All Fly Line 6_2018

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Mis.1

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Mis.3

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editoriale di Roberto Messori

Fly Line n. 6 di novembre/dicembre 2018 33° anno di pubblicazione 197° rivista Seguici in Facebook

Come ogni anno si

approssima la scadenza dell’abbonamento.

Facendolo ora, non lo dimenticherete dopo, lo so, non è una gran filosofia, ma i concetti

semplici sono i più facili da ricordare.

Forse questo slogan ha qualcosa che non va.

In copertina: Paolo Canova affronta, armato di una improbabile Royal Coachman, una suggestiva lama del Bača.

C

on questa 197a uscita, senza contare le 21 uscite speciali, Fly Line conclude il suo biblico 33o anno di vita. Nata per difendere l’ambiente tramite l’insegnamento e la divulgazione della pesca a mosca, nostra indomita passione, potremmo affermare che ha clamorosamente fallito. Non solo, ma per quasi sette lustri è stata un autentico freno al progresso, cercando di tenere i binari della Pam ben lontani da quelli delle altre tecniche di pesca, involgarite dall’uso di vermi, larve, paste, pastoni e ferraglie metalliche, perseguendo invece un fine informativo che pretendeva di cercare nella natura stessa le false armi, e pretendendo addirittura di realizzarle con arte, con le quali martoriare i poveri pesci. Pesci? Addirittura sollecitando a prenderne pochi o, peggio ancora, a lasciarli andare. Ma c’è di peggio. La rivista si è macchiata dell’onta più infame, ha cercato di contrastare la crescita, fulcro vitale del consumismo, essenza del capitalismo. Se non fosse che Marx, Lenin e Stalin non pescavano a mosca, semmai a Mosca, potrei essere tacciato di comunismo. È vero, Putin pesca a spinning, ma non sembra proprio un comunista. Abbiamo lottato contro i mulini a vento, ad acqua per la verità e armati di turbine, e siamo stati malridotti, sempre come Don Chisciotte, che scambiava le greggi per eserciti saraceni, abbiamo lottato contro le torme di garisti che assediavano i fiumi con le loro macchine infernali, ma siamo stati bastonati. Tuttavia ammettere di aver sbagliato tutto vanificherebbe il sacrificio dei tre ettari di bosco abbattuti per le 250 tonnellate di cellulosa utilizzata finora da Fly Line, e noi, come noto, siamo profondamente ambientalisti. Non lo faremo mai. Lo so, perseverare è diabolico, ma per la moderna società meccanizzata noi siamo il male, cercando di tenervi lontani dagli outlet la domenica e di riportarvi nei vecchi negozi di pesca anziché online con Amazon. E il male ha un suo ruolo fondamentale nell’entropia cosmologica. Non so se significa qualcosa, ma suona bene. Ma veniamo al punto: Fly Line ha bisogno di tutti voi. Per farcela ha bisogno di crescere del 30%, nel 2018 è cresciuta del 10%, nel 2019 questa crescita deve continuare. Se verrà replicata una speranza ce l’ha, potrebbe avere finalmente vinto la sua battaglia più importante, la guerra no, quella è persa in origine, come per tutte le creature viventi. Nonostante ci arrabattiamo tanto per difenderla, la natura, con noi, non è proprio benevola. Lo so, avevo promesso di non andare più al cinema, ma avete visto “Long Weekend”? Non sono mai stato bravo a vendere, non è proprio il mio mestiere e so di farlo male, ma vorrei continuare a far uscire la rivista, pertanto, abbonatevi, magari subito, per il 2019, per invogliarvi ho anche aumentato il prezzo: da 54€ a 60€, lo stesso prezzo per un permesso giornaliero nella Sava, ma ci siete stati di recente? Bene, detto quanto, tra poche righe inizierete a sfogliare questa uscita. Troverete i primi report sulla situazione dei nostri fiumi, più positivi, per ora, di quanto avrei immaginato, leggerete anche della gestione spagnola nelle acque del León, dove il no kill sta imperando come unica possibilità concessa di pesca: un esempio assai più che emblematico. E mentre la Pagina del Pollo analizzerà un po’ del passato a confronto col presente, ma in chiave ottimista, credo, uno studio sui Baetidae vi insegnerà a diagnosticare le ninfe dell’ostica famiglia, passo essenziale per decidere, una volta individuata una difficilissima specie, se usare la giallina anziché la verdina.

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direttore responsabile Roberto Messori Reg. Trib. di Modena n° 807 del 29 Gennaio 1986 RECAPITI

posta: Fly Line, via Piero Gobetti 19 41043 Formigine MO

tel. 059 573663 fax 059 573663 mob. 338 5354949 e-mail: pam@flylinemagazine.com web: www.flylinemagazine.com Sede legale e redazione: 19, via Piero Gobetti - 41043 Formigine MO Stampa: GE.GRAF Srl

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Fly Line, sei uscite

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Arretrati di Fly Line

Le annualità dal 2002 al 2017 sono complete ed attualmente vendute in offerta straordinaria a 24,00 € ciascuna (vedi anche flylinemagazine.com). Spedizione omaggio, le copertine non sono comprese. Nel sito possono essere ordinate riviste sfuse al costo di 6,00€ ciascuna, e uscite speciali sfuse a 6,00€ ciascuna. Non esistono più arretrati antecedenti al 2002. Tutti gli ordini possono essere effettuati tramite lo shop del sito: www.flylinemagazine.com

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indice Editoriale

Roberto Messori

I comunicati di Fly Line

A cura di persone comunicative - Rubrica di cronaca varia: al via un no kill nel Cedra, ma su solide basi ambientali; corsi Pam a Forlì e Novara, un paio di curiosità entomologiche ed altro ancora.

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Lettere a Fly Line

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Le novità di Fly Line

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Un po’ di scienza

A cura degli amanti dei rapporti epistolari Rubrica impietosa di corrispondenza dei lettori: “Le mosche degli altri” e “Siamo impreparati alla follia”.

Prodotti, novità ed eventi commerciali Nuove code “antidragaggio” della Pozzolini Fly Fishing; Razor Stonfo per sagomare il pelo di cervo; forbicine di alta tecnologia della 54 Dean Street per il fly tyer e nuovi ami jig barbless della 1000mosche.it.

A cura di Luca Ciuffardi - Genetica e gestione: cronaca di un biennio di lavoro finalizzato alla rinaturalizzazione dei fiumi con ripopolamenti ittici di qualità.

18 La Pagina del Pollo 71

La forza della natura

Roberto Messori - Un po’ di storia, un po’ di confronto con l’attualità, alcuni esempi, come s’imparava a pescare a mosca ieri, nel ‘70, ed oggi, nel III millennio, e qualche riflessione sulla forza della natura.


30 Baetidae a gogo

La diagnosi delle ninfe

Paolo Bertacchini - Ferma restando la validità della più straordinaria chiave dicotomica mai concepita da mente pammista: A-ninfa chiara; B-ninfa scura, resta il fatto che la soddisfazione di sapere, o credere di sapere, che baetide imita la ninfa che stiamo usando, indubbiamente non ha prezzo.

42 Yellow May

Come si sfata un mito alimentare

Michael Olesen - Il noto fly tyer danese attraverso la sua ultima creazione, una Yellow May imitante l’effimera Heptagenia sulphurea, dimostra ancora una volta la superiorità della cucina continentale su quella inglese.

54 Appennino

tra Toscana e Romagna

Marco Sportelli - Nel novero dell’inchiesta di Fly Line sull’attuale qualità dei fiumi rispetto al passato, l’Autore racconta la storia e la situazione del reticolo dei poco noti, ma indiscutibilmente belli e suggestivi, torrenti dell’Appennino forlivese.

70 León sin muerte

Álvaro de la Puente Robles & Vincenzo Penteriani - Dopo ardue e lunghe lotte tra Pam ambientalisti e annoccatori uno degli areali europei più famosi per pesca a mosca e tradizione, la zona spagnola del León, è arrivata ad una gestione no kill quasi globalizzata: un esempio da seguire?

80 Catch!

Paolo Canova - Chi di noi non ha ancor vivi i ricordi delle belle prede catturate, e di quelle scappate... della propria storia di pescatore a mosca? Importante è anche ricordare i combattimenti e le tecniche praticate per vincere, in una guerra continuamente perduta, le più importanti battaglie.

88 No kill

ultimo atto

Roberto Daveri - Questa volta il nostro opinionista è davvero arrabbiato. Una rabbia lucida che lo spinge ad approfondire ulteriori meandri della mente umana, e la cui lettura richiede insolita attenzione. L’articolo spinge a riflettere, ma la redazione declina ogni responsabilità su eventuali disordini etici o mentali indotti nel lettore.

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I comunicati di Fly Line

rubrica di cronaca, corsi Pam, novità, convegni, meeting, gare di lancio e costruzione, scempi e INFO varie

Pesca & ambiente No kill in Valcedra - Appennino parmense

Nelle foto: scorci del torrente Cedra. Sotto: il “gruppo” di lavoro.

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Nel torrente Cedra, Appennino parmense, è ora attivo un no kill di circa Km 2,5 a numero chiuso e gestione ecosostenibile, il fine infatti è preservare la qualità naturalistica del corso d’acqua. Nelle giornate del 20 e 21 luglio 2018 siamo stati lieti di avere, nella nostra zona di Pesca, Alberto Salvini e Marica Cicoria per realizzare una puntata di Pescavventura. La Zona a Regime Speciale è veramente”speciale” in quanto si tratta di un tratto a numero chiuso con prenotazione dove viene definito anche il numero di pool, le norme che caratterizzano il tipo di pesca sono volte non solo al divertimento del pescatore, ma anche e soprattutto alla tutela dell’ambiente e del benessere animale. Questa realtà, forse fra le poche esistenti, vuole essere una risposta che il Direttivo Regionale Unpem, nell’ambito delle nostre idee in fatto di gestione ambientale legata alla pesca, ha voluto dare alle cosiddette “zone per polli“, gestite con lancio di pesce adulto almeno una volta alla settimana, spesso e purtroppo dove è ancora presente ancora riproduzione naturale (poco importa anche se il suddetto materiale proviene da incubatoi certificati). Da tempo ci chiedevamo come conciliare pressione alieutica, salvaguardia dell’ambiente, rispetto della popolazione ittica presente ormai selezionata e selvatica. Con le nostre idee ed il supporto dell’Università di Parma (prof. Francesco Nonnis Marzano e dott. Armando Piccinini) abbiamo elaborato un regolamento che ci consente di pescare con la tecnica della mosca all’inglese o della Tenkara, sempre rigorosamente no kill. Abbiamo quindi iniziato a coinvolgere tutte le istituzioni che a vario titolo erano presenti sul territorio: il Parco dei Cento Laghi, il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano, il Sindaco di Monchio e la Regione Emilia Romagna che ringraziamo per la disponibilità, l’interessamento e la “puntigliosità” che, consapevoli dell’importanza del progetto, ci hanno permesso di realizzare, passatemi il termine, questo gioiello. Un ruolo molto importante l’ha avuto, affinché tutto si realizzasse e funzionasse, dai sentieri di accesso e di protezione delle varie pool alla messa in sicurezza dei passaggi difficili (il progetto era nell’aria da qualche anno) la SPS di Monchio e Palanzano, coi suoi bravissimi volontari, in buona parte anche giovani, che oltre all’attività in incubatoio seguono la zona. Il materiale, selezionato dall’Università di Parma con continui controlli sulla qualità anche attraverso il DNA utilizzando uova di riproduttori superselezionati, è ormai selvatico con una popolazione dove incontriamo dagli avannotti alle trote adulte con tutte le taglie intermedie. Il Parco dei 100 Laghi ci ha altresì fornito un sostegno concreto per la vigilanza, unitamente ai ns volontari. È un gioiello da conservare, come sono da preservare l’ambiente e la biodiversità presente. Il venerdi 20, dopo una faticosissima giornata di riprese c/o il ristorante che riceve le prenotazioni si è consumata una cena con la presenza di quasi tutti i sindaci delle “terre alte” che avevano in comune territori analoghi e con la presenza del presidente del Parco dei 100 laghi per comprendere l’impor-


tanza del progetto e per “fare squadra” in quanto questo potrebbe e dovrebbe essere replicato. Vogliamo ringraziare, nessuno escluso, tutti coloro che a vario titolo si sono adoperati perché tutto questo si realizzasse, con un pensiero particolare ad Alberto e Marica, che con la loro grande professionalità hanno voluto dare visibilità a questa zona attraverso le loro telecamere anche subacquee ed il loro drone che immortalava dall’alto la bellezza di questi siti. Invito chi ama pescare sul selvatico, dove la pesca è fatica, dove il pesce è difficile, dove spesso devi controllare ogni passo per non manifestare la tua presenza, a visitarci: potrete toccare con mano tutto quanto, dalla pesca all’ospitalità. Per prenotazioni e relativo regolamento, telefonare al 347 4645094, sig. Davide Gorreri (www.valcedrapescaeavventura.it). La Valcedra, situata nell’alto Appennino parmense, si snoda, nella parte più alta, nel Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano, mentre scendendo entra a far parte del Parco Regionale dei Cento Laghi. La ricchezza d’acqua è senz’altro una delle sue prerogative. Laghi e torrenti trovano una perfetta cornice in un ambiente naturale ancora incontaminato. Il Coordinatore Regionale Unpem Emilia-Romagna Lodovico Fava

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Veloce come una saetta, più leggera di una piuma

“La pesca è istinto, osservazione e ragionamento. Può bastare anche la prima delle tre cose, ma nessuna può fare a meno del lancio. E un buon lancio non può prescindere da una buona canna: un binomio inscindibile” www.fabiobargi.com - info@fabiobargi.com

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Corsi di pesca a mosca Corso Pam a Forlì Il FORLIFLY organizza il 32° corso annuale per l’apprendimento delle tecniche di pesca con la mosca artificiale. Il corso avrà inizio alle ore 21 di giovedì 29 Novembre 2018 e sarà strutturato in 4 lezioni teoriche in sede, 8 lezioni pratiche per l’apprendimento della tecnica di lancio in palestra, e si concluderà con 4 lezioni pratiche, presso la sede, per affrontare la costruzione delle mosche artificiali. Tutte le attrezzature necessarie saranno fornite dal Club. Per informazioni: telefono: 348 2901303 (Dino); 338 1156207 (Paolo). Sito web: www.forlifly.it Ritrovo tutti i giovedì, dalle 21:00 alle 23:00, presso la sede del FORLIFLY a Forlì in piazzale della Vittoria n. 16 (presso la Coop. Balducci). Il FORLIFLY sarà presente con un proprio stand al “CACCIA & COUNTRY – FISHING EXPO 2018” che si terrà dal 23 al 25 novembre 2018 presso la fiera di Forlì.

Corso Pam c/o Romentino, NO

Date delle lezioni del corso Ticini Linea.

Serafino Sacco e una delle sue creazioni: la Ciapa Ciapa.

Nei mesi di Gennaio e Febbraio 2019, il Club Ticini Linea organizza, nella sede operativa Laghetto “Val Torre” località C.na Torre Mandelli, Romentino (No) e sul Naviglio Sforzesco presso la Centrale Moneta a San Martino di Trecate, un corso di pesca a mosca per avvicinare nuovi pescatori a questa splendida tecnica. Istruttori di lancio tacnico: Pierangelo Ripoldi, Andrea Barbotti, Angelo Fanchini. La costruzione mosche sarà mostrata a cura di Ruggeri Gabriele. Il corso si articola nelle seguenti lezioni teoriche e pratiche. Lezioni teoriche: etica, materiali e attrezzature, entomologia e teoria del lancio. Lezioni pratiche: costruzione mosche artificiali e tecnica di lancio. Il corso base di tecnica di lancio si terrà presso il Naviglio Sforzesco. Alle lezioni seguirà un’uscita di pesca sul Naviglio Sforzesco, seguiti dagli istruttori, per mettere in pratica ciò che si è appreso. Le attrezzature e i materiali saranno messi a disposizione dal Ticini Linea, ad ogni iscritto verrà fornito un DVD introduttivo sulla pesca a mosca, un buono di pesca giornaliero del Naviglio Sforzesco. INFO: Club Ticini Linea, Sede Legale Via Lonate 14, 20029 Turbigo. Sede operativa: laghetto “Val Torre”, località C.na Torre Mandelli, Romentino NO. Contatti: sig. Ruggeri Gabriele, cell. 335/329013 mail gabriele@ticinilinea.it - sig. Fanchini Angelo, ​cell. 338/2835608 mail angelo@ticinilinea.it

Addio Serafino Lutto nel mondo della pesca a mosca, nel mese di agosto 2018 si è spento un altro grande personaggio: Serafino Sacco, appassionato pescatore di temoli, per me un carissimo amico, istruttore di lancio e compagno di meravigliose pescate nel fiume che adoro definire “mio”, il Sesia. Serafino è stato un pioniere della pesca a mosca secca, con imitazioni in CDC da lui ideate come la Ciapa Ciapa, mosca che molti di noi hanno imitato ed utilizzato, vista la sua efficacia. Paolo Pozzi

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Corso Juniores della SIM 11° Corso juniores SIM Castel di Sangro, 24-25 agosto 2018 Tutti nei meeting pammisti lamentiamo la “mancanza di cambio generazionale”, poiché in effetti la percezione è che oggi bimbi e adolescenti siano più appassionati di smartphone e social che di svaghi nella natura, ma il richiamo resta forte e a volte basta offrire la giusta opportunità per vedere i nostri figli e nipoti scorazzare felici lungo le rive dei fiumi, magari con una canna da mosca in mano... Ecco la breve cronaca di una gioiosa iniziativa della SIM, la Scuola di Pesca a Mosca di Castel di Sangro. Anche quest’anno la SIM ha organizzato il corso per bambini e ragazzi di entrambi i sessi dai 6 ai 16 anni, ben 14 sono stati i protagonisti. Come ogni anno l’insegnamento si è svolto nell’area “palestra di pesca a mosca No-Kill” presso il ponte della Maddalena sul fiume Sangro. Il corso è iniziato con una piccola parentesi teorica riguardante il fiume e le sue forme di vita, concetto di pesca No-Kill, attrezzature per la pesca, il lancio, materiali, attrezzi e tecniche per la costruzione di mosche artificiali. Divisi in piccoli gruppi i partecipanti, a rotazione, hanno seguito e collaborato alla raccolta di larve e ninfe di insetti, alla loro classificazione utilizzando per questo le “Guide Entomologiche” edite da Fly Line. Qualche larva e ninfa è stata inserita in una provetta di vetro piena di alcool e con una etichetta recante il proprio nome. Poi si è passati al lancio sul fiume con il fiocchetto di lana, sempre seguiti dagli istruttori della SIM. Per finire ognuno ha realizzato una mosca artificiale, sempre aiutato da un istruttore della scuola. L’artificiale finito è stato messo in una scatolina trasparente su di un bigliettino con il nome dell’allievo fly tier e donato allo stesso. I partecipanti hanno ricevuto gadgets come magliette, cappellini e spille della Scuola, per finire un attestato di partecipazione insieme alla stampa fotografica di un insetto. Il corso si è svolto in due giorni ed i genitori sono rimasti scioccati nel vedere i propri figli che con diligenza ed attenWalter Luzi insegna il montaggio delle mosche zione hanno seguito nozioni e consigli degli istruttori, nonostante l’euforia del momento e della situazione.

Foto di gruppo di allievi e istruttori

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Curiosità entomologiche Falena fly tyer

La falena M. maia, creatrice di due mosche artificiali realizzate sulle proprie ali, e sé stessa in ... cacca d’uccello.

Non siamo i soli a realizzare mosche artificiali, nel sito www. scienze-naturali.it abbiamo trovato una felena fly tyer, ecco come viene presentata: “Immaginate di trovarvi soli, nudi e disarmati in una selvaggia foresta asiatica e di dovervi difendere da molteplici predatori che non aspettano altro che banchettare con le vostre membra. Cosa fare per salvarsi? Facile: basta tatuarsi sulla schiena alcuni escrementi di uccello e due simpatiche mosche che se ne nutrono. Questo è l’incredibile adattamento evolutivo che ha portato al particolare pattern di Macrocilix maia, una piccola falena (37-45 mm di apertura alare) appartenente alla famiglia Drepanidae diffusa in Asia, dall’India al Borneo. Sulle sue chiare ali, quasi come se fossero dipinte con gli acquerelli, compaiono le simmetriche sagome di due mosche. Occhi, ali, arti, addirittura la strozzatura che divide il capo dal torace, non manca nulla in questa piccola opera d’arte degna di Haeckel!” E di un raffimato fly tyer pescatore a mosca, si potrebbe aggiungere. E ancora: “Non contenta dell’inganno visivo che gioca ai suoi eventuali predatori, la falena è solita posizionarsi proprio in corrispondenza di reali deiezioni di uccello, in modo da ingannarli anche a livello olfattivo. La naturalissima opera di “body painting”, frutto di una selezione naturale che appare quasi fantascientifica, è arricchita dal fastidioso odore di ammoniaca che essa stessa è in grado di emettere, diventando così una sorta di “escremento a 6 zampe”. Il virtuosismo artistico è completato e lo scopo è così raggiunto: i predatori, più schifati che intimoriti, si tengono ben lontani. A proposito: i predatori più comuni di questa specie sono proprio gli uccelli, paradossalmente ingannati dai loro stessi escrementi”.

Il ritorno della manna: effimere bloccano il traffico a ponte Tanaro Ricordate le descrizioni relative alla “manna” dell’Arno a Firenze, dove l’effimera Ephoron virgo (ex Polymitarcys virgo) anticamente ricopriva, coi suoi imponenti sfarfallamenti, strade, case e prati? Il fenomeno a quanto pare si ripropone nell’attualità nel Tanaro, ecco come è stato descritto dalla cronaca locale: “Sembra neve e invece sono milioni di insetti che hanno imbiancato il ponte Albertino, sul Tanaro, presso Alba, tanto da costringere l’amministrazione comunale a chiuderlo al traffico per tutta la notte. Il fenomeno, che ha lasciato di stucco decine di automobilisti, è curiosissimo, ma del tutto normale perché ad Alba e dintorni, la schiusa degli Ephemeridae, o effimere, come vengono chiamati questi insetti, succede tutti gli anni ad agosto. Le effimere sono in grado di deporre anche 12mila uova per volta e il risultato, alla schiusa, è quello di un’invasione. La loro vita è brevissima: appena un’ora e mezza. Nelle immagini girate dagli utenti di Facebook si vedono sciami di questi insetti che volano verso i lampioni e tra le macchine. Un’invasione che ha costretto il Comune a chiudere il ponte dopo che un bus ha rischiato di finire fuori strada per l’asfalto viscido, ed è riuscito a ripartire solo con le catene da neve. Carlotta Rocci” Dal sito web: http://www.fanpage.it/ Vedi anche: https://www.fanpage.it/cuneo-invasione-di-falene-ad-alba-disagi-allacircolazione-il-sindaco-chiude-il-ponte/

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Lettere a Fly Line L e eventuali risposte, in questa colonna, sono di R. Messori

rubrica di corrispondenza dei lettori senza censura: lettere, letteracce, complimenti, richieste e proteste varie

Le mosche degli altri Buona giornata a tutti. Fra le cose cui tengo molto vi sono anche le mosche degli altri. Alcune mi sono state donate, altre le ho acquistate. Certe appartenevano a pescatori famosi, parecchie invece sono state realizzate da colleghi che probabilmente non passeranno mai alla Storia. Ma per me sono tutte quante importanti, poiché in ciascuna di esse ognuno ha riposto il meglio di se stesso, ed in tutte è rimasta inclusa una parte dell’anima del loro creatore. Quelle della foto che vi mando vennero costruite da un vecchio pescatore. Si tratta di due dei modelli commercializzati da Walter Bartellini con le sigle AK e AL, tranne il fatto che Walter le realizzava su amo grub, mentre queste sono state assemblate su un Mustad 79589 n° 14, ed hanno le codine. Sono tanto belle, ben proporzionate e costruite con tale perfezione che sarebbe un vero peccato annodarle sul finale. L’anziano pescatore che le realizzò stava male, molto male, ma continuava ugualmente a costruire magiche moschette finte con la sua mano fatata. E quando si sentiva abbastanza in forma prendeva una delle sue pregiate canne in bambù... sapete, quelle a sezione esagonale, e poi si recava sul bordo dell’acqua che scorre. Nei momenti, invece, in cui quel terribile male lo azzannava, lui restava in casa, ma persino in quelle ore non rinunciava a parlare di pesca con gli amici che lo andavano a trovare. Un giorno il buon Dio disse a se stesso che il vecchio pescatore aveva sofferto abbastanza e quindi lo prese per mano, quella stessa mano che si era rivelata tanto abile nel conferire la vita a piume e fili colorati. Parecchio tempo più tardi uno dei confratelli che avevano fatto tante pescate assieme a lui all’interno della sua abitazione volle donarmi queste due realizzazioni, e raccontarmi la sua storia. Ogni tanto vado a dare un’occhiata alle mosche degli altri di cui sono in possesso, e non saprei proprio dire il perché. In tali circostanze, quando il mio sguardo viene catturato dalle due esili sommersine della foto, penso sempre che il Paradiso debba essere un gran bel posto per costruire le moschette finte. Paolo Bertacchini

Siamo impreparati alla follia L’avevo proprio sopravvalutato. Pensavo che, dopo essere riuscito a “desertificare” culturalmente il nostro pianeta polverizzando tutti i negozi con i loro commessi, volesse invadere la Luna, Marte e le Galassie. Invece no! L’amministratore delegato di Amazon “lavora” a piccoli passi. È modesto, contenuto, quasi timido. Sta sperimentando negli Stati Uniti la logistica di un nuovo magazzino per quealla parte del suo pubblico che si è stancato di stare seduto a casa a guardare lo schermo di un computer rigorosamente aperto sul sito di Amazon. Questo “nuovo” magazzino funzionerà senza la presenza di commessi umani. Il concetto, già concretizzato, con l’utilizzo dei robots nella realtà industriale, qui si evolve. Il software messo a punto da Amazon utilizza algoritmi innovativi, capaci, per così dire, di “ragionare” sulle debolezze umane. Il plauso dei potenti è assordante, viste le capitalizzazioni in borsa del colosso Amazon. “Il mondo sbagliato” ( su cui avevo scritto tempo fa) si evolve, cresce e matura dentro ad un caleidoscopio di proposte “indecenti”. Arriviamo al punto. La famiglia Rossi, rigorosamente di domenica, entra in questo grande magazzino e meraviglia delle meraviglie non vede commessi, non vede nessuno. Troneggiano schermi e tastiere in un numero indefinibile. Una musica soffusa permea ed accarezza l’ansia di mamma e papà, mentre i tre figli hanno già “gli occhietti” assatanati di curiosità. Nessuno parla. Una voce elettronica che assomiglia a quella di Darth Vader nella saga di Guerre stellari, invita ad affrontare serenamente una delle molteplici tastiere. Le parole umane non servono più. L’ambiente è asettico, le emozioni e le voglie della famiglia Rossi sembrano venire disinfettate prima di essere introdotte nei contenitori dell’oblio che rappresentano un passo obbligato verso lo shopping più sfrenato. In questo magazzino sperimentale vige l’Apartheid “sulla presenza della realtà fisica ed espressiva umana”. Non serve più.

