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ALESSANDRO CALZAVARA

Articolo

La pianificazione tra visioning e monitoring

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Alessandro Calzavara1

1 INU Veneto Email: calzavara@agriteco.com

Inviato: 19 ottobre 2020 | Accettato: 5 novembre 2020 | Pubblicato: 19 novembre 2020

Abstract

Nell’attività di pianificazione territoriale è stata introdotta, a più livelli endoprocedimentali, la pratica del cosiddetto “monitoraggio”, mutuata da consolidate prassi scientifiche, ma non coerentemente inserita nel processo amministrativo - gestionale. Da qui la banalizzazione di tale procedura in ennesimo burocratismo, favorita dalla mancata integrazione nella pianificazione: da una parte si assiste alla “rimozione” del monitoraggio (di fatto non espletato), dall’altra vi è “cessione di campo” (verso professionalità diverse). Ciò evidenzia i limiti della pianificazione generalmente intasa, incapace di gestire il territorio, soffocata da approcci disegnanti/designanti e normativo/burocratici. Da qui può partire uno stimolo a ripensare il piano quale “scenario mobile”, che abbia nel monitoraggio non solo una verifica di efficacia, ma anche volontà di gestione della storia, in maniera adattiva, applicando la teoria dei sistemi complessi. I sistemi di monitoraggio / retroazione sono parte centrale della ricerca epistemologica, a partire dalla “calibrazione” (retroazione + autovalutazione) di Bateson, fino all’approccio introspettivo di Nichols (dove il meccanismo di monitoraggio permette la soggettività delle rappresentazioni mentali). Inoltre, va considerato come il territorio si comporti come una particolare categoria dei sistemi complessi, ovvero quelli “aperti e viventi”: per questi, già Von Bertalanffy individuava (oltre a totalità, non-sommatività ed equifinalità) la retroazione positiva e negativa quale proprietà fondante, una riflessione che si spinge fino ad Hollnagel, che pone il monitoraggio tra le quattro ability per la valutazione delle Resilient Performance.

Parole chiave: pianificazione strategica, governance, sostenibilità

Come citare questo articolo

Talia M. (2020, a cura di), Le nuove comunità urbane e il valore strategico della conoscenza, Atti della Conferenza internazionale Urbanpromo XVII Edizione Progetti per il Paese, Planum Publisher, RomaMilano | ISBN 9788899237264.

© 2020 Planum Publisher

Introduzione

Nell’attività di pianificazione territoriale è stata ormai stabilmente introdotta, a più livelli endoprocedimentali, la pratica del cosiddetto “monitoraggio” (es. nella VAS e nella VIncA), mutuata da consolidate prassi scientifiche, ma non coerentemente inserita nel processo amministrativo-gestionale, fatto che ha portato ad assumere diversa fattispecie e, quindi, significazioni profondamente differenti (non ultimo quella “giustificazionista”). Il lodevole tentativo è stato quello di inserire procedure di controllo e di retroazione (nate nei processi di produzione industriale) nella pratica amministrativa, ma che mal si adattano ad un corpus normativo amministrativo (ma anche ad una imperante concezione della “politica”) di tutt’altra natura. La conseguenza è stata la progressiva banalizzazione di tali procedure, ridotte ad un ennesimo burocratismo, favorita anche dalla mancata integrazione del monitoraggio nello status disciplinare della pianificazione territoriale. In tal

senso (al di là delle considerazioni sulla qualità di specifici prodotti) si è assistito essenzialmente a due fenomeni di estraniazione: da una parte vi è stata la “rimozione” del monitoraggio (di fatto non compiuto, vanificando lo strumento stesso), dall’altra la “cessione di campo” (dove si applicano professionalità diverse, estranee all’ottica in cui si pone la pianificazione). Queste introduttive considerazioni aiutano a cogliere alcuni limiti della pianificazione così come generalmente intesa, evidentemente incapace di gestire il territorio, neppure nella sua banale trasformazione fisica, soffocata com’è tra approcci disegnanti / designanti e normativo / burocratici. La tesi su cui si vuole argomentare è che il piano (quale prodotto della pianificazione territoriale) non è che un “mezzo” del piano/pianificazione strategico/a, ma senza monitoraggio non piò esservi pianificazione strategica, quest’ultima assimilabile a quella “pianificazione creativa continua” propugnata da un Astengo che voleva superare la sua stessa definizione formale di pianificazione: “Secondo la logica di questo meccanismo concettuale ed operativo, il piano, anzi la successione di piani, assume carattere puramente strumentale, rispetto al processo di analisi, scelta e verifica che, costituisce, in questa nuova posizione l'essenza stessa della pianificazione.” (Astengo, 1966).

