
8 minute read
Personaggi. Guido Saracco, lo scienziato, il professore, il rettore del Politecnico di Torino
L’obiettivo è la convergenza formativa tra Ateneo e mondo del lavoro Saracco Guido
Guido Saracco, classe 1965, nel 1989 si è laureato in ingegneria chimica presso il Politecnico di Torino con 110 e lode e dignità di stampa. È stato eletto rettore dello stesso Ateneo dal marzo 2018. La sua attività di ricerca è soprattutto nell’area della fotochimica. Ha oltre 500 pubblicazioni all’attivo
Advertisement
Lo scienziato, il professore, il rettore del Politecnico di Torino
Stefania Camoletto
Guido Saracco, professore ordinario di chimica industriale e tecnologica con oltre cinquecento pubblicazioni scientifiche all’attivo, rettore del Politecnico di Torino dal 2018, racconta il suo progetto didattico per incentivare la convergenza formativa tra Università e mondo del lavoro, per sostenere la ricerca applicata interdisciplinare e la terza missione dell’Università. Grazie alla sua proposta paradigmatica il Politecnico si impegnerà per la creazione di una nuova università “umanistica”, interdisciplinare e trasversale tra mondo della tecnica e della filosofia.
Ho ascoltato con interesse il suo intervento per la relazione inaugurale dell’anno accademico 2020-2021. Lei parla di un cambio paradigmatico ed essenziale nell’impostazione formativa che l’Università è chiamata ad attuare. Quali sono le proposte per il Politecnico? «È essenziale che, in una società dinamica e veloce come quella attuale, il Politecnico si apra al sapere creativo e divergente. Di fatto l’ingegnere, basandosi sulle conoscenze scientifiche e tecnologiche proprie alle scienze “dure”, ha da sempre progettato qualcosa di utile per la società, ma è essenziale che, in un momento come questo, si vada oltre il paradigma educativo lineare e “illuministico” che ha contraddistinto una società stabile come quella in cui sono cresciuto e mi sono formato. Questo ci ha portato per molto tempo a ragionare in termini lineari e deduttivi in un mondo in cui il sapere tecnico era esclusivamente al servizio dell’industria: per tale ragione i professionisti dovevano essere affidabili e “squadrati”. Ma la società di allora era molto più semplice: c’erano pochi assiomi tra cui la famiglia e il “pezzo di carta” che ti garantiva un lavoro. Oggi bisogna essere in grado di pensare, creare, comunicare e convincere in modo creativo e innovativo. E questa proposta innovativa si può generare solo attraverso l’ausilio delle scienze umanistiche quali la filosofia, l’etica, la storia e la sociologia che indichino la traiettoria d’indagine e d’azione ai tecnologi. A differenza di quanto accadeva in passato, soprattutto nelle grandi imprese dove permaneva una rigida divisione del sapere e d’azione tra specialisti della cono-

«“Concordia parvae res crescunt, discordia maximae dilabuntur”, diceva Sallustio. Molto di grande è svanito nel nostro Paese perché non abbiamo saputo collaborare. La “coopetizione”, calco del termine inglese “coopetition”, è una strategia di sviluppo che prevede la collaborazione tra attori che, di norma, competono tra loro, ma che si alleano per creare massa critica, più efficiente complessivamente nell’uso delle risorse e di servizi».


