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A CAVALLO DI DUE CULTURE LA MORTE DI BORIS PAHOR

inconciliabili che non avevano e non hanno la possibilità di trovare un terreno d’incontro. Il motivo di questa incompatibilità è, in realtà, estremamente semplice. Entrambi i contendenti – siano essi filosofi, movimenti di partito, privati cittadini – hanno infatti una matrice comune, che però rende impossibile, proprio per sua natura, qualsiasi tentativo di conciliazione. Sia chi ritiene il sedicente giacobino un furibondo giustizialista, sia chi considera il controrivoluzionario un amico dell’aristocrazia, dei nobili, dei potenti, in una parola, delle élites, declinano il loro giudizio in una prospettiva morale, probabilmente moralistica. Non è quindi un confronto su un terreno politico, sociale, economico e che potrebbe trasformarsi in un contradditorio tecnico in grado di utilizzare anche contributi specifici più facilmente oggettivabili. Scendere su un piano meno astratto e più concreto, potrebbe essere più funzionale per addivenire ad una soluzione o, perlomeno, a trovare un linguaggio comune. Quando invece l’avversario viene demonizzato perché lo si ritiene – a torto o a ragione – aver abbandonato la propria individualità per rappresentare invece una funzione, è molto più complesso sdoganarlo e riabbracciare una prospettiva dialettica di confronto. Chi si richiama, nel 2022, al Giacobinismo è quindi un furibondo manicheo o uno dei pochissimi esempi di strenuo ed incorruttibile difensore dell’eguaglianza nella sua accezione più nobile e pura? Ai posteri (posteri posteri…), l’ardua sentenza…

di Alessandro Mezzena Lona Giornalista

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Lo scrittore triestino di lingua slovena. Oppure, l’intellettuale sloveno nato in Italia. O ancora, una grande voce della letteratura europea, che fa parte della minoranza slovena del Friuli Venezia Giulia ed è nato a Trieste. Definire Boris Pahor con poche, chiare parole, non è mai stato facile. Forse perché la Storia ha legato il suo destino all’appartenenza a un piccolo popolo, a una comunità la cui cultura, la lingua, l’essenza stessa del suo essere sono state spesso misconosciute, minacciate, prese a calci e pugni e perseguitate. Eppure, è così facile definire un uomo, un intellettuale, uno scrittore come Boris Pahor. Perché lui è stato, prima di tutto, una persona profondamente libera. Dalle tentazioni ideologiche, dalle distorsioni politiche, dai fanatismi religiosi, dalle conventicole letterarie, dagli opportunismi transitori. E poi, ha scelto di incarnare con grande determinazione l’ideale del narratore, del pensatore, che non accetta l’idea stessa di confine. Di barriera invalicabile tra i popoli. Per questo non ha mai smesso di battersi, con testarda determinazione, per un’Europa unita. Nel segno della cultura, della convivenza pacifica e rispettosa dell’altro, del superamento dei meri interessi nazionali, economici, politici. In tutta la sua lunghissima vita, che si è interrotta il 30 maggio del 2022 a meno di tre mesi dal centonovesimo compleanno, Pahor ha ribadito il profondo di senso di appartenenza che lo legava alla cultura slovena, pur coltivando un grande amore per quella italiana. Ancora oggi gli allievi che hanno avuto la fortuna di incontrarlo nelle vesti di professore alle scuole superiori, come lo scrittore triestino Marij Čuk, ricordano le sue appassionate lezioni su Dante, Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli e tanti altri grandi padri della letteratura italiana. Ma non possono scordare nemmeno l’emozione parallela che provava l’autore di “Necropoli”, “Il rogo nel porto”, “Una primavera difficile”, quando recitava i versi delle voci poetiche slovene come Srečko Kosovel, Ivo Gruden e il suo amico, ispiratore nella ricerca di una via alternativa al fascismo, al comunismo e al capitalismo, il cristiano-sociale Edvard Kocbek. «Mi sono allontanato da Dio quando ho attraversato l’inferno dei lager nazisti», spiegava Pahor a chi provava ad arruolarlo sotto la bandiera dei letterati ispirati da un credo religioso. «È stato il filosofo olandese Baruch Spinoza a con-