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Bastano le dita che tamburellano sulle tastiere per far sentire la famiglia Rossi “unica”. Il circo di Amazon ha aperto il tendone, il pubblico sta entrando e lo spettacolo va ad iniziare. Peccato che non ci siano i clowns, né i loro nasini a palla, né la lacrima dipinta sulla guancia. Ogni componente della famiglia Rossi, in formazione rigorosamente solitaria, digita il proprio account, la propria password. Inoltre digita il proprio budget di spesa e gli articoli che desidera acquistare. ”La voce del male” spiega ai cinque umani caratteristiche innovative, costi, garanzie e sconti sugli articoli richiesti. Ma c’è qualcosa in più. Per smaltire gli articoli obsoleti , la “voce del male” propone il 3x2 (formula condivisa con gli ipermercati per i prodotti vicini alla scadenza). Ma qui è diverso. Gli articoli, scontati in modo scellerato, sono quelli che già inzuppano le pareti ed i tavoli delle nostre case. Televisori, lavatrici, lavastoviglie, casse surround, PC, abiti, scarpe, borse, occhiali, magliette ed ogni altro oggetto che diventa mondezza quando già lo si possiede. Ma Amazon ha un obbiettivo chiaro; vuole riempire ogni stanza della casa della famiglia Rossi, vuole erigere muri, confini e “desertificare” il dialogo. Vuole fare implodere quell’appartamento. Evviva il consumismo sfrenato! Possiamo immaginare i figli dei Rossi in silenzio per ore ed ore nelle loro stanzette, il papà, seduto sul lato destro del divano, con l’ iPod e la mamma, seduta sul lato sinistro, rigorosamente con un altro iPod, estasiata nel guardare a video la borsa firmata dei suoi sogni, scontata del 60%, decisa a digitare “acquista”. I Rossi sono una famiglia unita ed amorevole. Ma Amazon è entrato nella loro casa per conquistarli da amante discreto, da consigliere malandrino, da estraneo simpatico ed educato. E sa che non abbandonerà mai più quelle mura. Ha polverizzato i loro sogni di un tempo e li ha sostituiti con uno nuovo che pazientemente ha immaginato, progettato, costruito e messo in vendita per loro. Ma non si è accorto che è un sogno senz’anima, proprio non se n’è accorto, perché il consumismo “inutile” è asessuato e privo d’anima. Voglio cercare di contenermi anche se da un po’ di tempo sono molto spaventato. Non sono una persona giovane, ma credo che non sia importante. Penso molto ai giovani, ho due nipoti che amo. Contemporaneamente penso al colore dell’acqua sul tratto del fiume Noce siglato HZT. Sfumature impastate nelle tonalità del verde, effervescenze che nebulizzano nei tratti di corrente, foglie cullate con lentezza come in un passo di danza classica, il canto discreto e variegato degli uccelli e lo sfarfallare di insetti nella loro corazza eterea. Ascolto e guardo la natura che ogni giorno nei secoli trasmette un brano da hit-parade. Sono seduto sulla riva destra, i miei occhi rimbalzano, come una pallina da tennis, tra le mie scatolette zeppe di mosche e lo specchio dell’acqua. Intravvedo dei cerchi che mi costringono a scegliere in fretta una mosca. E tutto questo è solo una parte del sogno che assaporo quando pesco in quei luoghi; quando sono lì non serve nient’altro. Come potrei, anche in un improvviso momento di follia, immaginare che possa esistere la tastiera di un pc a sostituire tutto questo. Non mi sento un nostalgico, non mi sento fuori posto. Shakespeare non è mai stato fuori posto, nemmeno oggi quando lo leggiamo per cercare di capire il suo concetto dell’amore. Faccio alcuni lanci, cambio diversi tipi di mosche, ma non riesco a ferrare. Eppure mi sento leggero, speciale, perfetto. Ed il sogno continua alla faccia di chi lo vorrebbe fare evaporare per sempre. Oggi il Pam vive un momento difficile, drammatico. Vogliono farlo regredire. Vogliono togliere la meraviglia dai nostri occhi con metodi chirurgicamente quasi perfetti. Io, per evitare fraintendimenti, non sono mai stato contrario alle discipline tecniche, sono convinto però che non possono e non devono assurgere a precedenze. Non ne abbiamo bisogno, ma soprattutto non si può e non si deve. Abbiamo già le nostre “ prime verità” che bastano ed avanzano. Condivido solo in parte, cioè solo nelle premesse, lo scritto di Franco Vaccarino comparso nel n. 5 della tua rivista di settembre-ottobre 2018, intitolato “ i sogni sono finiti”. In primis noi non siamo degli illusi, in secondo luogo non serve creare dei nuovi sogni. Li abbiamo già e traboccano di eccellenza. Serve, a mio parere, continuare a coltivare, divulgare il nostro credo. Non sono inoltre d’accordo con lui quando dice che mancano i futuri eredi di ciò che da anni stai portando avanti, caro Roberto. Se riflettiamo con attenzione, gli eredi sono molti, disseminati un po’ dovunque. Gli eredi siamo noi anche se spesso le nostre convinzioni e le nostre parole non riescono ad essere assordanti quanto dovrebbero. Alberto Mussati

Può andare, come “sogno”, questo scorcio del torrente Bača?

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Le novità di Fly Line News Pozzolini

rubrica di novità commerciali, intuizioni, invenzioni e prodotti vari per stimolare un sano o sconsiderato consumismo.

Code MEDLINE HS

Sopra: temolo bosniaco, attendibile testimone della validità della coda Medline...

unicamente nelle misure: DT2F – DT3F – DT4F- WF5 F – WF6F. Lunghezza 30 yds. Prezzo 45,00 €. Pozzolini Fly Fishing by A. Pozzolini, via Trento 2a, 25014 Castenedolo BS. Tel/fax +39 030 2131002 Mob +39 3346317910; sito web: www.pozzolinifly.com e.mail info@pozzolinfly.com

La Pozzolini Fly Fishing amplia la gamma delle nuove code MEDLINE HS, con la nuova DT2 F particolarmente studiata con front taper più lunghi e tip sottili in grado di reggere lanci ad alta velocità senza sbandamenti. L’estrema morbidezza, l’ottimo galleggiamento, la scorrevolezza e la totale assenza di memoria consentono di modellarla nei lanci antidragaggio con presentazioni estremamente accurate, garantendo nel contempo la massima sensibilità nella moderna pesca a ninfa, con un perfetto controllo della deriva. La coda è stata testata per un lungo periodo in agosto sul Ribnik in Bosnia con livelli bassissimi e condizioni estreme, consentendo catture altrimenti improbabili. Date le particolari caratteristiche, queste code sono disponibili

News Stonfo Art. 707 RAZOR STONFO Rasoio speciale studiato per i costruttori di mosche e streamers, perfetto per la realizzazione di teste con pelo di cervo. La rotazione della ghiera permette di flettere la lametta fino al raggio desiderato per avere un taglio del pelo di superfici arrotondate e di perfetta uniformità. Fornito completo di lamette a doppio taglio. www.stonfo.com

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News 54 Dean Street Forbicine Kopter Flies L’entusiasmo e la passione sono il giusto ingrediente per far nascere prodotti nuovi. È il caso di Kopter Flies, neonata avventura di Piero Sistino, imprenditore che unisce 35 anni di esperienza al morsetto con 3 secoli di storia nella manifattura italiana di attrezzi in acciaio e strumenti medici di altissima qualità. I primissimi prodotti presentati da Kopter Flies sono una serie di forbicine per fly tying di alta precisione, interamente made in Italy, in acciaio inossidabile con lame serrate, dalla forgia perfetta e con tolleranze incredibili. Queste forbici sono state presentate per la prima volta al recente show Alto Reno Fly di Porretta Terme e a detta di tutti sono state considerate Best of Show. Molti altri prodotti arriveranno a breve. Noi di 54 Dean Street siamo fieri di distribuirle a livello mondiale. Sito web: www.54deanstreet.com email: info@54deanstreet.com

News 1000mosche Ami barbless JIG EVO Dopo due anni di attesa siamo fieri di poter finalmente presentare la nostra nuova gamma di ami barbless JIG EVO, prodotti in esclusiva per noi in Giappone. Per farla breve: con questi ami perderai meno pesci! Disegnati da uno dei più bravi costruttori di mosche, abbiamo denominato questi ami JIG EVO per la loro forma particolare che rende assai difficile ai pesci la possibilità di slamarsi sia durante la ferrata che nel recupero. Infatti, la curvatura quasi rotonda in combinazione con la punta dell’amo rivolta verso l’interno e l’asse di trazione a sua volta allineato con la punta, assicura una tenuta estrema del pesce allamato. Per la produzione degli ami JIG EVO viene utilizzato l’acciaio high carbon 80 (quindi con il 0,8% di carbonio). Questi ami sono temperati maggiormente rispetto ad altri tradizionali poiché, in funzione della curvatura rotonda che sollecitata lavora in modo uniforme, è possibile conferire loro maggior durezza. In questo modo il ristretto campo elastico e la maggiore tenacità riducono ancor più il rischio di aprirsi sotto gli strattoni dei grandi pesci. Gli ami JIG EVO sono affilati chimicamente. https://www.1000mosche.it/Ami-hotfly-superb-JIG-EVO-BL-25-pz

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Un po’ di scienza

A cura di Luca Ciuffardi

Genetica e gestione

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Il progetto basa sulla ricerca di popolazioni selvatiche di trota fario e marmorata.

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pesso ci è capitato di leggere e raccontare, anche sulle pagine di questa rubrica, di gestioni approssimative, di approcci alieutici non corretti e di ripopolamenti indiscriminati. Questa volta invece voglio parlarvi di un’esperienza importante e virtuosa che da circa due anni, in maniera discreta e molto laboriosa, sta portando avanti quella che potrebbe diventare una delle maggiori progettualità italiane di ricerca e gestione delle popolazioni autoctone di trota. A partire dal 2017, infatti, l’intero arco alpino occidentale e la porzione settentrionale dell’Appennino sono stati interessati da un capillare progetto di tipizzazione genetica delle popolazioni note di trota fario “mediterranea” e di trota marmorata, finalizzato a verificarne lo stato di salute e ad ottimizzare, per il futuro, le operazioni di allevamento in incubatoio e di gestione di queste importanti specie salmonicole. Il progetto di ricerca è stato promosso prima di tutto dal Parco del Monviso, che ha messo a disposizione risorse e personale per poterlo concretizzare. Molto importante la collaborazione e la supervisione scientifica dell’Università del Piemonte Orientale che grazie al prof. Stefano Fenoglio, sta facendo un grande lavoro di studio sugli ambienti fluviali alpini (è in fase di lancio nell’alto corso del Po un Alpine Stream Research Center che sarà punto di riferimento per queste ricerche a livello europeo). Al progetto partecipano la città metropolitana di Torino (per la quale il progetto è seguito costantemente dal dr. Paolo Lo Conte), la Provincia di Cuneo e il Museo Civico di Scienze Naturali di Carmagnola (nella persona del dott. Giovanni Delmastro). Questo gruppo di lavoro, del quale anche il sottoscritto ha il piacere di far parte per l’aspetto scientifico e di monitoraggio, vede anche la partecipazione di alcune associazioni, tra le quali l’ATAAI-Associazione Tutela Ambienti Acquatici e Ittiofauna (coordinata da Marco Baltieri). Le analisi del DNA sono curate dal Dipartimento di Scienze della Vita e dell’Ambiente dell’Università Politecnica delle Marche, che con il gruppo di ricerca guidato dal prof. Vincenzo Caputo Barucchi e dal dr. Andrea Splendiani costituisce un centro di eccellenza nazionale in merito agli studi di genetica molecolare applicati all’ittiofauna. Dalla Valle d’Aosta alla Liguria, dalle alte quote al fondovalle, tra il 2017 e le scorse settimane sono state monitorate più di trenta stazioni di campionamento in cui vivono popolazioni selvatiche di trota fario e marmorata conosciute per la loro appartenenza, desunta da


caratterizzazioni fenotipiche o storicamente nota, a ceppi nativi dei rispettivi bacini di indagine. L’obiettivo del lavoro è quello di verificare, grazie alla genetica, l’attuale presenza dei popolamenti autoctoni, valutarne lo stato di conservazione e, per quanto riguarda la fario, riuscire a comprenderne l’origine, se naturalmente indigena oppure immessa in tempi molto antichi. Una volta acquisite tutte queste preziose informazioni, gli enti locali, le aree protette, le associazioni e gli ittiologi coinvolti nella gestione della pesca potranno così intraprendere le corrette scelte gestionali finalizzate alla produzione negli incubatoi di valle e alla successiva immissione nei corsi d’acqua dei migliori ceppi nativi per ciascun bacino dell’area studiata. Anche nell’ambito di questo progetto, così come in altri dalle caratteristiche analoghe, la fase dei campionamenti sul corso d’acqua rappresenta la parte più lunga e articolata del lavoro, in quanto richiede molto tempo e la partecipazione di parecchi operatori. Il buon lavoro svolto sul torrente permetterà poi ai genetisti di svolgere nel migliore dei modi gli approfondimenti molecolari in laboratorio, assicurando il raggiungimento di risultati “robusti” attraverso i quali sarà possibile intraprendere le migliori scelte di gestione. Proprio per permettere, a chi vorrà intraprendere un percorso analogo, di svolgere nel migliore dei modi le pratiche di campo, preliminari al lavoro degli esperti di genetica, vediamo insieme come andrà condotto in maniera efficace il campionamento sul torrente. Innanzitutto va ricordato che l’elettrostorditore deve sempre essere impiegato da operatori qualificati, in possesso dei necessari dispositivi di protezione individuale nonché dell’abilitazione all’uso della strumentazione elettrica ai sensi della normativa vigente, con particolare riguardo alla circolare del Ministero del Lavoro del 11/02/1993. Accanto all’operatore (o ai due operatori, nel caso uno trasporti lo strumento e l’altro manovri l’asta elettrificata con l’anodo) dovranno affiancarsi due persone munite di guadini con manici isolati ed almeno un collaboratore con uno o due secchi. I pesci catturati dovranno essere trasferiti velocemente dai secchi e temporaneamente stabulati in ampie vasche o nasse, isolate o comunque lontane dal campo elettrico. Il tempo di stazionamento degli animali in queste strutture, in attesa della necessaria manipolazione e della successiva liberazione in acqua, dovrà essere il più breve possibile, nell’ordine dei minuti e non certo delle ore; inoltre dovrà sempre essere assicurato un costante ricambio d’acqua, in modo da garantire il mantenimento di temperature fresche e di adeguati livelli di ossigeno disciolto. Dopo l’inserimento nelle vasche o nelle nasse di stabulazione temporanea, a piccoli gruppi (indicativamente formati da 5-6 esemplari) le trote catturate andranno trasferite in un secchio con acqua fresca e anestetizzate in modo da prepararle alla successiva manipolazione, affinché i pesci non corrano il rischio di ferirsi o di accusare troppo lo stress. Siccome l’uso di sostanze medicinali anestetizzanti è vietato dalla legge, sarà possibile ottenere l’effetto calmante attraverso la som-

Sopra: anestetizzate le trote con sostanze naturali, si procede al rilevamento della dimensione ed alle fotografie del manto. A sinistra: si prelevano piccole porzioni di pinna adiposa, con strumenti disinfettati, che serviranno alle analisi molecolari.

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ministrazioni di 1-2 gocce per litro d’acqua di essenza di garofano per uso erboristico e alimentare. Non appena gli animali mostreranno un intorpidimento nei movimenti, badando di non tenerli troppo a lungo nella soluzione soporifera onde evitare rischi anche mortali, sarà il momento di iniziare l’attività scientifica vera e propria: i pesci andranno identificati con un codice individuale e poggiati uno alla volta su un ittiometro o su una tavoletta millimetrata, avendo cura di appoggiare tutti gli animali studiati sempre sullo stesso fianco; dopodiché si procederà a scattare almeno una fotografia a ciascun esemplare, ponendo la fotocamera sempre alla stessa distanza dai vari animali (utilissimo in questo caso l’impiego di un cavalletto fotografico leggero). Le immagini acquisite serviranno per effettuare comparazioni tra caratteristiche genetiche e livree delle diverse popolazioni campionate, e potranno permettere anche di acquisire preziosi dati biometrici, ossia sulle misure corporee degli esemplari, attraverso l’impiego di specifici software. Dopo lo scatto delle fotografie, dalle quali sarà agevole ricavare la lunghezza totale, ciascun pesce potrà anche essere pesato su di una bilancia con precisione pari ad 1 grammo. A seguire, ciascun esemplare sarà pronto per il prelievo della porzione di tessuto da destinare alle analisi genetiche: con una forbice disinfettata e molto affilata sarà sufficiente tagliare una porzione di pinna adiposa, che andrà inserita immediatamente in una piccola provetta contenente alcool etilico puro. Terminate le operazioni su tutte le trote temporaneamente catturate, i campioni di tessuto inseriti nelle provette andranno refrigerati (per esempio all’interno di un contenitore frigo portatile, come quelli da campeggio) per il viaggio di rientro dal torrente, in attesa di essere spediti al laboratorio per le analisi molecolari. Particolare attenzione andrà dedicata alla delicata fase di risveglio dei pesci: subito dopo la manipolazione andranno posti in un ampio contenitore con acqua fresca del torrente in attesa della completa ripresa delle funzioni vitali; solo dopo il pieno recupero delle forze e di una corretta posizione in acqua sarà possibile reimmetterli nel torrente, in punti caratterizzati da acqua ben ossigenata, ma non troppo veloce. Queste sono le azioni di campo, consigliabili per una corretta manipolazione degli animali e un’efficace raccolta dati sul torrente, che sono state eseguite con grande attenzione dagli operatori di questo ambizioso progetto. Adesso la parola passa ai genetisti: occorreranno alcuni mesi, e appena i dati saranno resi pubblici tornerò ad aggiornarvi nel dettaglio sui risultati raggiunti dalla ricerca e sulle prospettive gestionali che andranno a delinearsi per il futuro.

Sopra: ittiometro che consente la misurazione e le riprese fotografiche. Sotto: trota fario stabulata provvisoriamente in vasca ossigenata.

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L A PAGINA DEL POLLO 71 Roberto Messori

... Sentivi di fare qualcosa di importante, difficile e raffinato. La pesca a mosca era cultura del fiume, conoscenza scientifica, rispetto dell’ambiente e dell’avversario. Non eri in trincea, nel fango, con la maschera antigas ed il pastrano pieno di pidocchi a sollevare un bilancino in un canale della bassa per portare a casa qualche pescegatto per la famiglia, ma nei cieli, a volteggiare in biplano per duellare con l’avversario tra tonneaux, looping, fliesler e brevi raffiche di mitragliatrice. La cattura di una trota, indipendentemente dall’esito cruento o meno, era sempre un duello di astuzia ed abilità alla pari, una schermaglia dove alla punta del fioretto era legata una lunga lenza di seta... 18


N N

Foto a sinistra: il pollo, stavolta, è finito sotto i denti della volpe consumistica che ci sta portando lontano dal fiume. Sta a tutti noi non farci masticare troppo, e tornare lungo le rive un po’ più liberi di goderne (dipinto di Ligabue).

ostalgia, che sia nostalgia? Il passato è in gran parte nostalgia, la parola, composta da due termini greci: “dolore” e “ritorno”, originariamente serviva a definire lo stato d’animo, non di rado patologico, di chi era costretto a vivere lontano dalla propria terra e dai propri affetti. Tuttavia oggi il termine “si libera dal riferimento a precisi luoghi o al passato infantile, per assurgere a condizione di anelito indefinito”. Con l’età forse non si starà lontani dalla propria terra, ma ci si allontana sempre più dall’infazia, dalla gioventù, dagli affetti perduti e da tutte le cose che progressivamente non si possono più fare. Passato e futuro hanno valenze ben diverse in funzione dell’età. Il passare del tempo estende il passato ed accorcia il futuro, mentre aumenta a dismisura il carico di nostalgia. Delle attuali generazioni i più giovani sono nati nel terzo millennio ed i più vecchi circa a metà tra le due guerre mondiali. Chi è nato nel secondo dopoguerra ha vissuto settant’anni in un’Europa pacificata e chi va oggi a scuola studia (poco e male) la battaglia di Stalingrado e lo sbarco in Normandia con lo stesso “interesse” col quale studia le guerre puniche o le crociate. I figli di Internet, tablet e smartphone, collegati in tutto il mondo tramite i social media, vivono in un mondo immaginario ben diverso da quello debolmente illuminato dalle radio a valvole, radio che ancora nel 1920... chi ricorda nei racconti dei nonni le radio a galena? Con “mondo immaginario” intendo tutto ciò che l’essere umano ha realizzato con la sua immaginazione, dalle

multinazionali al denaro, dalla fantascienza alla pesca a mosca. Tutto ciò, insomma, che esula dalla primitiva cultura, fatta di luoghi fisici, come le praterie, il fiume o le boscaglie, e dai sistemi per sopravvivere e riprodurre, come le prede, la fuga, la paura o il corteggiamento. In detto contesto le leggi fisiche sono sempre state tali da perpetuare il mondo come l’abbiamo conosciuto, o come lo conoscevamo, giacché il nostro mondo immaginario sta distruggendo quello reale. Come lo sta distruggendo? Serve un esempio. Facciamo un gioco: mettiamo a confronto l’iter che doveva affrontare chi voleva imparare a pescare a mosca negli anni ‘70 con un contemporaneo neofita che anela lo stesso fine. La Pam ha sempre funzionato (come ogni contesto massificato) come cartina tornasole della società.

Il neofita nel 1970

Allora, per sapere dell’esistenza della pesca a mosca, o eri un lettore dei pochissimi libri disponibili che ne parlavano (di autori come il Bruni, l’Albertarelli, il Ramusimo, il... temo di averli finiti, quelli degli anni ‘70), oppure eri uno dei fortunati a contatto con frequentatori dei pochi, selettivi, club dell’epoca nelle grandi città. I libri descrivevano (quasi sempre poco e male), ma non insegnavano, costringendo a solitari tirocini che il più delle volte deludevano, spingendo all’abbandono. Era necessario un maestro, ma il più era trovarlo. Ma con un po’ di pazienza e di fortuna prima o poi, chiedendo ai negozianti, a uno dei rari Pam incontrati in torrente, o inviando lettere alle riviste, un (più o meno) esperto appariva. Presa

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fiducia occorreva l’attrezzatura, canna in bambù, naturalmente, poi coda e mulinello, infine finali e mosche. Gli accessori? Le forbicine. La costruzione delle mosche era ancora lontana, ma prima o poi sarebbe arrivata. Appresi i primi rudimenti dal nuovo, paziente compagno di pesca, finalmente si andava a pescare. Dove? Praticamente ovunque, sia nelle acque da salmonidi che in quelle da ciprinidi. Con la licenza nazionale ed il tesserino Fips tutte le acque italiche erano accessibili, salvo le rarissime riserve private, tipo la “Dora dei ricchi” nelle Alpi o le acque della SVA in Appennino (un torrente e due laghetti). Niente permessi, niente balzelli, niente no kill butta prendi e ributta gomito a gomito con gli altri manichini nella sfilata di moda lungo la passerella fluviale, ma tanta solitudine da dividere tutt’al più con l’amico e, di tanto in tanto, la curiosità di un pescatore al tocco. In torrente incontravi qualche raro montanaro col verme, ma raramente si faceva scorgere, oppure qualche cittadino con una cannetta da spinning. Se suc-

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Sopra: fiume Soča, siamo nella Jugoslavia dei primi anni ‘70, la macchina fotografica va a pellicole, non a pixel, e l’immagine è nebulosa come il ricordo di quel fiume, allora popolato da miriadi di temoli e trote e

col fondale ricoperto di larve e ninfe di insetti. Pagina succcessiva: una sorgiva friulana, anch’essa allora ricca di trote e insetti. Il confronto con l’attuale situazione è sconsolante.

cedeva addio pesca, dovevi superarlo di nascosto finché questi ti rendeva la pariglia, oppure cercare un altro torrente, ma erano casi abbastanza infrequenti. Qualche volta si parlava, si fumava una sigaretta e si riprendeva a pescare risalendo assieme, in alternanza. Tante, tante trotelle sotto misura e, di tanto in tanto, qualuna appena in misura. Quelle belle sarebbero venute dopo, parallelamente all’esperienza e se dentro di te germogliavano il senso dell’acqua e l’istinto del predatore. Il confronto era con la natura e con le tue capacità ed intuizioni. L’attrezzatura minimalista non faceva miracoli se non quelli che tu sapevi farle fare. C’era la canna in refendù, oppure... la canna in refendù (quelle in conolon o fibatube ti facevano sentire un sottoprodotto alieutico), la coda era una DT 5 F,

spesso di seta, il finale conico o a nodi era lungo circa come la canna e terminava con il ø 0,20 o 0,22 e le mosche erano su ami 10 e 12, nei casi difficili 14 ed in quelli disperati 16 o 18, con le quali si scendeva al capillare 0,16. Nell’aere c’erano sempre insetti ed era raro tra marzo e fine giugno qualche giornata senza il benché minimo sfarfallamento. Se accadeva, sapevi che era una giornata no, non perché il pesce non mangiava fuori schiusa, lo ha sempre fatto ed in torrente è la regola, ma perché talvolta la natura si ferma, forse aspetta una perturbazione, forse si deve ricaricare, forse un’inversione termica blocca il vento e le brezze trasformando l’azzurro del cielo in un deprimente grigiastro amorfo, e l’acqua che scorre in inerte piombo fuso, o forse un’eruzione solare ci aveva invaso di radiazioni.


