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Il futuro della tutela dei diritti umani: riflessioni sparse /Diritti internazionali

IL FUTURO DELLA TUTELA DEI DIRITTI UMANI: RIFLESSIONI SPARSE

di Maurizio Gemelli

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Ai giorni nostri, i diritti umani rappresentano certo una seria, anche se non sempre condivisa, pretesa dell’individuo a un impegno collettivo in vista della realizzazione di condizioni di vita più dignitose.

Uno dei loro percorsi ineludibili rimane comunque quello della giustizia, relativamente alla quale il diritto internazionale è costretto, pressoché quotidianamente, a fare i conti con gli Stati che rimangono pur sempre i protagonisti dell’ordinamento internazionale. E un siffatto, certo pregiudizievole stato di cose, presuppone come punto di partenza e di arrivo, oggi ancor più di ieri, anche per effetto delle sempre più ricorrenti derive populistiche, la sovranità degli Stati. Ciò è storicamente tanto vero che i diritti umani nascono proprio per porre un argine al suo dilagare e per scongiurare il pericolo che concezioni assolutistiche della stessa potessero trasformare le istituzioni statali in altrettanti nemici per i cittadini.

Si comprende dunque bene come una tappa pressoché obbligata del percorso di piena realizzazione della loro tutela dovrà necessariamente essere quella di insistere per la loro concreta attuazione (tanto sul piano normativo quanto su quello giurisdizionale) a livello nazionale, in maniera tale da garantire diretta ed effettiva (nel senso di non meramente virtuale, avuto particolare riguardo alle consuete dichiarazioni programmatiche di facciata, non seguite poi da comportamenti conseguenti) esecuzione alle norme internazionali sui diritti umani.

Ciò che appare, infatti, particolarmente carente nel sistema attualmente vigente è la possibilità di fare ricorso a meccanismi più efficaci per costringere gli Stati non soltanto a rispettare i diritti umani, ma anche a rimediare alle eventuali violazioni già perpetrate. Basta volgere il nostro sguardo ai dibattiti in ambito ONU, per riscontrare affermazioni del tipo che le raccomandazioni sul rispetto dei diritti umani costituiscono pur sempre forme di ingerenza “indebita” negli affari interni, oppure che l’organizzazione delle Nazioni Unite non può occuparsi né di questi né di quelli, perché altrimenti violerebbe il dominio riservato (la c.d. domestic jurisdiction). è di tutta evidenza, pertanto, che nel campo dei diritti umani la maggiore o minore ampiezza dell’area riservata ai governi nazionali finisce per darci la misura della maggiore, o minore, possibilità per gli organi internazionali di intervenire e, ogni qual volta necessario, eventualmente vigilare efficacemente sul rispetto di quei diritti fondamentali.

Gli scenari, come sopra sia pure sommariamente delineati, non devono comunque farci dimenticare che le questioni di rispetto, o di violazione di diritti umani, tanto più se consacrati in norme internazionali, non possono in alcun modo essere considerate affari interni di esclusiva pertinenza di uno Stato. Esse, piuttosto - oserei dire - per definizione riguardano tutta l’umanità!

Ed allora, se questo è lo stato dell’arte, ecco ritornare di grande attualità la domanda di fondo di queste riflessioni, vale a dire quale prospettiva per l’immediato sviluppo dei diritti umani?

Il futuro della loro tutela internazionale passa anche attraverso la più piena attuazione del concetto della c.d. responsibility to protect, espressione, com’è noto, coniata in ambito ONU nell’ormai lontano 2005, ma ancora di straordinaria attualità, laddove nel documento finale del summit dell’Assemblea Generale si poteva leggere che

ciascuno Stato abbia la responsabilità di proteggere la propria popolazione dal genocidio, dai crimini di guerra, di pulizia etnica e dai crimini contro l’umanità. Questa responsabilità implica la necessità di prevenire tali crimini, incluso l’incitamento a commetterli, attraverso mezzi necessari e adeguati.

Orbene, non credo possano residuare dubbi sul rilievo che tale responsabilità costituisce il culmine dell’attuazione dell’idea di una sovranità illuminata e responsabile, e che va tradotto con il concetto che la sovranità non venga intesa come dominio arbitrario sui propri sudditi, ma piuttosto come onere (appunto responsabilità) di ciascun paese di assicurare l’ordinato svolgimento di una vita dignitosa dei propri cittadini e di tutti i soggetti, quale che sia la loro nazionalità d’origine, che si trovano legittimamente a operare sul territorio.

