10 minute read

L ASTE E MERCATO Cristina Masturzo Leonora Carrington

ASTE E MERCATO

Dopo aver nutrito, con le sue suggestioni, la 59. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia curata da Cecilia Alemani, che dal titolo di un suo libro di favole, Il latte dei sogni, ha preso il nome e le mosse, ed essere stata, sempre in Laguna, tra le protagoniste e i protagonisti della mostra Surrealismo e magia. La modernità incantata alla Peggy Guggenheim Collection, Leonora Carrington (Chorley, 1917 – Città del Messico, 2011) ha brillato a maggio anche sulla scena delle grandi aste di New York, facendo registrare un nuovo record assoluto di aggiudicazione.

Advertisement

THE GARDEN OF PARACELSUS DI CARRINGTON La Modern Art Evening Sale di Sotheby’s a New York il 17 maggio è filata via spedita sin dall’avvio, con rapide offerte a conquistare le prime opere in catalogo, fino al lotto 5, dove era atteso appunto, di Leonora Carrington, il dipinto The Garden of Paracelsus. Eseguita nel 1957, l’opera è un’efficace sintesi delle capacità tecniche e immaginative dell’artista britannica. Quattro coppie di figure incandescenti, chiare e scure, vi appaiono intente in una danza mistica. Al centro della composizione, la presenza di un uovo, oggetto di rara potenza simbolica nei tragitti della storia dell’arte e impiegato da Paracelso, fisico, alchimista e filosofo svizzero del XVI secolo, come metafora della composizione dell’universo. Che il momento fosse carico di aspettative lo si è intuito chiaramente da come la sale room ha cominciato a fibrillare e lo hanno confermato poi i rilanci che si sono susseguiti in velocità. Dai 900mila dollari di partenza, il valore dell’opera è andato subito su, fino ad arrivare, con una battaglia ai telefoni che ha tenuto per lunghi minuti spettatori e bidder col fiato sospeso, oltre i 2 milioni e da lì, dopo il “fair warning” e la dichiarazione di rito di “last chance”, a un risultato finale di 3,2 milioni di dollari, nuovo record d’asta per l’artista che ha fatto esclamare, a buon diritto, all’auctioneer Oliver Barker: “Fantastic auction battle!”.

LEONORA CARRINGTON SOTTO I RIFLETTORI Riferimento centrale nella costruzione di una Biennale che resterà nella storia per la netta quanto inedita prevalenza di artiste donne e artisti non binari e per la volontà di scandagliare tematiche in grado di polarizzare, anche oltre l’ambito delle arti visive, il dibattito pubblico contemporaneo, Leonora Carrington, e, insieme a lei, tutta una più ampia e variegata produzione di gusto surrealista, torna ora così in piena luce. E si aprono possibilità di riconsiderare fascino, intuizioni, motivazioni di un’artista che, quasi inosservata, ha attraversato, scrivendo e dipingendo, tutto il Novecento. E di correggere il tiro, anche, sul riconoscimento del valore economico della sua produzione, come specchio, finalmente meno deformato, di un originalissimo portato di immaginazione e magia, trasformazione e metamorfosi, mistero, rêverie. SOTHEBY’S LEONORA CARRINGTON

Leonora Carrington, The Garden of Paracelsus, 1957. Courtesy Sotheby’s

IL LIBRO

Quale meraviglioso mondo è quello dell’editoria – della piccola editoria. Nel 2018 a Roma è nata Moscabianca. L’autopresentazione pubblicata sul suo sito internet si conclude così: “Ecco i generi di cui andiamo ghiotti: fantascienza, weird, new weird, distopico, fantasy, realismo magico, bizarro fiction, gotico, surreale”. E pensare che ognuno di questi generi ha un mondo al suo interno, e magari noi manco sapevamo che esistessero. La meraviglia tuttavia non si esaurisce nella scoperta di ignoti – per chi non frequenta con assiduità queste nicchie – autori contemporanei; la meraviglia, al contrario, aumenta quando si spulcia il catalogo e spunta Ulisse Aldrovandi.