Insomma, ci sono giornate che catalizzano la gioia di vivere ed altre che la deprimono, altrettanto necessarie quanto le prime, il più è saperle comprendere ed accettare. E poi nei torrenti c’era più acqua quindi più vita, sia dentro che fuori di essa, e non dovevi fermarti perplesso davanti a un grande tubo metallico, chiedendoti come fare per lanciargli una mosca dentro. Ma soprattutto il fiume lo sentivi vero, naturale, oggi diremmo selvaggio, ma i veri selvaggi stiamo dimostrando di essere noi. I ripopolamenti venivano fatti per lo più dalle associazioni dei montanari, che prelevavano dai ruscelli secondari per arricchire l’asta principale, oppure dai gruppi di pescatori più lungimiranti che si erano dotati di embrionatori di valle, oppure, purtroppo, quelli scriteriati della Fips, che “preparavano” i torrenti per il rito dell’apertura, mattanza di polli pinnati d’allevamento. Ricordo un giorno nel torrente Fellicarolo nei primi anni ‘70: in quasi tutte le buche pinneggiavano pesci

arancioni. La Fips aveva seminato trote giapponesi che, tra l’altro, si comportavano come pesci rossi. Per fortuna scomparvero alla svelta. Non aggiungerò altro, in questa sede, sulla presunta encefalopatia dei dirigenti Fips del tempo. Del tempo? I no kill non esistevano ed il termime “catch and release” era sconosciuto, anche perché l’italiano non era ancora diventato mezzo inglese. C’erano le riserve turistiche, brevi tratti di torrente trasformati in laghetti a pagamento, ma mai ci avresti visto un pescatore a mosca, vivo o morto. Gli acquisti non si facevano con lo smartphone in Amazon, eBay o nei siti web pammisti, non esistevano neppure nella più sfrenata proiezione della fantascienza consumistica. Per le cose importanti, una volta o due all’anno, si andava a Milano da Garue, da Ghilardi o da Ravizza, o da tutti e tre, oppure a Torino, da Walter o da Felizzatto alla Orvis, mentre da Tosi, a Reggio Emilia, si era un po’ di casa, data la vicinanza. Ed ogni volta imparavi qualcosa.

Una canna nuova era un’avventura per tutta la compagnia: Hardy o Pezon et Michel? Una sera della successiva settimana ci si doveva trovare per vederla, toccarla, provarla, bevendo un buon whisky e chiacchierando di pesca, di lanci, di fiumi, di mosche e, per i maestri, di insetti. Ogni uscita di pesca era un’avventura alle sorgenti del Nilo, e le prime esperienze in Jugoslavia un viaggio oltre il sistema solare. L’amicizia non la davi in Facebook, la coltivavi guardando l’amico negli occhi e condividendo vita e pensieri, non post. Sentivi di fare qualcosa di importante, difficile e raffinato. La pesca a mosca era cultura del fiume, conoscenza scientifica, rispetto dell’ambiente e dell’avversario. Non eri in trincea, nel fango, con la maschera antigas ed il pastrano pieno di pidocchi a sollevare un bilancino in un canale della bassa per portare a casa qualche pescegatto per la famiglia, ma nei cieli, a volteggiare in biplano per duellare con l’avversario tra tonneaux, looping, fliesler e brevi

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sufficienti a contrastare il progredire di quelle negative. Cominciarono ad apparire i primi tratti no kill, poche centinaia di metri strappati al cieco egoismo e giostrati sull’ignoranza che i reticoli idrografici sono un tutt’uno e non si possono sezionare e recintare come gli orticelli per anziani. Comunque l’Italia è ricca di fiumi, torrenti e sorgive e, aggiungendo qualche Km in più in auto e qualche camminata più lunga, c’era modo di portarsi in luoghi comunque ameni. E poi, se i fiumi del piano venivano progressivamente fagocitati dall’antropizzazione, almeno i torrenti ne erano per lo più indenni. raffiche di mitragliatrice. La cattura di una trota, indipendentemente dall’esito cruento o meno, era sempre un duello di astuzia ed abilità alla pari, una schermaglia dove alla punta del fioretto era legata una lunga lenza di seta.

Era davvero tutto rose e fiori?

Naturalmente no. Non esistono rose e fiori senza spine ed erbacce. Per la cultura del tempo il pescatore a mosca era il diaframma tra, da un lato, la pesca intesa come procacciamento di cibo con qualunque mezzo consentito, o comunque col fine ludico di catturare a più non posso (ricordate la famosa frase di Albertarelli lavorare per il cestino?) e, dall’altro, la pesca intesa come esercizio filosofico e riflessivo, dove la mera cattura non significava nulla, se spogliata di abilità, astuzia, arte ed eleganza. E neppure i fiumi erano paradisi, l’antropizzazione li devastava sempre più (guardate la fine del Ticino, allora ricco di temoli e marmorate, oggi morto, purtroppo non è il solo), mentre i torrenti subivano il degrado genetico e strutturale delle immissioni “pronta pesca”. Le quote giornaliere di 10 pezzi (pezzi... neanche fossero tranci di suino o scampoli di tessuto) e le misure minime di 18 cm tenevano i torrenti più comodi da raggiungere quasi spopolati di pesce di taglia e perennemente inquinati dal punto di vista genetico.

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Sopra: il Gacka degli anni ‘70, regno indiscusso di Milan Stefanac in una fase storica che colmò la magica sorgiva, frequentata da pescatori di tutto il mondo, di mille aneddoti.

Immagine “rubacchiata” online, ma come resistere alla tenera immagine di un nipotino affascinato dall’attrezzatura di pesca del nonno? Chissà se lo porterà a pescare.

Per dieci lustri si sono tenute battaglie a colpi di conferenze scientifiche, tavole rotonde, paragoni con l’estero, discussioni a non finire nelle commissioni ittiche per far capire che l’ambiente acquatico abbisognava di maggior protezione. Pian piano cominciarono ad arrivare i primi risultati, ma si trattava sempre di compromessi politici e populisti le cui note positive erano in-

Il neofita nel 2018

A distanza di mezzo secolo cos’è cambiato? Oggi la pesca a mosca la vedi nella pubblicità di auto, aperitivi o abbigliamento, digiti “corso di pesca a mosca” in Google e cento pagine ti propongono mille possibilità per imparare, seguito da istruttori iperqualificati, nei video online puoi osservare tutto quello


Anno 2018. Scuola di pesca, lezione sul fiume... che ti serve e se ti resta qualche dubbio puoi chiedere lumi nei mille forum disponibili. L’informazione quindi non è più un problema, semmai ce n’è troppa, superficiale, protagonistica, spesso ingannevole, dove le cose di buon senso affogano tra mille stupidaggini, e quando riesci a identificarle, scopri che sono le stesse che da sempre si leggono nei libri importanti della nostra storia, con una differenza: oggi tutti ti vogliono vendere qualcosa. E, quindi, tutti, chi più chi meno, te la racconta. L’attrezzatura la ordini online,

scegliendo la più tecnologica possibile, ovviamente sulla base degli slogan pubblicitari, o su consiglio dell’amico tifoso di questa o quella marca, per poi cambiarla nel volgere di pochi mesi quando esce la canna con più nanometri, la coda a duplice rastremazione o il mulinello da sfoggiare in alternativa al Rolex. La vecchia Hardy del nonno (nonno immaginario ovviamente, ben pochi ne hanno avuto uno che pescava a mosca) con la sua coda in seta ed il Marquis probabilmente prenderebbe gli stessi pesci, se ben manovrata. Al corso ti viene insegnato a lanciare, se sei fortunato apprendi una tecnica generica, con semplici movimenti di base, ma tali da poter essere evoluti, se sei sfortunato finisci nelle grinfie del

fanatico di turno che vuole trasformarti in una mitragliatrice leggera, anzi, ultraleggera. Poco male, prima o poi incontrerai anche pescatori di buon senso un po’ meno invasati. In ogni caso imparerai da tutti, giacché non s’impara senza errori. Beh, nel ‘70 poteva anche andare peggio: c’era chi ti steccava il polso solidale all’avambraccio, e guai se staccavi il gomito dal fianco. Almeno oggi sul lancio si sa davvero di più, a meno che tu non voglia prenderci anche un pesce, al quale nulla importa con che lancio gli è stato proposto quell’insetto, non credi? Finalmente, in gruppo, portati dall’istruttore, si va a pescare. Dove? Ma nel no kill del club! Se stai attento ed il maestro è bravo in una giornata impari quasi tutto. Ti mostrano le ninfe, poi gli insetti alati, poi come affrontare la morfologia del torrente, dove e come lanciare e quindi come arricchire i siti web che vendono mosche, perdendone una un lancio ogni tre, poco male, così ti allenerai a fare i nodi e ti ricorderai di non abbassaare la canna nel back cast. Probabilmente prenderai anche qualche trota d’allevamento, come in ogni no kill che si rispetti. Se sono “fresche” ti vengono incontro. Alla prima vieni laureato pescatore a mosca, alla terza sei esperto ed alla quinta puoi insegnare la pesca a mosca col tuo profilo Facebook o con un blog, certo che tanti ti prenderanno sul serio. Terminato il corso hai due strade: continuare a frequentare il club o diventare un lupo solitario. In ogni caso la domanda di base resta la stessa: dove vado a pescare? Comunque sia, nel giro di mezza stagione ti riempirai di permessi regionali, tesserini segna catture, permessi di pesca giornalieri, tessere di bacino e tutti con regolamenti diversificati e spesso conflittuali: qui devi liberare tutti i pesci, lì devi ucciderli fino al raggiungimento della quota e poi andartene, qui puoi trattenere tre salmonidi, ma niente temoli, lì devi liberare le marmorate, ma uccidere le iridee... Cercate di non sbagliare, i guardapesca sono terribili nel difendere l’integrità ambientale dalla ferocia dei bracconieri inconsapevoli.

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Nei torrenti se vai nelle “libere” non incontri quasi più nessuno, altrimenti il gomito a gomito è l’alternativa, specie nei no kill fortemente ripopolati. In ogni caso vedrai spesso pescatori alla bolognese travestiti da pescatori a mosca che stazionano in wading ribaltando da monte a valle ninfe al tungsteno. Di solito non sono pericolosi. Da questo punto di vista è come negli anni ‘70: pochi pescatori a mosca e tanti alla bolognese o al tocco. Sono solo un po’ meno discreti di un tempo, standosene in mezzo al fiume. E i fiumi? L’ambiente acquatico è il punto dolente di tutta la faccenda. Qualunque tentativo di gestione antropica provoca danni alla naturalezza ambientale, poiché va in conflitto con le leggi della natura, quelle vere. Se si vuole davvero aiutare l’ambiente a ricostituire un patrimonio ittico capace di autorigenerarsi occorre prima di tutto ripristinare le condizioni ambientali, poi reperire fattrici nella valle, produrre uova embrionate, portarle nei luoghi votivi e infine aspettare che la natura faccia il suo corso. Poi occorrerà un regolamento altamente protettivo, controllo intensivo e poca pubblicità. È più utopico che liberare il mondo dalla criminalità e dalla corruzione.

La natura vince sempre

Ma abbiamo una grande forza che ancora sta dalla nostra parte, come dice Ian Malcolm in Jurassic Park: “La na-

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tura vince sempre”. Per poi aggiungere, mentre è inseguito da un tirannosauro: “Come odio avere sempre ragione”. Nelle correnti, nelle tane sotto i macigni, nelle profonde pozze alla base delle cascatelle e delle briglie o nel profondo delle lame che sfiorano pareti di roccia scavate dall’acqua le trote sopravvissute non dimenticano i loro istinti. Che siano selvagge o che abbiano riacquistato la loro rusticità, affinano ogni giorno che passa l’arte della sopravvivenza. A loro basta poco: acqua fresca e ossigenata, e non ne serve neppure tanta, basta che contenga cibo, dove trovano un po’ di pace dai predatori si fermano, sempre all’erta e ben capaci di associare un rumore di sassi, una voce,

il suono dello smartphone, un luccicante volteggio o un tonfo nell’acqua a noi aguzzini. I no kill, le zone trofeo, i tratti comodi da “gestire” per questa o quella associazione, le rive comode da raggiungere una volta parcheggiato il Suv, insomma i pezzi (e qui “pezzo” ci sta) di fiumi e torrenti evidenziati da cartelli come: “ZRS”, “Zona Trofeo”, “Riserva solo mosca”, “Tratto artificiali”, “Riserva di pesca”, “Riserva turistica”, eccetera vengono presto abbandonati da quel po’ di pesce selvatico o rinselvatichito che sopravvive alla “fame isterica” della quale potrebbe essere vittima quando nel suo territorio vengono sversati quintali di pesce adulto per i pescatori a mosca del III millennio. Questi tratti comodi, innaturali, geneticamente devastanti, forieri di una pesca alla trota da baraccone, almeno un effetto positivo l’hanno sortito: la maggior parte dei pescatori oggi diserta le “acque libere”, i fiumi scomodi da raggiungere, i piccoli rii minori e qualunque acqua dove, con la sua scarsa capacità alieutica, in precedenza non ha battuto chiodo.

La forza della natura

Roberto Tedeschi, del Club della Fiala, di Reggio Emilia, della vecchia scuola di Luciano Tosi, giovedì 6 settembre, a mezzanotte, mi ha inviato in WhatsApp la descrizione dell’avventura


Foto 2

Foto 1 Pagina precedente, sopra, lezione di entomologia in un club. Sotto: la forza della natura... In questa pagina: didascalie nel racconto in rosso scuro.

Foto 4

Foto 3 e le foto di alcune belle trote (ovviamente rilasciate), catturate in un ruscello secondario dell’Appennino, ecco il tutto: «Era da qualche stagione che mi era tornato in mente il nome di quel rio, ci pensavo ogni tanto, ma non avevo notizie. Tutti mi parlavano di quanto fosse ripido ed infrascato nella sua parte bassa, con tutte quelle briglie. Lo avevo attraversato mille volte sul ponte della statale: una rapida occhiata, ma non si vedeva nemmeno l’acqua tanto era incassato e infrascato. Poi un giorno di settembre dello scorso anno ero partito deciso per andarlo a testare, ma senza sapere come arrivare alla parte alta, inutile provare. Meglio dalla statale a risalire; il tempo di fare 4 buche, con uno sforzo fisico immane, e si scatena un bel temporale autunnale che ben presto sporca l’acqua. Ogni tanto il pensiero torna lí, cartina alla mano, ma non vedo sentieri. Intuisco dove potrebbe essere, ma la parte alta è lontanissima dall’ultima borgata. Ieri dal meccanico incontro Pier, che abita nel paese vicino al torrente, parliamo un po’ e poi mi si accende la lucina: senti Pier ma come si arriva nella

parte alta del tal rio? E in tre parole mi spiega come andarci, poi guarda la mia macchina e sentenzia: dovresti riuscire ad andarci ed anche a tornare indietro. Parto, arrivo all’ultimo paese, incrocio a sinistra, discesa, asfalto finito, carraia in super salita con sassi, discesa con sassi, salita, mezzacosta con ruotate dei trattori, salita ripidissima, discesa, guado, incrocio a destra, altro guado, salita con sassi, discesa, sento il rumore dell’acqua, arrivato: 35 minuti di fuori strada, ma sono davanti al ruscello (foto 1). Inizio a risalire, la prima buca pescabile frutta la trota della foto 2. Lo sapevo che c’eravate, lo sapevo! Qui nessuno semina, sono tutti pesci naturali. Ma il rio è veramente duro da risalire. Non si lancia se non a balestra, ma la minima pozza regala emozioni: foto 3. Ne percorro un tratto, faticosissimo, un’altra buca, un’altra trota e poi salgo sulla cengia, scendo nella buca, trota! Mi arrampicai sul rivone e ridiscendo: trota. Fotografo, guardo l’orologio, le 18:00. A settembre il sole cala presto, non posso fare quella strada al buio e 7

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pesci sono più che soddisfacenti. Altri 35 minuti di autocross, poi l’asfalto. Mi fermo con adrenalina a 200, scendo giù in paese, poi arrivo al ponte principale dove il rio si getta.. Tiro fuori la canna, finalmente lancio sul serio, appoggio la mosca dove dico io, ed ecco il risultato: foto 4. Questa però è una ruga (terminologia reggiana: trota d’allevamento. Nrd), scampata all’estate. Ora è davvero il momento di smettere». Questo racconto non è per suggerire di abbandonare i no kill e riversarsi nei piccoli, scomodi e faticosi rii secondari, Anzi! Roberto stesso ha puntualizzato, nella chiacchierata del giorno dopo, che stenta a considerarla pesca a mosca, giacché il volteggio è impossibile: quasi sempre ha dovuto proiettare la mosca col lancio a balestra. D’altra parte non è la prima volta che in Fly Line si parla dei piccoli ruscelli e delle loro potenzialità, che

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Piccoli torrenti, rii e ruscelli di montagna lontani dalle strade comode possono premiare il sacrificio di lunghe e faticose camminate con inaspettate catture di belle trote.

Quella piccolissima percentuale di pescatori disposti al sacrificio sa bene cosa aspettarsi, almeno di tanto in tanto. Per fortuna il loro numero non sarà, probabilmente, mai in aumento.

svanirebbero ben presto se in tanti ci si riversassero. Questo esempio è solo per rafforzare la consapevolezza della “forza della natura” e la capacità dei salmonidi di prosperare anche in ambienti ridottissimi, purché di acqua fredda, corrente e pulita, ma, soprattutto, ben lontani dall’Homo sapiens. Figuriamoci quindi in quelle acque libere, ben più dimensionate, oggi snobbate dai più, poiché prive delle nostre lungimiranti cure antropiche. Infatti il proliferare di tratti ripopolati solo per la gioia dei catturatori a oltranza sta apportando un beneficio inaspettato alle acque non oggetto di simili pratiche, volgarmente note come “acque libere”. Libere soprattutto dalle nostre attenzio-

ni e dominio quasi esclusivo della “forza della natura”.

La Pam capital-consumistica

Più corretto sarebbe il titoletto “la Pam nell’apoteosi capitalistica dell’inizio del secolo XXI dopo la caduta del comunismo e l’esplosione del consumismo globalizzato”, ma sarebbe troppo barocco, poi non ci stava su una sola riga. La pesca a mosca si trova in una posizione privilegiata per analizzare gli accadimenti dell’evoluzione (o involuzione) dell’umana (meglio umanoide) società. Rappresenta infatti la linea di demarcazione tra i più atavici istinti e la più spregiudicata modernità.


La pratica del no kill, togliendo alla pesca ogni aspetto alimentare, avrebbe dovuto lasciare spazio agli altri piaceri (riflessiva solitudine, fusione con la natura, eccitante predazione...), ma la realtà dimostra che la mente umana ha ben altri progetti. Abbiamo già analizzato più volte come, anelando un “ritorno alla natura”, invece si replichino quegli aspetti della società meccanizzata dai quali vorremmo liberarci, dal consumismo alla competizione intraspecifica. Sul consumismo non spenderemo molte parole, il

termine è noto fin dai tempi di Marx e basta digitarlo in Google per leggere ciò che ne hanno scritto tanti economisti, filosofi e pensatori, se invece preferite vedere anziché leggere date un’occhiata al recente cortometraggio animato Happiness, di Steve Cutts, digitando il nome in Google apparirà. Fatelo, è divertente ed istruttivo, ma soprattutto inquietante. Fallito il tentativo di realizzazione degli ideali comunisti, come sappiamo il capitalismo sta dilagando sia nei suoi aspetti positivi che in quelli negativi.

Gli effetti più visibili, anche se i meno cruenti, sono l’esasperazione di ogni forma di pubblicità in ogni possibile contesto, la progressiva scomparsa dei venditori al dettaglio a vantaggio degli ipermercati, e addirittura la crisi dei più deboli di questi, e ancora dei dettaglianti, a fronte della vendita online. Tutto è bene di consumo e tutto finisce per avere un proprietario, dall’acqua al genoma, giacché è ancora aperta la battaglia per la brevettabilità dei geni. L’Europa e (più di recente) gli Usa hanno stabilito che il gene non è un’invenzione, ma una scoperta, quindi non è brevettabile. Poco male, basta produrne di modificati e il gioco è fatto. La pressione delle multinazionali spinge all’estremo il consumismo e per ottenere questo risultato ci fa vivere una quotidianità entro la quale tutto è monetizzato all’estremo. È questa estremizzazione che sta cambiando progressivamente, subdolamente, inarrestabilmente le cose. In una società sempre più monetizzata scompaiono non solo le ideologie, ma l’etica, la filosofia, il pensiero, la cultura, la libertà. E l’onestà. Conta solo il denaro, come precisa il killer Jackie Cogan (Brad Pitt) in “Cogan - Killing them softly”: – L’America non è una nazione, è soltanto affari, e adesso pagami! Oggi non possimo più fruire liberamente della natura, poiché l’etica e la cultura di agire con regole tutelanti è sostituita dai principi del consumismo, quindi occorre pagare, giacché il sistema s’impadronisce sempre più dei fiumi, come di tutto. Che mantenere integra quanto possibile la natura abbia un costo è inevitabile, ma ciò che è deleterio è motivare il balzello con la sostituzione di ambienti naturali con ambienti artefatti il cui effetto è degradare sempre più quel po’ che è rimasto. Sopra: “Paesaggio fluviale con pescatore” dipinto di Motti Giuseppe (19081988). L’artista lascia vedere il fiume in trasparenza attraverso il corpo del pescatore. Cosa vi suggerisce questa idea? Sotto: l’apoteosi annuale del consumismo alieutico, la fiera di pesca.

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Come difendersi?

Il paragone che mi sovviene è con la contemporanea generazione adolescenziale. Non c’è psicologo oggi che non dica che i genitori stanno sbagliando crescendo i propri figli senza paletti, con poche regole spesso disattese, con eccessivo lassismo e concedendo loro troppo, e che regole più restrittive e decise, semmai con qualche scopaccione

ed un paio di calci nel sedere, sarebbero più efficaci di tante inutili chiacchiere. A parte calci e sberle, che la legge non ammette più, forse dovremmo fare un po’ così con noi stessi, pescatori a mosca adolescenti che giocano alla guerra ritualizzata con fiumi e trote. Se volessimo veramente aiutare la “forza della natura” come prima cosa dovremmo ripristinare dei veri e fattivi periodi di chiusura nei mesi riproduttivi, senza eccezioni. Poi spostare verso valle la zona a salmonidi fin dove questi possono vivere in funzione della temperatura e dell’ossigenazione, poiché in molti fiumi i limiti sono stati progressivamente spostati a monte per favorire associazioni di pescatori di ciprinidi e garisti. Poi ripristinare bandite di pesca vere e proprie, senza concessioni alla pratica no kill, facile e disonesta scusa per pescarvi.

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Gli antichi filosofi greci già 2600 anni fa scrissero che “l’uomo è il suo denaro”, oggi potremmo aggiungere “l’uomo è il suo smartphone”.

