Analisi della crisi economica.

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Scrivere un manuale sulla crisi è sempre un’iniziativa apprezzabile, che abbiamo il dovere di rispettare, specie se, come in questo caso, viene da compagni con cui abbiamo condiviso battaglie per anni, ma questo non ci esime dal prestare alcune considerazioni nel merito di quanto viene affermato. Prendiamo spunto da un opuscolo realizzato dalla “Rete della Conoscenza” (la rete che raccoglie Unione degli Studenti e il coordinamento universitario Link) proprio in questi giorni, dal titolo "Lo spread del bund ha un pss nella mmm - capire la crisi”, che ha il merito di mettere nero su bianco quello che la stragrande maggioranza del movimento studentesco (e non solo ovviamente…) pensa rispetto alla crisi e alle sue conclusioni. Non tratteremo in modo compiuto di tutto quello che viene esposto, ma ci soffermeremo solo su alcuni passaggi che riteniamo essenziali nello sviluppo di una corretta analisi sulla crisi e sulle sue conclusioni.

Crisi finanziaria o crisi di sistema? L’analisi proposta dalla Rete della Conoscenza cade nella consueta trappola della crisi scatenata dalla finanza. Ma andiamo con ordine e citiamo testualmente l’inizio: “ negli ultimi 25 anni c’è stata una gigantesca espansione della finanza, grazie alla liberalizzazione dei mercati finanziari e alla diffusione di strumenti di commercio del debito come i derivati.” L’enorme crescita della finanza è certamente un processo incontrovertibile. Il suo peso in relazione al PIL mondiale - lo abbiamo sottolineato nell’articolo sulla crisi del primo numero di Senza Tregua – ha raggiunto livelli pari ad otto volte il totale del prodotto interno lordo, sommando derivati, obbligazioni e attività delle borse. Fotografare la realtà di un processo non pone dunque particolari problemi, che invece appaiono prontamente non appena ci si pone l’obiettivo di spiegarne le ragioni. Nel paragrado successivo, che si propone questo scopo troviamo scritto: “L’origine di questi fenomeni sta in quella che viene chiamata “finanziarizzazione dell’economia”, oppure “capitalismo finanziario” o “finanzcapitalismo”. Si tratta di una particolare evoluzione del nostro sistema economico, avvenuta negli ultimi 30 anni, portata avanti dall’élite finanziaria transazionale e resa possibile dalle politiche di deregulation varate dai governi europei e americani, di centrodestra e centrosinistra.” Qui entriamo già nel pantano. Il processo di trasformazione del sistema capitalistico da produttivo a finanziario è visto come l’origine della crisi economica, ma nulla si dice al riguardo delle ragioni che spingono ad un determinato sviluppo delle forze produttive il sistema capitalistico a mutare la sua struttura in modo così netto, e a spostare l’ago della bilancia del profitto dalla produzione verso la finanza. La finanza è l’origine di tutti i mali, secondo questa interpretazione che vanta nel campo capitalista schiere infinite di economisti e sostenitori e da cui a dire il vero l’analisi che stiamo criticando si differenzia solo sotto un profilo quantitativamente più avanzato. Ma è davvero la finanza l’origine della crisi economica che sta colpendo il sistema capitalistico? La spiegazione non convince proprio e in verità forse non convince fino in fondo neanche la Rete della Conoscenza, che nell’ultima pagina dell’opuscolo afferma che “La stessa finanziarizzazione dell’economia non è avvenuta per caso, ma per reagire, in termine di profitti, a una precedente crisi dell’economia reale.” Ma si tratta di un pentimento abbastanza tardivo, che non sconvolge, come avrebbe dovuto, l’impostazione di analisi e non influenza le conclusioni, su cui torneremo successivamente.


Arriviamo ora alla nostra analisi della crisi. Karl Marx paragonava quegli economisti che tentano di spiegare le ragioni della crisi con la finanza come quella scuola di medici oramai estinta secondo cui la febbre sarebbe l’origine di tutti mali. Noi oggi sappiamo benissimo che la febbre è una reazione del corpo umano e non la causa del male, e quella scuola di medici si è oramai effettivamente estinta. Non altrettanta sorte è toccata ai loro colleghi economisti, dato che la finanza continua ad essere vista come l’origine dell’attuale crisi economica. Ma dietro l’apparenza si celano processi ben più profondi che sono alla base stessa del sistema capitalistico.

