E IO TI SEGUO BOOKLET DVD

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e io ti seguo


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e io ti seguo è una pubblicazione eskimo progetto e realizzazione fuori logo design franci&patriarca editing e coordinamento barbara tuccillo immagini: “e io ti seguo” (pp. 16, 19) “In nome di Giancarlo” (pp. 7, 21) Mario Amura (p. 23) Gianni Fiorito (pp. 4, 9, 10) Tony Giangiulio (p. 3) chiuso in tipografia 28 luglio 2010 eskimo srl viale trastevere 215 00153 roma www.eskimoweb.it

Intervista a Maurizio Fiume di Dario Formisano

L’intervista che segue è più complicata delle altre che hanno accompagnato i dvd di questa collana. Il regista di “E io ti seguo” e il suo occasionale intervistatore condividono infatti una lunga amicizia. E hanno in passato, in altre situazioni, altri film, lavorato insieme. Non solo. Maurizio Fiume (Napoli, 1961), sceneggiatore, regista, production manager – oggi in forze a Teatri Uniti, storica cooperativa di produzione teatrale e cinematografica – è un cineasta italiano per così dire eretico. Uno di quelli per cui rappresentare o raccontare non è mai una scelta soltanto estetica o soltanto narrativa. Ma una scelta che si fonda – ha bisogno di fondarsi – su convinzioni e suggestioni forti, meglio se extracinematografiche. Come non bastasse, come si vedrà nel corso di queste pagine, Fiume è anche uno di quelli che “non la manda a dire”. Intervistandolo, dopo un fitto scambio di mail, in un caffè di piazza dei Martiri, nella Napoli dove è tornato a vivere da diversi anni, ho infatti intuito quanto questa intervista fosse per lui importante. Quanto conti per lui, ma spero non per lui soltanto, fissare sulla pagina scritta una storia che non ha mai avuto l’occasione di raccontare fino in fondo. La storia di un film, certo. Ma che intreccia molti altri temi, nomi, fasi recenti e meno recenti della nostra cronaca e del nostro (mal)costume. Non è una storia sempre facile da ascoltare. Penso di non fare cosa sgradita all’intervistato se premetto che la racconteremo un po’ alla Godard. Ci sono l’inizio, lo svolgimento, la fine. Ma non necessariamente in quest’ordine.

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Si fa un gran parlare delle colpe del cinema, di registi fannulloni e produttori disonesti. Si dice anche che c’è chi produce film per comprarsi la casa, ma anche chi per produrre un film la casa è costretto a venderla. Ti spiace se rivelo che tu appartieni, letteralmente, a questa seconda categoria? Non credo sia un disonore, anche se, con due bambini da crescere, ne avrei volentieri fatto a meno. Tant’è. Un film a basso budget non contempla imprevisti. “E io ti seguo” l’ho prodotto io, con una piccola cooperativa che avevo creato nel 2000, la icarowebfilm, senza prevendite e finanziamenti pubblici. Quando ho iniziato avevo meno di un milione di lire sul mio conto corrente e un preventivo da 350 milioni. Ho utilizzato gli strumenti di finanziamento per le cooperative e creato un apposito fondo aziendale. Ho cercato e trovato soci disposti a investire, come in un tax credit ante litteram ma senza benefici fiscali. Non è bastato. Ho chiesto un primo prestito a una banca, poi un secondo; ho acceso un mutuo sulla mia casa di Roma… Il budget intanto, tra il 2001 e il 2003 – tanto è durata la realizzazione del film – aveva raggiunto i 250.000 euro. Intendevo pagare tutti, almeno un minimo, e ho voluto mantenere gli impegni presi. Ho trattato con Rai Cinema, Sky, Arte, senza riuscire a chiudere un contratto. Non ho potuto far altro che vendere l’appartamento in cui vivevo, acquistato con i sacrifici di 12 anni di lavoro. Ma non ho grandi rimpianti. Ho ancor più gratitudine per quei sovventori che mi hanno messo nelle condizioni di finire il film. Permettimi di ricordare Antonio Marino, che su un catamarano monoposto, durante una traversata dalla Spagna all’Italia, è sparito senza lasciare tracce di sé. Eppure gli anni di “E io ti seguo” sono quelli, sempre secondo una certa vulgata, dei finanziamenti facili da parte dello Stato al cinema d’autore. È una strada che hai tentato anche tu?