Poi imporre regole limitative su attrezzatura e prelievo (ad esempio una quota annuale, non giornaliera), con tratti consistenti dove pescare a mosca con esche, lenze e finali non appesantiti. Infine la cosa fondamentale: il controllo, ma non solo sui pescatori che schiacciano male l’ardiglione e, ovviamente, sui bracconieri veri, ma su ogni azione antropica che crei danni al fiume. Anche tutto questo appare più utopico che liberare il mondo dalla criminalità e dalla corruzione. Per restare in un ambito realistico finalizzato a salvare il salvabile della nostra passione occorre valutare altri aspetti, ben più pragmatici e, soprattutto, praticabili. Sono tanti i pescatori a mosca passati al “filo” e alla pesca a ninfa al tocco, tra l’altro non è un fenomeno nostrano, Vincenzo Penteriani, il nostro “agente in Spagna”, ad esempio afferma che nella


Cartelli sempre più rari, oggi quasi ovunque sostituiti da quelli che recitano: “Zona no kill - Solo pesca a mosca”. penisola iberica questa tecnica sta dilagando, del resto da dove vengono i perdigones? E così sarà un po’ ovunque, nei paesi pammisti. Tuttavia siamo anche in tanti a pescare a mosca nel modo classico, giacchè è molto più bello, anche se meno produttivo in quanto a catture. La prima cosa utile è la conoscenza. Rendersi conto dei diabolici meccanismi del consumismo può aiutare a limitare i danni, a fronte di un acquisto porsi la domanda di San Francesco: “serve?” aiuta a difendersi dai falsi bisogni indotti dalla martellante pubblicità. Anche senza confondere il consumismo con l’autentica innovazione tecnologica e l’effettivo bisogno di sostituire beni obsoleti e logori, la domanda “serve?” è sempre un buon aiuto. Un ritorno al refendù è sempre un elemento positivo: pescare con un raffinato oggetto artigianale capace di coinvolgere aspetti affettivi (mica vi dovete innamorare) vi libererà dall’ossessione della canna di marca, non di rado ben più costosa. Non dico di rinunciare alla grafite, ma almeno una canna in bambù sarebbe bene possederla, e vedrete che non sarà sua la colpa se prenderete

meno trote. Accessori ed ammennicoli possono essere ridotti al minimo, per pescare nella maggior parte dei torrenti bastano le forbicine, una manciata di mosche, qualche finale e due o tre bobine di nylon per il tip. Provate, al ritorno di ogni uscita, a ricordare quali accessori avete davvero utilizzato. E quante tasche del giubbino rimarrebbero inutilizzate, togliendoli. Potete sempre comprare altri tre giubbini con tasche via via ridotte: il modello “San Francesco” con quattro sole tasche, il modello “non si sa mai” con otto tasche ed il modello “state sul sicuro” con dodici tasche. Quello con 24 probabilmente l’avete già. Ho già visto pescatori camminare lungo le rive con tre canne (a due mani, da ninfa e “normale”), Chissà quanti pesci avranno preso. Quella in bambù non va aggiunta a quelle. Le mosche. Per me è un vero piacere ammirare nelle fiere e nei meeting tanti fly tiers costruire mosche classiche con materiali naturali, ovviamente alternati ad altri che utilizzano resine indurenti, plastiche di sintesi, parti d’insetti preconfezionate e, ovviamente, tanto tungsteno. L’imitazione classica è sempre fonte d’arte e di grande piacere visivo, riuscire a costruire i vari modelli delle tipologie tradizionali è una meta alla

quale tutti dovrebbero pervenire, pur nei diversi gradi di abilità, soprattutto è foriera di grandi soddisfazioni. È un tipo di piacere che mette in contatto col passato, con la nostra storia, con la tradizione e, in definitiva, col cuore stesso della nostra cultura. Io non potrei mai rinunciarvi a favore di foam, cartene, resine o dubbing di poliestere. “Tradition!” esclama con forza il povero lattaio Tevye nel film “Il violinista sul tetto” (Fiddler on the Roof), alla fine dell’omonima canzone. Le tradizioni pongono procedure, vecchie credenze, pratiche ed usanze tramandate di generazione in generazione da gruppi, etnie o interi popoli. “La tradizione è importante in ogni cultura o civiltà. E la gente, malgrado i tentativi della società moderna e postmoderna, di sradicarla dal suo passato, mostra, oggi più che mai, un forte desiderio di recuperare i valori tradizionali. Ossia, in un’era di cambiamento, la continuità è qualcosa di cui la gente sente il bisogno e desidera.” “Le tradizioni sono, dunque, le nostre radici. Siamo noi, il nostro sangue, la nostra cultura, la nostra identità, il nostro mondo. Un popolo senza tradizioni è un popolo privo di anima (...)”. La tradizione diventa ancor più importante in piccoli gruppi, data la loro più elevata fragilità. Ogni tradizione ha un nemico: il consumismo. Potrebbe benissimo conviverci, ma solo se la futilità resta in secondo piano e prima vengono i principi. Il consumismo, trasformando tutto in affari, in ogni bene erode l’etica, l’arte, il valore affettivo, la durata (presto un nuovo bene vi farà disprezzare e buttare il vecchio, ma soprattutto “ci fa perdere la nostra identità, il nostro essere, privilegiando il possedere, l’avere...” (Erich Fromm), ed i veri valori sono diventati slogan per vendere dentifrici. Che risposta darebbe ciascuno di noi alla citazione, resa famosa dal film “Le crociate”: Che uomo è l’uomo che non rende il mondo migliore? Io una cosa la faccio, per migliorare il mondo, la faccio qui ed ora: prometto di non andare più al cinema.

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B

Paolo Bertacchini

aetidae a gogo

la diagnosi delle ninfe

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Vi piace, nei torrenti, rovistare sotto i sassi? Siete attratti da quelle piccole forme vitali che ci vivono e che i pesci adorano mangiare? Non vi basta cercare tra le imitazioni di ninfe qualcosa che somigli loro, ma volete conoscerne anche il nome scientifico? Bene! Questo articolo è quello che fa per voi.

L L

a classificazione degli Efemerotteri allo stato alato è generalmente più agevole di quanto lo sia l’identificazione dei medesimi esemplari allo stadio ninfale, e ciò anche nel caso in cui venga limitato il proprio campo di ricerca, anziché alla specie, a quello del genere. Le Baetidae non fanno eccezione alcuna a questa regola. D’altro canto l’attenzione del pescatore-entomologo ha sempre spaziato soprattutto sulla corretta identificazione e riproduzione della dun e dello spinner anziché del medesimo insetto allo stadio preimmaginale. Le motivazioni possono essere diverse e probabilmen-

te si basano anche sulla semplice convinzione che con un ristretto numero di artificiali sia possibile rappresentare l’intera gamma richiesta. È, inoltre, pur vero che anche nel caso delle ninfe nuotatrici i vari esemplari tendano a somigliarsi parecchio e che due dei requisiti di maggior importanza siano costituiti dalla dimensione e dal grado di appesantimento delle imitazioni offerte al pesce. Nulla vieta, in definitiva, di sintetizzare al massimo la propria concezione interpretativa della pesca a ninfa e, magari, di sentirsi appagati dai propri successi raggiunti anche in questo specifico campo.

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uriti/segmenti addominali capo

cerci

e torac to etano

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noto

meso

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addom

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paracerco teche alari o pteroteche anteriori tracheobranchie lamellari

Non deve, infine, essere sottaciuta la differenza esistente fra chi esegue la scelta dell’imitazione basandosi su un criterio prettamente imitativo da chi fonda la propria scelta sulla redditività dimostrata da un determinato artificiale, a prescindere da ogni requisito di aderenza al vero. Personalmente sono sempre contrario a regole di carattere assoluto in un campo come quello della pesca a mosca artificiale, in cui talvolta per avere ragione di una particolare situazione mi vedo costretto a lasciarmi guidare dall’istinto o ad agire in maniera opposta a ciò che il buon senso mi suggerirebbe di fare. Tuttavia devo riconoscere come lo studio entomologico e la più fedele somiglianza della mia ninfa all’insetto che giudico appetito dal pesce rappresentino, ai miei occhi, fattori di primaria importanza. Prendi un pesce, ne esamini le forme di vita ingerite e ti poni delle domande. Ti chiedi se qualcuno le abbia già studiate, quindi come si chiamino, e se qualcun altro abbia già tentato di riprodurle. E dopo queste considerazioni ti poni anche altri quesiti, ti chiedi soprattutto quale sia il sistema più opportuno per poter utilizzare le loro imitazioni al meglio. Poi ti

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teche alari o pteroteche posteriori (nascoste da quelle anteriori)

rendi conto che il tarlo dell’entomologia ti è entrato nel sangue e che, oltre al piacere di studiare quelle piccole forme di vita, hai scoperto un mondo infinitamente vasto da esplorare. Ma, soprattutto, nell’esame dell’infinitamente piccolo hai modo di vedere con i tuoi occhi quanto sia meravigliosa la natura e quanti misteri non riuscirai mai a svelare.

La storia

Credo, infatti, che sia contenuta una grande verità nell’affermazione di Léonce de Boisset secondo cui “tra il biologo che seziona una larva di Effimera sotto l’obiettivo del microscopio e l’astronomo che scruta gli spazi celesti all’oculare del telescopio non vi è, tutto considerato, che una differenza di campo visivo. Entrambi avidi di sapere, l’uno si china sull’umile piccolezza, l’altro sonda i precipizi senza fondo dell’infinitamente grande. Entrambi fanno opera scientifica di cui il loro spirito, limitato poiché umano, non si dichiara mai soddisfatto. L’ideale del primo vale quello del secondo”. Di conseguenza, non ritengo di esagerare sostenendo come talvolta i pescatori a mosca siano riusciti ad an-

dare ben oltre i classici metodi scientifici di indagine, e ciò sulla base delle proprie esperienze personali e di una buona dose di iniziativa che non esito a definire geniale. Mi riferisco in particolare ai lavori eseguiti in materia da parte degli inglesi William Lunn, G.E.M. Skues e Frank Sawyer, degli americani Charles Brooks ed Ernest Schwiebert, e dei francesi Gérard de Chamberet e Léonce de Boisset. Tutti questi autori ebbero in comune anche la volontà di porre ordine nella sistematica del loro tempo relativa agli Efemerotteri, ossia la scienza che ne descrive e classifica le varie forme vitali in gruppi via via più comprensivi, attraverso il percorso specie-genere-famiglia-ordine. In definitiva riuscirono, pur se in misura comprensibilmente inferiore, a proseDue ninfe di Baetidae: in alto, ninfa matura (identificabile dalle teche alari nerastre) di Baetis sta per sfarfallare, si intravvede la lucentezza dovuta al gas sotto la cuticola. Pagina successiva: ninfa giovane “da corsa”, a prescindere dalla folta peluria presente nei cerci.


guire nel percorso innovativo tracciato dal reverendo Albert Edwin Eaton il quale pubblicò, tra il 1883 ed il 1888, la sontuosa opera A revisionnal Monograph af the recent Ephemeridae or Mayflies. Riferendosi a lui, infatti, il valente ricercatore J.A. Lestage ebbe a dire che aveva “infine messo ordine nel più spaventoso caos che probabilmente sia mai esistito nell’intera entomologia”. Un’ultima nota che mi preme evidenziare consiste in un’esperienza divulgata dal sapiente entomologo ed esperto pescatore a mosca A.J. Gros di Marigny, autore di una serie di articoli pubblicati dal 1925 al 1926 nella rivista La Pêche Illustrée con il titolo di Les Éphémères et le Pêcheur, nonché di approfonditi studi comparsi negli Annali di Biologia lacustre sotto la denominazione di Études sur les premiers stades des Éphémères du Jura français. Questi, infatti, citò il caso di una ninfa di Ecdyonurus forcipula da lui catturata il 2 dicembre in una condizione tanto pessima che al momento della sua immissione in acquario risultava priva di una zampa, quattro tracheobranchie a sinistra e cinque a

destra, sei articoli al cerco sinistro, dodici a quello destro e diciotto al paracerco. Insomma, un vero disastro! Tuttavia l’8 gennaio seguente, dopo due mute successive, tutti questi organi erano stati ricostituiti nella loro forma e taglia normali. Ma ogni analisi sull’argomento in esame non può in alcun modo prescindere dall’accurato lavoro svolto nel corso del tempo dai pescatori a mosca inglesi. Vero è, come afferma giustamente Roberto Messori in Gli insetti di Fly Line (2003), che “i Baetidae hanno reso famose le chalkstreams dell’Inghilterra meridionale... e loro stessi, popolandoli. Era il palcoscenico giusto: i ricchi inglesi, padroni, al tempo dell’Impero, di mezzo mondo e della pesca a mosca, per quasi due secoli le hanno descritte, osannate, studiate e imitate. Avevano anche vita facile: l’Inghilterra è il paese europeo più povero di specie. Qualche inglese affermò addirittura che solo le specie del genere Baetis meriterebbero di essere imitate”. Tuttavia, e ciò traspare chiaramente dall’intero contenuto della suddetta opera, i riferimenti alla sistematologia e conseguenti imitazioni codificate

nella terra di Albione sono quanto mai doverose ed opportune, talvolta anche per meglio districarsi in un campo che facile non è. Una curiosità relativa al termine Baetis è rappresentato dal fatto che i Romani chiamarono con questo nome il Guadalquivir, e Mons Baeticus la vetta più alta della Sierra Nevada. Non è, tuttavia, noto il motivo per il quale Leach nel 1815 attribuì questo nome ad un genere degli Efemerotteri. Mi sembra doveroso evidenziare, infine, un particolare in grado di ingenerare comprensibile confusione, sul quale la letteratura alieutica tende sistematicamente a sorvolare. Attualmente gli inglesi non si limitano a definire i nostri beneamati insetti esclusivamente con il relativo nome scientifico (es. Baetis rhodani) oppure con il “current angling name”, ossia con il nome attribuito loro dai pescatori contemporanei (Large Dark Olive), ma spesso attingono anche al cosiddetto “old angling name”, cioè l’arcaico termine con il quale gli antichi pescatori anglosassoni identificavano quella particolare effimera (nel caso in esame, quindi, Large Spring Olive oppure Blue Dun).

peluria sul lato interno (cerci) peluria su entrambi i lati (paracerco)

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Le imitazioni

Il lavoro di Frank Sawyer sulle ninfe nuotatrici, che peraltro venne integralmente ripreso da Oliver Kite, si basava per l’appunto sulla suddivisione dei quattro generi costituenti i Baetidae in: Olive, Iron Blue, Pale Watery (genere Baetis, per complessive 9 specie); Pond Olive (genere Cloeon, per complessive 2 specie); Pale Evening Dun (genere Procloeon, 1 specie); Spurwing (genere Centroptilum, per complessive 2 specie). Di conseguenza, per imitare le complessive 14 specie presenti in Inghilterra occorrevano, a detta di Sawyer, almeno 10 artificiali, tutti in misure e colori diversi. Come noto, con il passare del tempo ridusse il tutto a tre soli modelli, quindi pervenne a due sole ninfe: la Sawyer’s Pheasant Tail e la Grey Goose. D’altro canto, analizzando il suo lavoro non si può altro che concordare con la sua visione interpretativa: medesima struttura anatomica riproducibile in tre taglie di amo differenti, alternanza tra un colore chiaro ed uno scuro.

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Sopra: cerci con sottili anulazioni scure e banda nera, utili alla diagnosi sistematica di parte dei generi (vedi testo). Sotto: ninfe di Baetis muticus reperite nel contenuto stomacale di una trota dedita ad uno spuntino.

Può questa sua concezione definirsi obsoleta e superata dal lavoro di noti pescatori contemporanei? La risposta a questa domanda è desumibile da un semplice esempio che potrebbe benissimo essere ulteriormente ampliato. Henry Bresson, il famoso pescatore francese noto soprattutto per aver creato mosche secche particolarmente efficaci e conosciutissime, quali la French Tricolore e la Peute, aveva elaborato e commercializzava anche tre ninfe non appesantite ed altrettante appena piombate. Erano caratterizzate da un unico denominatore comune: si trattava chiaramente di imitazioni di Baetidae e venivano elaborate nelle tonalità marrone, grigio e giallo. Jean-Pierre Guillemaud, detto Piam, rappresenta invece l’aspetto innovativo della pesca a ninfa francese. Collaboratore di diverse riviste di pesca, ha dimostrato di possedere doti non comuni nell’ambito della pesca a mosca, e nella tecnica a ninfa in particolare. Nella collezione dei suoi artificiali commercializzati da Ragot per quanto riguarda le imitazioni degli efemerotteri compaiono solo due ninfe appesantite, ed in taglie diverse. La prima ha corpo giallo ed è di tona-


lità complessivamente chiara, l’altra possiede un corpo marrone e nel suo insieme appare molto più scura della precedente. Ma torniamo nel nostro Paese. Già parecchi anni fa il milanese Sandro Ghilardi proponeva una serie di ninfette caratterizzate da una struttura esile e semplificata al massimo: codine in gallo, corpo in fibre di penna ed un’aletta realizzata con un tratto di barbe appena sagomate e, quindi, verniciate. Un’essenzialità ridotta all’estremo, non c’è che dire, ma che ha determinato la realizzazione di artificiali in possesso di un’indiscussa efficacia. Anche in questo caso si gioca nella scelta del materiale per il corpo, che peraltro rappresenta la quasi totalità dell’imitazione, alternando piume di tonalità chiara con altre molto più scure.

La nomenclatura

Roberto Messori nel già citato testo informa inoltre che la nomenclatura relativa alla famiglia Baetidae è stata recentemente aggiornata, ed oggi in Italia sono presenti otto generi: Acentrella, Alainites, Baetis,

Nigrobaetis, Cloeon, Procloeon, Centroptilum, Pseudocentroptilum. Detta suddivisione, aggiornata al 2003, è la conseguenza della “migrazione” di alcune specie da generi preesistenti ad altri di nuova istituzione, oppure transitate in altri di istituzione storica. La chiave che segue fa invece riferimento a soli sei generi: Acentrella, Baetis, Cloeon, Procloeon, Centroptilum, Pseudocentroptilum e non prende in esame le ulteriori suaccennate differenziazioni, sebbene si basi sull’evoluzione del monumentale lavoro svolto in Ephemeroidea (1960) dalla d.ssa Marta Grandi. Per ascrivere correttamente le piccole ninfe ai relativi generi di appartenenza è possibile effettuare percorsi diversi, ma la sequenza suggerita nel presente articolo è la seguente: struttura delle code – numero e forma delle tracheobranchie – presenza o meno di pteroteche posteriori. Ad essere sinceri, sarebbe primariamente possibile effettuare una sommaria discriminazione fra i generi Baetis ed Acentrella e gli altri, e ciò basandosi sulla forma dell’ultimo articolo dei palpi labiali: tronco all’apice

Ninfa molto giovane di Baetidae, come si evince dalle teche alari parecchio immature.

nei primi due casi, di forma emisferica o a cuspide negli altri. Tuttavia non è indispensabile analizzare questa particolarità, ma al limite può essere curioso desumerla come semplice dato accessorio. Si specificano, inoltre, i caratteri distintivi di Acentrella rispetto a Baetis: minori dimensioni della prima, paracerco quasi assente, frangia di peli sulle tibie. Inoltre il genere Acentrella, elemento distintivo che verrà illustrato di seguito, è sprovvisto di banda nera sui cerci, particolarità questa tipica di alcune specie di Baetis. Ma passiamo ad esaminare più in dettaglio le caratteristiche summenzionate.

Le code

Le ninfe appartenenti alla famiglia Baetidae sono caratterizzate da due sole codine (o cerci) oppure da tre di queste appendici, la cui mediana, più o meno sviluppata sino alla sua

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sul come effettuare una prima, teorica e ragionevole classificazione della ninfa in nostro possesso, caratterizzata da cerci con sottili anulazioni scure e banda nera, fra quelli residui, ossia Procleon, Pseudocentoptilum (ex specie Centroptilum pennulatum) e Cloeon. Sarà quindi opportuno contare il numero di anulazioni scure presenti nelle code tra il corpo e la banda scura. Il dato caratteristico da prendere in esame è il seguente: 8 – 10 anulazioni (Procloeon); 5 – 8 anulazioni (Pseudocentoptilum); 11 – 12 anulazioni (Cloeon). Ma questo utile dato non è di per sé stesso esauriente, di conseguenza questa prima classificazione dovrà trovare conferma nelle ulteriori tipologie elencate di seguito.

Le tracheobranchie

quasi totale scomparsa, viene definita paracerco. I cerci sono frangiati solo sul lato interno, mentre il paracerco lo è su entrambi i lati. È importante evidenziare come queste frange possano talvolta apparire assenti, ma un esame più accurato rivelerà che in tale circostanza esse sono semplicemente accostate al cerco. I cerci sono pluriarticolati, ossia costituiti da una lunga sequenza di piccoli segmenti visibili con una semplice lente contafili, e talvolta risultano provvisti di sottili anulazioni scure. A questo punto è possibile effettuare la prima grande discriminazione, in quanto i generi Baetis ed Acentrella ne sono privi. Le codine, inoltre, rivelano spesso un’ulteriore caratteristica, dal momento che in tutti i generi (con esclusione di Acentrella) compaiono esemplari provvisti di una banda nera. Sarà quindi possibile individuare il genere Centroptilum (la cui unica specie presente in Italia è rappresentata dal Centroptilum luteolum) poiché è l’unico dotato di sottili anulazioni scure, ma privo di banda nera. Resta a questo punto il dubbio

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Disegni, realizzati dell’Autore, dei quattro generi principali dei Baetidae.

Prima di procedere ulteriormente in questo percorso, pare opportuno effettuare una breve digressione. Come osservato giustamente da Sawyer, le ninfe nuotatrici non sono mai completamente immobili. Caratterizzate da un corpo fusiforme, sono in grado di resistere a forti correnti disponendosi con il capo in direzione del flusso


dell’acqua e si servono dei cerci come di un timone, in modo da mantenere la corretta posizione. In acque più calme, invece, possono spostarsi utilizzando la forma idrodinamica del corpo e per la propulsione i cerci, che risultano abbondantemente ricoperti di peli. Dagli angoli posteriori dei sette segmenti addominali si dipartono sette paia di tracheobranchie, raramente sei paia (es. Baetis digitatus e Baetis niger), mono o bilamellari. Si tratta di organi che “servono alla respirazione anche in quanto con i loro movimenti determinano una corrente d’acqua lungo il corpo, rinnovando così continuamente il liquido attorno alla ninfa”. La d.ssa Marta Grandi in Ephemeroidea (1960) cita anche gli studi di O. Harnish (1957) il quale, sperimentando con alcune specie,

aveva mostrato come, abbassando la pressione parziale dell’ossigeno, le lamelle respiratorie si fanno più grandi e le trachee più robuste, così che il battito delle tracheobranchie diviene più forte. Da ciò consegue che il corpo di una ninfa realizzato con una sezione di penna, prelevato ad esempio dalla coda di un fagiano, può fornire l’im-

pressione di vita e, nello stesso tempo, riprodurre convenientemente le tracheobranchie dell’insetto, grazie alle sue barbule. Ma torniamo ai caratteri discriminativi utili all’identificazione dei vari generi della famiglia Baetidae. Dovremo, di conseguenza, verificare se le tracheobranchie 1 – 6 siano monolamellari o bilamellari. In tal caso, infatti, bisogna considerare che i generi Baetis, Acentrella, Centroptilum e Procloeon hanno tracheobranchie monolamellari, mentre le prime sei tracheobranchie dei generi Pseudocentroptilum e Cloeon sono bilamellari. Occorre, tuttavia, rilevare come non sempre sia facile accertare la bilamellarità delle tracheobranchie, soprattutto quando sono sovrapposte o una è più piccola dell’altra. È, quindi, sempre opportuno osservare l’intersezione delle tracheobranchie con l’addome, in quanto in questo punto è possibile visualizzare meglio se abbiano origine una o due trachee (lamelle).

Le pteroteche

Esaminando il dorso di una ninfa noteremo tra torace e addome le due pteroteche anteriori, ossia gli astucci alari dai quali fuoriusciranno le splendide ali opache delle subimmagini.

Sopra: contenuto stomacale di una trota dedita a un lauto pasto. Anch’essa, ingorda, ha mangiato una ninfa di troppo. Tuttavia gode ancora di ottima salute: i contenuti stomacali sono prelevati dal diabolico strumento qui a destra, il famigerato “Slogatrachee”.

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Tavole utili alla diagnosi sistematica delle ninfe dei Baetidae.

Quando la ninfa è ormai prossima a quest’ultima metamorfosi esse assumono una caratteristica colorazione nerastra e, spesso, una tipica lucentezza della cuticola, dovuta ad una pellicola di gas che si forma sotto di essa. Si tratta di un fenomeno molto noto ai pescatori a mosca, infatti molte imitazioni degli efemerotteri in questo stadio vitale vengono elaborate con la cosiddetta sacca alare, o wing case per gli Inglesi, di tonalità molto scura e contrastante con il resto del corpo. Frank Sawyer, infatti, per la costruzione della sua Pheasant Tail Nymph suggeriva l’utilizzo di una sezione di coda di fagiano con una screziatura nerastra posta in prossimità del suo innesto con il calamo, in modo da poter realizzare una ninfa caratterizzata da un dorso particolarmente scuro.

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Nei generi appartenenti alla famiglia Baetidae gli astucci alari posteriori sono ridotti, oppure, e questo ovviamente negli esemplari privi di ali posteriori, mancano del tutto. Per tale motivo è opportuno esaminare al microscopio la ninfa in visione laterale, sollevando eventualmente le pteroteche anteriori con un sottile ago. Gli astucci alari posteriori potranno apparire a forma di lobi, ossia come un sottile processo biancastro o brunastro rivolto all’indietro. Il dato rilevante è quindi costituito dall’assenza di pteroteche posteriori nei generi Cloeon e Procloeon.

Il colore

Un ultimo criterio da prendere in considerazione, seppure non di carattere prettamente scientifico, è rappresentato dal colore complessivo della ninfa. Si è già visto come Sawyer ed altri esperti pescatori abbiano operato una sintesi basata sull’alternanza

fra colori di tonalità chiara ed altri di colorazione scura. A questo punto, ed anche al fine di poter adeguare il risultato della propria classificazione al lavoro di altri, è opportuno suddividere i vari generi della famiglia Baetidae in due grandi gruppi. Fra le ninfe chiare saranno quindi inclusi i generi Cloeon, Centroptilum, Pseudocentroptilum e, unica eccezione del genere Baetis, la specie Baetis fuscatus (definita Pale Watery dagli Inglesi). Al gruppo delle ninfe scure apparterranno, invece, i generi Baetis (ad eccezione di Baetis fuscatus) e Procloeon.