Peraltro, detta forma di responsabilità dovrebbe, almeno nelle intenzioni, consentire alla comunità internazionale – ovviamente sempre che ve ne siano le condizioni – di intervenire persino con la forza nei confronti dei sovrani recalcitranti, ossia quelli che non svolgono diligentemente il loro compito di proteggere i propri cittadini, per delegittimarli o costringerli in qualche modo al rispetto di quei diritti. Senza, però, pretermettere di riconsiderare, una volta di più, per un verso il carattere lesivo del diritto internazionale che assumono le cc. dd. guerre umanitarie, e, per altro verso, l’assoluta inefficacia della guerra come strumento di salvaguardia dei diritti.

Per quanto concerne l’efficacia dell’intervento umanitario, esso può a ragione essere interpretato come un evento che, piuttosto che tutelare le popolazioni vittime delle violazioni dei diritti, contribuisce alla creazione di ulteriori vittime, sol che si consideri, come puntualmente ci ricorda Zolo, che la guerra è “l’esecuzione di una pena capitale collettiva sulla base di una presunzione di responsabilità penale di tutte le persone che abbiano operato entro le organizzazioni militari dello Stato che si intende sanzionare” (1), con lo sgradevole effetto collaterale dell’uccisione pressoché indiscriminata di civili.

Sempre con riguardo alla guerra, va, inoltre, osservato che l’ordine internazionale rimane fondato, anche per quanto prima si diceva, sul principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato, e dunque un intervento armato legittimo a difesa dei diritti umani si renderebbe possibile solo nella misura in cui esso ricadesse nelle fattispecie di intervento già previste dalla Carta delle Nazioni Unite (artt. 2 e 51) e minacciasse la pace e l’ordine internazionali.

Orbene, per compiere passi avanti sul versante che più ci sta a cuore della effettività della tutela, verosimilmente si sarebbe dovuto in tutti questi anni intervenire (e non sempre lo si è fatto), oltre che rafforzando l’intervento giurisdizionale a livello regionale, nel quadro dei sistemi convenzionali di tutela dei diritti umani, come in concreto è avvenuto con il ruolo della Corte EDU, estendendo la possibilità di ricorso davanti ai giudici nazionali, ai quali assicurare una giurisdizione universale (senza limiti di immunità) per fare valere, dinnanzi alla Corte penale internazionale, le responsabilità degli Stati resisi autori di gravi violazioni di quei diritti, ovvero ancora assicurando la massima divulgazione, lungo tutte le latitudini possibili, dei rapporti e delle conclusioni degli organismi internazionali di controllo e dei reports delle ONG, in maniera tale da garantirne la massima trasparenza e l’effettiva conoscenza in ogni angolo del pianeta.

Ciò posto in chiave di possibili suggerimenti costruttivi, vale la pena di domandarsi in quale misura quegli obiettivi si rivelino compatibili con gli scenari internazionali attuali, che proviamo a fotografare, ovviamente senza alcuna pretesa di definitività.

Viviamo in questo senso un’epoca di smarrimento, nella quale non sembra esserci alcuna chiarezza né sugli attori coinvolti, né sui compiti a ciascuno affidati, né sui confini di ciascuna sovranità nazionale.

Sul fronte internazionale, la minaccia terroristica globale ha di fatto spostato l’attenzione dai contrasti nei rapporti interstatali alla guerra verso gruppi di attori non statali ed entità trasversali difficilmente qualificabili secondo i paradigmi classici.

Quando gli Usa qualche anno fa hanno deciso di fare guerra ad Al Qaida (ma l’argomento potrebbe tranquillamente essere riproposto negli stessi identici termini per l’ISIS), hanno finito per accreditare il convincimento che uno Stato potesse mettersi sullo stesso piano delle bande criminali. Tuttavia, hanno dovuto ben presto prendere atto del rilievo che il nemico non era affatto chiaramente individuabile, al contrario di ciò che accade nelle relazioni fra Stati. E allora si è cominciato a vedere in ogni persona di cultura diversa (magari musulmana) un potenziale nemico e si è creata una spirale perversa in cui frange di estremisti sono riuscite a infiltrarsi, evocando la necessità dello scontro fra civiltà, di un contrasto niente affatto componibile fra noi e loro.

Tutto ciò senza trascurare di ricordare che gli occidentali hanno nel frangente smarrito il senso dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani (basti riflettere sui tentativi di giustificare la tortura e le politiche di sparizioni forzate di persone semplicemente sospettate di terrorismo, salvo poi rilasciarle appena ci si è resi conto di non avere neppure uno straccio di prova nei loro confronti).