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Ci avevo provato un bel po’ di anni prima, in un’altra fase del progetto. E conoscevo – abbiamo conosciuto insieme, per esperienza vissuta con il film precedente, “Isotta” – quanto il finanziamento pubblico complicasse e finisse per asfissiare la produzione di un film. Volevo mantenere una certa indipendenza, il budget estremamente contenuto poteva permettermelo. Però prima di cominciare le riprese ho chiesto al Ministero il solo riconoscimento dell’interesse culturale. L’ho fatto per rendere il film più appetibile per un potenziale distributore, i film riconosciuti di interesse culturale potevano e possono accedere a varie agevolazioni... Il riconoscimento mi fu negato. La commissione era presieduta dall’allora direttrice generale Rossana Rummo e la motivazione fu la seguente: «Opera di impegno civile, che però può servire ben poco alla causa che abbraccia nel momento in cui si presenta secondo clichés del genere... essa descrive cose note di un degrado civile meridionale di cui parlare ancora servirebbe ormai a prolungare l'agonia invece di accelerarne il rimedio e la rinascita... un ennesimo film standard su come ci rimette chi è onesto, be', di questo non abbiamo bisogno». Ma ero fuori tempo: nel 2008 lo stesso MiBac assegnerà un finanziamento di 1.800.000 euro a “Fortapàsc” di Marco Risi, che racconta anch’esso la storia di Giancarlo Siani. Giancarlo Siani, il cronista del quotidiano “Il Mattino”, assassinato dalla camorra il 23 settembre del 1985, avrebbe oggi quasi gli stessi anni che hai tu. I commissari del Ministero non sapevano che per te quel nome, quel ragazzo, non erano solo lo spunto per un’onesta “opera di impegno civile”. Per anni Siani è stato per te poco meno di un’ossessione... Conoscevo personalmente Giancarlo. Lo avevo conosciuto alla fine del 1984. Il sociologo Amato Lamberti, che anni dopo sarebbe stato anche presidente della Provincia di Napoli, teneva un corso di giornalismo all’Università Popolare di Napoli, che seguivo anch’io. Spesso era proprio Siani a tenere lezione. Raccontava la

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sua esperienza al “Mattino”, a Torre Annunziata, dell’ambiente giornalistico napoletano. Senza peli sulla lingua, come era nel suo stile. Quando appresi dell’omicidio sono rimasto di sasso. Prima di quel momento non avevo mai pensato che la camorra potesse toccare direttamente te o le persone che ti sono vicine… Lentamente cominciai a pensare che il modo giusto per esorcizzare questa storia, questa nuova paura, fosse raccontarla. Che facevi in quegli anni? Quali erano le tue aspirazioni professionali? Lavoravo, per così dire, per un cine club napoletano, il Centro Culturale Giovanile di via Luigi Caldieri, al Vomero. Curavo l’ufficio stampa, organizzavo rassegne e inoltre scrivevo di cinema e televisione per alcune pubblicazioni. Volevo scrivere per il cinema e la storia di Giancarlo fu in un certo senso la mia prima vera occasione di raccontare qualcosa di interessante. In una traccia del dvd riproduciamo il testo del soggetto ispirato alla morte di Giancarlo Siani, con il quale vincesti, nel 1987, il premio indetto dalla cooperativa Cinema Democratico per il miglior soggetto originale. Come dicevo, avevo maturato l’idea di esorcizzare lo shock attraverso il racconto. Volevo prima di tutto capire che cosa era successo. Mi chiusi in emeroteca per tre mesi e lessi tutti gli articoli di Siani. Cominciò a sembrarmi tutto chiaro, tutto scritto in quegli articoli... Scrissi il soggetto che vinse il Premio, e anche una sceneggiatura. Dopo il premio mi contattarono in molti: produttori come Luigi De Laurentiis, registi come Amanzio Todini, attori come Sergio Castellitto. Scrissi diverse versioni del film ma non se ne fece mai nulla. E mentre scrivevo, sembrava che le inchieste su Siani si avviassero tutte a un punto morto. Tu invece ne eri “ossessionato”? Non la chiamerei ossessione. Avevo fatto un lungo lavoro di

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ricerca e sentivo di avere fra le mani una storia e un personaggio importanti. Nel 1990 proposi un progetto di docudrama, che chiamai come il vecchio soggetto, “In nome di Giancarlo”, al “Premio Filmmaker” di Milano. Fui selezionato, mi diedero 20 milioni di lire per girarlo. Realizzai il progetto con Roberto Gambacorta, dentro una cooperativa che avevamo fondato lo stesso anno – io, lui e altri, te compreso – la Riverfilm. Il ruolo di Siani, dapprima pensato per Roberto De Francesco, anche lui socio della Riverfilm, l’ho poi affidato a un altro socio, Antonio Cecchi. Ho apprezzato la tua tensione filologica nel voler proporre questo lavoro tra gli extra del dvd, ma oggi lo giudico lungo e datato. Così te ne ho dato una versione ridotta e aggiornata, più evocativa che propriamente narrativa. Teresa Saponangelo si è amichevolmente prestata a registrare una nuova voce fuori campo. Che tipo di storia avevi in mente all’inizio? E cosa è cambiato negli anni, nella tua visione del lavoro e del destino di Giancarlo Siani? Nel 1987 avevo scritto la storia di un ragazzo che cercava semplicemente di realizzare il suo sogno: fare il giornalista. E voleva realizzarlo senza ricorrere a scorciatoie, contando solo sulle proprie capacità. Questo personaggio mi sembrava nuovo rispetto allo stereotipo dell’eroe o al contrario del napoletano furbo o scansafatiche. Un personaggio nel quale io e molti della mia generazione ci identificavamo. Poi le inchieste giudiziarie, alcune inchieste giornalistiche – un servizio della rivista “Frigidaire”, una puntata del “Testimone” di Giuliano Ferrara, un “Telefono giallo” di Augias e “Il caso” di Biagi – insieme con alcuni libri nel frattempo pubblicati, mi hanno fornito il contesto nel quale si muoveva Siani. E mi sono accorto che il contesto, per dirla alla Sciascia, era altrettanto interessante (e tragico) della vicenda personale di Siani.

