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RICORDO DI MARINA E GIOVANNI: DIVERSI E UGUALI
Dott.ssa Gioia Jacopini (*)
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Marina Frontali
Quando una persona cara muore cerchiamo conforto nel pensiero di un luogo in cui tutti ci ritroveremo dopo la morte. Io non so se questo avverrà, se ritroverò le persone amate una volta che avrò lasciato la dimensione di vivente su questa Terra. Quello che so è che posso ritrovare Marina adesso, in tanti ricordi legati al nostro lavoro insieme, per oltre trent’anni. Il ricordo più intenso è quello dei nostri tanti viaggi su e giù per il Lazio in occasione della ricerca epidemiologica sulla MH.
Ci vedevamo la mattina presto, quasi sempre il martedì, e partivamo per visite domiciliari a famiglie con storie di malattia individuate negli archivi delle neurologie ospedaliere. Un lavoro certosino cui si dedicavano Laura Torrelli, giovane laureata in Medicina e specializzanda in Genetica e Maria Pia Vivona, giovane laureata in Biologia, anche lei specializzanda in Genetica. Si trattava di esaminare centinaia di cartelle cliniche risalenti fino a vent’anni precedenti, cartelle rigorosamente cartacee e polverose, in cui la diagnosi di MH andava piuttosto intuita dalla descrizione dei sintomi perché raramente compariva come tale. Chi conosceva l’Huntington allora? Più o meno nessuno. Andavamo con la macchina di Marina e lei, grande viaggiatrice, abile nel leggere mappe e cartine, trovava anche le più sperdute stradine di campagna per arrivare a casa delle famiglie. Un’impresa un po’ pazza, che il direttore di allora, medico di formazione, ci aveva autorizzato mentre un suo successore minacciò di tagliarci le gambe se avessimo continuato, perché “un istituto di psicologia non ha nulla a che fare con la medicina”!! Ma non ci siamo fatte fermare da nessuno. È soprattutto in quell’entusiasmo per esplorare la frontiera – ricerche di frontiera infatti si definivano allora – che ritrovo Marina, nella felicità che ci veniva da quegli incontri domiciliari, con tutti i familiari riuniti a ricostruire insieme l’albero e la storia della malattia nelle diverse generazioni. Siamo state sempre accolte benissimo, tutti erano grati per quella attenzione ricevuta, tutti ci offrivano da mangiare –ricordo in particolare una cucina contadina, con il grande
camino acceso e il pentolone con i fagioli in cottura - e Marina spiegava in modo semplice cose difficilissime che pure tutti comprendevano mentre io mi concentravo sui malati e sulle dinamiche familiari. Esperienze preziose che ci permettevano di capire sempre meglio malattia e malati. Tutta un’altra storia rispetto alla specie di indemoniati rappresentati nei vecchi testi di medicina.
Marina ed io abbiamo lavorato in una genetica nascente, che creava una medicina predittiva destinata a modificare nettamente la relazione medico-paziente. Marina credeva fortissimamente nella condivisione della conoscenza affinché le persone a rischio potessero scegliere ed essere considerate competenti sulla loro vita. Il test genetico non produce terapia ma solo conoscenza che la persona deve decidere se affrontare o no.
Ho rivisto Marina anche nel libero territorio del sogno, eravamo in Africa, a poca distanza da una specie di villaggio devastato dalla guerra, si vedevano fiamme, c’erano esplosioni, ed eravamo lì per una ricerca epidemiologica e Marina diceva “ci servono altri prelievi, dobbiamo capire la causa”. Non so dove sia Marina ora, forse il sogno dice che morti qui ci svegliamo altrove a vivere una vita non troppo diversa… Quello che so con certezza è che Marina non avrebbe neppure considerato un’ipotesi così fantasiosa, diceva di essere totalmente priva di immaginazione e, a dimostrazione, amava raccontare di un tema datole dalla maestra in IV o forse V elementare. Titolo del tema: La mosca. Lei ricordava di aver scritto: Svolgimento. La mosca è un insetto, ha 6 zampe, 4 ali, 2 occhi e 3 ocelli. Che altro si poteva dire, oggettivamente, della mosca?