Si è creata, per l’effetto, una sorta di prigione in una terra di nessuno, dove rinchiudere uomini senza diritti e senza volto, ai quali in ultima analisi è stata negata la dignità (la vicenda di Guantanamo, peraltro non l’unica, con tutte le vicissitudini che in prosieguo di tempo hanno provocato la definitiva chiusura della relativa struttura penitenziaria, rimane certo paradigmatica).

Trascurando di considerare, conseguentemente, che barbarie chiama barbarie, violenza genera distruzione, distruzione crea distruzione, per fortuna, alla fine, rendendosi conto che era stata imboccata una strada senza ritorno.

Se così è, appare quindi di tutta evidenza che per coronare il sogno dei diritti umani dovranno realizzarsi alcune precondizioni irrinunciabili, quali, per esempio, quella che il diritto internazionale penale dovrà riuscire a vanificare il ricorrente tentativo degli individui di invocare l’immunità, evocando la ragion di stato per giustificare i propri crimini; attraverso la quotidiana riaffermazione dello stato di diritto e dei diritti di partecipazione popolare si dovrà riuscire a evitare che gli Stati possano mettersi al servizio degli interessi dei potentati economici, a tutto discapito dei ceti meno abbienti, ormai in progressivo aumento sul piano quantitativo e qualitativo; si dovrà riuscire a fare diventare gli Stati realmente responsabili della propria sovranità, magari nell’accezione su richiamata della c.d. responsibility to protect; grazie alla definitiva consacrazione in tutte le fonti sovranazionali del principio di universalità della giurisdizione sui diritti umani, quantomeno in materia di risarcimento, si dovrà riuscire a costringere gli Stati a rispondere delle violazioni compiute, magari nella piena consapevolezza che la semplice corresponsione di somme di danaro a titolo di risarcimento non sempre riesce a compensare le perdite, persino di vite umane, subite.

Ciò posto, forse ha ancora un senso continuare a ricordare che i diritti umani sono storici, relativi nel tempo e nello spazio. Essi sono il prodotto della cultura politica, filosofica, religiosa dell’Occidente, sebbene alla loro definizione abbiano concorso significativamente anche paesi non occidentali e poi abbiano potuto trovare cittadinanza anche in contesti diversi e distanti dall’Occidente. è nota, al riguardo, la tesi di Amartya Sen, secondo il quale la democrazia e i diritti umani non sono affatto il risultato esclusivo della cultura occidentale, ma possono essere rivenuti anche in culture non occidentali come quelle asiatiche.

Occorre, dunque, come ci ha ricordato puntualmente Bobbio, abbandonare la ricerca di un fondamento ultimo ed extragiuridico dei diritti umani, facendo piuttosto leva sul consenso lievitato attorno ad essi.

Se, quindi, l’unico modo di pensare i diritti umani è quello di considerarli diritti relativi, dunque storici, sarà necessario rintracciare un fondamento non dogmatico che sia altrettanto storico, e, conseguentemente, non dato una volta per tutte. Detto fondamento va ravvisato appunto nel consenso generale caratterizzante la Dichiarazione Universale del 1948, che ha finito per universalizzare non solo i diritti umani, ma altresì i valori che li sottendono. Essa, infatti, ha espresso l’adesione degli stati firmatari ai principi della universalità e indivisibilità e interdipendenza dei diritti umani, ovvero all’idea che essi sono validi erga omnes e che i diritti civili, politici ed economici, sociali e culturali devono essere considerati come un unico “pacchetto”.

Ciò premesso, a ogni buon conto, il nodo centrale che investe i diritti umani non è più quello di fondarli quanto quello di proteggerli. E, con specifico riguardo a quest’ultimo aspetto, mette conto di essere considerata anche la posizione di coloro che ritengono che non vi sia alcuna certezza che, riducendo il catalogo dei diritti, aumentino parallelamente le chances di universalizzazione, argomentandosi, al contrario, che l’inflazione degli stessi (sotto il duplice profilo dei troppi diritti o dei troppi soggetti dei diritti) renderebbe ancor più difficile tutelarli tutti.

Rimane, ad ogni buon conto, il dato che la dottrina dei diritti umani ha aperto un varco nella plurisecolare tradizione che negava ogni soggettività giuridica internazionale a soggetti che non fossero gli Stati. Essa ha posto gli individui nella posizione di interlocutori e protagonisti attivi e passivi delle norme sui diritti.

