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preludio

Sono uno scrittore che disegna e un disegnatore che scrive

Hugo Pratt

Personaggi

Zag Jana

Lacus Olmo

Brina

Aga Velasco

Il cuore diesel batteva forte, rabbioso, nella pancia del Pattugliatore: ogni curva uno strappo, ogni strappo un’imprecazione soffocata. I fari sventravano il bosco. L’uomo correva senza tregua. Aveva una camicia a righe biancazzurre e stava commettendo troppi errori.

Il telefono mobile si dimenò sul sedile. L’animaletto di plastica produsse due serie di tre segnali. L’uomo seguì l’intermittenza come un lume nella tempesta. Sfiorò la tastiera formando un numero. Dopo poco replicò la chiamata mentre un cartello di curva pericolosa filava via perdendosi fra gli alberi, alla sua destra. Quando se ne accorse buttò il telefono e riportò l’auto in assetto.

Le dita battevano sul volante ritmi sconclusionati. Una luce apparve in direzione contraria. La parte del cervello rimasta vigile si limitò a rilevare un fanale in rapido avvicinamento, rubricandolo nella classe motociclo. Il secondo fanale, spento, fu evidente quando mancava poco al contatto. Scartò a destra e al centro, in frenetico controsterzo.

L’uomo del Pattugliatore stimò in un lampo i metri che lo separavano dalla curva successiva e fece una pazzia: per occultare il numero di targa spense tutto e si tuffò nel buio. Riaccese dopo due secondi, quando le luci posteriori dell’altro veicolo erano scomparse dal retrovisore.

Vittoria fragile. Oltrepassata l’area di una fabbrica illuminata entrò in un denso strato di nebbia da cui vide emergere una figura umana. Il marciatore solitario non procedeva sulla sinistra, come farebbe chiunque, a quell’ora e in quelle condizioni meteo. Teneva tranquillo la destra e non sembrava curarsi del mondo.

Il Pattugliatore lampeggiò tracotante ma l’uomo reagì in ritardo e con modalità inconsuete: girò la testa all’indietro senza scansarsi e senza interrompere il passo. L’uomo del Pattugliatore frenò con ira e dopo il tonfo rimase a braccia tese, il piede destro paralizzato sul pedale del freno.

Il motore saltellava al minimo dei giri. Aprì il finestrino. Puzzo di gomma bruciata, umidore, fumo, pasta d’asfalto. Nessuna traccia di mare nell’aria.

Alzò la testa, chiuse gli occhi, ritrasse il piede. Dopo avere respirato a fondo riprese la corsa. Ma un tarlo mentale aveva assunto il comando delle operazioni. Troppe incognite. Poche centinaia di metri bastarono a bloccarlo di nuovo.

In retromarcia sfruttò la luce bianca per esplorare la strada. Muovendosi a ritroso ridiscese lentissimo verso il presunto luogo dell’impatto. La vittima poteva essere ovunque in quello scenario irreale fatto di curve a ripetizione, monconi di foresta e buio a perdita d’occhio. Le gomme del Pattugliatore avevano morso l’asfalto. L’asfalto le aveva morse. La traccia doveva essere visibile.

Retrocedendo sempre più adagio cercò un punto di riferimento. Guardò il fossato fino a indolenzire gli occhi. Ma il corpo non era là. Era sulla strada, molto più lontano del previsto.

Si chinò, gli infilò due ditta nel collo. Quel disgraziato forse aveva le ossa a pezzi ma era vivo.

L’uomo del Pattugliatore si immerse ancora nei pensieri. Poi, bruscamente, senza preoccuparsi di eventuali fratture o lesioni interne, cominciò a trascinare il corpo per le braccia portandolo fino al bordo posteriore dell’auto.

Prese fiato. Ascoltò i rumori del bosco. Appoggiò la schiena del malcapitato al paraurti e dopo essere salito nel vano bagagli lo tirò di nuovo, con violenza, per le spalle. I piedi puntati contro le pareti interne del veicolo gli consentirono di attenuare lo sforzo.

Con manovre grossolane finì per rannicchiarlo. Fu allora che orientò la torcia sul suo viso e lo guardò per la prima volta con attenzione. Si passò una mano sullo zigomo sinistro come per rimuovere un fastidio. Spense. Chiuse il portellone. Ma non ripartì subito.

La presenza dello sconosciuto sembrava soggiogarlo.

Lo esaminò anche dall’esterno dell’auto posando la torcia sul vetro. Guardò a terra. Poi, come se qualcuno gli avesse sussurrato all’orecchio, strinse i pugni e percosse amichevolmente la carrozzeria. Da quel momento in avanti guidò con calma lungo una salita ripida, al termine della quale apparve un tracciato più fitto di boscaglia. La grande foresta era vicina.

Più tardi gli alberi tornarono a farsi radi. Frenò. Altri banchi di nebbia, più sottili, si stavano frantumando. Mise il Pattugliatore in marcia ridotta e continuò a salire. Dopo tre quarti d’ora apparve un’area pianeggiante, al termine della quale spuntava un edificio basso, di legno e cemento, proprio su bordo della foresta.

Scese. Il suo compagno di viaggio sembrava ancora fuori combattimento. La copertura telefonica era fluttuante. Portò il fuoristrada davanti all’edificio. Sfilò una chiave dalla tasca e si avvicinò alla porta, inquadrata dai fari. Si scostò per non fare ombra.

Uscì poco dopo massaggiandosi ancora lo zigomo sinistro. Si avvicinò al portellone. Controllò ancora il segnale. Guardò l’ora. Incapace di stare fermo, fece qualche passo nell’erba bagnata.

Fu in quel momento che il telefono vibrò. Lo avvicinò all’orecchio ma lo lasciò squillare mentre premeva il pulsante per l’apertura del baule. Al terzo squillo, prima di rispondere, l’uomo ruotò su se stesso in un gesto istintivo di riservatezza. Coprì l’orecchio libero, come per isolarsi da un mondo che era già chiuso nel più totale silenzio.

Intanto il portellone del Pattugliatore, spalancandosi in un soffio pneumatico, tolse la sicura al destino.

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