Planning vs monitoring

Il punto di partenza non può che essere quello sul cosa sia la pianificazione territoriale: il dibattito su tale tema è troppo ricco, articolato e storicamente “compromesso” per essere qui riassumibile in poche righe, da qui la necessità della più assoluta semplificazione, ricorrendo alla “fonte delle fonti”, quella del DPR 616/1977, “concrezione” di un lungo dibattito culturale: “… la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo …”. Come si vede, questa peraltro condivisa definizione ben rappresenta la grande ambiguità di uno status assolutamente non definito, sia dal punto di vista disciplinare che da quello normativo. Di certo non organizza lo sviluppo delle attività umane (visione “socio-antropologica” che aveva soppiantato il dibattito sulla “forma”, dopo averla accompagnata per secoli), così come di sicuro più che regolare l’utilizzo del territorio regola l’uso del suolo (in obsoleta parola, la rendita). Una sempre più articolata normativa di settore (agricola, commerciale, produttiva …) ha relegato progressivamente la pianificazione territoriale alla mera trasformazione edilizia (anche qui con notevoli limitazioni). La moltiplicazione delle fattispecie in una società complessa ha portato alla continua estensione del concetto di “deroga”, così come la velocità del mutamento ha fatto proliferare le “varianti” e la proliferazione delle competenze (e dei relativi piani) ha portato ad innumerevoli conferenze dei servizi. In estrema sintesi, la pianificazione sembra aver perso il suo confortevole status e lo svuotamento progressivo ha portato alla diffusa opinione che non serva più una pianificazione, sentimento iniziato negli anni Ottanta, con la nascita dell’approccio alla “città per parti”, figlio della riflessione sulla razionalità limitata. Lo scarso comfort di tale situazione ha portato alla elaborazione concettuale del piano strategico1, la cui concretizzazione non ha portato ad evidenti risultati, pur potendo essere considerato la “salvezza” della pianificazione. Trasformato ben presto in un piano tradizionale o in un piano “vuoto” e/o “poetico”, ha perso quello che può essere considerato il suo carattere più peculiare, ovvero il passaggio dal “piano delle decisioni” al “piano del sistema decisionale”. Associato ad un potente quadro conoscitivo, esso poteva costituirsi come sistema non di norme a cui uniformarsi, ma di regole capaci di indirizzare le decisioni sulle trasformazioni del territorio, volta per volta, seppur all’interno di un quadro di coerenza/razionalità complessiva. Questo può permettere di uscire dalle tuzioristiche discussioni avvocatesche che spesso hanno imbrigliato l’azione urbanistica: come documento programmatico sul territorio, esso impegna l’amministrazione procedente a regolare tutta la sua azione in conformità ad uno scenario condiviso, ben oltre le strette competenze urbanistiche, diventando, accompagnato dal DUP (Lamanna, 2020), il “piano dei piani”, gestore del tavolo di gioco delle azioni umane. In questo contesto il processo di monitoraggio diventa centrale, profondamente incardinato all’interno di una filosofia aziendalistica (d’altra parte il “suolo” non è un fattore di produzione? Un bene scarso? Un bene comune?) ben espressa dal ciclo di Deming (o ciclo di PDCA), metodo di gestione iterativo in quattro fasi (Plan–Do–Check–Act), utilizzato per il controllo e il miglioramento continuo dei processi e dei prodotti. In

1 Un lungo dibattito su questo “sentire” ha portato, a cavallo del nuovo millennio, ad una revisione della normativa di molte regioni, prevedendo una articolazione del piano in “strategico” ed “operativo”, tentativo di riappropriazione di un concetto migrato in campo aziendalistico, prevedente la creazione di una vision a cui riferirsi, una mission quale sistema di obiettivi, ed un tool di strumenti, mezzi e risorse da orientare (Fanfani, 2005).