Certo, gli Stati rimangono, anche in considerazione di ragioni di mero realismo, fondamentali attori del discorso sui diritti umani.

Ma, una volta sostenuto che i diritti umani si rivolgono anche agli individui, ai partiti, alle associazioni, e non solo agli Stati, si pone il problema di capire che uso quegli individui abbiano intenzione di fare di questo strumento di resistenza contro l’oppressione. In altri termini, ci si chiede: se i diritti umani sono degli strumenti contro l’oppressione, i soggetti cui essi potrebbero essere utili sono sempre in grado di servirsene?

Per fornire una risposta poco poco convincente alla domanda anzidetta, forse potrebbe essere utile fare ricorso ai concetti di violenza simbolica e di subalternità. Chiarendo subito che con l’espressione “violenza simbolica” si intende fare riferimento al rapporto fra soggetti dominati (o subalterni) e dominanti, e più precisamente avere riguardo alla introiezione da parte dei primi dei codici semantici del dominio elaborati dai secondi.

Di conseguenza, il subalterno è colui che ha introiettato gli strumenti interpretativi della realtà che il dominante ha costruito per lui e, proprio in conseguenza di ciò, egli è vittima della violenza simbolica.

La conseguenza di una siffatta adesione a quegli schemi precostituiti, nel discorso sui diritti umani, consisterebbe nella convinzione, da parte delle vittime delle violazioni, che esse siano “giuste e meritate”, che chi le subisce si percepisca come realmente subalterno. Paradigmatica, al riguardo, si rivela l’accettazione, da parte delle donne che a tutt’oggi ancora le subiscono, delle mutilazioni genitali femminili.

In questo caso, infatti, la vittima introietta le strutture cognitive del dominante (il genere maschile) e percepisce il proprio corpo entro una griglia interpretativa tipicamente maschilista che giustifica l’infibulazione o l’escissione.

Icasticamente, l’avvocato iraniano Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, ha sostenuto, in una intervista di qualche anno addietro, rilasciata al Corriere della Sera, che il maschilismo viene riprodotto dalle donne che, come per l’emofilia, sono portatrici di una malattia che però colpisce gli uomini (2).

Dunque, i subalterni vittime della violenza simbolica non si sentiranno meritevoli di accedere ai diritti umani, e anzi penseranno di meritare la loro condizione di subalternità, la desidereranno, poiché questo è l’habitus che la violenza simbolica ha cucito loro addosso.

Ma come risponde questo apparato teorico alla domanda se ci sia un modo per il subalterno di sottrarsi alla violenza simbolica?

Potrebbero esserci due strade, ossia l’intervento dall’esterno (le Ong che promuovono i diritti umani; i governi e le istituzioni in genere) e la presa di coscienza da parte di subalterni di essere vittime di un meccanismo che perverte le loro strutture cognitive.

L’intervento dell’esterno è esposto, però, al duplice rischio di essere visto come paternalistico o addirittura colonialista.

Allo stesso tempo, potrebbe tradursi in un atto di violenza, poiché dovrebbe mirare a combattere ciò che il subalterno stesso desidera e vuole (si pensi alla bambina che desidera essere infibulata poiché il suo habitus prescrive tale pratica).

Sull’altro versante (quello della presa di coscienza dei subalterni) verosimilmente si tratta di affermare che, se i diritti sono pensati come uno strumento contro l’oppressione, è necessario che a parlare siano coloro che subiscono le varie forme di essa, e non i loro autonominati rappresentanti. E allora, che fare per consentire a questi ultimi di parlare?

Se i subalterni non decidono di adottare operativamente i diritti umani come strumenti di lotta all’oppressione, perché rimangono ottenebrati dalla violenza simbolica, o ancora, essi riescono a parlare, ma dicono cose sgradevoli agli occhi dell’occidente etnocentrico-critico (fuor di metafora, se non aderiscono al sistema dei diritti umani, continuando a sostenere una prospettiva che conculca i diritti soprattutto delle donne), allora non rimarrà altro da fare che accettare questo stato di cose.

Non si può, infatti, certo autorizzare il ricorso alla forza al fine di esportare la democrazia e i diritti umani.

(1) - La scultorea definizione è da attribuire a D. ZOLO, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000, p.113

(2) - Cfr. P. CONTI, Shirin la dolce spiega il maschilismo malattia trasmessa da noi madri, in Corriere della Sera, 26 gennaio 2004

Ph.: Amnesty International - W4R Togo

Ph.: Amnesty International - W4R Togo