Boris Pahor

vincermi che l’immanente conta più del trascendente, perché Dio è qui, nella Natura: lui diceva Deus sive Natura». E a chi gli chiedeva da che parte politica volesse stare, rispondeva con grande sincerità: «Sono sempre stato autonomo. Non ho mai suscitato grandi simpatie né da una parte né dall’altra». Non a caso aveva scelto “Figlio di nessuno” come titolo per il libro scritto con la giornalista Cristina Battocletti (uscito in una nuova edizione nel giugno 2022 per La nave di Teseo). Concetto ribadito anche nel volume-intervista curato da Mila Orlić nel 2009 per Rizzoli “Tre volte no. Memorie di un uomo libero”. Essere libero, per Pahor, significava esprimere le proprie idee senza stare lì a pesarle sulla bilancia del proprio tornaconto. Senza preoccuparsi di risultare, a volte, lontanissimo dal pensiero ufficiale. Non aveva paura, ad esempio, ad affermare che Italo Svevo non era uno degli autori che sentiva più vicino. Per il fatto che in tutta la sua produzione letteraria mai aveva fatto cenno alla complicata convivenza tra italiani e sloveni a Trieste. Soprattutto dopo lo spaventoso incendio che distrusse il Narodni Dom, il 13 luglio del 1920. Vera e propria dichiarazione di guerra alla comunità slovena lanciata dall’emissario di Benito Mussolini nella Venezia Giulia: Francesco Giunta. L’avvocato e giornalista fiorentino che venne spedito a Trieste come segretario del Fascio e creatore delle squadracce di combattimento. Convinto che la propaganda nazionalista avesse falsificato e avvelenato anche la memoria dei morti italiani infoibati dai partigiani di Tito, Pahor non esitava a dichiarare: «Sono stato uno dei primi a denunciare le violenze dei partigiani jugoslavi quando ho pubblicato un’intervista con il poeta sloveno Edvard Kocbek nel lontano 1975. Eppure, proprio il caso delle foibe dimostra che si dovrebbe ricostruire e rendere noto il fenomeno nella sua complessità, in modo che diventi il simbolo di tutte le violenze che attraversarono questa terra di confine dal ventennio fascista all’ultima fase della Seconda Guerra Mondiale». Mentre pronunciava queste parole, il ricordo di Pahor andava alle atrocità compiute dai fascisti nei Paesi dei Balcani. Puntava, in particolare, il dito contro il campo di concentramento di Arbe-Rab, dove i bambini morivano di fame: «E le madri erano così disperate da arrivare a nascondere i propri piccoli morti nella paglia pur di non perdere la razione del figlio». Tragedia irrisa dal generale Mario Roatta, capo di Stato maggiore, con la frase «non si uccide mai abbastanza». A ricordare le vicende del criminale di guerra nostrano è stato, tra l’altro, il giornalista e scrittore Angelo Del Boca nel suo libro “Italiani brava gente?” (Neri Pozza, 2005). Roatta rimase impunito, dopo la fine della guerra, perché aiutato (probabilmente dai servizi segreti britannici) a scappare dall’Italia prima della sentenza di condanna. Protetto dal regime fascista di Francisco Franco, ritornò a Roma per morire da uomo libero il 6 gennaio del 1968. Visto che, nel frattempo, ci aveva pensato la Corte di Cassazione ad annullare la sentenza di condanna all’ergastolo emessa in primo grado. Poi, se non bastasse, sarebbe arrivata la cosiddetta “amnistia Togliatti” del 1946, confermata nel 1953 dall’iniziativa del guardasigilli Antonio Azara, a cancellare tutti i reati del tempo bellico. Pahor, dopo aver attraversato gli orrori dei lager, era ritornato alla vita con il sogno di un mondo, di un’Europa, di un’Italia diversa da quelle dei compromessi politici, degli spietati interessi economici, degli ottusi laccioli della burocrazia, dell’ingiustizia e della prevaricazione dei ricchi sui poveri. Lui, in sintonia con altri scrittori come il Premio Nobel Imre Kertész, dello Stéphane Hessel autore di “Indignatevi”, sperava che la gioventù avesse «una specie di rivelazione e che prenda atto che dipende solo da loro se la società Europa potrà cambiare». Non ha mai smesso di desiderare un mondo più giusto, Boris Pahor. Nemmeno quando l’ombra della Morte ha iniziato ad accorciare sempre più la luce delle sue giornate. Perché lui, fino all’ultimo, è rimasto «fedele all’uomo più che all’ideale».

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