tale approccio il “Plan” è un complesso di azioni (problem recognition, problem definition, problem area identification, root cause identification) che poco hanno a che fare con l’espansione edilizia, ma sono consustanziali ad una forte base conoscitiva, ad una chiara identificazione dei problemi ed alla razionale costruzione di una base interrelazionale. In questa ottica, il pianificare è risolvere i problemi di interfaccia con il territorio di una linea di sviluppo condivisa, quindi è “sostenibilità dello sviluppo”. Il monitoraggio è conseguenzialmente antecedente ad ogni azione di pianificazione (ed è mirato alla linea di sviluppo – nel senso di evoluzione –condivisa), in una azione circolare che agli effetti pratici non ha un “prima” ed un “dopo”. La prassi comune relega il monitoraggio agli strumenti di valutazione del piano (VAS, VinCA ed assimilabili) e (quando si espleta) non produce effetti sul piano, anche perché, dal punto di vista amministrativo, il processo di adattamento provocato da una eventuale retroazione è difficilmente collocabile, riducendosi ad una attività “giustificazionista” di greening. La difficoltà (amministrativa e concettuale) appare evidente nel momento in cui si passa alla definizione (non teorica) dell’oggetto di un siffatto monitoraggio. Che cosa misura il piano del monitoraggio? Lo stato dell’ambiente? L’interfacciamento tra territorio ed ambiente? Lo stato di attuazione del piano? Non pare azzardato affermare che nella prassi non vi è chiarezza e le misurazioni riguardano oggetti che poco hanno a che fare con il piano stesso, creando una scarsamente produttiva confusione di “piani” (lo stesso W.E. Deming osservava che se non si riesce a descrivere il procedimento di cosa si sta facendo, non si sa cosa si sta facendo). Aderendo a tale ottica, il lavoro del pianificatore appare molto diverso da quello tradizionale, paradossalmente vicino al Performance Manager, in quanto gestore del Product Lifecycle Management (d’altra parte il territorio è il più sofisticato “prodotto” dell’attività di una comunità: inoltre tale approccio è forse l’unica garanzia per perseguire una vera “sostenibilità”).

Monitoraggio come oggetto stesso del piano

Come nei sistemi di machine learning (che a loro volta simulano – o emulano? – l’attività cognitiva umana), la pianificazione potrebbe essere intesa come un processo di feature engineering (ovvero la creazione di un sistema di proprietà misurabili, una caratteristica dei dati che si vogliono analizzare), al fine di costruire da un dbase un feature space che permetta una classificazione dei fenomeni che sono stati selezionati come significativi. In altre parole, partendo da una determinata situazione territoriale, dovrebbe attivarsi una rete di monitoraggio orientata alla misura di fenomeni: • rappresentanti le emergenze territoriali (non si intendono solo le problematiche relative alla sicurezza degli abitanti e delle componenti ambientali, ma anche le “salienze” e le “pregnanze” del territorio stesso); • riferentesi agli obblighi derivanti dal sistema normativo (non solo urbanistico, ma anche inerenti ai settori connessi alla “territorialità”, ad esempio la fiscalità); • facenti capo al core di competenze del piano urbanistico (superabili, come visto, ma pur sempre ineludibili); • individuati dalla governance come significativi per la sua azione (garanzia della discrezionalità politica).

Come si vede, pianificatore ed amministrazione lavorano a stretto contatto per costruire uno “spazio virtuale”, misurabile, costituito da un dataset composto da features a cui attribuire delle labels, ovvero una classificazione (o quanto meno un clustering) dei fenomeni che si intendono governare. Ulteriore livello di discrezionalità, oltre che nella scelta del campo di azione, è rilevabile nell’attribuzione di un weight ed un bias per generare un output, ovvero il sistema delle azioni. Fuor di metafora (tratta dalla struttura delle reti neurali quale sistema di supporto alle decisioni), il processo di pianificazione si struttura con la definizione del suo campo di azione, di individuazione dei problemi, della definizione di obiettivi da perseguire con azioni, da implementare in un sistema relazionale gerarchizzato definente delle priorità e, quindi, una efficace / efficiente allocazione delle risorse (figura 1). Tutto partendo dalla “misurabilità”, pena l’impossibilità dell’attività di monitoraggio: la poetica (o retorica) del piano molto spesso nasconde la volontà di ampliamento della discrezionalità, fino a sfociare nell’arbitrarietà (che, in altre parole, è la “nonrendicontazione”).

Bisogna togliere spazio ad un possibile fraintendimento, ovvero che un tale approccio sia una limitazione dello spazio della “politica” e della “tecnica” urbanistica. La costruzione di un metaterritorio (peraltro il territorio è già un metaoggetto, uno spazio di rappresentazione, in termini kantiani) è anzi probabilmente l’azione politico-creativa di più alto livello: in questo “spazio” si decide che cosa è “reale” e cosa non lo è (come nel nostro cervello, la realtà è un modello mentale derivato dalla percezione).