Ambito di rinvenimento

Come osservato in “Gli insetti di Fly Line”, l’unica specie italiana del genere Acentrella, ossia Acentrella sinaica, è relativamente comune, frequente e discretamente abbondante soprattutto nelle zone alte dei fiumi,


con fondo di pietre e ghiaia e corrente veloce. Il genere Baetis annovera specie che prediligono acque correnti, certo non tutte, ma talune si dimostrano capaci di popolare torrenti anche turbinosi. Alcune sono abbondanti, altre frequenti, altre ancora sporadiche, rare o addirittura incerte. La specie Centroptilum luteolum (dal latino luteolus, giallognolo) è abbondantemente diffusa e piuttosto comune in ambienti lotici. Preferisce acque ferme o poco correnti delle pianure, colonizzando generalmente vegetali sommersi. Il Cloeon è genere di scarso rilievo per il PAM, eccettuati casi locali, ma noto per la caratteristica di invadere le abitazioni ad iniziare da giugno…... colonizza prettamente acque ferme e limpide, privilegiando quelle con vegetazione abbondante, laghi, stagni, pozze sorgive, fontanili e... fontane di città.

Per quanto riguarda, infine, le specie che dal genere Centroptilum sono migrate, a detta degli specialisti, nel nuovo genere Pseudocentroptilum, in detto testo viene precisato che le varie specie sono molto rare (P. calabrum, solo Sud), oppure poco comuni (P. pulchrum, P. pennulatum) o incerte (P. nemorale, P. lacustre).

Considerazioni finali

Questo articolo non ha, né potrebbe avere, la pretesa di considerarsi un lavoro definitivo sui criteri utili per procedere all’identificazione dei vari generi delle forme acquatiche all’interno della famiglia Baetidae. D’altro canto persino i criteri identificativi di tali ninfe, così come codificati nel già citato testo della d.ssa Marta Grandi, vennero ulteriormente rivisitati dal prof. Carlo Belfiore in Efemerotteri (1983). Si è quindi cercato di fornire una chiave di semplice lettura, tale da

consentire un percorso entomologico attuale, che possa nello stesso tempo adeguare il risultato delle proprie ricerche a quello di altri pescatori. Non a caso, sempre nel summenzionato testo, Roberto Messori afferma che il pescatore desideroso di identificare l’insetto in sfarfallamento “non solo spera di trovare nei suoi libri buoni consigli per un ottimo modello, ma grazie al nome latino può apprenderne le caratteristiche, la geonemia, il comportamento, le stagioni ed i periodi di sfarfallamento. Con queste informazioni le sue uscite di pesca potrebbero diventare più efficaci. Saprebbe quando, dove e come utilizzare quella data imitazione, certo di insinuarsi con maggior perizia nei misteri della natura. Ma non è solo catturare di più che gli interessa, anche se così egli crede. Imparando i misteri del fiume scarica la naturale tendenza del bisogno di conoscere, ricevendone cresci-

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richiamo accade che negli strati inferiori dell’acqua migliaia di piccole effimere, appartenenti ad un’unica specie, compiano contemporaneamente la loro trasformazione in insetto alato? Credo, e tutto sommato mi auguro, che l’uomo non riuscirà mai a fornire adeguata risposta a tale fenomeno. Lo scrittore Léonce de Boisset nel 1939 elaborò Les Mouches du Pêcheur de Truite, una monumentale opera dedicata principalmente agli Efemerotteri ed alle loro imitazioni. Appassionato pescatore a mosca ed uomo di profonda cultura, dedicò tutta la vita al loro studio, di conseguenza

ta e soddisfazione”. Si è avuto modo, inoltre, di verificare come le ninfe dei baetidae tendano a somigliarsi tranne che per alcuni dettagli, alcuni dei quali trascurabili all’atto della loro riproduzione su di un amo. Sono state, infine, poste in rilievo alcune caratteristiche comuni riscontrabili nei modelli elaborati da esperti pescatori: colore, taglia e soppressione delle zampette dell’insetto, particolare quest’ultimo la cui ripro-

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duzione non è strettamente indispensabile. In definitiva, può essere considerata una perdita di tempo l’analisi approfondita delle forme di vita appetite dal pesce? Non direi proprio. Lo studio della natura, e la presa di coscienza di alcuni dei piccoli e grandi misteri che da epoche immemori si avvicendano sulla Terra, non possono altro che costituire motivo di arricchimento e fornire spunti di riflessione. In base a quale inintelligibile


Pagina precedente in alto: ninfa non ancora matura di Baetis alpinus. Al centro in basso: le tre ninfe di Baetidae di Henri Bresson. Al centro: tre ninfe di Baetidae interpretate da Sandro Ghilardi. In alto in questa pagina: i due modelli di Jean-Pierre Guillemaud. In pratica, nonostante tre diversi flytiers, come anche per altri famosi costruttori della nostra storia passata, oltre alla dimensione cambiano solo le tonalità, suddividendo le imitazioni in due modelli, uno chiaro ed uno scuro, o tutt’al più intercalando un modello di colore mediato tra chiaro e scuro.

divenne amico di Gérard de Chamberet, il più grande costruttore francese dell’epoca, nonché di J.-A. Lestage, una delle più riconosciute autorità europee nel campo delle Effimere. Ebbene, tre anni dopo la pubblicazione del summenzionato testo sentì il dovere di scrivere un ulteriore libro su questo ordine di insetti. Nacque così Les Éphémères, un breve saggio apparentemente simile ad un breviario, ma in realtà un vero piccolo capolavoro. A quanto pare è sempre possibile aggiungere qualcosa di nuovo o redigere ulteriori considerazioni appropriate su argomenti già trattati, e ciò può accadere persino al medesimo autore. Vorrei quindi concludere queste note con una frase tratta dall’ultima sua opera menzionata, e ciò anche a titolo di piccolo tributo nei confronti di uno dei veri maestri della nostra storia: “Io amo queste Effimere dalle ali iridate, dal corpo d’oro o di fuoco, a causa della loro grazia nell’azzurro, per la suprema eleganza delle loro forme e l’infinita distinzione dei loro movimenti… Io le amo ancora poiché nel corso di una lunga vita di pescatore ho preso l’abitudine di trovarle come scenario dei luoghi che mi sono cari e perché un fiume senza Effimere e senza Uccelli è per me, più ancora di un fiume senza Trote, un fiume senza vita”.

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Y

ellow May

Come si sfata un mito alimentare Michael Olesen foto dell’Autore e di Henrik Juhl Petersen

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I I

l fiumiciattolo, un limpidissimo flusso di acqua fredda e trasparente circondato da erba alta, alberi, canneti e cespugli, scorre proprio accanto a me gorgogliando con la familiare freschezza di un giardino zen, mentre io mi accovaccio sulle ginocchia armeggiando con la macchina fotografica: sto infatti tentando di riprendere un’immagine della bellissima Heptagenia sulphurea, l’affascinante effimera dall’intenso colore giallo imitata dall’intra-

montabile Yellow May. Non posso rinunciare quando qualcosa di speciale attira così fortemente la mia attenzione: devo fare una foto e aggiungere questa nuova esperienza, insieme all’immagine nella flash card della macchina fotografica, nella mia memoria. La sensazione è di aver salvato qualcosa d’importante per il futuro, inoltre il piacere di questo momento durerà più a lungo e potrà essere rivissuto. È una strana uscita di pesca, potreste pensare, ma

il fatto è che sto cercando di arricchire questo articolo con alcune belle foto dell’insetto mentre sono parallelamente intento a tenere d’occhio la superficie per non perdermi qualche bollata delle trote che popolano questo modesto, ma interessante corso d’acqua. Sono qui per pescare infatti, e provare la mia nuova imitazione dell’effimera dal vivido colore giallo zolfo. C’è molto da fare nel mio piccolo fiume, e non è sempre facile concentrarsi su più cose contemporaneamente.

La Yellow May rappresenta l’imitazione di Heptagenia sulphurea, la famosa effimera color giallo zolfo che popola soprattutto sorgive e fiumi della pianura con acque di qualità non troppo compromessa.È accompagnata da un bizzarro mito: dal Regno Unito ci proviene la credenza che il suo sapore non sia gradito alle trote. Sembra invece che, almeno in Danimarca, patria dell’Autore, le trote la apprezzino parecchio. Ma anche noi continentali avremmo parecchie riserve sulla cucina anglosassone. 43


In realtà mi sento come se non fossi davvero io a decidere a cosa prestare attenzione. É la natura che decide. Mentre sto ancora valutando gli angoli e le condizioni di luce intorno alla bella mosca alla ricerca della migliore inquadratura possibile ecco che, all’improvviso, con la visione periferia, insomma, con “la coda dell’occhio”, intravvedo qualcosa di familiare sulla superficie. Un anello profondo e calmo perturba l’uniforme fluidità del fiumiciattolo, il tipo di “gobage” che normalmente rivela un pesce considerevole, un segnale che davvero ti mette in grande agitazione. Tutto considerato sono lì per pescare, oltre che approfittare di qualche eventuale spunto fotografico. “Finalmente un vero pesce!” riesco a pensare mentre la trota raggiunge di nuovo il fondale. Mi sembra di trattenere il respiro, mentre sto aspettando, prima con un certo ottimismo, che gradualmente prende sempre più forma, qualcosa che mi riporti alla realtà. Ad esempio un’altra potente bollata... Ho difficoltà a rinunciare alla foto al giallo folletto, ma devo andare se voglio rag-

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giungere gli ultimi hot spot prima che faccia troppo freddo e le effimere cessino l’attività, tra le dun che sfarfallano e gli spinner che ricadono. Poco più a monte noto anche degli spinner di Mayfly che si mescolano alle Yellow May. Non ve ne sono tanti, ma

nondimeno ho un leggero dubbio: mi chiedo se la mia Heptagenia sulphurea, un po’ più piccola delle mosche di maggio, in questo caso la magica Ephemera danica, legata al terminale del mio finale sia la mosca giusta. Ma non sempre la taglia è importante, e soprattutto non il


primo giorno della stagione delle mosche di maggio. Le unità sporadiche delle prime Ephemera danica non possono ancora competere con le buone quantità di Yellow May in sfarfallamento già da diversi giorni. E fortunatamente un po’ più tardi, verso sera, la mia filosofia “tascabile” viene confermata. Mi attengo alla prima scelta e continuo la camminata verso la prossima promettente bollata facendo volteggiare la mia Yellow May. La conoscenza di questo modesto corso d’acqua mi aiuta a posizionarmi strategicamente, così da avere una buona panoramica degli accadimenti, infatti ancora una volta la mia attenzione è attratta da un ulteriore, eccitante fenomeno. Proprio al centro del mio campo visivo vedo emergere un nuovo folletto giallo, una mi-

nuta apparizione, un piccolo fantasma che si rivela nello specchio d’acqua e che ancora una volta ottiene la risalita di una brown. Il polso si alza leggermente, un breve volteggio e deposito la mosca presso la precedente bollata del pesce. È al terzo lancio che la mia imitazione di Yellow May viene aspirata e mi basta un breve attimo per capire che ho catturato un pesce piuttosto grosso. Cerco di combatterlo brevemente e con fermezza, per evitare che si esaurisca indebitabilmente, sebbene sia un pesce piuttosto forte. Esco dal ruscello per portarmi in un basso ristagno d’acqua, proprio

Pagina precedente, sopra: subimmagine maschio di Heptagenia sulphurea, alias Yellow May, foto riprese dall’Autore lungo le rive del “suo” fiume. Sotto: Yellow May Fly Spinner, l’imitazione della immagine femmina il cui assetto in acqua dovrebbe essere di semi-affondamento, condizione che, secondo l’Autore, la rende più percepibile al pesce. In questa pagina, sopra: subimmagine femmina. I sessi delle subimago di questa specie differiscono pochissimo, al contrario delle immagini.

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dietro la profonda buca dove la brown di 45 cm ha preso la mosca. Qui è più facile infatti guadinare il pesce senza toglierlo dal suo elemento. In circostanze normali saluterei il pesce rilasciandolo al fiume, ma questa fario prima dovrà documentare la validità del nuovo artificiale prestandosi a fare la fotomodella, ma con quella che si potrebbe definire una sessione fotografica “gentile”: rapida, attenta ad ogni precauzione e in una rete ben bagnata appoggiata sull’erba. Il pesce non sembrava d’accordo sull’operazione, ma ora ho un’immagine di fario, che spero aggiunga un po’ di piacere visivo a questo articolo di dressing. La Yellow May, imitazione di Heptagenia sulphurea, è una mosca importante per me. È un preludio alla stagione delle schiuse di E. danica. Una mosca che sto aspettando, un punto di riferimento mentale e un indice sicuro dell’alta stagione e delle cose buone a venire. La bellezza di questa effimera è in un certo senso un inno alla bellezza della pesca a mosca nel “mio” piccolo corso d’acqua. La percepisco in un modo completamente diverso rispetto a tanti altri modelli. Per esempio, annoto sempre la data dei primi sfarfallamenti dell’anno, e quindi so che appare spesso una settimana prima della danica, e poi di nuovo a settembre. La Yellow May ha una stagione lunga e costante, quasi il doppio della durata della schiusa della Ephemera danica, ed è addirittura continua durante la giornata di pesca, in quanto emergono le subimmagini dal mattino a sera. Come regola generale la schiusa non è molto intensa, ma va avanti per ore e ore, è un cosiddetto “tratteggio”, e di solito si svolge nelle zone d’acqua aperta e veloce, anche se questo non è così significativo in piccoli corsi d’acqua. Le ninfe giallastre di sulphurea possono già schiudere sul letto del fiume e quindi quando raggiungono la superficie le subimago sono già pronte a involarsi, anche se non è detto che lo facciano subito, prima potrebbero dover asciugare le ali. Alcuni erroneamente pensano e scrivono che non puoi pescare con la tua Yellow May “dead drift”,

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瘀攀渀攀爀搀 ㄀㔀⸀ ⴀ ㄀㤀⸀ 猀愀戀愀琀漀 㤀⸀ ⴀ ㄀㤀⸀ 搀漀洀攀渀椀挀愀 㤀⸀ ⴀ ㄀㤀⸀

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sicuramente una buona idea pescare sia con dun che con emergenti, come col metodo Oliver Edwards, con la versione gialla di una Klinkhamer, ma sostenere che non è possibile pescare con la Yellow May “dead drift”, è quello che porrei tra le “notizie false”. Ho sempre pescato “dead drift” con la Yellow May Dun, e funziona perfettamente.

Un mito da sfatare

Il più famoso e duro a morire mito della Yellow May, ancora ben vivo e che sta andando forte, è quello che il pesce non mangerebbe l’insetto perché questo avrebbe un sapore sgradevole. Infatti incontro spesso pescatori a mosca che mettono in dubbio la validità della Yellow May. Questo equivoco proviene dai chalk stream del Sud inglese, dove l’effimera in questione non è molto comune, e poiché le trote conoscono ciò che è sicuro e buono da mangiare, aiutate dal discreto numero di insetti che passano, è quasi ovvio che “la festa” in quei luoghi non inizia mai. Per esprimerlo in modo ironico, la trota del Sud inglese non è abbastanza informata sulle effimere colore giallo zolfo, con una dimensione del corpo di circa 8-10 mm e con due cerci. Molti pescatori a mosca, lungo i chalkstream inglesi, pensavano semplicemente che le mosche fossero immangiabili, anche se in realtà la mosca non attira abbastanza attenzioquindi facendola derivare in superficie per tratti più o meno lunghi, ho persino trovato questa ipotesi in una rivista di pesca a mosca inglese rispettabile e popolare. Tutto quello che posso suggerire è di non credere a tutto ciò che si legge e, probabilmente, nemmeno in questo articolo. Non posso essere sicuro se le mie indicazioni sono corrette, poi qui non c’è spazio sufficiente per ipotesi e dettagli, inoltre l’etologia di questi insetti è in buona parte misteriosa e può variare da ambiente ad ambiente, quindi ogni lettore dovrà colmare queste lacune con le proprie conoscenze ed opinioni. Ma è Pagina precedente ed in questa pagina: scorci del fiume oggetto dell’avventura alieutica e fotografica. La trota fario ripresa nel guadino è quella relativa alla descrizione nel testo, rilasciata dopo la sua prestazione quale fotomodella, in tempi rapidi e con tutte le attenzioni.

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colore molto diverso, ma ho rinunciato, perché non li vedo quasi mai sull’acqua. Forse alcuni sfortunati esemplari per sbaglio ci possono cadere, in una giornata di vento fresco, ma qualunque cosa tu preferisca preparare per il tuo fly box, aggiungi una manciata di mosche giallo zolfo, quando visiti il tuo fiume a maggio, giugno, luglio e di nuovo a settembre, anche se volano le danica. Sono certamente le circostanze a determinare quanto sia efficace un’imitazione di Mayfly.

Note sulla Yellow May

Sopra: questa H. sulphurea ha sbagliato rotta di volo, non finirà in bocca a un pesce, ma nelle mandibole di un ragno fasciato. Sotto: l’Autore con una successiva cattura. A quanto pare neppure questa disprezza il sapore della sulphurea.

ne apparendo sporadicamente ed in pochi esemplari. La mia esperienza con le Yellow May è del tutto opposta e con questo modello realizzo alcune delle migliori pescate della stagione.

Etologia... dell’imitazione

Un’altra caratteristica è che con l’imitazione della dun si può pescare efficacemente per tutto l’arco della giornata e continuare anche alla sera. La cosa ha senso, perché, oltre a durare parecchi giorni, lo sfarfallamento si protrae fin dal mattino [fenomeno in effetti descritto nell’etologia dell’insetto in Ephemeroidea di Marta Grandi per E. longicauda, spesso scambiata per la H. sulphurea e certamente presente in Gran Bretagna, Ndr], quindi i pesci sono avvezzi a trovare la Yellow May tutto il giorno e per diverse giornate. Spesso preferisco pescare con l’imitazione degli spinner a tarda sera, ma lo faccio solo perché mi sembra giusto servire la mosca come “spuntino di mezzanotte”.

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I maschi e le femmine sono molto simili nello stadio di subimago, in entrambi i sessi le ali, il corpo, le code e le zampe sono quasi completamente colore giallo zolfo. Invece tra le immagini c’è un sensibile dimorfismo sessuale: la femmina ha conservato il suo colore del corpo giallo, con membrane alari molto trasparenti. Invece il maschio, con un piccolo trucco magico, ottiene un corpo ocraceo scuro, quasi marrone nella sua fase terminale di spinner. Sono stato spesso tentato di costruire alcuni maschi, per la mia fly box, perché sono di

La Yellow May è ciò che chiamerei una grande imitazione di effimera, e quindi avrei l’impulso di realizzarle più rigorosamente possibile, e potrebbe essere piacevole per un appassionato flytyer, ma non lo ritengo necessario. Monto le mie imitazioni in modo davvero minimalista, quindi non per renderle graziose, ma perché mi piacciono semplici ed imitanti quanto possibile. Il mio obiettivo è far adagiare il corpo della mosca sulla superficie, in quanto così è più visibile ai pesci. Questo si può ottenere non rendendo il corpo troppo compatto e limitando, o recidendo, le hackles sul lato inferiore dell’imitazione. Preferisco trattare le mie mosche con una sostanza idrofobica piuttosto che eccedere in strutture di galleggiamento.


Subimago femmina e, sotto, imago maschio di Heptagenia longicauda, Non è semplice distinguere le due specie sulphurea e longicauda e spesso sono state confuse anche dagli specialisti. Persino gli occhi, che possono apparire come bianco perla o nero iridescente, sono tali in entrambe e parrebbe un ulteriore mistero (foto da “Gli insetti di Fly Lineâ€?).

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1 - Si avvolge il filo di montaggio partendo dalla testa e fissando le codine.

3 - Si avvolge il foam a spirale tenendolo teso per controllarne il diametro, ma lasciando aria nella massa, poi, giunti in testa, lo si blocca lasciandone un tratto come supporto del parachute.

5 - Si forma un po’ di dubbing di Cdc e lo si avvolge attorno sia al torace che come parachute, lasciando “scappare” qualche barba del piumino.

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2 - Si appone la strisciolina di foam. Per non creare scalini e conferire buona conicità la si deve rastremare.

4 - Si fissa una hackle di gallo a ridosso della legatura del foam.


6 - Si avvolge il parachute attorno al sostegno creato dal foam, l’ideale per acque lente sono 3 giri, lo si blocca in testa, poi si formano testa e nodo conclusivo. Infine si recide l’eccedenza di foam.

7 - L’imitazione vista da sopra, l’apparenza è quella di uno spinner spent con ali aperte. Con l’ago si possono “estrarre” dal dubbing altre barbe di Cdc.

Molte mosche funzionano bene a maggio quando i pesci, usciti dalla stagione fredda, sono parecchio affamati e trovano grandi disponibilità di diverse specie, tuttavia preferisco pescare con la mosca che sembra giusta per le logiche delle schiuse, e considero questo importante anche durante il mese di maggio. Quando monto mosche secche piuttosto grandi può verificarsi un problema nella scelta dell’amo. Per esempio, se dun e spinner richiedessero un amo standard taglia 10, io preferisco il 12, poiché è relativamente più leggero. Potrebbe essere di grande importanza, giacché preferisco “vestire” le mie mosche scarsamente, non sarebbe possibile fornirle di poco hackle se l’amo fosse troppo pesante. Considero l’amo “Partridge Ideal dry” assolutamente perfetto, anche se sono un po’ più costosi di tante altre marche. Il foam “Semperfli” è perfetto per gli spinner spent, in quanto trattiene solo un po’ d’aria, e quindi si adagia profondamente nel film d’acqua, e talvolta appena sotto. Allo stesso tempo è piuttosto brillante e lucente, il che lo rende più visibile al pesce, specie nelle ore tarde quando la luce del sole sta svanendo.

DRESSING

Simple Yellow May dun Amo: Partridge SLD # 12. Filo: Semperfli Nano silk 18/0 yellow. Code: hackle di gallo tinto giallo. Corpo: Yellow dryfly dubbing. Ali: barbe di Cdc. Hackle: da collo di gallo ginger o giallo. Full moon Yellow may spinner Amo: Partridge Ideal dry SUD # 12. Filo: Semperfli Nano silk 18/0 yellow. Code: hackle di gallo tinto giallo. Corpo: Semperfli 2,6 mm booby tubes yellow, teso e avvolto in spirali lungo il gambo dell’amo. Ali: chiaro o medio dun hackle, avvolto parachute attorno alla base in foam. Torace: dubbing in Cdc giallo. Imitazione della subimago con ali in Cdc.

Il processo costruttivo mostrato è ovviamente relativo alla imitazione dello spinner: Full moon Yellow may spinner. Fine

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A

ppennino Marco Sportelli

tra Toscana e Romagna

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I I

torrenti della zona di Appennino Romagnolo che prenderò in considerazione sono tutti di modesta dimensione, sono acque minori, ma per l’appassionato in cerca di solitudine, tranquillità e pesci selvatici possono riservare un certo interesse. Conosco molto bene i piccoli riali che tagliano queste fitte faggete e s’inventano la strada verso valle, ne ho già scritto su questa rivista come itinerari e tecnica, ma soprattutto come sensazioni e nel farlo spesso ho parlato d’altro. Ora cercherò di limitarmi all’essenziale, di fotografare lo stato attuale evidenziando i cambiamenti degli ultimi anni.

Generalità e breve storia Per capire i nostri torrenti occorre fare una premessa. L’Appennino forlivese è caratterizzato da una modesta altezza e un’assoluta monotonia geologica: è quasi completamento costituito dalla Marnoso-Arenacea, una formazione rocciosa scarsamente permeabile, poco fratturata e quindi con scarsa capacità di trattenere l’acqua e rilasciarla gradualmente. Per capirci: i fiumi da trota più importanti sono sempre associati a massicci calcarei o dolomitici. Questi torrenti hanno quindi una portata più legata agli eventi meteorologici che alle sorgenti e sono soggetti a forti sbalzi di livello. Di contro, anche l’alveo è poco permeabile, quindi il minimo flusso estivo non sparisce in subalveo, o perlomeno se lo fa è per brevissimi tratti.

Foto di sfondo: il Bidente di Pietrapazza.