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Così ho mantenuto la storia di Giancarlo come storia principale, ma ho inserito tre storie parallele che sono altrettanti punti di vista della vicenda. Quello dei camorristi, che ho basato sulle ricostruzioni che al tempo andavano fornendo i pentiti. Quello dell’ambiente giornalistico, che secondo molte voci aveva avuto nei confronti di Siani comportamenti a dir poco contraddittori. Il punto di vista infine di imprenditori, politici e magistrati, a partire dalle inchieste di Tangentopoli e da tutto quanto si è scoperto grazie a pentiti e intercettazioni. Era chiaro che il lavoro di Siani, sia nei risultati che nel modo in cui veniva svolto, dava fastidio a molti. Questo ti esponeva al rischio di fare un film “a tesi”. E immagino che la cosa ti abbia posto non pochi problemi, sia in fase di scrittura che di realizzazione... Ne ero abbastanza consapevole ma non completamente. Ho pensato di uscirne fuori con una sceneggiatura che fosse rigidamente basata su documenti, volevo che qualunque evento raccontassi fosse supportato da fonti incontrovertibili. Decisi di avvalermi della consulenza di Nello Cozzolino, un giornalista che su “Prima Comunicazione”, ma soprattutto sul sito “Iustitia.it”, raccontava senza conformismi i retroscena del giornalismo napoletano. Cozzolino, come altri suoi colleghi, era anche in possesso delle carte dell’inchiesta giudiziaria del processo Siani. È stato lui che mi ha permesso di accedere a fonti primarie e verificare ogni evento che mi sembrava necessario raccontare. Il confronto diretto con Bruno Rinaldi, vicequestore capo della squadra mobile di Napoli – stretto collaboratore del pm Armando D’Alterio, responsabile dell’inchiesta giudiziaria sul caso Siani che ha portato all’arresto di mandanti ed esecutori – e con Pietro Gargano, decano dei giornalisti del “Mattino”, mi ha infine permesso di scrivere e poi realizzare il film che avevo immaginato. In ogni caso, pur con queste forti limitazioni ho sempre desiderato “fare del cinema”, ovvero raccontare coinvolgendo emotivamente lo spettatore.

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E però il nome Siani, nel film non viene mai pronunciato. E nessuno pensa sia soltanto il frutto di una scelta narrativa. Perché? Alla fine è stata davvero una scelta narrativa. Fare un film dentro la cronaca eppure ribadirne l’autonomia, il diritto a un’elaborazione creativa. È chiaro nel film, fin dalle prime inquadrature, che il mio Giancarlo non può che essere Giancarlo Siani. È vero però che il problema si è posto e anche in maniera piuttosto drammatica. È una storia non proprio edificante. Vuoi che la racconti? È la tua occasione. Dunque era successo, siamo a giugno del 2001, che il “Venerdì di Repubblica”, aveva dato notizia della preparazione del mio film. Il 6 agosto mi arriva una diffida da parte della Europeanfilmcommission (che non è una Film Commission nel senso in cui le intendiamo oggi, ma una società privata) di Gianfranco De Rosa. La diffidante sostiene di essere titolare esclusiva “per concessione degli eredi” dei diritti di utilizzazione del nome di Giancarlo Siani. Rispondo che non possono esistere “esclusive” di questo tipo e chiedo in buona fede di poter verificare questa titolarità. Non ricevo risposte, ma la cosa comincia a inquietarmi: un giornalista del “Corriere del Mezzogiorno”, Diego Del Pozzo, mi chiama e mi fa avere un fax dello stesso De Rosa in cui venivo definito “un bandito”. A ottobre dello stesso anno ricevo una richiesta di danni per cinquecento milioni di lire! Gianfranco De Rosa aveva girato un cortometraggio anch’esso ispirato alla vicenda Siani, dal titolo “Mehari”. Ancora durante le riprese, la prima società che nel frattempo aveva rilevato il progetto di De Rosa, insisterà nel rivendicare l’esclusiva di usare il nome di Giancarlo Siani e nel chiedere il risarcimento dei danni. Tutte istanze per fortuna archiviate dal giudice. De Rosa figura oggi tra i produttori di “Fortapàsc”.

