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Fotogrammi d’alta quota
The Fatal Game
Regia: Richard Dennison (Nuova Zelanda 1997)- 52 minuti Genziana d’Argento al Film Festival di Trento del 1998
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* La prenotazione dei titoli è riservata alle Sezioni Cai. Per informazioni sul prestito del film: www.cai.it/cineteca - cineteca@cai.it
L’australiano Mike Rheinberger mette in cantiere una settima spedizione con l’amico operatore Mark Wethu per documentare finalmente la realizzazione del suo sogno: arrivare sulla vetta più alta del mondo. Raggiunto lo scopo, i due alpinisti si accorgono di non poter ridiscendere al campo base e pertanto decidono di bivaccare in modo precario e in condizioni di tempo proibitive poco sotto la cima. Il giorno seguente Mike non è più in condizioni fisiche per continuare la discesa, nonostante l’impegno e gli sforzi dell’amico di cordata. Mark, al limite delle forze, viene persuaso via radio dal capo della spedizione a raggiungere da solo la base e salvare così almeno la propria vita. Dopo due anni di cure e una drastica operazione ai piedi, incapace di dimenticare la perdita dell’amico, Mark ritorna nel Tibet e sale in vetta al Cho Oyu, la sesta montagna più alta del mondo, da dove può chiaramente vedere l’Everest e salutare così ancora una volta l’amico. Ogni tanto andare a riscoprire e vedere film di qualche anno fa ci dà la percezione di come l’alpinismo, le spedizioni ma soprattutto il linguaggio cinematografico e narrativo sul tema si sia evoluto in questi ultimi anni. Sono trascorsi poco meno di venticinque anni da questo film di Richard Dennison ma sembra sia passato un secolo. Un modo di raccontare che non lascia alcuno spazio all’estetica così come non c’è la ricerca spasmodica dell’inquadratura eccentrica, della novità a tutti i costi che potrebbe essere a discapito della “storia”. Il film nella sua essenza, e specialmente nel girato in quota, rivela immagini vere e reali che dimostrano, in tutta la loro durezza, la difficoltà, la stanchezza, le paure e le ansie. Le sequenze e il montaggio puntano a suscitare emozioni dirette senza nulla di artefatto. Il documentario, come ogni filmato di questa tipologia, si snoda lungo strade già percorse: l’avvicinamento, la salita, i campi e il raggiungimento della vetta. Tuttavia, qui c’è un elemento diverso. A due anni di distanza dalla tragedia capitata a Mike sull’Everest, Mark decide di affrontare un altro Ottomila, il Cho Oyu. Perché lo fa? Perché continuare ad andare in montagna dopo che si è vissuta una tragedia simile e si è scampati alla morte solo per poco? Che senso ha? Quali sono le motivazioni che spingono ad affrontare un rischio del genere? La risposta è da cercarsi nella mente di ciascun uomo che affronti un’avventura al limite come questa. È un film pulito, lineare che a tratti dimostra i suoi anni ma che si lascia volentieri vedere ancor oggi. E questo è il suo pregio maggiore.

A destra, i portatori tibetani al campo base avanzato (foto Antonio Massena)