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La “bella foresta” rischia di finire in mare

Cambiamenti climatici e pressione demografica minacciano le Sundarbans, l’enorme foresta di mangrovie del delta del Gange

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«I l Gange, questo famoso fiume celebrato dagli indiani antichi e moderni, le cui acque son reputate sacre da quei popoli (…), a duecentoventi miglia dal mare dividesi in due bracci, formando un delta gigantesco, intricato, meraviglioso e forse unico. La imponente massa delle acque si divide e suddivide in una moltitudine di fiumicelli, di canali e di canaletti (…). Di qui una infinità d'isole, d'isolotti, di banchi, i quali, verso il mare, ricevono il nome di Sunderbunds». Oggi la misteriosa “giungla nera” dove Tremal Naik combatteva i thugs – conosciuta come Sundarbans, l’immensa foresta di mangrovie ai margini del più vasto delta fluviale del mondo, dove le acque di gran parte dell’Himalaya si uniscono nel Gange, nel Brahmaputra e nel Meghna – è minacciata da una somma di fattori che ne mettono seriamente a rischio la stessa esistenza, nonostante gran parte della sua superficie (oltre 10mila chilometri quadrati, suddivisi fra India e Bangladesh) sia tutelata da parchi nazionali e riserve naturali e compresa nella World Heritage List dell’Unesco. La rilevanza naturalistica di questo mondo anfibio è straordinaria: basti ricordare che qui vivono tre specie di coccodrilli e la più grande popolazione di tigri, particolarmente propense a nutrirsi di carne umana. Ma è nella difesa dalle ingressioni marine e dai cicloni che questa ampia fascia di foresta svolge il suo ruolo più prezioso. Sundarban in bengalese significa “la bella foresta” e in passato si estendeva nell’interno fino a dove oggi si trovano le città di Kolkata e Dacca, ma l’inesorabile fame di terreni agricoli in una regione ad altissima densità abitativa ha progressivamente ridotto l’estensione forestale e continua a farlo. Il terreno ha una pendenza irrisoria ed è composto da sedimenti fluviali che tendono naturalmente a compattarsi, facendolo lentamente sprofondare, tendenza accelerata dalla costruzione di opere idrauliche che hanno alterato la naturale distribuzione dei sedimenti fluviali; inoltre questo è “il paese delle maree” (come ricordato dal titolo del romanzo di Amitav Ghosh), che contribuiscono all’erosione e portano acqua salata nell’interno per molte decine di chilometri. Ma i pericoli più gravi e immediati vengono dai cambiamenti climatici. I cicloni qui si abbattono con maggior frequenza e intensità che in qualunque altra zona della Terra; ultimo di una lunga serie, nel maggio scorso il ciclone Amphan ha colpito la costa provocando 128 morti, cancellando centinaia di villaggi e provocando danni, anche al patrimonio forestale, stimati in 14 miliardi di dollari. Anche l’innalzamento del livello marino contribuisce ad accelerare le dinamiche di questo mondo mutevole per sua stessa natura. Negli ultimi decenni quattro isole maggiori sono state sommerse, con il conseguente esodo di migliaia di famiglie. I dati del Geological Survey of India riportano, per la sola parte indiana, la perdita di 210 chilometri quadrati di terre emerse negli ultimi trent’anni e la linea di costa sta arretrando alla preoccupante media di 200 metri all’anno. Se al quadro qui molto sommariamente delineato si aggiungono l’inquinamento – anche delle falde acquifere – la diminuzione della pescosità, la perdita di fertilità e l’aumento della salinità dei terreni, è facile capire la gravità della situazione. È impensabile, per la vastità degli interventi necessari e i costi proibitivi, costruire difese sul fronte marino e lungo la miriade di bracci d’acqua; l’unica difesa possibile pare perciò essere la protezione, e possibilmente l’estensione, dell’area forestata, soprattutto nella parte marginale, dove le mangrovie svolgono la loro preziosissima funzione di “filtro” fra la terra e il mare.

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