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Non cercasti un chiarimento con la famiglia Siani? Non era facile. Conoscevo appena Paolo Siani, il fratello di Giancarlo. Mi era stato presentato nel 1988 al Centro Culturale Giovanile di via Caldieri dove si riunivano i soci della prima Associazione Giancarlo Siani. In quell’occasione gli parlai del mio progetto. Lo stesso feci quando vinsi il Premio Filmmaker. Ci incontrammo di nuovo al cinema Alcyone di Napoli in occasione di una proiezione del documentario organizzata dalla “Repubblica”. Quando poi nel 2001 stavo per iniziare le riprese del film chiesi a Paolo Siani un incontro e ci vedemmo alla Caffettiera Vanvitelli, nel mese di settembre. Riepilogai brevemente la mia vicenda ma lui disse di non ricordare tutti i passaggi. In ogni caso mi confermò di non potermi autorizzare l’uso del nome Siani avendo ceduto ad altri l’esclusiva. Andai avanti ugualmente, convinto – e confortato da più di una consulenza legale – che non possa esserci esclusiva di alcun tipo su storie o nomi presi dalla cronaca. Nomi e cognomi a parte, gli interessi e i temi che andavi a toccare erano più che delicati. Hai mai avuto paura? Non ho avuto paura. Piuttosto l’impressione che quando parli di camorra, il “sistema” (ed eravamo ben prima di “Gomorra”) sia pronto a sfruttare ogni tua debolezza. Avrei più di un episodio da raccontare a conferma di quest’impressione. Mi limito all’ultimo in ordine di tempo. Giravo un documentario, “Confini”, nel carcere di Pescara (tra gli extra di questo dvd, ndr), ci sono molti detenuti napoletani, tutti “affiliati”. Terminate le riprese uno di loro, il più anziano, viene a salutare e ringraziare. «Ho saputo che hai girato un film che parla di noi». Lo guardo negli occhi e confermo: «Quello su Siani». «Già proprio quello. Stai tranquillo. Andrà tutto bene».

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Torniamo alla genesi del film. Quando è che nonostante i segnali non proprio incoraggianti hai deciso di partire con la produzione? Nel 2001 accadono due cose significative. Viene pubblicato da Marsilio, e ha una vasta eco mediatica, “L’abusivo” di Antonio Franchini, che non è proprio un libro sul caso Siani ma viene percepito, anche grazie al bel titolo, come tale. C’è più di un produttore che pensa di comprarne i diritti e io sento il bisogno di non aspettare oltre. La seconda cosa è che sto organizzando a Genova, per Mauro Berardi, le riprese di un film a più mani sul G8, “Un altro mondo è possibile” e che in quei giorni mi convinco di poter girare “E io ti seguo” in digitale con una telecamera. Provai a mia volta a comprare i diritti del libro di Franchini, ma fui bruciato, in tutti i sensi, da Rai Cinema. La cosa non mi fermò. Pensai, ingenuamente, che se fossi arrivato primo su una storia così importante, la stessa Rai non avrebbe potuto ignorarmi. Angelo Curti, produttore di Teatri Uniti, mi mise un ufficio a disposizione a Fuorigrotta e cominciai la preparazione. Avevo per fortuna da poco finito un corso sull’organizzazione della produzione per aiuto registi, producer e segretarie di edizione, la qual cosa mi consentì di mettere su un primo nucleo di collaboratori, tutti giovanissimi ma dotati di grande entusiasmo. Ho iniziato la preparazione del film il giorno in cui le Torri Gemelle furono rase al suolo. Con che mezzi avete poi girato? Ho girato con una telecamera Sony PD150 e poi abbiamo trasferito il montaggio finale su pellicola 35 mm al laboratorio Augustus Color di Roma utilizzando il vecchio sistema del vidigrafo. Il direttore della fotografia, Mario Amura, aveva già sperimentato il digitale, entrambi eravamo affascinati dal metodo Dogma di Lars Von Trier. Avevamo pochissime attrezzature, tutte stipate in un camion che guidava il direttore di produzione, Enea Cioffi. Abbiamo lavorato con una troupe essenziale. In 24 giorni di riprese abbiamo girato 60 scene in circa 40 location diverse, con

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Angelo Petrella - cui si deve la video introduzione alla visione di “E io ti seguo”, riprodotta tra gli extra del dvd – è uno scrittore napoletano che si era già cimentato con la storia di Giancarlo Siani. Nel 2009, aderendo a un progetto di Mario Gelardi, realizzato dalla piccola casa editrice Ad est dell’Equatore (www.adestedellequatore.com), ha scritto, in un bel libro dal titolo “La ferita – Racconti per le vittime innocenti di camorra”, un racconto caratterizzato da un originale punto di vista sulla vicenda Siani. Poiché il racconto ci era piaciuto – ed è la ragione per cui abbiamo pensato a lui per la presentazione del film – ci sembra interessante riprodurne integralmente il testo. Lo facciamo grazie alla gentile concessione dell’autore, del curatore e dell’editore. Che naturalmente ringraziamo.