Figura 1. Il monitoraggio come Knowledge Management (la conoscenza come capacità di agire)

Pianificazione come data strategy

Il percorso proposto, partente dalla costruzione di un feature space fino alla articolazione in una singola azione, può essere formalizzato anche nel seguente modo:

• selezione dei processi - KPA (Key Performance Areas, le aree critiche per la performance); • capire i dati che producono; • definire i KPI (Key Performance Indicators, ovvero il set di misure specificatamente prodotte per il processo da analizzare); • definire come verranno usati i KPI; • implementare soluzioni; • misurare i vantaggi.

Tale percorso è facilmente accostabile ad un processo organizzativo di data strategy, tema poco affrontato nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Parlando di digital trasformation della PA, generalmente ci si riferisce solo all’offerta attraverso canali digitali di servizi comunemente prodotti (certificati, accesso agli sportelli, informazioni), ma non si affronta il problema più radicale, quello della generazione di processi digitalmente nativi, che richiede l’affrontare la questione basilare della gestione / governo dei dati. L’esempio

della retorica sulla smart city appare significativo: la fascinazione della macchina / giocattolo tecnologico permette di produrre suggestioni di servizi avanzatissimi, ma che di fatto non rimettono in questione il sistema di produzione / fruizione del territorio (aumentando, per inciso, il controllo sociale attraverso il controllo delle cose che dovremmo controllare ed invece ci controllano – IoT, l’Internet of Things). Abbiamo quindi un insieme di cambiamenti tecnologici, ma non culturali, organizzativi, sociali: ciò paradossalmente comporta un aumento della complessità – invece della semplificazione – dei processi (si provi a pensare a quante “identità digitali” ogni cittadino ormai possiede). Nel percorso fin qui proposto emerge chiaramente l’importanza del “dato”, ma molto spesso esso non è identificato come tale (deprivandolo di senso ed utilità) e non è “regolato” (perdendo il carattere di comparabilità, non essendo determinato il suo campo di esistenza / validità). Inoltre, la frammentazione delle banche dati è condizione comune nella PA, creandosi così innumerevoli sottosistemi non dialoganti e diacronici (con una notevole perdita di efficacia di tali strumenti). Questa mancanza di condivisione del dato (non riducibile all’assenza di un data warehouse) moltiplica i “territori”, mentre proprio l’unità di spazio sta alla base di qualsiasi azione di buon governo (la frammentazione dello spazio provoca una disarticolazione del tempo, minando qualsiasi “trasform-azione”). L’integrazione amministrativa richiede una rivisitazione dei processi (costitutivi e generati) e la gestione di produzione / implementazione dei dati: ciò richiede obiettivi innovativi, non una semplice digital-vestizione. Infine il dato va “governato”, nel senso che la sua produzione deve essere regolata, ma anche entrare nella produzione delle regole; in altre parole vi è la necessità che esso sia integrato nei processi strategici, soprattutto in quelli che coinvolgono la pianificazione, posto che il territorio è il supporto fisico di tutte le scelte amministrative (e queste tutte hanno “conseguenze” territoriali). In sintesi, si vuole sottolineare che senza un piano non c’è governance e senza una governance dei dati non c’è un piano. Ciò appare strettamente connesso con quanto in precedenza affermato, ovvero che il piano dovrebbe essere un sistema di supporto alle decisioni, non una macchina deterministica (come forse è stato concepito) intelligente (capace di risolvere problemi), ma intenzionale (dimostrante di percepire il problema e volerlo risolvere, anche se con solo una intenzionalità secondaria, derivata dalla interazione tra progettista e amministratore).