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per le trote: infatti la popolazione ittica era in maggior parte legata a semine primaverili. O perlomeno, se storicamente lo erano stati, in seguito alle captazioni citate non lo erano più. Dal report del 2002 tante cose sono cambiate. Sarò una voce fuori dal coro ma, nonostante i prelievi idrici, il calo generalizzato delle precipitazioni e l’azione devastante degli aironi, se ci spostiamo ancor più a monte, dove la presenza e l’azione dell’uomo è solo sporadica, la situazione delle nostre acque da trota in qualche modo è migliorata. Cos’è cambiato? Principalmente due cose: la gestione delle acque e il lento, ma costante ricambio generazionale. Da assiduo frequentatore sia di questi ambienti fluviali, sia della Consulta di Pesca posso affermare come certe scelte abbiano fatto la differenza. Ho vissuto in prima persona questa evoluzione, cercando di approfondire prima la cono-

L’assenza di sorgenti importanti, associata all’enorme richiesta estiva della riviera romagnola, ha reso indispensabile negli anni ‘80 la realizzazione della diga di Ridracoli, un bacino a scopo idropotabile che sbarra un ramo del Bidente e, tramite gallerie di gronda, preleva acqua dai torrenti limitrofi. Non ho memoria di come fosse la pesca prima di queste opere, sicuramente gli areali idonei ai salmonidi si estendevano più a valle degli attuali, mi limiterò quindi a disquisire di ciò che conosco: l’evoluzione negli ultimi due decenni. Il nostro territorio è interessato

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da tre bacini fluviali principali, Savio, Bidente e Montone che nel tratto superiore ospitano salmonidi. Già a fine anni ’90 ci si rese conto che occorreva ridurre l’impatto di pesca tutelandoli con regolamenti più restrittivi. In ogni ramo principale o nei maggiori affluenti s’individuarono zone interessanti e si regolamentarono No Kill, con soli artificiali. Una descrizione dettagliata delle zone originali la potete trovare nello Speciale itinerari 2002 di Fly Line. Non tutte le scelte si dimostrarono idonee. Alcuni di questi tratti erano in realtà gestiti più per i pescatori che


scenza del territorio e poi di modificare un po’ di cose, ma devo anche ammettere che nel farlo ho avuto la fortuna di confrontarmi con persone intelligenti e ben disposte. A quei tempi c’era ancora una scarsa conoscenza delle reali potenzialità delle nostre acque, non si pensava a una loro gestione naturale, ma ad accontentare la richiesta di cestino dei pescatori. I pesci che s’immettevano, trotelle e adulti, erano animali selezionati più per esigenze zootecniche che per crescere e riprodursi in acque libere, anzi, era opinione comune che la riproduzione naturale fosse quasi assente. In effetti, era molto limitata. Il primo passo fu di rivedere le strategie di ripopolamento e nello specifico: - Limitare l’immissione di trote adulte solo al tratto inferiore della zona a salmonidi, con il duplice scopo di evitare la competizione di questi inutili pe-

sci con le trote selvatiche che avrebbero incontrato più a monte, ma soprattutto indirizzare i pescatori da apertura o in cerca di cestino lontano dalle vere acque da trota. - A prescindere dalla disponibilità finanziara, acquistare meno trotelle e avannotti, ma sceglierli di elevata qualità, preferibilmente con genetica mediterranea e sempre dallo stesso fornitore. Distribuirli capillarmente solo nei tratti alti, dove la fitta vegetazione limita il riscaldamento dell’acqua e la predazione degli aironi. Una delle prime cose notate frequentando i piccoli laterali era la disomogeneità delle trote presenti, pesci di origine tanto varia e magari con periodi riproduttivi così diversi da non riuscire a incrociarsi tra loro. Negli allevamenti commerciali, difatti, si selezionano esemplari con differenti periodi di frega per ottenere più di un ciclo annuale: a fine estate in alcuni torrentelli trovo tut-

tora trotelle di 7-8 cm, nate in inverno, assieme ad altre di 3-4 cm nate a tarda primavera. I pesci di elevata qualità, anche se non sempre mediterranei, forniti e immessi nelle stagioni successive hanno superato le più rosee attese: nel giro di pochi anni sono riusciti a colonizzare e riprodursi con successo in quasi tutti i piccoli laterali in cui sono stati distribuiti. Torrentelli che in passato avevano quasi solo trote di semina ora, dopo anni di non immissioni, hanno popolazioni modeste, ma in tutte le classi di età e con l’evidenza annuale di nuovi nati. Finalmente si ha la ragionevole certezza di pescare quasi solo pesci rinaturalizzati!

Gestione e no kill

In secondo luogo c’erano da modificare alcune aree protette, eliminando divieti di pesca inutili e spostando le zone NK da dove era comodo pescare

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delle acque in cui i salmonidi si riproducono ora sono, se non già soggette a un divieto di pesca, regolamentate NK! Ovviamente non basta tabellare un tratto di fiume per ottenerne automaticamente la protezione, serve un cambio di mentalità, una presa di coscienza. La cultura del pronto pesca e dei ripopolamenti sistematici aveva falsato per anni la capacità ittiogenica di queste acque e drogato le attese dei locali: potevano prelevare fino all’ultima trota sapendo che l’anno successivo ci sarebbe stato nuovamente qualcosa da catturare. Purtroppo sono acque troppo marginali perché siano compatibili con il prelievo di pesca e sono bastati pochi anni di non immissioni per riportarli alle loro vere a dove ci sarebbe stato veramente qualcosa da proteggere. In pratica si trattava di riposizionarle nei tratti sorgentizi, includendo tutti gli affluenti. Da noi, come già detto, le trote trovano condizioni idonee alla riproduzione solo nella parte molto alta dell’Appennino e una delle caratteristiche indispensabili per dare forza a questi piccoli corsi d’acqua, sempre in delicato equilibrio fra predazione, siccità estiva e interventi maldestri dell’uomo, è proprio quella di non limitarsi a tutelare un tratto di fiume, ma tutto un territorio. Il processo si è concluso solo quest’anno. Sicuramente c’è spazio per altri aggiustamenti, ma posso affermare con soddisfazione che più del 90-95% potenzialità. Questo, oltre alle inevitabili lamentele, ha indotto chi cercava solo facili prede a smettere di frequentarli e anche i trotaioli valligiani hanno cominciato a lasciar posto a giovani pescatori a mosca o a spinning con un’altra mentalità. C’è ancora qualcuno moralmente così “povero e affamato” da prelevare pesce in acque protette, ma la sensazione è che di vecchi bracconieri ce ne siano sempre meno, mentre quelli nuovi pare trovino più remunerative carpe e siluri della bassa. Molti di questi torrenti sono selvaggi, lasciati completamente a loro stessi e scorrono in posti meravigliosi. Il nostro Appennino non supera mai in altezza il limite superiore degli albe-

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poter svolgere il ciclo vitale anche dove i pesci non sopravvivono. E di fossi che si seccano una volta all’anno nel nostro Appennino ce ne sono a centinaia, contro i pochissimi in cui le trote prosperano e si riproducono.

Tentativi di ripristino genetico

Un altro progetto che ho parzialmente osteggiato per i metodi adottati, è legato al recupero di un ceppo di trota autoctona. Nel 2014 cominciò una campagna di ricerca finanziata dal Parco. Dopo diversi tentativi infruttuosi fu individuata in un breve tratto sorgentizio una piccolissima popolazione con genetica mediterranea. In verità sono pesci molto più simili alle macrostigma tirreniche che alle fario adriatiche che ci si doveva aspettare, ma il dettaglio sembra insignificante... Il recupero dei riproduttori, seppure fatto in maniera pedestre e mettendo a serio repentaglio quell’esigua popolazione, è andato a buon fine e ora sono in un incubatoio dove si riproducono regolarmente. È ancora presto per stabilire se queste trote di origine ignota, probabilmente immesse dalla Toscana in tempi andati, siano in grado di adattarsi anche ad altri torrenti della provincia, ma se lo fossero avremmo finalmente un incubatoio di valle con ottimo materiale da poter distribuire con calma e attenzione dove veramente serve. Purtroppo, prima di immettere queste trotelle, farebbe parte del progetto anche una folle preventiva rimozione di massa di tutte le trote presenti nei corsi d’acqua, ma non sempre il buonsenso è oggetto di tesi di laurea! ri, quindi li potete risalire fino alle sorgenti senza mai uscire da queste fittissime faggete tutelate dall’uomo da decenni. Il Parco delle Foreste Casentinesi si estende su tutta la dorsale appenninica e ha inglobato anche la Riserva integrale di Sassofratino, dove l’uomo non mette mano dagli anni ’70, e buona parte delle acque interessanti ci scorre proprio all’interno. Gli animai selvatici sono molto abbondanti, incontrare daini, caprioli, cervi, cinghiali è la norma, mentre i segni della presenza del lupo sono una percezione costante. E trote, ovviamente. Non tante, non grosse, ma quasi sicuramente selvatiche! Non tutto va così bene. Ora che è stato raggiunto un compromesso ottimale ci sono altre forze, che conoscono solo parzialmente le dinamiche di questi ambienti, che spingono in altre direzioni. Ad esempio c’è l’intenzione di rimuovere definitivamente le trote dagli affluenti e dalla parte superiore dei corsi principali per evitare la competizione con rane e salamandre. Forse qualche rana finisce veramente nella pancia di qualche trota, ma la strategia evolutiva degli anfibi è di Pagina precedente, sopra e al centro: trotelle selvatiche o rinselvatichite catturate nei vari rii. In basso: gambero di fiume del torrente Rabbi, affluente del Montone. In questa pagina: scorci del Para. Le acque sono appena velate. Basta un modesto acquazzone per sporcare i riali, data la costituzione geologica.

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Zone di pesca

Ora vi porterò velocemente lungo l’Appennino, da Est verso Ovest, alla scoperta di questi corsi d’acqua, ma limitandomi a qualche informazione generale e a un commento lapidario. Mappe dettagliate, foto e descrizioni più approfondite le potete trovare sul nostro sito: www.forlifly.it Per accedere alle zone NK che vi elenco non servono tesserini o permessi, basta la licenza di pesca, voglia di camminare e un po’ di buonsenso. Il Bacino del Savio non è particolarmente vocato a salmonidi, perché nel tratto superiore attraversa formazioni argillose che si dilavano facilmente e si depositano come limo lungo l’alveo. Le zone di qualche interesse sono limitate ad alcuni suoi laterali. Vediamole. Para – È un affluente di destra del Savio e vi confluisce nel lago di Quarto, bacino idroelettrico ormai completamente occluso da sedimenti. Il tratto NK è abbastanza lungo e scorre in una valle secondaria scarsamente abitata. L’unico facile accesso è nei pressi della confluenza con l’Alferello, dove il ponte stradale lo attraversa, la strada si alza e si allontana dal torrente per poi riavvi-

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cinarsi solo molto più a monte, al ponte che ne delimita anche la fine. La risalita in alveo è agevole, ma a un certo punto una gola stretta e scenografica vi costringerà a una faticosissima risalita del versante. Non esiste un sentiero di ritorno, però se siete dei buoni camminatori potete arrivare fino alle case di Pereto, guadagnarvi l’asfalto e rientrare lungo la strada. Nonostante le difficoltà di accesso la popolazione di salmonidi è sempre stata modestissima e non è chiaro se sia dovuto a un prelievo costante o se semplicemente le argille che lo costeggiano più in alto impediscano il ciclo riproduttivo delle trote. Sconsigliato. Alferello – Ne ho già parlato in Fly Line, Speciale Itinerari 2004. È probabilmente il più bel torrente del nostro Appennino. Il suo corso è caratterizzato da una costante presenza di massi ciclopici rotolati in alveo e l’acqua, non potendo eroderli, li aggira. Il NK originario era posto a valle della Cascata delle Trote, un salto d’acqua spettacolare molto frequentato dai gitanti estivi, e proseguiva per qualche chilometro fino al Para. La popolazione era in gran parte costituita da trote residue da vecchie

semine, ma la bellezza del posto compensava la scarsità delle trote. In seguito alla costruzione di una presa d’acqua a scopo idroelettrico la popolazione ittica si è azzerata e il NK è stato trasferito a monte del paese di Alfero. Qui è più piccolo, ancora scenografico, la qualità dell’acqua è sicuramente migliore, ma perdendo quasi subito l’apporto dei suoi due affluenti di sinistra, del torrente a valle rimane ben poca cosa. Questi due piccoli laterali, inclusi nel NK, sono discretamente popolati da trote che crescono e si riproducono all’ombra del bosco. Sono fagocitati dalla vegetazione e risalirli per affrontarli con la canna da mosca è un’impresa, ma ogni lancio ben fatto corrisponde a una trotella che sale. Il NK è in vigore da poco e c’è da sperare che i pesci che anno dopo anno scendono da questi laterali ripopolino anche il torrente principale. Sconsigliato, per il momento. Sopra: scorcio del torrente Alferello, l’accattivante morfologia lo pone tra i ruscelli più suggestivi dell’Appennino. Pagina a destra: l’Acquacheta, considerato il migliore torrente da trote della provincia.


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vaghe tracce nel bosco. La presenza del lupo qui è molto più di una percezione. Sconsigliato. Borello – È un affluente di sinistra del Savio. Il tratto NK è facilmente accessibile in più punti e la strada asfaltata lo segue abbastanza da vicino. La pesca a mosca invece non è molto agevole a causa della vegetazione troppo bassa sull’acqua. La popolazione di trote è costantemente diminuita negli anni, facendo supporre un’azione di prelievo e una presenza legata più che altro ai ripopolamenti primaverili. Da quest’anno il NK è stato esteso, includendo tutto il corso di un suo affluente di sinistra. Questo riale è molto selvaggio e scomodo da risalire, ed è il motivo per cui conserva una modesta popolazione di salmonidi che anche senza interventi dell’uomo continua a resistere e rinnovarsi. Troppo piccolo, sconsigliato.

Savio – Come accennato il corso principale del fiume Savio, sia per la presenza di argille, sia per la costruzione negli anni ’80 dei viadotti dell’E45, non è interessante per la sopravvivenza e riproduzione delle trote. Il NK originario era posto nei pressi del paese di Bagno di Romagna. Ci si trovavano trote di semina e qualche pesce proveniente da due laterali di sinistra, chiusi in parte o in tutto alla pesca. Da quest’anno è stato abolito per far posto a una riserva gestita e traslato più a monte. Anche il tratto attuale è poco idoneo ai salmonidi, ma include dei laterali che invece lo sono. Sono due piccoli torrentelli che s’inoltrano in valli disabitate e suggestive, l’azione di pesca è minimale e i lunghi tratti iniziali sono popolati solo da vaironi. Continuando a risalire s’incontra qualche rara vecchia trota ed esemplari più giovani, cresciuti da avannotti immessi anni fa, che ora si riproducono regolarmente. Entrambi non hanno sentieri segnati per il ritorno, ma solo

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Sopra: il torrente Savio, con la E45 che ne solca il cielo. Sotto: sempre il Savio, poco adatto alle trote per i substrati argillosi, ma i cui affluenti sono interessanti.

Il bacino del Bidente è formato da tre rami superiori che si congiungono nei pressi di Santa Sofia. Sono presenti tre zone NK. Pietrapazza – Era sicuramente il NK storico più azzeccato ed esteso, comprendeva tutto il tratto superiore del Bidente di Pietrapazza e i suoi numerosi affluenti. Scorre quasi completamente all’interno del Parco inoltrandosi per chilometri nel fitto del bosco. Una lunga strada sterrata lo costeggia fino alla Chiesa di Pietrapazza permettendo l’ac-


un dilettante sarebbe riuscito a catturare qualcuna di quelle bellissime trote selvatiche che lo popolavano. In seguito al progetto di recupero della trota autoctona il tratto più interessante, quello oltre la chiesa, è stato chiuso alla pesca e molte trote sono state rimosse dal corso principale e dai laterali. In quasi tutti i riali che vi confluiscono erano state immesse trotelle di buona qualità che avevano attecchito perfettamente arrivando ovunque alla riproduzione naturale. Dopo quattro anni di non immissioni le popolazioni, anche se non eccelse, si potevano definire stabili, si era creato un piccolo paradiso pieno di possibilità di pesca. La siccità cesso in qualche punto e le poche case che s’incontrano sono solo residenze estive. L’alto corso del Pietrapazza era l’unico posto dove ci portavo a pesca gli amici o i miei figli, certo che anche Sopra: il Bidente Pietrapazza, dove si trovava il no kill più “storico” e dove per anni raggiunse vette ottimali, poi peggiorato per la siccità del 2017 ed i nuovi interventi gestionali. Al centro: la valle disabitata del fosso delle Celle che confluisce nel Bidente di Campigna. Sotto: il rio Greppa, tributario del Borello, a sua volta affluente del Savio. straordinaria del 2017, le rimozioni in atto e il veto d’immissione di trote da parte dell’Ente Parco ne hanno quasi azzerato la popolazione. Rimangono un po’ di esemplari adulti nel corso principale, ma in mancanza dell’apporto riproduttivo di tutti i laterali è difficile predire come evolverà questa popolazione. Benché la magia della valle del Pietrapazza sia persa per sempre, il corso principale rimasto aperto è facilmente pescabile, si risale bene in alveo, la strada in sponda destra vi può riportare alla macchina e ci troverete anche trote selvatiche trasferite da dove io faticavo molto di più per andarmele a cercare. Consigliato subito, prima che sia troppo tardi.

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Campigna – Il tratto NK, istituto solo quest’anno, è delimitato a valle dalla presa d’acqua di Romagna Acque e si estende fino ai confini delle foreste demaniali e la riserva integrale di Sassofratino, includendo tutti i laterali e quindi tutta la vallata. La zona di pesca è veramente estesa e articolata, scorre tutto all’interno del Parco e potrebbe diventare interessante come lo era il Pietrapazza. Il corso principale si pesca e risale agevolmente, l’unico accesso è a inizio NK, poi la strada bianca si allontana dal corso d’acqua e lo incontra solo qualche chilometro più su, alla chiesetta di S. Agostino. Ci sono pozze abbastanSopra: scorcio del Campigna. Sotto: i meandri boscosi delle Celle visti dal sentiero del ritorno e, a destra, il lago di Ridracoli.

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za ampie e profonde da garantire alle trote una certa protezione dagli aironi e, ammesso che il regolamento NK sia rispettato, ci si può attendere che il pesce ora presente raggiunga anche taglie interessanti. Subito sopra la chiesa il corso si divide in due rami e s’inoltra in un fittissimo bosco. Entrambi sono interessanti, alternano piane a modesti salti d’acqua e la vegetazione d’alto fusto rende agevole l’azione di pesca. La popolazione è in gran parte naturale, l’ultimo apporto di trotelle con genetica mediterranea risale a quattro anni fa. La zona di pesca termina in entrambi gli affluenti molto più su, dove s’incontrano i cartelli di divieto che delimitano l’area demaniale. Non ci sono sentieri per il ritorno, ma solo i percorsi segnati dagli animali. In tutta la vallata gravano due o tre abitazioni e superata la chiesetta, non troverete più traccia dell’esistenza dell’uomo. Consigliato.

Celle – Il fosso delle Celle confluisce nel Bidente di Campigna poco sopra al paese di Corniolo. Si raggiunge da uno stradello che conduce alla presa di Romagna Acque. La zona NK comincia a monte della briglia e s’inoltra per chilometri in una stretta valle selvaggia e completamente disabitata. Il primo tratto si è scavato un percorso a meandri nella Marnoso-Arenacea esponendo questa formazione rocciosa agli effetti dell’erosione meteorica e al suo caratteristico scalettamento. La vegetazione non attecchisce in queste ripide pareti e quindi la copertura arborea è solo parziale, il sole a tratti raggiunge l’acqua e tende a scaldarla. Risalendo, i versanti diventano meno ripidi, la faggeta ingloba il corso d’acqua e l’ombra fa risentire i suoi benefici effetti. La risalita del torrente è molto agevole e l’assenza per chilometri di salti d’acqua importanti ne fa un luogo ideale per la migrazione e la riproduzione delle trote. Malgrado ciò la popolazione di salmonidi è sempre stata modesta, la causa poteva essere imputata a un’eccessiva predazione da parte di aironi e pescatori scorretti, ma anche qui il cambio di strategia ha fatto la differenza. Le trotelle di buona qualità immesse anni fa nel tratto alto si sono ambientate benissimo e con qualche ciclo riproduttivo sono riuscite autonomamente a ripopolare tutto il lungo tratto NK. La taglia dei pesci è generalmente modesta, perché persiste un certo prelievo, ma questi pesci sembrano aver ripreso pieno possesso del torrente. Non ci sono facili uscite intermedie, però se


avete la costanza di risalirlo fino ai ruderi delle Celle, s’incrocia il sentiero di ritorno. Un rientro lungo e faticoso, ma il panorama che si gode da questo sentiero che taglia in parte gli scalacci rocciosi merita da solo il viaggio. Consigliato. Il bacino del Montone è il più a Est della provincia, sono presenti due zone NK. Rabbi – È un affluente di destra del Montone. Il NK storico era stato individuato sopra Premilcuore, in una zona che beneficiava dell’apporto di un affluente, nel frattempo parzialmente captato. Le trote adulte ci sopravvivevano egregiamente, ma lasciato a sé stesso ha dimostrato in pochi anni di non riuscire ad autosostenersi. Nel 2012 è stato riposizionato molto più a monte con lo scopo di includere anche un suo ramo laterale. L’accesso è molto agevole, una strada bianca percorribile a piedi scende proprio a inizio NK e poi lo costeggia a tratti in sponda destra. Il corso principale è ben popolato anche da gamberi, ma la vegetazione è abbastanza bassa e invadente. Dopo cir-

ca due chilometri il torrente si biforca, il ramo di sinistra è tutelato da un divieto di pesca e ha una popolazione di trote selvatiche molto ben strutturata, nel ramo di destra invece il NK prosegue per qualche altro chilometro fino al confine toscano. Questa vallata, detta delle Poderine, è completamente disabitata, la risalita in alveo è molto agevole e quasi subito il torrente entra in una fitta faggeta che con la sua ombra totale fa sparire la bassa vegetazione e facilita l’azione di pesca. Un sentiero in sponda sinistra, buono per il ritorno, si avvicina un paio di volte all’acqua. Se non avete fretta, non fermatevi al confine, il tratto toscano non è tutelato da cartelli, ma dalla notevolissima distanza dagli accessi. Consigliato per buoni camminatori. Acquacheta – È sempre stato considerato il miglior torrente da trote della provincia. Deve la sua fama alla particolare conformazione e a una portata idrica maggiore di quella che dovrebbe avere. Il regolamento NK è in vigore da quest’anno, il tratto si estende da una briglia poco a monte di S.

Benedetto in Alpe fino alle cascate che delimitano il confine toscano. È un piccolo corso d’acqua molto ben strutturato, si alternano piane a buche importanti ed è costante la presenza di massi e tane. Nei nostri torrenti si cammina molto e si lancia poco, qui vale il contrario, ogni metro è interessante e risalirlo pescando richiede molto tempo. Il NK termina alla cascata dell’Acquacheta, un salto d’acqua spettacolare che troverete alla vostra sinistra, o anche no, dipende quando ci venite. La cascata è famosa perché Dante nell’Inferno la descrisse così: Come quel fiume c’ha proprio cammino prima dal Monte Viso ‘nver’ levante, da la sinistra costa d’Apennino, che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante, rimbomba là sovra San Benedetto de l’Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto; così, giù d’una ripa discoscesa, trovammo risonar quell’acqua tinta, sì che ‘n poc’ora avria l’orecchia offesa.

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L’Acquacheta.

Affluente del fiume Savio.

Modesta vittima di una dry fly.

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Vittima (temporanea) di una Chernobyl.

Il Rabbi nella valle delle Poderine.

Pietro

Cascatella del Campigna.

Affluente dell’Alferello.

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Rapide del torrente Celle.

Qualcuno ha... perso le corna.

Pozze cupe, e colori cupi.

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Buca del Rabbi nella valle delle Poderine.

Dalla descrizione posso immaginare che Dante la vide in primavera o che nel XIII-XIV secolo piovesse molto. In realtà in estate la cascata quasi non esiste e gli escursionisti che arrivano fin quassù si accontentano del più modesto salto d’acqua del suo affluente di sinistra, il fosso di Lavane, che però mantiene sempre una discreta portata. Questa linfa, fondamentale per la sopravvivenza dell’Acquacheta, proviene in parte da antichi lavori idraulici che convogliarono acque del versante toscano ai mulini di questo fosso. Un agevole sentiero escursionistico parte dal paese di S. Benedetto e risale fino alle cascate. Si avvicina spesso al torrente facilitando l’accesso e il rientro. Di contro è ben frequentato, risalire masso dopo masso, buca dopo buca, all’ombra della vegetazione d’alto fusto che lo ricopre, porta la mente lontano, ma d’estate, trovarsi ogni tanto degli escursionisti colorati e rumorosi a pochi metri, toglie molto alla poesia del posto. Consigliato, magari non in agosto.

Epilogo

Il Lavane, affluente dell’Acquacheta la cui cascata è citata nell’Inferno dantesco.

Ecco, siamo giunti alla fine. Credo che questo, per i nostri torrenti, sia un momento di grazia, le popolazioni di trote si stanno rinaturalizzando, le acque degne di nota sono pienamente tutelate e i pescatori incoscienti sono un po’ meno presenti. Godiamoci l’onda lunga di quanto fatto finora, perché avrà una durata limitata: c’è già chi lavora per annullare tutto questo!

Per i Pam del III millennio

Ah, ci sono anche delle zone NK a pagamento, sono posizionate in ogni corso principale, generalmente in tratti urbani e sono rifornite in maniera più o meno costante di grasse trote di vasca. Si cammina poco, si pesca bene e c’è un’ottima copertura di rete per condividere in tempo reale la vostra cattura con gli amici. Sempre nel sito, per dovere di cronaca, sono riportati i link. Troverete molti più pescatori a mosca qui che nelle zone gratuite più a monte, ma spero mi vorrete perdonare se evito di dilungarmi.

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León

sin muerte Testo e foto di Álvaro de la Puente Robles e Vincenzo Penteriani

È possibile riconvertire un’intera regione, dove la trota era vista come un apporto proteico essenziale ad una dieta composta principalmente da cereali e legumi, in un esempio europeo di acque quasi esclusivamente no kill?

Foto: fiume Porma.

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L L

éon è una provincia spagnola che si trova nel nord della Penisola Iberica, più precisamente nel nord-est della grande comunità autonoma di Castilla y León (la più grande di Spagna), separata dall’oceano Atlantico dal Principato di Asturia e dalla Cantabria. La regione del León si caratterizza per una rete di fiumi e torrenti che si estende per quasi 3000 chilometri. La maggior parte di questi corsi d’acqua, che nascono nelle montagne della Cordillera Cantábrica, nel nord della provincia, scorre in una zona a clima continentale tra i 700 ed i 1100 metri di altitudine, ideale per la presenza della trota fario. Molti di voi avranno sentito parlare del León per la grande tradizione che nel corso dei secoli ha conquistato nella storia della pesca a mosca in Europa. Basti citare le piume

dei colli dei galli del León od il Manoscritto di Astorga, una delle più antiche testimonianze della pesca a mosca in Europa. Era infatti il 1624 quando Juan de Vergara, un canonico della cattedrale di Astorga, raccolse in un manoscritto le modalità costruttive ed i materiali di costruzione di 33 modelli di mosche artificiali. Un lavoro straordinario e progressista per quei tempi, che si avvalse anche dell’esperienza di altri pescatori locali dell’epoca. Se consideriamo il periodo in cui questo manoscritto vide la luce (siamo nel secolo XVII), possiamo immaginare quanto la pesca a mosca fosse già da tempo un’attività presente nella cultura locale degli abitanti della regione leonese, frutto di esperienze tramandate attraverso generazioni successive di pescatori. Più o meno in quegli stessi tempi ai quali risale nel nostro Paese la Valsesiana.