scenza tecnica, economica, legale e sociale, l’ingegnere contemporaneo non può più permettersi di ignorare il nuovo, indissolubile rapporto tra la tecnologia e la società: è chiamato a comprendere, interpretare, anticipare le dinamiche sociali».
A livello pratico, quali cambiamenti sono previsti e auspicabili per formare l’ingegnere “creativo” del XXI secolo? «Al fine di rinnovare parte della filiera della formazione, già dalla triennale abbiamo attivato un percorso multidisciplinare per studenti selezionati: gli “Intraprendenti”, discenti appartenenti a diversi percorsi che sono invitati a sviluppare in modo interattivo e multidisciplinare le soft skills necessarie per far fronte a sfide lavorative e contesti sociali complessi: potenziare la creatività e il pensiero laterale e divergente, saper comunicare in modo efficace, saper lavorare in gruppo, essere in grado di tenere testa allo stress, sviluppare capacità di problem solving e intraprendenza. Naturale continuazione di questo percorso a livello delle lauree magistrali è l’Alta Scuola Politecnica, dove altrettanti gruppi di studenti, selezionati dal Politecnico di Torino e da quello di Milano, seguiranno un programma formativo intensificato che prossimamente sperimenterà elementi di formazione progettata ad hoc, personalizzata sulle singole caratteristiche e richieste dell’individuo. Il Politecnico, e più in generale l’Università, ha tutte le carte in regola per trasformarsi in un’autentica knowledge innovation community di stampo europeo: un luogo fisico, caratterizzato da un’area tematica e operativa, in grado di produrre ricadute di conoscenza sulla società, un luogo di formazione e ibridazione dove gli scienziati, insieme ad altri stakeholders, possano generare processi di formazione a qualsiasi livello, anche uscendo dalla zona di comfort della formazione accademica tradizionale».
«Per fare fronte a un’era paragonibile all’urlo di Munch da cui traspira fragilità, sospensione, capacità di (r)esistere, desiderio di umanità, bisogna mettere la formazione interdisciplinare al centro, al fine di trasformare quest’urlo sofferente in un urlo carico di passione e di orgoglio».
Il Politecnico è sempre stata un’eccellenza nel panorama formativo torinese e nazionale, una fucina di ingegneri e di talenti universali, da Pareto a Olivetti, il quale per primo comprese che i processi di ibridazione e di fertilizzazione multidisciplinare erano alla base di qualsiasi processo innovativo. L’impresa olivettiana è considerata un’opera universale e ante litteram anche per la coorte di intellettuali “umanisti” che lavoravano a stretto contatto con gli ingegneri. C’è un po’ di ispirazione olivettiana nella sua proposta? «Certamente sì. Bisogna però dire che quando Adriano Olivetti si laureò era più facile essere creativi. Ma lui fu uno dei primi a operare secondo lo schema formativo che stiamo emendando in questo momento. Inoltre il mondo era molto più semplice e gli intellettuali di quel tempo erano molti di meno: si frequentavano tra di loro, si tenevano aggiornati e costituivano un’élite di pochi. Poi arrivò il Sessantotto che, con il suo slogan “Vogliamo pensare!”, stravolse quel sistema élitario. Ora siamo nel magma della rivoluzione digitale ed è necessario trovare una terza via che non è più quella della generazione di Olivetti o quella del ’68: qua il lavoro di gruppo aziendale, il pensiero laterale e la creatività hanno anche il lungimirante obiettivo di tenere aperta la mente, rendere più ambiziosi gli studenti, creare un legame tra mondo della formazione e mondo dell’impresa. Olivetti ha anticipato di gran lunga i tempi, ma poi il suo modello è stato stritolato da quello neoliberista. La nostra
proposta, che riecheggia quella pionieristica di Olivetti, si rivela la ricetta ideale per uscire da una crisi che, a fase alterne, dura da oltre un decennio».
Il filosofo Arnold Gehlen sostiene che la tecnica sia il più autentico prodotto umano e che il rapporto uomo-tecnica debba essere letto in senso “tecnico-scientifico” per l’appunto, ma anche soprattutto antropologico. Questo rapporto uomo-tecnica oggi viene spesso percepito come artificiale e sbilanciato a favore di quest’ultima. Si dice che la tecnologia stia «letteralmente creando il mondo in cui viviamo» e il termine tecnocrazia viene spesso usato in senso negativo. Come vede l’evoluzione di questa relazione, ad esempio considerando i cambiamenti che l’intelligenza artificiale potrà determinare nel prossimo decennio? Quali saranno i benefìci e quali i potenziali rischi di un mondo sempre più dipendente dalla tecnologia? «Posso affermare con certezza che il rapporto uomo-tecnica di per sé non rappresenti un problema, anzi! È altresì vero che può diventare problematico se resta un sapere élitario, creato, maneggiato e compreso da pochi. L’accezione negativa spesso associata al termine tecnocrazia si riferisce, quindi, a una gestione “oligarchica” e poco condivisa della tecnica. Ma la nostra sfida sta proprio in questo: attraverso la formazione, vogliamo arrivare a instillare la consapevolezza che ciascuno di noi può essere il protagonista e l’artefice del cambiamento, di questa possibilità di mutare il mondo attraverso il connubio formazione tecnica-sapere socio-filosofico. La tecnica, essendo strumento e prolungamento dell’uomo, può e deve essere a disposizione di tutti».

In quale modo il sapere tecnico potrà quindi contribuire alla risoluzione delle grandi sfide che si svilupperanno nel XXI secolo? «Il Politecnico di Torino si sta impegnando anche in questa direzione. È stato attivato un corso straordinariamente innovativo dedicato alle “Grandi sfide globali” che tratterà i temi cardine del nostro tempo come la rivoluzione digitale, le sfide ambientali e climatiche, la salute e le mobilities. Il corso farà capo a due figure essenziali e complementari: un tecnologo e un esperto in discipline umanistiche e sociali. Chi si formerà da noi potrà beneficiare di due punti di vista e approcci complementari e, attraverso questi, elaborare il proprio contributo originale e utile per il benessere dell’umanità. Perché uno degli obiettivi primari del corso è riaccendere l’entusiasmo, la speranza e la visione del futuro in una generazione più impaurita e meno ambiziosa: miriamo a riattivare la loro possibilità di pensare in grande ed esasperare il meglio di sé. Alle Grandi sfide delle lauree triennali faranno da riscontro le Challenge delle magistrali. Le “Challenge@ PoliTo” si basano su proposte di imprese su loro obiettivi di innovazione o proposte degli studenti stessi, e si rifanno a una nuova dimensione formativa basata sull’ibridazione multidisciplinare volta a preparare gli studenti in modo allineato alle richieste emergenti da parte delle imprese. In quest’ottica sono stati attivati diversi corsi anche nella sede di Mondovì: l’obiettivo è creare figure professionalizzanti nel settore agroalimentare, ma anche esperti in tecnologie della manifattura industriale e nell’economia circolare. E vorrei ricordare che, in questo processo di insediamento nella sede cuneese, è stato fondamentale il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo e del Comune di Mondovì».
Saremo quindi in grado di far fronte alle istanze socio-ambientali di questo secolo? «Assolutamente sì! Benché si parli degli effetti del cambiamento climatico e di sfide ambientali, la qualità dell’aria sta migliorando e sono convinto che presto saremo in grado di ridurre le emissioni di anidride carbonica e far fronte ai cambiamenti climatici. Bisogna solo fare in fretta ed evitare le concentrazioni monopolistiche di potere e sapere. Ma questa crisi è arrivata anche per l’esasperazione delle diseguaglianze. Ora siamo pronti per ripartire “olivettianamente”, ponendo al centro di questo cambiamento la formazione, strumento infallibile ed essenziale per l’eliminazione delle disuguaglianze, la produzione di conoscenza e la creazione di tecnologie al servizio dell’uomo».
La collaborazione tra Politecnico, sede di Mondovì, Confindustria Cuneo, numerose aziende associate e Regione Piemonte ha consentito di avviare importanti master di secondo livello