Impercettibili sfumature di Angelo Petrella Io il millenovecentottantacinque me lo ricordo. Ci stanno due cose importanti ché ti devi per forza ricordare il millenovecentottantacinque: no, non Enzo Tortora. E nemmeno i terroristi palestinesi quando dirottarono l’Achille Lauro. Il millenovecentottantacinque me lo ricordo bene per via della lotteria Italia. Erano i primi di gennaio e io e Giancarlo stavamo a piazza Plebiscito, in mezzo al traffico. A quel tempo ci stavano ancora un sacco di macchine e pure i parcheggiatori abusivi e pure una fontana, al centro della piazza. E insomma eravamo fermi in mezzo al traffico e stavamo andando a Torre Annunziata a pigliare un po’ di informazioni su della gente che avevano arrestato. Dopo che Giancarlo è morto io sono rimasto chiuso a casa di sua mamma e non mi sono mosso più. Però a quel tempo stavo sempre con lui, dalla mattina presto fino a quando se ne andava a dormire. A volte rimanevo per un sacco di tempo vicino alla sua scrivania al giornale.

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Comunque, quel giorno, in mezzo al casino di piazza Plebiscito vediamo attraversare un tizio strano, colla faccia da pazzo, che gridava appunto come un pazzo e faceva dei salti di mezzo metro, ché per poco non lo mettevamo sotto. Io non sono mai riuscito a riconoscere bene le espressioni sulla faccia di Giancarlo, però sono sicuro che in quel momento stava ridendo. “Aggio abbuscato! Aggio abbuscato!”, urlava il pazzo. Io mi pensavo che parlava della partita del Napoli, però era martedì e non era possibile. Allora mi sono pure pensato che a quel signore veramente lo aveva stroppiato qualcuno: a Napoli, soprattutto al centro, sta pieno di gente spostata che per niente ti alza le mani addosso. Ma però quel signore teneva la faccia troppo contenta e infatti, pure se faceva le sue pazzarìe, continuava a ridere e a saltare. Quella notte stessa, io e Giancarlo stavamo leggendo l’edizione del giornale uscita fresca fresca dalla rotativa e ci troviamo questo titolo enorme: “Lotteria Italia: a Napoli, premio da un miliardo. Caccia al fortunato vincitore”. Quel pazzo che faceva le pazzarìe aveva avuto veramente il culo rotto, scusate l’espressione. Quando siamo arrivati a casa sua al Vomero, la prima cosa che Giancarlo ha fatto è stato aprire un cassetto della scrivania, pigliare il suo biglietto della lotteria e stracciarlo. Io non sono mai riuscito a riconoscere bene le espressioni sulla faccia di Giancarlo, però sono sicuro che in quel momento stava ridendo. Mi sono sempre pensato se Giancarlo vinceva lui la lotteria, forse non moriva. O forse sì lo stesso. Tutti i giornalisti, perfino gli scrittori, hanno detto che in realtà la morte di Giancarlo era già

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decisa il giorno dieci giugno millenovecentottantacinque, quando uscì un articolo dove si diceva che il boss Valentino Gionta di Torre Annunziata era stato arrestato per colpa del boss Lorenzo Nuvoletta di Marano. Cioè, il fatto è che per fare piacere alla famiglia dei Bardellino della provincia di Caserta, Lorenzo Nuvoletta doveva uccidere a Valentino Gionta: però Nuvoletta era mafioso come Gionta, oltre che camorrista, e perciò non poteva far uccidere un altro mafioso. Non sarebbe stato onesto. E allora fece una pensata niente male, e cioè pensò “Io mo’ lo faccio arrestare dai carabinieri, faccio una soffiata anonima. Tanto nessuno lo viene a scoprire”. Ma però qualcuno lo viene a scoprire e infatti un capitano dei carabinieri ce lo venne a dire a me e a Giancarlo. Così, nell’articolo del dieci giugno millenovecentottantacinque, Giancarlo in pratica diceva che Lorenzo Nuvoletta era un quaquaraquà, cioè un infame, uno che fa la spia alla polizia. Per questo Lorenzo Nuvoletta ha fatto sparare a Giancarlo. Però volevo dire che a quel tempo della lotteria che vi ho detto prima, era ancora gennaio e Giancarlo non aveva ancora scritto quell’articolo e quindi se vinceva la lotteria forse non avrebbe scritto quel pezzo per “Il Mattino”. O forse sì, non lo so. Quattro giorni prima che hanno ammazzato Giancarlo stavamo a casa sua. Suo fratello e gli amici gli hanno fatto la torta e mentre spegneva le candeline stava quasi per affogare, s’è messo a tossire e ha fatto un rumore assurdo colla bocca per pigliare fiato. Allora gli amici si sono messi a sfotterlo. Io non sono mai riuscito a riconoscere bene le espressioni sulla faccia di Giancarlo, però sono sicuro che stava ridendo. La sera che l’hanno sparato stavamo tornando a casa, dietro piazza Leonardo, vicino a quella strada che poco dopo si arriva praticamente a Salvator Rosa. Giancarlo aveva appena parcheggiato, teneva un piede quasi fuori dalla macchina quando abbiamo visto uno dei due tizi che teneva il braccio dritto e la pistola puntata. Quando ho sentito il primo colpo non ho