Spunti per una corretta analisi della crisi - uno sguardo alla produzione. La speculazione di regola si presenta quando la crisi di sovrapproduzione è in pieno corso e ne determina momentanei canali di sbocco, che tuttavia non possono strutturalmente risolvere la crisi e finiscono non solo per non risolverla, ma per accelerarne lo sviluppo ed aumentarne l’entità. La temporaneità dell’apparenza fa protendere per l’analisi della crisi finanziaria, ma questo è in realtà un falso. La crisi della finanza è la prima a manifestarsi palesemente agli occhi “dell’osservatore superficiale” (cit. Marx), che forte di questa premessa errata, vedrà nel successivo dissesto della produzione una sua conseguenza. Solo chi intenda analizzare realmente il sistema capitalistico, a partire dalle contraddizioni presenti in esso può capire effettivamente i motivi della crisi, ma per far questo dobbiamo tornare un po’ indietro. La produzione nasce con l’uomo, come fondamentale esigenza di assicurare autonomamente (nel senso di modalità quanto più indipendente dall’ambiente circostante) i propri mezzi di sussistenza. Tralasceremo per necessità di sintesi tutti i passaggi che intercorrono tra la nascita della produzione e l’avvento del sistema capitalistico (una incisiva quanto sintetica esposizione è già nel Manifesto del Partito Comunista, per chi non volesse avventurarsi in opere più impegnative). Con lo sviluppo del sistema capitalistico la produzione muta la sua essenza. Essa non è più finalizzata al soddisfacimento dei bisogni dell’uomo, ma è orientata al profitto. Questa mutazione del fine ultimo della produzione, insieme con i rapporti di produzione tipici del capitalismo, ossia il lavoro salariato e l’appropriazione della ricchezza prodotta in poche mani, costituiscono un limite strutturale insormontabile e creano crisi di sovrapproduzione di capitale e merci. Alla base di questo meccanismo un fattore essenziale e strutturale è la limitata capacità di consumo del lavoratore. Cerchiamo di spiegarlo con le parole più semplici possibili. Il valore di una merce è data dal lavoro impiegato per produrla. Non tutto il valore della merce è però restituito ai lavoratori, perché una parte (plusvalore) è trattenuta dal capitalista per il suo profitto. Detto in parole poverissime, l’insieme dei lavoratori è pagato meno del costo sul mercato della merce che produce; basta pochissimo a capire che l’insieme dei lavoratori non potrà acquistare la totalità della merce prodotta, perché il suo costo eccede la capacità d’acquisto dei lavoratori. E dunque secondo Marx “il lavoratore dovrà essere sempre sovrapproduttore, ovvero produrre al di là del suo bisogno, per potere essere consumatore, entro i limiti del proprio bisogno.”Da qui nasce la sovrapproduzione causata dalla tendenza strutturale del capitalismo a produrre sempre di più. Essa si alimenta ulteriormente nella ricerca di ovviare


al problema dei prezzi, generando una concentrazione sempre maggiore di capitale in poche mani. Produrre una determinata merce in maggior numero permette di abbassare il prezzo del prodotto finale, questo perché la produzione di ogni singolo pezzo e dunque anche quella complessiva viene a costare meno dovendo dividere il costo del capitale variabile (salari) per un numero maggiore di pezzi. Il fine dell’abbassamento del prezzo è chiaramente la maggiore competitività sul mercato e il maggior guadagno. E questo non fa altro che aumentare la sovrapproduzione. Ma occorre una precisazione. Questo di più non è in termini assoluti. La sovrapproduzione è sempre in realtà una differenza tra ciò che andrebbe prodotto per soddisfare i bisogni dell’uomo e ciò che in realtà viene prodotto per assicurare il profitto al capitalismo. (torneremo su questo punto fondamentale quando si parlerà della crescita). E’ dunque una differenza di produzione, che realizza in realtà una costante sottoproduzione rispetto alle esigenze reali dell’uomo. Si produce diversamente da quello che si dovrebbe produrre e lo si distribuisce in modo ineguale, creando ed alimentando le differenze di classe e lo squilibrio tra paesi del mondo. L’esplosione del meccanismo pubblicitario, caratteristica di questi anni, non è altro che un tentativo di ovviare a questo limite, tentando di creare bisogni indotti che più si avvicinino ai margini di profitto e che in realtà non hanno alcun collegamento con i bisogni reali della popolazione. La causa ultima di tutte le crisi effettivamente è la rottura del legame tra produzione ed esigenze reali che genera contemporaneamente la povertà delle masse e la concentrazione della ricchezza sempre in un numero inferiore di persone. Dalla fine del baratto la merce non viene più scambiata con altra merce, ma attraverso il denaro. Si crea così un sistema che trasforma costantemente la merce in denaro e a sua volta il denaro in merce in una catena di interconnessioni infinita. Ma nulla in realtà assicura ch questo fenomeno non si interrompa, e la sovrapproduzione è proprio la causa principale che comporta l’interruzione di questa catena. Quando questa trasformazione si interrompe, perché la merce non viene acquistata, risultando impossibile realizzare il valore delle merci, se ciò avviene su larga scala, si genera la crisi. A questo si aggiunga che il saggio di profitto – ossia il rapporto tra profitto e costo della produzione – tende inesorabilmente a diminuire nel medio-lungo periodo. Tutte le ricerche condotte sul saggio di profitto nel mondo (escludendo la Cina), con particolare riscontro in Italia, Francia e Giappone, dimostrano che la caduta del saggio di profitto è una realtà. Il fatto di non trarre più profitti adeguati dalla produzione, ad un determinato livello dello sviluppo del sistema capitalistico, spinge a trovare altre fonti. Solo in questo momento la finanza entra in modo così preponderante, ma tutto questo è totalmente assente dalle analisi della “Rete della Conoscenza” e nelle maggiori analisi dei gruppi studenteschi italiani.