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Ma quello che da sempre ha caratterizzato la pesca della trota in León è stata la sua importanza sociale, economica e culturale. Infatti, la presenza di così tanti corsi d’acqua dalle caratteristiche a volte molto distinte ed in un territorio prevalentemente rurale, abitato principalmente da agricoltori ed allevatori, convertì rapidamente la pesca della trota in un elemento centrale nella “sopravvivenza” quotidiana. Le trote rappresentavano spesso l’unico apporto di proteine in una dieta basata principalmente in cereali e legumi, dove spesso la carne scarseggiava ed il mare era troppo lontano per riuscire a procurarsi altre specie di pesci. Infatti, superare la barriera della Cordillera Cantábrica non era cosa facile secoli addietro, se pensiamo che ancora oggi molti colli di montagna e paesi rimangono bloccati in inverno. Così, la pesca della trota in León fu da sempre un’importante attività stagionale, come lo erano la raccolta dei funghi o del miele, e si convertì rapidamente in un elemento importante nella cultura gastronomica della regione. Ma non solo. Già dal Medioevo la pesca della trota con la canna appare come un’attività ludica di rilievo per la classe aristocratica, dove delle vere e proprie riserve di pesca nei tratti migliori dei fiumi erano privilegio esclusivo di nobili e vescovi. Dopo secoli di pesca tradizionale, sotto forma di pesca di sopravvivenza per le classi sociali meno abbienti e di svago per i “nobili”, è nella seconda metà del ventesimo secolo che la pesca con la canna subisce un cambio radicale. L’avvento di nuovi materiali e tecniche, infatti, permettono tanto l’aumento del numero di catture come l’avvicinamento del “grande pubblico” a quella che potremmo definire già come “pesca sportiva”. Il numero di pescatori aumenta e, di conseguenza, l’amministrazione locale deve iniziare a regolamentare la pesca istituendo limiti di numero e taglia delle trote che si possono sopprimere, creando zone a regolamento specifico per contenerne il prelievo. E, come in molte altre zone d’Europa, a fronte di una crescente pressione di pesca, anche in León si iniziano i ripopolamenti con la fario centro-europea e, in alcune

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Sopra: la livrea delle trote autoctone della regione leonesa variano da un corso d’acqua all’altro, con colorazioni tipiche di ogni zona. Sotto al centro: fiume Valcarce, la pesca praticata con normativa no kill in ampi areali permette di proteggere efficacemente le popolazioni molto vulnerabili delle trote dei tratti montani. Pagina successiva: trota fario catturata durante una schiusa di Ephemera danica, ovviamente l’imitazione è un modello di May Fly.


zone, con l’iridea. Tra gli anni 70 ed 80 il profilo del pescatore di trote del León inizia a cambiare, la trota non è solo cibo gratis, ma, anche se procurarsi una fonte di proteine importante per alimentare la famiglia non è più lo scopo principale della pesca alla trota, questa è pur sempre vista come una fonte di guadagno extra, rappresentata dalla sua vendita a singoli o ristoranti. Comunque, qualunque siano le ragioni che spingevano i locali a pescare trote, incluso quando questi abbandonavano le campagne per andare a vivere in città, la tradizione che si passa di padre in figlio è quella di una pesca concepita essenzialmente come un processo che termina con la trota nel piatto. Ma ecco che gli anni 90 rappresentano il primo passo importante verso quella che sarà una visione molto differente della pesca e della sua gestione nella regione leonese. Da una parte si proibisce la vendita della trota fario “selvatica”, per intenderci quella pescata nei fiumi, e dall’altra si introduce per

la prima volta il concetto di zone in cui non si può prelevare il pesce. Ecco allora che compaiono nel León tratti di fiume in cui la pesca è libera, ma nei quali il prelievo delle trote è vietato, o tratti di fiumi in cui in alcuni giorni della settimana la pesca è possibile solo se praticata “no kill”. E tutto questo senza che l’amministrazione pubblica richieda un pagamento extra per pescare nei tratti a prelievo zero. In questi areali similmente protetti, anche se rimaneva permessa la pesca a spinning (ma con ami senza ardiglione, come del resto per la mosca), fu immediatamente vietata la pesca con le esche naturali, già che la sopravvivenza delle trote rilasciate ne risultava fortemente compromessa. Nei no kill si iniziano anche a sperimentare iniziative come quella della “trota trofeo”, ovvero lasciare la possibilità di prelevare una unica trota al giorno che sia di almeno 40 centimetri, anche se pochi anni dopo questa iniziativa viene abbandonata e nei tratti no kill rimarrà in vigore il divieto assoluto di prelevare trote.

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Come si può facilmente immaginare, l’arrivo di questa nuova normativa in una zona rurale dove la trota era sempre stata una relativamente abbondante fonte di alimento non incontrò molta popolarità tra i locali, eccezion fatta per le leve più giovani ed il collettivo dei pescatori a mosca. Ma l’iniziativa non tarda a dare i suoi frutti. La densità e la taglia delle trote cresce nelle zone senza prelievo, mentre continua a decrescere nelle zone dove questo è ancora permesso, il che comporta che sempre più pescatori si interessino ai tratti di fiume no kill ed abbandonino la pesca nelle aree dove si continua a permettere l’uccisione delle trote. Soprattutto perché pescare nei no kill non richiede nessun permesso particolare che non sia la licenza di pesca della regione autonoma. Nelle aree no kill, inoltre, cessano le immissioni di trote: questi tratti possono infatti cominciare a mantenersi esclusivamente con la popolazione naturale, che va progressivamente crescendo in numero e taglia.

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Pagina a fronte in alto: durante la primavera e l’estate la notevole quantità di insetti rende la pesca a mosca secca una delle tecniche più praticate, e più redditizie, nel-

la regione del León. Sotto al centro: fiume Burbia, alcuni tratti ancora naturali mantengono buoni livelli anche in estate.

Sopra: fiume Duerna, molti corsi d’acqua della regione si coprono di ranuncoli, creando protezione alle trote ed attraendo varie specie di insetti terrestri nelle aste fluviali.

Ma è con l’arrivo del XXI secolo che le cose cambiano ancora più radicalmente e la regione del León può considerarsi un esempio per tutta Europa. Agli inizi di questo secondo millennio, infatti, sempre più chilometri di acque vengono convertite a zone senza prelievo, e praticamente ogni corso d’acqua ha zone libere o riserve di pesca (cotos de pesca) assolutamente no kill. La crescente qualità dei popolamenti di trote del León non tarda ad attirare l’interesse dei pescatori di tutta la Spagna: ben presto infatti si osserva l’arrivo di pescatori a mosca da tutte le altre comunità e non solo quelle limitrofe. Ed arriviamo praticamente ai giorni nostri. Agli inizi della seconda decade del 2000 il numero di tratti no kill è aumentato esponenzialmente ed inizia a circolare per gli uffici dell’amministrazione pubblica una nuova proposta di legge mirata a cambiare radicalmente la pesca nella regione. La nuova legge

della pesca entra in vigore nel 2013 e, fondamentalmente, considera la trota come una opportunità unica di sviluppo dell’economia rurale ed un mezzo per incrementare il turismo. Come tale, la sua protezione deve essere praticamente assoluta e, quindi, il principale mezzo di gestione delle acque interne sarà la diffusione ovunque della pesca tramite il cosiddetto no kill. Gli unici (pochissimi) tratti in cui si permette ancora la soppressione della trota fario sono quelle zone in cui specifici piani di gestione indicano il tipo di prelievo che può essere effettuato in base alla popolazione di trote effettivamente presente. In queste zone, inoltre, esistono restrizioni di giorni di pesca, di numero di catture giornaliere e di pescatori ammessi. In pratica, tutte le zone libere si trasformano in no kill! Provate ad immaginare fiumi interi senza prelievo, popolati solo da trote naturali e dove non c’è bisogno di pagare nient’altro

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che una licenza annuale di 15€! Evidentemente, come c’era da aspettarsi, non tutti reagirono positivamente alla nuova legge. In particolare, i pescatori più anziani e quelli che continuavano a pescare con esche naturali iniziarono a manifestare il loro disaccordo, ci furono dure campagne contro la legge del 2013 nei mezzi di comunicazione, cortei di associazioni di pescatori, dichiarazioni istituzionali di alcuni piccoli comuni. Praticamente, i pescatori più tradizionali, quelli della “trota nel piatto” per intenderci, considerano che l’amministrazione li sta cacciando via dai fiumi non permettendo loro nessun tipo di prelievo (tranne che nei pochi tratti in cui questo è ancora permesso). La legge, imposta dalla città (dove risiede l’amministrazione leonese), viene anche vista come una nuova aggressione della città all’ambiente rurale, che si vuole privare delle sue più antiche tradizioni. Le proteste, evidentemente, Sopra a destra: fiume Cureño, i tratti regolati dalle dighe sono particolarmente attrattivi a partire da metà settembre (quando viene chiuso il deflusso delle acque per l’irrigazione) e possono ospitare trote di notevoli dimensioni. Sotto: fiume Luna, in attesa di una schiusa di Serratella ignita in un tratto collinare. infieriscono anche sulla pesca a mosca, che viene vista dai detrattori della nuova legge come una tecnica complessa, riservata ad un pubblico specifico (più cittadino che rurale) e che allontana dalla pesca bambini, anziani ed invalidi. Questa opposizione alla nuova legge determina allora la nascita dei cosiddetti AREC (Áreas en Régimen Especial Controlado), piccoli tratti di corsi d’acqua dove è permesso un prelievo di due trote al giorno per pescatore ed un numero limitato di fruitori al giorno. Anche in questo caso non è necessario pagare per pescare in queste zone, è sufficiente prenotare con il dovuto anticipo il giorno prescelto. In generale, ogni corso d’acqua ha almeno un AREC. A cinque anni dall’entrata in vigore della nuova legge sulla pesca in León

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che cinque anni fa, quando comunque questa legge entrò in vigore in un panorama fluviale in cui già moltissime aree erano chiuse al prelievo della trota. Addirittura, stanno ricomparendo trote in zone dalle quali queste erano scomparse da anni, incluse alcune aree del piano, ed i pescatori a mosca rappresentano oggi la maggioranza di coloro che frequentano i corsi d’acqua del León. Il turismo di pesca è aumentato nelle zone rurali, già che la qualità e quantità delle popolazioni di trote del León sta richiamando sempre più appassionati da fuori (e non solo dalle vicine comunità), e di questo ne stanno vedendo i risultati anche i commercianti, gli hotel ed i ristoranti locali. Siamo agli inizi, ma In questa pagina, sopra e a destra: fiume Esla; sotto, fiume Órbigo. I grandi fiumi della “meseta” leonesa ospitano le trote di maggiori dimensioni e popolazioni di insetti ancora importanti. le manifestazioni negative sono andate scemando, anche perché i risultati non si sono fatti attendere. Infatti nella maggior parte delle acque libere la popolazione di trote è in continuo aumento. Quasi nessuno può più negare che ci sono più trote ed esemplari più grandi l’amministrazione prevede di sviluppare la pesca della trota a mosca come un richiamo in grado di risollevare l’economia locale ed aiutare a combattere l’abbandono delle campagne e l’invecchiamento delle popolazioni umane residenti nelle aree più rurali. Evidentemente non é tutto rose e fiori, poiché alcuni problemi potrebbero insorgere nel corso degli anni. Ad esempio, questa gestione così specifica delle acque interne potrebbe passare (almeno parzialmente) ad una gestione da parte di enti privati. La gestione delle acque del León è sempre stata pubblica, la pesca libera e, nonostante gli errori eventualmente commessi, non è mai stata motivata da interessi economici o speculativi come potrebbe succedere nel caso della gestione privata delle acque.

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Commento di redazione - Ciò che è successo nella regione ispanica del Leòn, ove quasi tutte le acque sono gestite con normativa no kill, per l’Italia si tratta certamente di un’utopia. Immaginate cosa sarebbe dell’anfiteatro morenico del Friuli col suo incredibile patrimonio fluviale delle sorgive carsiche? Diverrebbe un polo universale di pesca a mosca a fronte del quale zone come il Sud del Regno Unito, coi suoi osannati e mitizzati fiumi quali il Test, l’Avon, il Kennet, l’Itchen e tanti altri, oppure le zone della Slovenia e della Croazia con sorgive note in tutto il mondo come l’Unec, il Krka, il Gacka, per non parlare dei torrenti, passerebbero tutti in secondo piano. Non solo, ma diverrebbe la “novità” indiscussa e nel giro di pochi anni attrarrebbe pescatori a mosca da tutto il mondo, considerando poi ciò che l’Italia è in grado di offrire in termini artistici, storici e culturali, oltre che di bellezze naturalistiche. Per non parlare della ricchezza di torrenti, 78

giacché il nostro Paese è attraversato in entrambi i sensi da due catene montuose ricche di acque veloci di ogni morfologia e dimensione. Ciò che a noi manca è una vera cultura ambientale, una cultura che ci permetta di sfruttare le nostre infinite risorse turistiche di elevata qualità, gestendone idrologia e patrimonio alieutico con coscienza, anziché praticare tutte le possibili attività economiche che procurano affari distruggendo i fiumi. Resta possibile trovare qualche assessore locale ben disposto ad accettare proposte da club, concessionari o gestori privati il cui fine è di creare qualche limitato tratto no kill, i cui effetti, purtroppo, ben conosciamo. Chissà se un giorno una nostra regione avrà la consapevolezza ed il coraggio di seguire questo esempio spagnolo, e chissà se una forza “populista” di pescatori a mosca un giorno riuscirà ad organizzarsi per perseguire questo fine...


Sopra: fiume Tuerto, l’enorme varietà morfologica e di portata dei corsi d’acqua del León permette ad ogni pescatore a mosca di trovare le condizioni più adatte alla pratica della sua passione e con la tecnica di pesca preferita, ovviamente a prescindere dalle condizioni. A fronte: fiume Órbigo, l’abbondanza di trote e la qualità degli ambienti fluviali attrae sempre più pescatori da tutta la Spagna e dai Paesi confinanti.

Sono stati necessari decenni per rimuovere pratiche di gestione come il ripopolamento con trote non autoctone od il controllo dei predatori (come la lontra, per esempio), mentre una gestione privata incentrata sul rendimento economico potrebbe ricadere nella tentazione dei ripopolamenti o del controllo dei predatori. D’altra parte, se la competizione a

mosca ha da sempre appoggiato le iniziative no kill della regione, si deve fare attenzione al fatto che la sua continua espansione potrebbe portare in breve alla necessità di sempre più pesci nelle acque, con il ritorno ai ripopolamenti di pesci geneticamente non autoctoni (senza contare poi l’iridea). E comunque, anche se minore e molto localizzata, la pressione da parte di piccole comunità locali continua, soprattutto nei comuni più piccoli e rurali, in cui a volte si è arrivati a compromessi zoonali “pericolosi”. Per esempio, nel 2018 e dopo 20 anni di proibizione, in alcuni comuni è stata concessa la pesca della trota con il lombrico... Un precedente rischioso, anche perché tutti sappiamo quanto possono essere volubili i politici e quello che possono arrivare a fare per un pugno di voti in più. Ma quello che si è riusciti a fare nella regione del León rimane un esempio unico. Magari non si tratta delle riserve no kill dell’Austria o della

Slovenia, o dei no kill belli, ma massificati della Bosnia, ma è pur vero che si può ancora pescare da marzo ad ottobre per 15€ l’anno in una regione dove praticamente in ogni corso d’acqua il prelievo della trota è stato vietato da anni, le popolazioni di trote sono in costante aumento quasi ovunque e le dimensioni dei pesci aumentano anno dopo anno. Uno di noi (Vincenzo) vive già da anni nel Principato di Asturia, un altra regione ricchissima di trote e, addirittura, salmoni (pochi sanno che si continuano a pescare salmoni in Asturia...). Ma le differenze di gestione tra le due comunità si vedono, eccome! E la differenza la fa un piccolo tratto no kill di qualche chilometro rispetto ad un intero corso d’acqua in cui da anni è stato vietato ogni prelievo. Soprattutto se il no kill si deve auto-mantenere e non lo si vuole ridurre ad un “pollaio” di trote di tutti i colori. Vincenzo sa che, se vuole pescare trote di taglia, deve valicare la Cordillera e venire a León...

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C Paolo Canova

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atch!

A


A

– Allora? – Ne ho tenuta una. – Fai vedere, se l’hai tenuta dev’essere grossa! Certo che per me era grossa: non avevo mai preso un salmonide di 58 cm. A valle della passerella di Stopnick, sull’Idrijca, qualche trota la prendevo sempre, ma quel giorno mi si slamavano tutte immediatamente, sino a che m’accorsi che l’amo della secca era spezzato. Ormai, risalendo, ero giunto sotto al ponticello sospeso e m’apprestavo a cambiar posto quando ai piedi della parete di roccia su cui l’opera si sosteneva, in poc’acqua, ce n’era una. Se ne stava ferma, distratta o in-

differente alla mia presenza proprio come le iridee ferite o malate dei laghetti a pagamento di trent’anni addietro, che riuscivi a prendere persino col guadino. “Che fosse una di quelle pizzicate prima? E provare a riprenderla?” Alla fine dei miei pensieri decisi di buttarla in ridere e sperimentare una mia bead nymph gialla annodata su un braided dello 0,06. L’anno prima avevo visto subito che quella specie di robustissimo filo da ricamo non valeva niente per proiettare una secca, e poi a dispetto del diametro era visibilissimo; chissà se funzionava con una ninfa. Convinto di fare una gogliardata feci un primo tentativo, ma non

successe nulla: quella continuava a stazionare muovendo appena la coda. Altra lenta oscillazione di canna, ma ‘sta volta la moschetta cadde sul pugno d’erba che poco più in alto sporgeva, impavidamente radicato a una fessura della parete di pietra. Anche il piccolo casino prodotto per liberare l’artificiale non produsse effetti sull’animale. Evidentemente era in crisi. Ultima prova: lei questa volta fece un breve cenno con la testa, e quando io ritenni che ormai bisognava recuperare, alzando la canna sentii la resistenza e ferrai. C’era! Saettò improvvisa a monte e se avessi avuto il solito terminale sicuramente l’avrebbe spezzato.

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A sinistra: l’angolo da fly tying col vecchio trofeo con mosca annessa, ingrandito nell’immagine accanto. Sotto al centro: la famosa trota di lago da 58 centimetri.

Poi si gettò in corrente lasciandosi trasportare a valle, costringendomi a seguirla. Dal canto mio cominciai a rendermi conto che non era una delle solite di forse 30 cm, evidentemente guardandola con una prospettiva da dietro l’avevo sottostimata. E non era neanche ammalata! Adesso, dove eravamo scesi, la corrente s’era fatta meno forte ed allora lei la abbandonò dirigendosi decisa verso la mia sponda, in una zona ove le frasche dalla riva entravano in acqua. A quanto pare la signora conosceva benissimo il territorio! Decisi perciò di rompere gli indugi e di forzarla trascinandola a monte verso una mini spiaggetta, mentre lei scuoteva continuamente la testa a dritta e a manca, per abradere il filo. Poi fu nella ghiaia dove un sasso le

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tolse la vita e una foto le donò una vacua immortalità. Adesso la sua testa mi guarda severa da sopra il tavolo da dressing, mentre dalla bocca penzola il braided con quel curioso affare giallo. Forse il suo cipiglio arcigno è anche perché l’imbalsamatura non è risultata perfetta: le pinne pettorali si erano rovinate e dovettero essere accorciate, quanto al colore già a fine giornata era alquanto sbiadito. Era il 23/5/94, ed erano più di 10 anni che non trattenevo pesce, ma la carne è debole. Perdonatemi Padre, perché ho peccato. Un paio di altri pezzi over quaranta mi toccò controvoglia sacrificarli per la cucina del camper nei primi anni 2000, quando iniziai a frequentare la


Scandinavia, poi la malasorte toccò solo ad un pugno di pesci di mare, tra i quali anche trote. A bilancio di una vita che ormai si avvia a divenire veneranda, non posso vantare un invidiabile palmares di catture, ma non mi lamento e mi consolo se considero le opportunità che mi sono concesso, unite al fatto di avere pescato quasi unicamente a secca e di non aver frequentato i “puttanai” (ovvero i tratti “put and take”). Se poi nel conto metto pure quelle agganciate che non ho potuto liberare con le mie mani, mi sento più che soddisfatto. Nell’aprile del ‘97 ancora insieme a Marco mi ero presentato nel fiume Soča presso la stessa buca ove l’avevamo salutato l’autunno precedente. Uscii dall’auto stranamente indisposto e così pregai l’amico di iniziare da solo, mentre io mi stendevo per un po’ a terra. Passato il malessere e rimessomi in piedi affrontai speranzoso la piana, ora tutta per me, ricca di ricordi di catture di fario, iridee, temoli e forse altro. Presto m’avvidi che bollavano solo temoli, ma le mosche non rendevano: rarissime catture e poi solo rifiuti o nemmeno quello.

Dopo un paio d’ore di improduttiva insistenza maledii quei pesci, girai le terga e annunciai: “Basta, vado a trote”. Via le emergentine, le effimerine, le formichine e su una bella Royal Wulff! Nella prima pool a monte si intravedeva già la sagoma di un pesce, che al primo lancio si rivelò essere un temolo. Anche il secondo, pur’esso praticamente al primo lancio. “Ma allora ditemi subito che volete le Royal!” E tornato sui miei passi constatai che era proprio così. Anche nei due giorni successivi, quand’ebbi modo di finirle. Fu allora che mi innamorai della Royal Wulff (parachute). Ma stavo divagando. Alla fine del terzo giorno, a Ladra, sulla via del ritorno come un automa lanciai la mosca proprio sul tratto d’acqua che precede un masso prima di scavalcarlo e, incredibilmente, ancora una volta, come al mattino, l’artificiale sparì. Ma non era un temolo. Dopo alcuni minuti nella lunga lama sottostante, che moriva in un raschio, dall’altra parte del terminale si presentò una marmorata grossa il doppio del mio record. Il pesce ripeté per filo e per segno la strategia già

vista: scatto, potenza, tentativo di infrascarsi a riva, scuotimento della testa e, infine, avvitamento. Sull’ultima mossa non ero preparato. Per due volte gli gettai un pietrone accanto per spaventarlo e indurlo a smettere, ma al terzo reiterato tentativo l’avversario ruppe il filo. Dedussi che c’è una sola cosa che una marmorata per bene non fa: il salto, il resto invece è come da copione. Non so se nel salparla ho sbagliato qualcosa. Di norma ho la frizione del Vivarelli tarata sulla rottura dello 0,10 (che praticamente non uso mai) che mi consente non solo di ammortizzare fughe improvvise, ma persino di ferrare sul mulinello. Dopo lo strike con la sinistra recupero la coda trattenuta con la destra, mentre in testa risuonano le parole di mio padre: – Tieni la canna alta! Canna alta in verticale sul capo significa per me meno coda in acqua (cioè attrito fuori controllo), minori possibilità di incaglio subacqueo, cogliere subito l’occasione per sollevare il pesce onde evitare che si inerbi o intani e possibilmente per farlo strisciare sulla superficie o comunque per indebolirlo con qualche boccata d’aria. So però che è anche un invito al salto per le specie che lo amano, e in tal caso cerco di abbassare repentinamente il cimino, allentando la tensione che potrebbe divenire eccessiva e allontanando la probabilità che il leader si spezzi sotto il peso della bestia, se vi finisce sopra, pronto comunque, dopo la caduta, a rialzarlo per ripristinare la corretta trazione. Sposto anche la punta della canna a destra o a sinistra per assecondare o contrastare la direzione scelta dal pesce, oppure, cambiandola continuamente, per disorientarlo. L’inglese Hugh Falkus, autore del noto “Salmon Fishing”, afferma che ci sono due regole d’oro da seguire quando si cattura un salmone o un altro grosso pesce: “Non fatevi vedere e non forzatelo”. Anche se nei primi momenti giunge a tiro di guadino: “Non provateci, si spaventerà e dopo sarà tutto più difficile”. Il famoso americano Vincent Marinaro nel suo “In the ring of the rise” suggerisce non solo di non farsi vedere, ma, specie nei primi momenti, di allen-

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tare la pressione, per poi riattivarla, e così via. Se la preda si imbuca nell’erbaio Vincent la tiene semplicemente in tiro, sino a che lei si innervosisce ed esce per cambiare nascondiglio, ma lui imperterrito la segue fino a che quella si stanca per davvero. Se si mette a girare in tondo, lui dice di tenere la canna alta e parallela all’acqua cercando di avere il filo sempre perpendicolare al capo della trota, lontano dalla sua coda. Non credo di dover ricordare adesso che tale autore fu un antesignano cultore della pesca coi “midge”, costruiti su ami sino al n° 24 e dunque utilizzati con finali sottililissimi che lo obbligavano a sfiancare il pesce. Convincente a parer mio l’analisi della ferrata e del successivo combattimento di un altro grande statunitense: Gary Borger, di cui mi limito a riportare che in “Presentation” chiarì assai bene che la canna tenuta in verticale è fisicamente una leva svantaggiosa per il pescatore e pertanto non serve ad avvicinare il pesce, bensì a tranquillizzarlo. Maggiore è l’arco di canna, maggiore risulta l’attenuazione delle sfuriate improvvise. Se si riduce tale arco, spostando la presa di una mano più in alto, si sposta conseguentemente lo “stress point”, ove può avvenirne la rottura. Se si desidera aumentare significativamente la trazione sul pesce occorre far lavorare anche l’impugnatura, abbassando il puntale. Oltre all’inclinazione descritta

nel piano individuato da: pesce, punta e tallone della canna, v’è da considerare quella assunta dalla canna nel piano ortogonale al precedente. Cioè se il pescatore, a parità di angolazione col punto di ferrata, tiene la canna più o meno orizzontale. Perché, mentre prima si parlava solo di “su e giù”, contrastando il nuoto delle pettorali e la loro inclinazione nel flusso di corrente, adesso si parla di “destra e sinistra”, combattendo il moto ondulatorio laterale, che è quello che dà la spinta di avanzamento, producendo maggiore stanchezza. In tal modo si riesce a guidare il pesce, che non va mai

lasciato riposare. Debbo dire al riguardo che ho incontrato popolazioni di trote “cattivissime”, dal carattere indomito, che paiono dotate di inesauribile energia, ove la cattura anche di una normalissima 35 cm diventa assai ardua. Come quelle del Tarna, a Tarnaby (S), che di certo non si domano con lo 0.12, tranquillamente utilizzato con le grosse iridee del Soča. Nel luglio 2009 mi trovavo su un fiume lappone alquanto frequentato, non di rado persino da pescatori con tube fly che, incuranti di lucci, coregoni e temoli, tentavano le grosse salmon Sopra: la cartolina per i colleghi, immagine d’accompagnamento... al pensionamento, con tacito programma futuro. A sinistra: l’Autore con un temolo. A fronte: la terribile Royal Coachman, visibilmente deformata. [Nell’archivio fotografico di Fly Line si trovano numerose foto dell’Autore con catture in bella mostra, come si evince dalle due qui presenti, per tutte vale la regola con la quale Sergio Leone, al tempo degli spaghetti-western, identificò Clint Eastwood: “Ha due espressioni: col cappello e senza cappello”. Paolo, ovviamente, ne ha una sola. Non l’ho mai visto senza cappello. Ndr].