Eppure ce n’era voluta tanta di immaginazione per progettare, a inizio anni ’80, una ricerca epidemiologica regionale di una malattia che ci dicevano non presente in Italia. Prima di parlare di Giovanni devo fare una considerazione sul dolore.
Trovo che il dolore sia un’esperienza di cui è molto sopravvalutata la capacità di migliorare le persone. Con la loro tipica strategia di sopravvivenza gli umani, visto che il dolore è inevitabile – non mi riferisco solo a quello fisico – ne fanno un’esperienza speciale, una sorta di corsia preferenziale di apprendimento, tale da renderci “migliori”, qualunque cosa si intenda con questo: più generosi, più sensibili, più altruisti…. L’esperienza professionale mi ha insegnato che non è così, che ci sono sofferenze, in particolare quelle legate alla storia riproduttiva, che spesso rendono le persone “peggiori”, qualunque cosa si intenda con questo: invidiose del benessere familiare altrui, rancorose per le proprie sofferenze, ostili a progressi scientifici o procedure tecnologiche in grado di impedire o alleviare in altri esperienze dolorose del tipo di quelle da loro sofferte. Persone che hanno conosciuto l’inferno, molto spesso non riescono a uscirne.

Giovanni Bellocchio

Ponte di Cinvat
Tornando a Giovanni, per me era speciale perché aveva attraversato l’inferno – non saprei come altro definire la perdita di 3 figli – ma ne era uscito vivo. Era “quel signore gentile dell’Associazione che aveva sempre un sorriso per tutti”, come lo hanno definito in un messaggio di condoglianze. E infatti non c’è stata famiglia entrata in Associazione, che lui non abbia accolto con gentilezza e interesse. Giovanni conosceva il dolore e sapeva riconoscerlo negli altri, soprattutto nei giovani malati o a rischio. Lo intenerivano bambini e adolescenti con problemi da affrontare così enormi come un genitore malato, la disgregazione familiare e, in aggiunta, il rischio personale. Sapeva quanto può contare ricevere attenzione, un tempo dedicato per essere aiutati a mettere a punto un modo, il proprio modo di affrontare il problema, invece di essere liquidati con un “non c’è niente da fare”.
Questa è una caratteristica di Giovanni che sento fortemente in comune con Marina: lei condivideva conoscenza scientifica, lui esperienza diretta, ma con lo stesso obiettivo: dare strumenti alle persone perché potessero farcela a scegliere e seguire la strada giusta per loro, non passivamente dipendenti da professionisti talvolta poco sensibili. Non ho sognato Giovanni, ma ho immaginato che la sua mente avesse lasciato il letto d’ospedale ben prima del suo corpo e si fosse diretta con passo leggero all’appuntamento dove era atteso da tempo. Antiche religioni raccontano del Ponte di Cinvat, il ponte teso come l’arcobaleno tra la Terra e il Cielo. Tre giorni dopo aver lasciato il corpo, tutte le anime si presentano all’ingresso del ponte portando con sé le loro azioni. Infatti la vita non è un dono, nulla di ciò che crediamo di possedere è veramente nostro: la vita è un prestito che dovremo restituire e i beni materiali li lasceremo. Tutto ciò che porteremo con noi sarà quello che avremo fatto. È lì il senso della vita. E dunque, ecco tutte le anime portare con sé il bagaglio delle proprie azioni. All’ingresso del ponte di Cinvat, quello teso come l’arcobaleno fra la Terra e il Cielo, siedono tre giudici che pesano su una bilancia le azioni del defunto. Se prevalgono azioni egoiste e volte al male altrui il ponte si restringe, fino a diventare sottile come una lama, e l’anima che cerca di attraversarlo precipita nell’abisso e si perde. Se prevalgono azioni dedicate al bene degli altri l’anima attraversa il ponte senza difficoltà e procede verso il Cielo. E mi è facile immaginare Marina e Giovanni conversare sorridendo, come erano soliti fare, mentre percorrono senza difficoltà il Ponte di Cinvat…
* Ricercatore Associato ISTC/CNR