CHI ERA ULISSE ALDROVANDI Siamo a Bologna nel 1522. Ulisse Aldrovandi nasce in una nobile famiglia ma resta orfano di padre a sette anni. Ad appena dodici parte per Roma, torna nella città natale, studia matematica, va a lavorare a Brescia, riparte per Roma, poi cammina fino in Galizia – precisamente a Finisterre – e in seguito lo ritroviamo a Bologna, dove studia lettere, diritto e filosofia. Approfondisce la sua formazione a Padova, ma è a Bologna che si appassiona alla botanica, ed è sempre a Bologna che viene accusato di eresia: anche se abiura, viene condotto a Roma, ma fortunatamente Giulio III succede a Paolo III e Aldrovandi viene prosciolto. Sembra la sintesi di una lunga vita, ma all’epoca il nostro ha appena ventisette anni. Nel 1551 inizia a comporre il suo mitico Erbario, prende un dottorato in medicina e filosofia, inizia a insegnare; nel 1564 lo troviamo sul Monte Baldo, sopra il Lago di Garda, in spedizione scientifica; nel 1568 fonda l’Orto Botanico e, di fatto, uno dei primi musei di storia naturale al mondo. Adesso sì che la vita si è svolta, e abbondantemente, considerata l’epoca: quando muore, nel 1605, ha 83 anni.

LA MONSTRORUM HISTORIA Il libro proposto da Moscabianca uscì postumo nel 1642 grazie all’attività curatoriale di Bartolomeo Ambrosini. Un volumone di oltre mille pagine (qui s’è fatta un po’ di ragionata selezione) composto a partire da un brogliaccio piuttosto grezzo, in cui a spiccare sono innanzitutto le illustrazioni, di grande qualità, nonché – come sottolinea il curatore dell’attuale edizione – l’enciclopedismo di Aldrovandi, che arricchisce il suo catalogo teratologico di “pagine di etimologia e storia delle parole, digressioni storiche e mitologiche, rassegne di curiosità, superstizioni e credenze”. L’Illuminismo è di là da venire, ma è a Bologna, un secolo prima, che si fa la semina.

Marco Enrico Giacomelli ULISSE ALDROVANDI MONSTRORUM HISTORIA

a cura di Lorenzo Peka Moscabianca, Roma 2022 Pagg. 320, € 24 ISBN 9788831982290 moscabiancaedizioni.it

Maurizio Lacavalla

I

l suo è un disegno intrigante ed ermetico, fatto di zone d’ombra e spazi vuoti (che non vogliono essere riempiti). Parliamo di Maurizio Lacavalla, talento del fumetto noir italiano.

Cosa vuol dire per te essere fumettista?

Compromettermi. Ossia rendermi scomodo con ogni nero che stendo, ma anche trovare il compromesso che non avevo messo in conto tra quel che non può scrivere un disegno e quel che non può disegnare una didascalia.

Mi aiuti a presentarti a chi non ti conosce?

Nasco a Barletta nel 1992; la fuga a Bologna risale al 2011, per studiare all’Accademia di Belle Arti. La sperimentazione di quei primi anni è stata rumorosa e a tratti confusa: gesso, cemento, plexiglas e trapano. Ho deciso di lasciare tutta la polvere nelle aule dell’accademia e sono partito per Amburgo con solo carta e china. Qualche anno dopo sono usciti due fumetti con Edizioni BD: Due attese e Alfabeto Simenon. Recentemente collaboro con La Stampa. Da quasi due anni mi occupo di mediazione e didattica museale presso il MAMbo.

I tuoi fumetti sono a tratti indecifrabili, sembrano sfidare il lettore mettendo in discussione certezze e verità. Cosa ti interessa raccontare?

Mi interessano i fantasmi. Dei fantasmi mi intriga l’àncora che gettano tra i tempi: sono presenti quando ciò di cui sono fatti è passato.

Nelle tue tavole a parlare sono soprattutto i silenzi: poco movimento, molta stasi, e immagini cupe che attraggono e respingono allo stesso tempo.

Se ripenso a quando il mio immaginario ha iniziato a formarsi, ricordo alcuni anni molto belli in compagnia di un caro amico, Alessio. Lui, più grande di me, mi ha introdotto ad alcuni di quelli che oggi sono miei capisaldi: la Socìetas Raffaello Sanzio, Bergman, Bacon, Ciprì e Maresco. Grigi pastosi, primi piani, lingue quasi incomprensibili. Figure come statue di sale sulla spiaggia. Questa è stata l’educazione dei miei occhi.

Alfabeto Simenon è il tuo ultimo libro (insieme ad Alberto Schiavone), nel quale rappresenti graficamente la vita del creatore di Maigret. Com’è stato confrontarti con un autore tra i più maestosi del Novecento?

Prima che mi venisse proposto il fumetto avevo letto per caso due suoi romanzi “duri” e un Maigret e, anche se poco, era stato sufficiente per intendere: ho riconosciuto subito l’impossibilità di afferrare Simenon, ma il desiderio di immergermi nelle sue nebbie. L’idea dell’alfabeto e della divisione dei capitoli, così come il loro contenuto, è tutta frutto dello studio e delle letture di Alberto.