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trout (quelle che dai laghi risalgono i fiumi). A fine mattina stavo lanciando allo sbaraglio una mia Royal al centro del profondo pezzo canalizzato quando su essa bollò un grosso pesce. Bastò avere pazienza e alla fine potei avere la foto di una stupenda fario di 48 cm, che poi esibii, insieme a quella del mio temolo record di 55 cm, sulle 500 cartoline con cui a fine anno salutai i colleghi. Ebbene, ancora emozionato, sempre in quel punto, dopo 15 minuti ne persi un’altra uguale! L’anno dopo, stesso fiume, ma altro tratto, ero in equilibrio instabile su un masso discosto da riva raggiunto a fatica, sino a che, buttando in mezzo a un correntone la solita Royal su amo n° 11 annodata allo 0,16, agganciai un’altra gran bella bestia, che però presto persi e nemmeno riuscii a vedere. Amareggiato, a fine pranzo elaborai un finale più lungo, con tippet dello 0,22, decidendo ‘sta volta di testarlo con una Klinkhammer n° 10 tutta in pavone. Le gambe, senza che glielo chiedessi, mi riportarono nel luogo della mattina. E avvenne il miracolo! La stessa trota, smaltito lo shock di poche ore addietro, o una sua compagna di viaggio, mi sparò in corpo una fiala di adrenalina. Scendere dal masso, guadagnare la riva senza perdere il mio precario tesoro, magari con un capitombolo su quel fondale infido, fu autentica impresa. Le foto invece furono uno schifo e la misura, ancora una volta, 48 cm. Sì, ho preso, e perso, anche delle iridee più grosse in Slovenia, e lo scorso anno una stupenda fario svedese di 52 cm per farsi fotografare m’ha fatto recuperare circa 75 m di lenza, ma era in un lago e bastava assecondarla, “Ma che ve lo dico a fare?” diceva quel tizio in quel film [Donnie Brasco, Ndr). Invece voglio dirvi che il 2/8/17 ero ancora su quel masso fatidico. A causa delle continue piogge, una chiusa posta chilometri a monte aveva nei due giorni precedenti

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permette di insidiarmi. E così, anche per onorare il riguardo dell’amico, trovandomici inconsapevolmente accanto, decisi di ripetere il rito. Allargando a ventaglio le passate ottenni solo un effimero interesse alla mia Royal da parte di temolotti, a quanto pareva non più sprovveduti. Seduto rannicchiato, coi piedi puntellati sul vicino altro masso emergente, dopo un ulteriore lancio nel fatidico correntone la coda di topo mi si impigliò in uno scarpone. Mi distesi quindi, chinandomi, per districarla e al culmine dello sforzo sentii la punta del cimino tirare. Avevo beccato un pesce! Cavolo che bestia! Ancora una volta era successo l’incredibile. Che fosse grossa causato per alcune ore uno sbalzo nei livelli di mezzo metro, che non m’aveva comunque impedito di prendere coregoni e temoli, pure da 50 cm, ed a Tiziano, come al solito, di surclassarmi. In quel momento però non pioveva e i flussi erano stabili. C’era come sempre un sacco di gente, ma non avevo notato nessuno al “mio” posto. Posto che Tiziano non si

Sopra: il luogo della fuga della marmorata decapitata. A destra: la Soča a Ladra, dove fuggì l’altra marmorata. Sotto: il masso fatidico. l’avevo intuito presto, ma quando fece il primo salto in mezzo a quella massa d’acqua in potente scorrimento, facendosi stimare per una 5 Kg, abbandonai subito ogni speranza di un qualche futuro in comune. In effetti la nostra storia rimase privata, perché nessuno vi assistette, e breve: dopo soli altri due salti lei decise di lasciarmi, ponendo termine a una relazione al batticuore comunque durata ben 15 minuti. Se non avesse aperto il Tiemco 103 BL n° 15, probabilmente avrebbe spezzato lo 0,16. O forse io, nel tentativo di portarla a riva per la foto, sarei scivolato e annegato. Va bene così.

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N

Opinioni controcorrente

o

Kill

ultimo atto Roberto Daveri

Niente di eccessivamente preoccupante, sono solo punti di vista. D’altra parte sono i differenti punti di vista che aprono a illuminanti prospettive. Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, come mai le stesse trote che compriamo al supermarket e cuciniamo senza scrupoli, se le catturiamo nei no kill sforacchiandole a ripetizione ci saturiamo di buonismo per non danneggiarne il muco, le slamiamo sott’acqua per non soffocarle e poi, per sicurezza, le riossigeniamo, magari rinunciando alla foto di rito o al selfie. 88


oppure in corrente...

Q Q

A sinistra: “L’urlo” di Munch ha dato adito a molte interpretazioni, ma io credo che rappresenti un “pesce da no kill”, almeno in versione “Fly Line”. Sopra: scimmia pescatrice. Le scimmie ci scimmiottano, è vero, ma anche noi scimmiottiamo noi stessi, pescando gomito a gomito. D’altra parte ne conserviamo gli stessi geni, nel Dna.

uando a caccia o a pesca siamo in riserva siamo in un luogo esclusivo che garantisce infinite catture perché selvaggina e pesci sono garantiti dal biglietto di ingresso: “Tu dare dollari, io dare cammello”. E allora, nel nostro caso, il no-kill compulsivo su pesci pescati a raffica, non può diventare un controsenso un po’ ipocrita, se non deleterio? Oggi vanno negli outlet o negli ipermercati, ma quando ero bimbetto ogni tanto alla domenica i genitori ci portavano alle “giostre” (luna park) dove oltre al “calcinculo” c’era anche la pesca dei pesci rossi. Se riuscivi a lanciare una pallina in un vasetto vincevi un sacchettino di plastica con dentro un po’ d’acqua e un pesciolino rosso. Era un trofeo anche quello, che dopo pochi giorni irrimediabilmente moriva. Era “pesca” anche quella... Però sospetto

che alcuni di quei pescetti, i più fortunati, finissero in Arno. Avvisaglie del no-kill. Rammento che a un lato della piazza c’era un’altra pesca, quella di beneficenza, ma era altra cosa e non riguardava certo i pesci. Quella che mi affascinava era la pesca vera, quella fatta sul fiume con la canna, per catturare qualche pesce che sempre finiva in tavola tanto che molti non distinguevano fra trota, vairone, cavedano, carpa, barbo o anguilla: tutte proteine. Quelli bravi ne riempivano dei panieri che dopo essere stati esibiti con una certa spocchia agli sfaccendati frequentatori del “bar Sport”, essendo troppi, in gran parte finivano regalati o nella spazzatura, perché il surgelatore non esisteva ancora. In cuor mio quei grandi pescatori li invidiavo e mi dicevo che con le mie striminzite venti lire di bigattini non avrei mai potuto competere con i chili che loro impiegavano per pasturare. E

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poi le canne più lunghe, l’assortimento di lenze e galleggianti, i mulinelli, gli itinerari più lontani... e in fin dei conti loro le elementari le avevano già finite da anni. Per me, allora, le “mosche” erano solo quelle appiccicate sulla carta moschicida che penzolava dal soffitto del salumiere e del macellaio e che mi facevano anche un po’ schifo. In occasione di vacanze estive noi ragazzacci ci si imbrancava per “pescare” con le mani qualche pescetto del torrente, o se ne asciugava una pozza deviando la poca acqua non lasciando scampo a trotelle e vaironi. Piccoli, ingenui bracconieri che respiravano la frescura e i profumi del torrente anziché l’aria condizionata o quella rifritta dei moderni fast foods e ne imparavano i segreti. Negli occhi i mille colori della natura anziché i pixel dello smartphone. E, senza vergogna, qualche toppa nel fondo dei calzoni corti. Da allora siamo cresciuti, forse maturati, andiamo ancora a pescare, addirittura anche all’estero, ma per libera scelta abbiamo adottato una pesca più difficile, più complessa, consona alla crescita e al percorso seguito nel tempo: la pesca a mosca. Altra roba! Comunque quelle esperienze tribali non le rinnego, in quanto testimonianze di un’epoca e solide fondamenta di un “qualcosa” che altrimenti oggi non starebbe in piedi. Siamo tutti diventati sportivi ed eco-responsabili, adesso adottiamo il

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no-kill, proteggiamo trote e temoli con guadini siliconici che non gli rovinano l’epidermide. Chi fa una foto alla cattura è messo all’indice, perché il pesce fuori dall’acqua boccheggia e soffre (giusto) e chi usa ancora gli ami classici anziché quelli barbless (senza barba, ha detto il mio nipotino), ovvero privi di ardiglione, è un mentecatto. Che quadro idilliaco! Finalmente il senso civico ha prevalso sull’ignoranza, sulla grettezza, e fame e miseria, mentre la pesca è diventata un’attività ricreativa anziché un modo per procurarsi il cibo come è sempre stato fin dalla genesi dell’uomo. Però nel frattempo qualcosa si è perso. Credo il valore di certe cose semplici. Stipati nelle città, nelle auto, in fabbriche, uffici e botteghe abbiamo

rinunciato al rapporto quotidiano con l’ambiente e il rapporto stretto con la natura dove saltuariamente andiamo a ricercare la nostra essenza, ma spesso con la mentalità del consumatore. Abbiamo perso molte acque, sia in quantità che qualità, parrebbe anche molta fauna bentonica e anche molti, tanti, troppi pesci, dalle trote ai vaironi, dai temoli ai cavedani, eccetera. Di chi sia la colpa è difficile dirlo. Assuefatti alla modernità, la diamo all’inquinamento, alle captazioni, ai siluri, ai cormorani, ai bracconieri, alle stesse organizzazioni o associazioni che dovrebbero difendere e tutelare fiume e ambiente, ma chissà perché la responsabilità non è mai nostra, non è mai dei pescatori, anche se spesso hanno dei meriti. E sì che talvolta certi appetiti sono stati insaziabili come certi paradossi. Oppure se si pensa che la responsabilità sia anche dei pescatori non siamo mai noi, anzi io, ma sempre gli altri. Ma si dice che quando si punta l’indice verso qualcuno le altre tre dita della mano sono rivolte verso di noi. Infatti tutti abbiamo disseminato chili di bigattini, buttato in acqua le pasture più nauseabonde, a volte pescato troppi pesci, anche sottomisura, che poi, anziché sulla tavola come era giusto che fosse, finivano nella pattumiera, perché a casa puzzavano di pesce e nessuno voleva pulirli. Oggi siamo tutti Pam evoluti e nessuno ha scheletri nell’armadio, tutti si pontifica, ci si scandalizza, si critica,


release e talvolta la sorveglianza completavano il cerchio. Non è più così, o quasi. Sotto la pressione dei pescatori che da sempre hanno mirato a crearsi un “orticello” esclusivo per soddisfare ed espletare la propria attività di cattura o prelievo del pesce, si sono create e moltiplicate riserve e concessioni. Le amministrazioni provinciali e regionali, quasi sempre colpevolmente latitanti, sono state ben liete di delegare il problema e il lavoro ad altri. Il marasma che ne è seguito è sotto gli occhi di tutti. Di fatto zone esclusive per noi “protettori” dell’ambiente e di “privilegio” per i pescatori a mosca. Il tempo delle “proteine alieutiche” è passato, oggi si pesca per divertimento. Pagina precedente, sopra: una buona giornata a trote. Sotto: cestino di ciprinidi dei... tempi andati. In questa pagina, sopra: per divertirci di più occorre ripopolare, prelevare, riseminare... Tutto pur di rendere un fiume pescoso. E remunerativo. Di solito vedere operatori al lavoro nell’asta di un fiume suggerisce l’idea di buona ed opportuna gestione, ma ben di rado queste operazioni sono davvero finalizzate al recupero ambientale. A destra: il supermarket è sullo sfondo della cucina improvvisata: si chiama fiume. si disquisisce... Come del resto sto facendo anche qui nel condividere il mio punto di vista e i miei dubbi di anziano che ne ha già viste abbastanza. Ebbene, non ho remore, come in altre circostanze, ad ammettere le mie malefatte di un tempo, colpe delle quali per ignoranza, abitudine, consuetudine o leggerezza non avevo percezione. Poi, come dicevo, si matura, si prende coscienza e mentre i bisogni diventano altri la ragione prevale sull’istinto e la consapevolezza sull’indifferenza e l’egoismo. Per diversi anni ho pescato e prelevato trote e temoli, sia pure nei limiti dei regolamenti, per poi aderire ai dettami di Autodisciplina, diminuendo le catture e aumentando la loro misura minima

consentita. Fino a quando qualcuno mi fece capire, e lo ringrazio, che potevo benissimo anche fare a meno di trattenere quei due, tre pesci, fario, temolo o iridea che fossero e con convinzione passai definitivamente al no-kill, che continuerò a praticare con altrettanta e rinnovata determinazione. Oggi, grande conquista, siamo in molti a professarlo, solo che nuovamente sono cambiate le condizioni. Se prima certe acque erano frequentate da pochi pescatori, il fiume poteva sostenere anche un certo prelievo che essendo reintegrato con avannotti naturali o di semina garantiva un equilibrio accettabile sia sotto l’aspetto ambientale che alieutico. L’educazione del pescatore (ovvio, non di tutti), il catch &

In queste oasi e riserve ci siamo catapultati e accalcati e oggi intendiamo distinguerci dalla massa dei generici, i “toccaroli” (anche se a volte ne imitiamo le tecniche) con l’adozione e imposizione del no-kill che, come detto, è attività meritoria, ma che col tempo e in determinati frangenti mi pone molti interrogativi e non pochi dubbi. La prima ovvia considerazione è che nelle attuali riserve Pam la pressione di pesca è diventata eccessiva, talvolta insostenibile, fino all’adozione del numero chiuso oltre ad altre pratiche discutibili: tutti vogliamo acque stipate di pesce, garanzia di numerose catture, pena l’abbandono di quella riserva che dunque opera, spesso in buona fede e meritevolmente, per non perdere soci,

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A sinistra: questa ragazza, se fosse un pesce, vivrebbe di certo in un no kill. Sotto, bizzarro tatuaggio: un detrattore o un amante del no kill?

tesserati o clienti. Infatti c’è una certa differenza fra le riserve che mirano anche alla salvaguardia ambientale e quelle prettamente turistiche che mirano di più a fare cassetta. Comunque il problema coinvolge entrambe. Siccome un avannotto per crescere necessita del suo tempo ed in fiume ha una certa mortalità, ecco che il gestore solitamente deve buttare anche pesce adulto proveniente dalle vasche di allevamento. Va da sé che dev’essere di taglia, altrimenti non ci divertiamo. Ovviamente è un pesce “meno pesce” e un po’ rincoglionito, che difficilmente sarà una fario che si riprodurrebbe rigenerando il fiume, ma che in tal caso potrebbe ibridare le marmorate e dunque se è fario deve essere sterile (!?). Il che a pensarci bene mi pare una bestemmia alla natura e a chi l’ha creata e mi ricorda certe pratiche del passato espletate anche fra i bipedi. Raramente sarà un temolo per l’alto costo e difficoltà di reperimento e dunque solitamente finisce per essere una iridea, talvolta malandata. C’è da chiedersi quale sia la finalità di certi ripopolamenti, ma la risposta è purtroppo ovvia: ciccia da macello. La salute del fiume passa in secondo piano. Insomma i pesci ci devono essere, ma non perché così è sempre stato da millenni, bensì perché dobbiamo ripescarli. Fermo restando che queste trote (iridee) non potrebbero essere immesse in quanto alloctone, (anche se ai

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miei occhi è un pesce stupendo) da noi anch’esse in genere non si riproducono, ma costando meno, essendo meno esigenti sulla qualità dell’acqua, soddisfano (poverette) le bramosie di cattura di tutti noi, compresi quei colleghi che le pescano anche in inverno giustificati da acque da ciprinidi e dal no-kill. E non si capisce perché, se le acque non sono da salmonidi, ci si buttino le trote. Anche in questo caso potremmo affermare che il no-kill non è praticato per proteggere e conservare, ma per pescare comunque, a dispetto del fermo stagionale di cui un fiume o tratto di fiume dovrebbe poter beneficiare. Troppi gli interessi che esulano da quello del fiume che così non mi pare né protetto, né rispettato, ma solo sfruttato. Ma forse mi sfugge qualcosa.

Torniamo alle riserve zeppe di pesce dove tutti ci accalchiamo. Direi che pescare a mosca compressi da altri colleghi, a distanza irrisoria, pesticciandosi l’un l’altro (e gli esempi sono infiniti) mi ricorda le rive assiepate dai garisti e dunque il senso di libertà e spazio che questa pesca implicitamente necessita, o necessitava, nonché il suo fascino, vanno a farsi benedire. Questo anche se a volte, in certe acque, mi sono sufficienti 50 metri di fiume per pescarci beatamente un intero pomeriggio a condizione che non ci siano bagnanti, cani che vanno a recuperare il legnetto lanciato dal padrone, una o più schiuse di gommoni e canoe o un’altra coda di topo che violi la privacy della mia: condizioni sempre più improbabili. A volte, per la calca, anziché il fiume mi è parso di rivedere i vasetti del luna park dove posare la mosca per vincere il mio pescetto. Poi ci sono le catture. In quella riserva, in un giorno, quanti pesci pesca e rilascia un pescatore praticando il no-kill? 10? 20? 50? Di più? Fate voi. Teniamo presente che se non bollano si vanno a stanare con ninfe, ninfette, ninfoni, tungsteno, drop, strike, streamers, filo, squirmy, tenkara, due mani e tecniche le più fantasiose e micidiali. Dopo di che aggiungiamoci gli altri pescatori e pensiamo a quanti pesci in quel giorno sono stati allamati, ferrati, bucati, trascinati nel guadino e ributtati in acqua dopo la “respirazione bocca a bocca”. Possiamo azzardare la metà? La quasi totalità? Comunque sono sempre gli stessi. E il giorno dopo sarà la solita


rei nulla di riprovevole e probabilmente contribuirebbe anche a un ricambio di pesci che finiscono per non essere e comportarsi come tali alterando tutto: natura, pesca, pesci e mentalità. Quel sangue, lo sporcarsi le mani, l’odore di morte, quell’atto cruento forse ci renderebbe maggiormente consapevoli del fatto che il nostro diletto non è comunque indolore e potrebbe indurci a comportamenti più responsabili, pur continuando a frequentare il fiume con la canna da pesca. E a volte potrebbe anche essere un vero atto di pietà. Allora trovo che il catch & release abbia una sua valenza solo se il numero di catture è molto limitato, o su tratti molto lunghi di fiume dove i pescatori si Sopra: “amo” è anche indice di amore... A destra, ecco l’effetto di molti ripopolamenti: un buco nell’acqua. Sotto: trote al supermarket, e nessuno si scandalizza. musica e poi ancora e ancora, sempre quelli o quasi, senza pause, sperando per loro che qualcuno ne muoia per mettere fine a una esistenza assurda priva di scampo. Senza considerare che sul fiume è tutto uno spasseggìo, guadi e pesticcìo del fondo, urla, telefonini e perfino bestemmie. Il fiume come un’arena. Però, in omaggio a una evoluzione culturale, anziché ucciderne qualcuno per mangiarlo, li rimettiamo in acqua “amorevolmente”, ma ora parrebbe non

tanto per salvaguardarli, bensì per poterli ripescare e continuare a divertirci “alle pinne loro”, perché come è stato saggiamente detto: “Un pesce è troppo importante per essere pescato una sola volta”. Si, va beh, ma allora, quante? Il no-kill siffatto è ancora soluzione meritoria per la salvaguardia del pesce? Oggi ne siamo davvero sicuri? Però guai se quella riserva non ci garantisce un tot infinito di catture! Ma se ogni tanto qualcuno uccidesse un pesce per rendergli onore sull’altare della nostra tavola, non sarebbe un atto più onesto del rilasciarne in acqua di bucati e sforacchiati all’infinito? Uno dopo l’altro per gratificare il contapesci? Personalmente non ci trove-

disperdono, dopo di che inevitabilmente mi pare che perda la sua prerogativa. A me piace pescare, come tutti amo il fiume, l’acqua e i pesci che cerco di rispettare come avversari, ma nel considerarli oggetti, perché mi parrebbe che bucandone a bizzeffe tali diventino, agli occhi di alcuni questo tipo di il nokill può apparire un infierire discutibile. Mi si passi il paragone esasperato, ma a volte, anche se non vengono tolti dall’acqua, sembrano i pesci di quel cestino zeppo ostentato al “bar Sport” e che finivano nella spazzatura. Non sono più oggetto del rispetto che meritano, ma solo oggetti insignificanti. Dunque, in certi frangenti, il pescatore che osserva il no-kill, anche se in buona fede, non avrebbe più licenza di uccidere, ma di tortura? Insomma, tanto per essere sinceri, anche a me è capitato di allamare e rilasciare parecchie trote e temoli e queste considerazioni derivano proprio dall’analisi di quel comportamento as-

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Solitudine, limpida e fresca acqua che scorre, sassi bianchi tra conifere e latifoglie e la ricerca di una buona imitazione. È il rito della pesca a mosca. surdo e illogico, e che mi crea disagio, in contrasto con le buone intenzioni che mi prefiggo: continuare a pescare senza fare troppi danni. E allora? La battuta più facile e scontata è: “allora smetti di andare a pescare!” Me l’aspettavo. Una frase così implicitamente ammette che anche con il no-kill facciamo danni, ma per il solo fatto di essere al mondo so per certo che dei danni ne procuro quotidianamente. Spero solo che il bilancio sia a favore delle cose positive. Consumo acqua preziosa quando faccio la doccia, con l’auto emetto gas di scarico, fumi puzzolenti quando accendo il riscaldamento, inquino quando compro una bottiglietta di minerale o lascio i miei rifiuti pur facendo la differenziata, uccido quando mi faccio una bistecca o una salsiccia e così via. Anche quando siamo nel fiume possiamo procurare dei danni, pestic-

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ciando nelle zone di frega, o insistendo a lanciare su banchi di trotelle o temolini per il piacere di sentire fremere la canna e, a mio modo di vedere, anche con il no-kill compulsivo a oltranza, finché ce ne sono. La pesca a mosca trova le sue fondamenta sull’inganno arguto, con l’imitazione di un insetto e con la perizia nel proporre correttamente quella mosca: nel momento in cui il pesce abbocca la nostra abilità trova la sua gratificazione e abbiamo già vinto. Il resto, il dopo è solo lotta per la sopravvivenza... del pesce. Se non vogliamo mettere in padella quella preda, ma davvero proteggerla senza ferirla, stressarla per trascinarla nel guadino, riossigenarla e rilasciarla integra per tranquillizzare la nostra coscienza e farla crescere e proliferare, tutto quel che segue l’abboccata può essere superfluo e, dunque, rinunciandovi potremmo continuare a pescare senza arrecare danno alcuno. Un nuovo no-kill? Un nuovo nofish? Sul come metterlo in atto, personalmente l’ho individuato da tempo, an-

che se ancora non sono riuscito ad adottarlo totalmente, ma ci sto lavorando. E sono a buon punto. Alla bisogna, quando le cose si mettono troppo bene, e possiamo essere capaci di dire “stop”, basta una piccola tronchese, lasciando solo l’asta dell’amo della mosca. La bollata ci sarà ugualmente, pescando “sotto” o a streamer sentiremo ugualmente la mangiata, dopo di che non avremo bisogno del guadino, né delle pinzette per slamare, della macchina fotografica e neppure del tesserino segna-catture! La pesca a mosca troverà una nuova essenza in un solo attimo, in una sensazione fugace che racchiuderà più emozioni e sentimenti contrastanti. E gratificazione nella rinuncia responsabile. Così forse, come in una novella a lieto fine, vissero tutti felici e contenti. Mah! Eventualmente ciascuno sceglierà e deciderà per proprio conto. Forse, chissà, vattelapésca. E molti mi prenderanno per matto, probabilmente un po’ lo sono, anzi, intimamente lo spero. Pace e bene.




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