Il monitoraggio trasforma il piano in una macchina per produrre futuro

Le esigenze espresse sono riconducibili a due necessarie espansioni: estendere (l’imploso) ambito del piano territoriale ed estendere (il limitato) processo di monitoraggio dello stesso. A ciò si aggiunge la necessità della convergenza tra “piano” e “monitoraggio”, che, come visto, nella realizzazione del feature space convergono fino a diventare consustanziali, orientati alla costruzione di un future space. L’introduzione nelle macchine di meccanismi di controllo (anticipazione / retroazione) ha rappresentato il tentativo di inserire nella macchina stessa una “rappresentazione” dell’obiettivo per cui essaè stata costruita (finalizzazione). Quindi, il sistema di monitoraggio “rappresenta” in modo univoco il sistema di obiettivi per cui è stato realizzato il piano, oltre ovviamente al modello di knowledge proposto (feature space + future space): è, in parte, il processo di “calibrazione” (retroazione + autovalutazione) proposto da Bateson, dove forme “tipologiche” diventano “topo-logiche” e viceversa, in un continuo rimando dialettico (o, addirittura, eco-logico). In quest’ottica, il monitoraggio non si pone come una semplice verifica di efficacia o di corrispondenza, ma diventa l’elemento dinamico che permette la gestione dell’evoluzione temporale e dei suoi eventi in maniera adattiva, applicando (non solo analogicamente) la teoria dei sistemi complessi (categoria a cui appartiene il territorio). Il piano “tradizionale”, con le sue ritualità e tempistiche, mal si adatta ad un tale approccio evolutivo, creando scenari “fisicamente conformativi”, che necessitano del ricorso sistematico a varianti / deroghe che portano a stravolgere il senso originario (oltre a creare la necessità di continui retrofit di monitoraggio, avulsi da una logica complessiva). Il piano strategico, nella sua “liquidità monitorata” invece costruisce continuamente scenari “mobili”, informazionali, non predittivi ma esploranti possibili (voluti o no) futuri (ed il futuro è l’unico spazio di azione a nostra disposizione, che possiamo in qualche modo influenzare). Posto che il territorio è assimilabile ad un sistema aperto e vivente, è possibile applicarne analogicamente le proprietà di tali sistemi, delineate da Von Bertalanffy: la totalità (ogni cambiamento di una parte causa un cambiamento in tutte le parti e in tutto il sistema), la non-sommatività (un sistema non è riducibile alla somma delle sue parti), la retroazione (il sistema reagisce ai dati di ingresso e li modifica, producendo o retroazioni positive – che inducono un cambiamento, perdendo stabilità ed equilibrio – o retroazioni negative - utilizzanti i dati di ingresso in modo da mantenere lo stato stazionario del sistema) e l’equifinalità

(stesse cause non producono i medesimi effetti, e viceversa). Il sistema di monitoraggio agirebbe quindi (sempre analogicamente) sulla proprietà retroattiva, valutando i dati in ingresso al sistema, generati da una azione compiuta sul sistema stesso. Diviene compito della governance valutare il mix di retroazioni positive e negative generatosi ed il mix di risposte utili per perseguire lo scenario “voluto”. È in questo modello che va incardinato il concetto di “resilienza”, che appare intimamente legato al monitoraggio, come ben incardinato nel FRAM (Functional Resonance Analysis Method) di Hollnagel, che, seppur nato per altri scopi (l’aumento della sicurezza negli ambienti attraverso l’applicazione delle tecniche di Resilience engineering), ben si presta ad applicazioni in tutti i campi dell’agire. Partendo dal presupposto che un sistema non può essere resiliente, ma bensì avere un potenziale per prestazioni resilienti, Hollnagel formalizza le quattro principali caratteristiche che una azione resiliente deve avere:

• la capacità di rispondere (a cambiamenti regolari e irregolari, disturbi e opportunità, attivando azioni codificate); • la capacità di monitorare (le prestazioni del sistema, cosa accade nell'ambiente e ciò potrebbe influire sulle prestazioni del sistema); • la capacità di apprendere (sapere cosa è successo ed essere in grado di imparare dall’esperienza); • la capacità di anticipare (essere in grado di anticipare ulteriori sviluppi nel futuro e mutazioni nelle condizioni operative).

In altre parole, si potrebbe concludere che non vi può essere resilienza senza conoscenza, pianificazione, capacità di futuro e monitoraggio (articolazione che ci riporta idealmente alla iniziale citazione di Astengo).

Riferimenti bibliografici

Astengo G. (1966) voce “Urbanistica”, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. XIV, Venezia, Sansoni. Bateson, G. (1984) Mente e natura, un'unità necessaria, Milano, Adelphi. Fanfani D. (2005), “Gli scenari strategici nel dibattito internazionale e nell’approccio statutario e identitario al governo del territorio: un modello interpretativo”, in Magnaghi A. (a cura di), Scenari strategici. Visioni identitarie per il progetto di territorio, Alinea Editrice, Firenze, pp. 33-46. Giacomini G. (2019), “Quattro scenari (e un cigno nero) nel futuro della post-democrazia”, in Sociologia della comunicazione, n. 58, p. 116-136. Godet M., Durance P. (2011), La previsione strategica per le imprese e i territori, Dunod, Malakoff. Lamanna A. (2020), “Il ciclo di Deming applicato agli Enti Locali - Il DUP da mero adempimento a guida operativa dell’Ente”, in Filodiritto (https://www.filodiritto.com/print/pdf/node/43544). Von Bertalanffy L. (1971), Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, ISEDI, Milano.

Siti internet

Il completo svolgimento tecnico / teorico del Functional Resonance Analysis Method di Erik Hollnagel è reperibile nel dedicato sito FRAM, all’indirizzo https://functionalresonance.com/index.html.