D’altronde il tuo fumetto ha una fortissima componente letteraria...

Altaleno tra la ricerca della parola esatta che sappia sostituire intere vignette e, all’opposto, la composizione di immagini tali da rendere superfluo qualsiasi testo. La sfida è non avere voce nell’immagine e riferimento visivo nel testo.

E la tavola che hai realizzato per Artribune, invece, di cosa parla?

È l’evocazione di un incontro avvenuto qualche anno fa in treno. È, ancora una volta, la storia di un fantasma. Si intitola Padre, padre, padre.

C’è poco da fare, lasciate che gli altri si illudano prendendoci per un popolo sensuale, tutto mandolino e prelibatezze – noi sappiamo di essere da sempre la terra della metafisica.

Bella. Anzi bellissima. Anzi, e mi concedo anche il solecismo di un doppio dativo, così bella che, a me, l’Italia, mi piace. Mi piace tutta, da una costa all’altra, da una riva di lago a una spiaggia di mare, da un agrumeto siculo a un ghiaione delle Dolomiti, dalle lagune chiozzotte alle nevi che non ti aspetti sul Gennargentu o sul Gran Sasso. Ma, oltre che geograficamente, mi piace anche storicamente: perché come ti giri in una città qualunque, rischi di imbatterti in una cappella romanica, in un affresco barocco o in un edificio razionalista. O anche in riusciti esempi di architettura contemporanea. E poi filosoficamente, dato che, se ci si pensa bene, per il Paese relativamente minuto che siamo, con una lingua che è praticamente sconosciuta all’estero, abbiamo

regalato al mondo una fila di geni che gli

altri si sognano.

Eppure, niente, continuiamo a maledire questa nostra Italia come la “Terra delle mezze verità”, e, non potendo prendercela con nessuno fuor che noi stessi, continuiamo a odiarci ferocemente in un modo che, visto da fuori, risulta incomprensibile e finanche comico. Sarebbe come vedere un coreano che maledice la Samsung, o un francese che non vuol essere sepolto al Panthéon “perché ci sta quell’altro”: un atteggiamento autolesionista che gli altri popoli, per fortuna loro, non conoscono. Ho provato spesso a spiegare questo sentimento nostrano ad amici stranieri, ma senza successo. Non lo capiscono. Anche perché, come quasi tutti nel mondo, ci amano.

E allora perché noi ci odiamo tanto?

Queste riflessioni mi vengono alla mente davanti alla retrospettiva dedicata a un arci-italiano come Julius Evola (MART, Rovereto, a cura di Beatrice Avanzi e Giorgio Calcara con il contributo di Guido Andrea Pautasso, fino al 18 settembre), sottotitolata significativamente Lo spirituale nell’arte, che è un richiamo assai cogente non tanto a Kandinsky quanto a quello che mi pare il tratto più specifico di una certa “estetica italiana”. Un tratto che consiste proprio nel nostro innato spiritualismo.

C’è poco da fare, lasciate che gli altri si illudano prendendoci per un popolo sensuale, tutto mandolino e prelibatezze – noi sappiamo di essere da sempre la terra della metafisica. Non c’è filosofo nostrano che non abbia scritto d’arte, e non c’è artista italiano che non abbia flirtato con qualche filosofia: de Chirico era influenzato da Schopenhauer, Piero Manzoni aveva studiato l’esistenzialismo e Piero Simondo – il vero creatore del Situazionismo – si era laureato con Abbagnano. Per citare Pasquale Panella, in Italia anche chi ignora la filosofia “è immerso in essa comunque / e di essa è intriso / come un cardo dal gambo reciso” – e per i nostri artisti questo è vero in un modo così squisitamente unico che Evola, ancorché sia assai più famoso per i suoi libri di taglio iper-hegeliano (Fenomenologia dell’individuo assoluto) o le sue ricerche sul pensiero alchemico o tantrico (Metafisica del sesso), è stato anche esponente di un dadaismo artistico inimitabile..

Ma... già sento echeggiare un grido

lacerante: “Evola è fascista!”. Quindi, in base a un insopprimibile automatismo ideologico, che deve ridurre per forza qualunque pensiero a cliché di se stesso, lui, la sua opera, la complessità delle sue idee, va tutto cancellato, depennato, annientato, e così ciò che lo riguarda, come sembra testimoniare lo strano silenzio mediatico che è subito calato su questa iniziativa del MART.

D’accordo: come non detto.

Continuiamo a farci del male, dài.

L ITALIA NOSTRA

testo di MARCO SENALDI [ filosofo ]

This article is from: