazione e, ascoltando le note di “One night only” di Jennifer Hudson, finisce col commuoversi: il suo essere Francesco di giorno e Tekemaya di notte, inesorabilmente, gli impedisce di portare avanti una relazione in modo stabile. Ma la tristezza dura appena il tempo di una canzone: sa che il mondo magico e colorato delle Drag Queen è la sua dimensione ideale, l’universo parallelo che ha sempre sognato, l’unico posto in cui

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sa che non s’imbatterà mai in pregiudizi o ipocrisie. Chi ama Francesco deve amare anche Tekemaya. Prendere o lasciare…

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NICO aka “

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Palestrina, ore 16. Tessuti arrotolati in attesa di essere utilizzati, abiti già realizzati e poi accantonati, manichini prestati ai più svariati esperimenti sartoriali. Raggruppati in un angolo, invece, nastri, passamanerie, strass, paillettes, nappe e sbiechi. Poco distanti, macchine per cucire e ferri da stiro, cesti ricolmi di gomitoli di lana e bobine di cotone dai mille colori. Sul tavolo da lavoro, infine, forbici, strisce di tessuti tagliuzzati, schizzi, gomme per cancellare e matite per disegnare e apportare

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Alessandro aka “Toygirl”

correzioni. Passeggiando all’interno del suo laboratorio, Nico ripensa con orgoglio a quanta strada ha fatto in così pochi anni. Sembra ieri quando, approfittando dell’assenza di sua mamma, gironzolava per la casa alla ricerca di lenzuola vecchie per fare pratica, furtivamente, con la sua macchina da cucire. Un rapido controllo dei materiali a sua disposizione e, con una doppia mandata di chiavi, chiude la serratura del suo laboratorio per recarsi presso uno dei magazzini in cui è solito andare a rifornirsi.

Entrando dentro e fissando i suoi scaffali alti e ricolmi di ogni ben di Dio, con un po’ di emozione ripensa a quando, a soli 17 anni, ci veniva in compagnia del costumista della compagnia teatrale in cui recitava: già allora, il solo pensiero di toccare stoffe e farle svolazzare lo faceva impazzire. Oggi, quello che era cominciato come gioco, è finito col diventare il suo lavoro. Il suo essere Drag, invece, è nato semplicemente come un’opportunità per mostrare in giro le sue creazioni sartoriali, dopo un periodo di scontri interiori che lo hanno portato a prendere coscienza della sua omosessualità. È così che è nata “She-Male”, il personaggio ambiguo ed androgino che porta in scena

da quattro anni, una creatura elegante ed aggraziata ma dal carattere e dalla presenza scenica molto forte. Sono le 18, Nico rientra nel suo laboratorio e ripone sui suoi scaffali i materiali appena comperati.

Si ferma un attimo a pensare e si domanda, in fin dei conti, quanto valore può mai avere l’identità sessuale di un individuo rispetto alla sua anima. Afferra un manichino, gli fa girare intorno un coloratissimo foulard, lo abbraccia e volteggiano insieme, danzando sulle note melodiose di una sinfonia che solo lui, adesso, riesce ad ascoltare.

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DARIO aka “

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Roma, ore 22. “Che abbiano inizio le danze e la mia trasformazione!”. Dario è fatto così: in un attimo riesce ad attirare l’attenzione su di sé, uscendo improvvisamente dall’anonimato e diventando il protagonista assoluto della scena. Ancora ansimante per le scale percorse in tutta fretta, appoggia le sue valigie nel camerino del locale dove, tra due ore, dovrà vestire i panni della Drag Queen “Eva Paradis”. Un paio di click e sfodera subito quello che è solito definire

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Davide aka “Fuxia”

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livello mentale. Non le resta che puntare dritto al principale obiettivo che si è posta stanotte: riuscire a diventare più bella di una donna, quasi una creatura magica. Con cura maniacale, inizia a lavorare ad ogni dettaglio del suo viso. Poi, una volta completato il maquillage, provvede a fissare il suo lavoro con un’ultima spruzzata di lacca. Infine, dopo aver condiviso una sigaretta con le sue colleghe, con un gesto spontaneo imprigiona le sue labbra in un rossetto deciso e si ferma ad ammirare il risultato finale. Guardandosi allo specchio, Eva fissa gli occhi di Dario e prova una sorta di tenerezza nei suoi confronti: ripensa a quel ragazzetto magro che anni fa a Siracusa, deriso da molti suoi coetanei, trovò il coraggio di trasferirsi a Roma per inseguire il suo sogno di diventare ballerino. Nel suo sguardo, nonostante il

Alessandro aka “Toygirl”

Dario aka “Eva Paradis”

il suo “arsenale”: pennelli, trucchi, ciprie, ciglia finte, glitters e tutto ciò che potrà essere utile alla sua trasformazione. La fase del trucco, per lui come per ogni Drag, rappresenta il momento più impegnativo in assoluto: è lo spazio di tempo in cui Dario lascia lentamente il posto ad Eva, l’attimo in cui la sua parte maschile libera quella femminile. Un momento di gioia pura che trascorre in simbiosi con Tiffany e Tascia, le altre Drag con cui lavora ormai da anni.

Con loro due vive un rapporto privilegiato: ognuna si prende cura dell’altra come se fossero una sola persona. Pochi minuti ed Eva è già riuscita a cancellare dal suo viso, facendo abbondante uso di fondotinta, tutti i tratti maschili: ora anche le sue mani si muovono in modo femminile, segno che la trasformazione è avvenuta anche a

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trucco, riesce a leggere tutti gli sforzi e le sofferenze che Dario ha dovuto sopportare prima di riuscire a trovare la sua felicità.

Eccola, la sua felicità. È proprio di fronte a lui.

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ALESSANDRO aka “

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Torre del Lago Puccini, ore 24. A pochi minuti dall’inizio del suo spettacolo, l’ansia ha procurato ad Alessandro un groppo in gola.

Nella sua testa, ora, regna il vuoto più totale.

“Che sto facendo? E come sono conciato?” ripete come un mantra fissando la sua immagine allo specchio, mentre tutt’intorno è solo un frenetico via vai di tacchi sul pavimento: le altre Drag che saranno in scena con lui s’affrettano per mettersi in fila lungo il corridoio che, a breve, le condurrà sul palcoscenico. Pochi metri che adesso, per Alessandro, rappresentano il percorso più lungo e oscuro dell’universo, lo stesso sentiero che ha dovuto attraversare quando ha fatto la sua scelta di vita. Chiude gli occhi e, come in un flashback, gli scorrono davanti le immagini sbiadite della sua prima volta nei panni di una Drag, quando per gioco sfidò il mondo intero, senza temere il giudizio di nessuno. I suoi amici, i suoi familiari: tutti, tutti hanno accettato questa sua scelta sin dall’inizio. Da quel momento la sua vita è decisamente cambiata in meglio. Quella sentimentale, forse, no. Ma non è questa la cosa che conta, ora. Resta da solo a rassicurarsi così, immerso nei suoi pensieri, ancora per pochi, interminabili, secondi. Poi fa un sospiro, riapre gli occhi. Alessandro non c’è più. Ora è “Toygirl” e, intorno a lei, per esorcizzare ogni paura, tante sorelle si tengono per mano e afferrano la sua per unirsi in un grido liberatorio. Quindi corrono insieme verso il sipario che, aprendosi, sembra volare via come un lenzuolo steso al sole, leggero, come loro. Un bagliore improvviso, la musica, gli applausi: gli occhi di Toygirl sorridono di felicità mentre inizia a coordinare, davanti al pubblico che è lì per lei, lip sync e passi di danza insieme a tutte le altre. Qualcuno grida il suo nome mentre, in questa giostra di luci e di colori, riesce a stento ad accorgersi dei tanti flash che la stanno immortalando. La magia è riuscita, il tempo ora scorre via veloce e tutto le sembra più semplice: soltanto all’interno di questi abiti eccentrici trova il coraggio di esternare al mondo tutta la grinta e la carica che ha dentro. Eppure sa già che, come in una fiaba, tra un po’ Toygirl sparirà e tornerà Alessandro.

Ma ora no, non ancora, non adesso. C’è ancora tempo per ricevere un ultimo applauso e per sentirsi al centro della scena. C’è ancora tempo per sentire pulsare dentro di sé un ultimo, infinito, attimo di piacere.

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lui cercava ad ogni costo una risposta ai suoi mille perché. Col passare degli anni, grazie all’autoironia acquisita diventando Drag Queen, ha compreso che porsi tante domande sulla propria identità non aveva senso e che, spesso, convivere con i propri dubbi rappresenta un punto d’arrivo e non di partenza: la felicità era dietro l’angolo, ma lui non riusciva ad accorgersene.

Perso tra questi pensieri, Daniele è ormai quasi arrivato al Pigneto, quartiere che, da qualche anno a questa parte, si sta confermando quale nuova roccaforte della libertà e dell’anticonformismo capitolino.

Anche lui ha scelto di vivere qui, in una di queste casette basse dove, anche senza uscire, si ha la sensazione di restare sempre a contatto diretto col mondo.

Passeggiando per queste vie, riesce a percepire nuovamente il profumo della pioggia. Forse, di qui a breve, pioverà di nuovo. Oppure no. Sorride.

Davide aka “Fuxia”

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DAVIDE aka “

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Roma, ore 06. La pioggia venuta giù per tutta la notte ha sorpreso la città mentre dormiva, spazzando via la polvere e lasciando sull’asfalto il suo profumo di buono. Su via Prenestina, ancora bagnata e deserta, Davide cammina a passi lenti per respirare quest’atmosfera surreale, provando ad assorbire sulla sua pelle questa sorta di purificazione. Sul suo viso è ancora visibile il trucco che ha sfoggiato in discoteca: anche stanotte si è trasformato in “Fuxia”, la Drag che interpreta ormai da quasi trent’anni. Sulle spalle trascina grandi sacconi da cui spuntano fuori vestiti, piume e parrucche: i ferri del mestiere che, ogni notte, progetta e realizza da solo nel suo appartamento-laboratorio. Col passare degli anni, la notte è finita col diventare

Francesco aka “Tekemaya”

il momento a lui più congeniale per dare libero sfogo alla sua creatività: al termine di ogni lavoro, prima di chiudere gli occhi e addormentarsi sfinito, il letto adagiato sul soppalco gli consente di visionare le sue creazioni da una posizione privilegiata. L’odore della pioggia si è ormai dissolto nell’aria mentre la città dorme ancora: nel suo cammino verso casa, Davide incrocia ancora poche facce mentre, in strada, le prime auto che transitano sollevano dall’asfalto l’acqua che si è accumulata durante la notte. Lentamente iniziano a comparire le prime luci del giorno e ripensa con tenerezza a tutte le volte che, da ragazzino, ha ammirato l’alba sul lungomare della sua Catania, quando la vita era più difficile, il futuro sembrava avvolto da una patina troppo opaca e

TRIBÙ METROPOLITANE

A TU PER TU CON ZETAL, WRITER ROMANO (O, PIÙ SEMPLICEMENTE, GRAFFITTARO) FONDATORE DELLA BLACK HAND, CREW CHE È RIUSCITA A VIOLARE E GRAFFIARE COL SUO STILE ‘SPORCO’ OGNI ANGOLO DELLA CAPITALE. PER ENTRARE NELLA STORIA DELLA CITTÀ E DIVENTARE LEGGENDA.

di Carlo Gambardella / foto di Piero Capannini

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OCCHIELLO

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All’alba del nuovo millennio, sette ragazzi (Zetal, Dres, Besko, Monke, Benji, Dem e Romek) decidono di intraprendere un viaggio comune che, attraverso il writing, li porterà a trasformare ogni loro grido interiore in un’eco permanente. Il modo più artistico e, al contempo, più drammaticamente vero per affermare: Noi esistiamo.

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oma, ore 24. Mi incontro con Zetal sotto il cavalcavia della stazione Marconi della metro B, la linea preferita dai graffitari locali per la sua vaga similitudine con quella newyorkese, teatro della primissima stagione della storia del writing. È una notte come tante altre, ha da poco finito di piovere e in giro non c’è anima viva. La desolazione di quest’angolo degradato della capitale si riflette sulle chiazze di asfalto bagnato della strada che, dopo una gimcana attraverso cumuli di rifiuti, ci conduce verso il nulla: davanti a noi, un cancello abbandonato ci divide da una breve tratta in cui i binari della metropolitana escono da una delle tante gallerie per respirare l’aria della città. “La metropoli ti mangia: il tempo sbiadisce le pagine del tuo passato, fino a cancellarti. È inevitabile”. Gli occhi vispi di Zetal, incorniciati da un cappuccio scuro, hanno già scavalcato le rotaie per scrutare gelosamente ogni angolo del muro che è di fronte, finendo poi col posarsi su uno dei tanti graffiti che lo caratterizzano. “Lo vedi, quello là in fondo? L’ho dipinto io nel 2005.

Adesso è stato ricoperto dalle tags di

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alcuni ragazzini. Pischelli. Manco li conosco”.A osservarlo bene, quel muro parla. Racconta la vita di un angolo di periferia, apparentemente senza storia, che invece ha già visto avvicendarsi due intere generazioni di writers.

“E quella di oggi è la terza, la peggiore delle tre” - sbotta Zetal - “anche perché, ora come ora, è veramente finito tutto. Il nostro era un gioco di strada e, come tale, aveva le sue regole da rispettare: ognuno garantiva a sé stesso la sopravvivenza sulla scena attraverso il comportamento che assumeva nei riguardi degli altri. Coprire i graffiti di un altro writer doveva avere senso, quanto meno doveva rappresentare un segnale di sfida. Oggi invece tutti hanno mollato e, quando non ci sono più regole, regna l’anarchia”. La Black Hand, la crew fondata da Zetal e Dres nel 2000, può essere considerata una delle più grandi espressioni della seconda stagione del writing capitolino.

Tra i suoi adepti, soltanto Dem era già attivo quando, negli anni ’90, il movimento aveva cominciato a trovare terreno fertile all’interno dei rave e dei centri sociali: era la stagione in cui,

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localizzata principalmente tra Forte Prenestino, Ex Snia, Fintek e Flaminio, la scena vedeva contrapposte Rome Zoo e Trema Roma, due correnti che si facevano la guerra anche nello stile, essendo la prima influenzata dalla vecchia scuola newyorkese, la seconda maggiormente vicina alle tendenze artistiche francesi e spagnole. “Io ho sempre preferito la prima”, precisa Zetal mentre, tutt’a un tratto, il passaggio improvviso di un treno spezza in due il suo discorso. “Vedi?” – aggiunge - “Un convoglio come questo conferisce alla città lo stile ‘sporco’ dei suoi graffiti: la metro B fa di Roma una delle poche città al mondo dove ancora si riesce a fare ‘vero’ writing.

A New York tutto questo, ormai, fa già parte del passato: dopo il giro di vite che ha reso realmente impossibile ‘pezzare’ in metropolitana, oggi si preferisce dipingere in location diverse, pulite e fighette come il nuovo stile che si sta diffondendo. Ma i graffiti sono nati per stare sui treni e nelle

stazioni: in ogni altro luogo hanno appena la metà del loro valore. È la metro che fa la storia”. A un tratto mi rendo conto del silenzio irreale che ci circonda mentre, in cielo, la luna si fa complice della nostra chiacchierata.

“Quando dipingi in una stazione o in un deposito sei quasi sempre al buio, ti devi sbrigare e, all’occorrenza, devi essere pronto a scappare: hai trascorso intere notti a spiarne i movimenti e le abitudini, ma da un momento all’altro potrebbe sempre sopraggiungere la security. Per questo motivo, il più delle volte, un graffito rappresenta il frutto di intere nottate di lavoro. E poi ti sporchi, ma davvero tanto. Sulle tue mani, oltre alla fuliggine, troverai anche sovrapposti tutti i colori degli spray che hai usato. Insomma, terminato il lavoro, porterai a casa una sintesi del graffito che hai realizzato”.

Ecco spiegata l’origine del nome della sua crew. Un improvviso fragore metallico interrompe la conversazione.

“Non spaventarti” – mi rassicura – “di

notte è normale. Sono i treni fermi che, di tanto in tanto, si assestano sui binari morti”. Zetal si ferma un attimo per provare a respirare l’odore della stazione. Chiude gli occhi, poi li riapre. “Un giorno mi mancherà tutto questo”, aggiunge. “Stanno provando a trasformare il writing in una forma d’arte legalizzata e al servizio del business mentre, per noi, è sempre stata un’occasione imperdibile per urlare a tutti il nostro nome: a queste condizioni, meglio fermarsi con onore. Siamo riusciti a fare la storia di questa città e ne siamo orgogliosi. Sì, adesso posso dirlo: è stato veramente bello”. La nostra conversazione finisce così. Zetal si allontana e la sua ombra, lentamente, va a confondersi con l’oscurità della notte. Prima di abbandonare questo posto, lancio un ultimo sguardo al cavalcavia, al cancello, ai binari e a quel muro. E mi accorgo che quello che mi sembrava un nulla fino a poco fa, ha preso improvvisamente le sembianze di un tutto.

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!"#$%&'&(&#)"!#*%&+&(' Il writing, fenomeno nato negli anni 70 nei ghetti newyorkesi come sottocultura del movimento hip hop, ha contribuito a veicolare, tramite i suoi principali adepti, il credo della Universal Zulu Nation, organizzazione fondata nel 1973 dal rapper Afrika Bambaataa e improntata sui principi di uguaglianza, rispetto e fratellanza. Di qui, il forte senso di appartenenza che lega ogni singolo elemento alla sua crew, un legame indissolubile che oltrepassa i confini dello stesso writing. Lo scenario capitolino, nelle sue espressioni più significative, ha ricalcato questa tendenza: come la 00199 (Breezy G., Cheeky P., Drenni, Panama, Baby Monie) nel decennio precedente, anche la Black Hand (Zetal, Dres, Besko, Monke, Benji, Dem e Romek) rappresenta una prova tangibile di questo fenomeno. I suoi membri - condividendo emozioni, paure, gioie e dolori - hanno finito col legarsi a vita, diventando vagoni di un unico treno. Allo stesso modo anche i loro stili differenti, intrecciandosi, sono confluiti in un’unica corrente di ‘lettering’. Oggi, nonostante non abbiano più interesse a urlare a tutti il proprio nome, il loro treno viaggia ancora.

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