capito più niente: mentre rotolavo per terra ho visto Giancarlo che sbatteva colla faccia vicino al parabrezza. Poi ho sentito un altro colpo e ho visto che Giancarlo cadeva all’indietro, con uno scatto come quando scivoli sulla cera per i pavimenti. Allora ho sentito che faceva un rumore assurdo colla bocca, come quello di quattro giorni prima quando spegneva le candeline della torta. Poi ho sentito l’ultimo sparo e il rumore assurdo è finito anzi tutti i rumori sono finiti. Non è durato assai, il silenzio. Dopo un poco sono arrivate un sacco di persone e pure la polizia e ci stava gente che gridava e poi sono scesi pure i genitori di corsa da casa e gli amici. Qualcuno per poco non mi calpestava. Ho passato un sacco di giorni in mano a poliziotti e magistrati e avvocati. Poi mi hanno riportato a casa e da quel giorno là sono rimasto chiuso in un cassetto e nessuno mi ha toccato più. Solo la mamma di Giancarlo ogni tanto, ma ogni tanto. Ci sta un filosofo tedesco, che si chiama Wittgenstein, che dice che la nostra logica è come gli occhiali sul nostro naso: possiamo vedere attraverso le lenti, ma non possiamo vedere le lenti. Però secondo me vale pure l’incontrario: per questo da sopra al naso di Giancarlo non sono mai riuscito a riconoscere bene le espressioni sulla sua faccia. Ma, se ora mi sta ascoltando, sono sicuro che sta ridendo.


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40 attori e più di 300 comparse. Ho montato con Alessandro Corradi. La post produzione è durata quasi un anno.

più complesso. Non ero più un esordiente. Nel complesso ero soddisfatto e come me lo erano i miei principali collaboratori. Eravamo pronti ad affrontare il pubblico.

Dove avete girato? Gran parte della vicenda che raccontavi era ambientata a Torre Annunziata, un‘area non certo tra le più facili. Conoscevo bene Torre Annunziata. Ho completato lì i miei studi superiori al Liceo Scientifico e un mio compagno di classe, Giosuè Starita, è sindaco della città. Ho avuto inoltre il contributo fondamentale di Mario Amura, che è proprio di Torre Annunziata e ci ha consigliato come muoverci, suggerendoci quello che si poteva fare, quello che era meglio evitare. Abbiamo girato molti esterni – e solo alcuni interni – a Torre Annunziata. La redazione del “Mattino” l’abbiamo ricostruita a Castellammare, nella redazione di “Metropolis”, un giornale locale. Gli esterni del “Mattino” sono tutti girati a via Chiatamone (dove ha sede il quotidiano); la strada che Giancarlo compie ogni giorno in Mehari per arrivare al giornale, dal Vomero dove abitava, è la strada che percorreva nella realtà. Anche la scena della sua uccisione l’abbiamo girata a Piazza Leonardo, proprio sotto la lapide che lo ricorda. Ho pensato che fosse un grave errore che nell’inquadratura si veda la lapide. Un solo critico ha notato l’errore, ma lo ha considerato un punto di forza del film.

Anche nel caso di “E io ti seguo” – come degli altri film che proponiamo in questa collana di dvd – la distribuzione è stata avventurosa quanto la produzione. A metà del 2002 ho iniziato la trafila dei festival. Ho ricevuto molti apprezzamenti ma nessuna selezione importante. Per i festival stranieri preferivo dribblare i corrispondenti italiani convinto che le logiche nazionali finiscano sempre per privilegiare i film più forti dal punto di vista produttivo. Fui infine selezionato dal Festival di Montreal in concorso, nella sezione Cinema Europeo. In Italia puntai sugli “Incontri di Sorrento” che nel dicembre 2003 tentavano di rilanciarsi e proiettarono il film ad apertura di festival. Pensavo potesse essere un trampolino mediatico ma le cose andarono diversamente e credo che in qualche modo proprio nella mia regione il destino del film ne uscì negativamente segnato.

Alla fine delle lavorazioni eri contento del risultato? Quando inizi un film indipendente sai che devi inventarti le migliori soluzioni al costo umano ed economico più basso possibile, che alcune scene che hai immaginato dovrai profondamente modificarle, alcune dovrai tagliarle, altre non riuscirai a girarle. Ero preparato ai problemi, ai ritardi, ai cambiamenti. Tra il documentario “In nome di Giancarlo” ed “E io ti seguo” avevo girato “Drogheria”, un cortometraggio in 35 mm (anche questo tra gli extra del dvd, ndr) e “Isotta”, che produttivamente era un film

Che cosa accadde? Accadde che l’inviato del “Mattino”, Pietro Treccagnoli, fece un resoconto del film in cui criticava, devo dire in maniera equilibrata, il modo in cui venivano raccontati i giornalisti del “Mattino”. Mi chiamarono poi sul cellulare per dirmi che “Il Mattino” avrebbe chiesto il sequestro del film! E il giorno dopo sulle pagine del quotidiano venne pubblicato un comunicato di censura al film da parte del Comitato di Redazione. Seguìto, qualche giorno dopo, da un altro comunicato, questa volta dell’Associazione Napoletana della Stampa, presieduta da un giornalista del “Mattino”, Gianni Ambrosino, di solidarietà ai colleghi del quotidiano. Ne riporto il testo: «Interpretare e rappresentare la dura vita di un cronista ricorrendo a trasposizioni fantasiose per rendere più attraente una vicenda di per sé tragica costituisce una

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violazione grave dei più elementari diritti all'informazione». La cosa davvero grave era che nessuno dei firmatari aveva visto il film e tutti si basavano sul resoconto di Treccagnoli. Provai a rispondere ai due comunicati in maniera argomentata, sostenendo che il mio non era un documentario, che rivendicavo la libertà di interpretazione dei fatti, pur basandomi su documenti, e che ero pronto ad un dibattito pubblico. Di questa mia replica, né “Il Mattino” né altri giornali pubblicarono una sola riga. I distributori, con cui avevo intrapreso una negoziazione per fare uscire il film, decisero di non prenderlo in distribuzione. Alla fine “E io ti seguo” è uscito nel 2004, a Napoli al Filangieri e all’America Hall, grazie ad Annie e Giuseppe Grispello. Poi è stato proiettato in oltre cinquanta tra rassegne, festival, convegni, in alcune università e in molte scuole. Tra tutte le proiezioni tengo a ricordare quella al cinema Trianon del 25 gennaio 2004 organizzata dal Centro per l’educazione alla legalità della Provincia di Napoli. Ricordo che in quella occasione mi si avvicinò Maurizio Cerino, un giornalista del “Mattino”, urlandomi di aver raccontato un sacco di bugie su Siani. Il cerchio in qualche modo si chiudeva. Cerino era il coautore del cortometraggio “Mehari” e figura tra gli sceneggiatori di “Fortapàsc”. La tua colpa era quella di aver alzato il velo su possibili collusioni con il disegno malavitoso che aveva portato all’ammazzamento di Siani di qualcuno interno alla redazione del giornale. Non era certo cosa da poco. Nel film c’è un personaggio, Santilli, interpretato da Antonio Manzini, che potrebbe aver sottratto – l’ipotesi è suggerita ma non rappresentata – a Siani la cartellina che conteneva la sua inchiesta sui rapporti tra imprenditoria e politica a Torre Annunziata. Un’inchiesta che Giancarlo avrebbe voluto pubblicare in un libro, come risulta da una sua lettera privata e da alcune sue conversazioni riportate da una sua amica di Bologna, Chiara Grattoni in una testimonianza resa al giudice. Ho sempre dichia-

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rato che Santilli fosse un personaggio di fantasia e continuo a dichiararlo. Ma che rappresentasse quei lati oscuri interni alla redazione del “Mattino” che nei mesi e negli anni successivi all’assassinio Siani avevano tuttavia un loro riscontro, se pure non definito in sede giudiziaria, in alcune indagini dei magistrati come nel racconto di altri cronisti e osservatori. Pensavo inoltre che dal 1985 al 2002 di acqua sotto i ponti, compresi quelli di via Chiatamone, ne fosse passata. Non credevo che un giornale, una categoria, potessero chiudersi in maniera così censoria a una possibilità di dibattito. Che era poi quello che veramente mi interessava. Che genere di dibattito? Un dibattito nel corso del quale, si potesse e si possa, anche al di là delle sentenze, ma tenendo conto delle indagini e del lavoro dei magistrati, provare a dare una risposta a quelle domande che sono state poste non certo dal mio film o non solo dal mio film, ma che sono state sistematicamente eluse. È vero che Giuseppe Calise, uno dei capiservizio di Siani ha scritto un libro dal titolo “Morte di un cronista”, in cui sposa a priori l’inchiesta sul caso – che si rivelerà senza alcun fondamento – del procuratore generale Aldo Vessia? Quel Calise che intercettato telefonicamente nel ‘92 prometteva al questore – la cosa fu ripresa da molti giornali – che avrebbe cacciato “con un calcio in culo” un altro suo giornalista, Gianni Ambrosino? È vero che il pentito Ferdinando Cataldo, giudicato attendibile in tre gradi di giudizio (come raccontato dal suo avvocato, Arturo Buongiovanni anche in un bel libro edito da Donzelli, “Intendo rispondere”), riferì che a rendere riconoscibile il volto di Siani ai suoi sicari fosse stato un imprenditore di Torre Annunziata, tal Salvatore Annunziata detto Damiano, e che questa “segnalazione” era avvenuta a via Chiatamone in presenza di un collega di Siani? È vero oppure no,

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come racconta un passaggio dell’inchiesta del vicequestore Rinaldi, che una guardia giurata, Armando Silvestre, ha detto di aver assistito, sempre a via Chiatamone, all’episodio in cui Siani chiedeva protezione, perché si sentiva minacciato, a un “falco” suo amico, tal Giovanni Mannocchia detto Maradona? Che il Silvestre ha raccontato questo episodio al giornalista del “Mattino” Giulio Avati e poi a Calise, e che sia stato da questi invitato ad andarlo a raccontare anche al magistrato Cono Lancuba, il giudice poi tirato in ballo dal pentito Galasso, arrestato nel marzo 1994 e condannato in primo grado, nel luglio 2000, a otto anni per concorso esterno in associazione camorristica e corruzione? È vero che la testimonianza fu archiviata dal magistrato senza metterla minimamente in relazione con il caso Siani? E che quando il vicequestore Rinaldi trova finalmente la cartella con la deposizione, tutti cadono dalle nuvole, compreso il giornalista che aveva accompagnato Silvestre dal magistrato? Il giornalista Maurizio Cerino che pure ha scritto un libro su Siani ma questo episodio ha raccontato in ben altro modo dal vicequestore? È vera oppure no la dura reazione dei redattori più giovani del quotidiano alla decisione del direttore Pasquale Nonno di dare, all’indomani della tragedia, solo poche righe alla notizia dell’omicidio? Un film, un’opera possono, forse devono, confrontarsi con queste domande, non certo compiacere i giornalisti che andranno a vederlo. Devo riprendere il filo da dove ho iniziato. Conosco Maurizio Fiume da troppi anni per dubitare di quanto sia onesta, sincera questa sua richiesta di verità, o anche soltanto di un dibattito in cui le varie ipotesi siano formulate e non rimosse. Questa sua consapevolezza circa il fatto che se certi nodi non vengono mai al pettine, un Paese non potrà mai dirsi veramente civile. E del resto quel che sia davvero accaduto a Giancarlo Siani, che cosa ci fosse nella sua cartella, chi e se davvero qualcuno sia stato complice, anche inconsapevole, dei suoi assassini, è soltanto

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un altro dei misteri in cui è intorbidito il passato del nostro Paese. Capisco finalmente adesso anche che cosa significasse la frase di lancio, riprodotta sul manifesto cinematografico del film: «Io non voglio conoscere la verità, ma mi piacerebbe poterla scrivere». Una frase che mi suonava oscura, soprattutto se detta da un giornalista, uno che può raccontare soltanto quel che conosce o crede di conoscere. Ma Fiume non è un cronista, ma un cineasta, per di più eretico. Lui ha usato il linguaggio del cinema per arrivare a suo modo a una verità che a sua volta non conosce e che nessuno di noi conosce. Inevitabile che un percorso del genere possa deragliare. Altrettanto certo che di queste forzature, deragliamenti, il cinema, e non soltano il cinema, abbia bisogno. Presentando il dvd, lo scrittore Angelo Petrella ricorda l’«io so ma non ho le prove» di pasoliniana memoria. L’epigrafe in coda al film preferisce citare Francesco Rosi e le sue “Mani sulla città”, quando dichiara il racconto frutto di fantasia ma assolutamente vero il contesto che lo ha generato. Dice ancora, più semplicemente, il regista di “E io ti seguo”: Mi aspettavo che il film fosse un caso, che provocasse grandi dibattiti su Siani e sul giornalismo. In realtà questo è avvenuto ma diluito in molti anni. Forse i piccoli film indipendenti non possono essere diffusi con la rapidità dei film commerciali ma hanno bisogno del tempo. Buona visione.

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e io ti seguo Italia | 2004 | 81 minuti | colore | 1.77:1 con Yari Gugliucci (Giancarlo), Antonio Manzini (Santilli), Roberto De Francesco (Tore), Carlotta Natoli (Chiara), Ninni Bruschetta (Comandante Starace), Ginestra Palladino (Daniela), Pino Calabrese (Caporedattore), Stefania Di Nardo (Lella), Francesco Ruotolo (Funzionario), Enrico Ianniello (Redattore Napoli), Peppe Miale (Cronista Questura), Francesco M. Dominedò (Pentito), Angelo Curti (Angelo), Agostino Chiummariello (Lorenzo), Roberto Nigro (Imprenditore torrese), Federico Torre (un camorrista). aiuto regista Gennaro Fasolino, assistenti alla regia Ilaria Patamia e Alfredo Mazzara, segretaria di edizione Alessia Confessore, direttore di produzione Enea Cioffi, scenografia Ottavia Rinaldo e Mario Pettinari, arredamento Michela Gargiulo, costumi Gennaro Fiumara e Rosario Zaccaria, trucco Adele Paga, suono in presa diretta Luca Bertolin e Alberto Fasulo, musiche Vittorio Cosma, montaggio Alessandro Corradi, fotografia Mario Amura, soggetto e sceneggiatura Maurizio Fiume con la collaborazione di Stefano Muti e la consulenza di Nello Cozzolino, un film prodotto da Maurizio Fiume per icarowebfilm, regia di Maurizio Fiume. Sito dell’autore www.mauriziofiume.com



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