Spiegare la crisi – uno sguardo alla finanza. Eccoci ora ad analizzare queste vie alternative. Riprendendo il discorso interrotto precedentemente si capisce come la sovrapproduzione, generata dalle caratteristiche strutturali del sistema, sia l’origine della crisi e che solo in questo momento la finanza entra in gioco. Quanto accaduto in questi anni è esattamente ciò. Al rallentamento della produzione che ha interessato tutto l’occidente capitalistico a partire dalla fine degli anni ’70


è corrisposto il tentativo del capitalismo di trovare vie alternative alla realizzazione del profitto. Ma vediamo cosa scrive la Rete della Conoscenza. “Con il sostegno politico e culturale dell’ideologia neoliberista, secondo cui i mercati sono naturalmente efficienti e quindi la redistribuzione della ricchezza globale avviene in maniera tanto più adeguata quanto più i mercati sono liberi da vincoli e regole, è stato creato un mercato finanziario globalmente integrato, in cui, in tutti i paesi, imprese, famiglie, stati, istituzioni finanziarie possono scambiare ogni tipo di titoli (azioni, obbligazioni, debiti, derivati, valute) con qualsiasi scadenza (di breve, di medio e di lungo termine).” Due appunti sono necessari. La creazione di un mercato – non solo finanziario – a livello globale, non è stato creato artificialmente, ma risponde ad una precisa necessità di sviluppo del sistema capitalistico. Ad un determinato sviluppo del sistema i dazi e le frontiere sono per il capitalismo un limite da abbattere. L’ideologia neoliberista non nasce per caso. Pensare che sia stata l’ideologia neoliberista a condizionare lo sviluppo economico e le sue leggi è un ritorno ad un idealismo tanto inutile quanto dannoso. Al contrario essa è nata sulla base delle necessità oggettive di un sistema che aveva bisogno di conquistare spazi sempre maggiori e sulla base di questa necessità oggettiva è stata formulata e presentata come unica via (la famosa “teologia neoliberista” di cui parla Hobsbawm). Ma combattere il neoliberismo in sé è limitare il proprio orizzonte ad una teoria del sistema e di fatto schierarsi complessivamente in sua difesa, non mettendo mai in discussione il capitalismo e la sua struttura, che sono i veri responsabili della crisi. La storia ci ha insegnato che il capitalismo sa mutare a seconda della situazione, per meglio sopravvivere. Marx parlava di “bastone e carota” alludendo al paragone del trattamento riservato agli animali. Nello stesso modo a determinate condizioni, nelle quali anche la pressione della classe lavoratrice è un dato essenziale, il capitalismo sa concedere la “carota” di aumenti salariali, si servizi pubblici, di miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione. Ma a tempo debito (leggasi anche crisi del capitale) è sempre pronto ad utilizzare il bastone, perché quelle concessioni possono strutturalmente essere limitate a periodi limitati di tempo (leggasi espansione del capitale). Ogni qual volta però che il capitale cade in una delle sue cicliche crisi, il bastone ricade sulla stragrande maggioranza della popolazione, dalla classe operaia e i lavoratori al ceto medio che viene proletarizzato, (riduzione dei salari, intensificazione dei ritmi di lavoro, precariato a vita, disoccupazione, ecc.); le suddette concessioni infatti possono essere tollerate dal capitalismo solamente nei periodi di espansione del capitale e mai divenire definitive, come l’analisi di questi ultimi trent’anni testimonia. Le intenzioni della Rete della Conoscenza diventano ancora più esplicite nelle righe successive. “Sarebbe facile cercare disonestà e irresponsabilità in questa o quella istituzione finanziaria, questo o quello stato, e spesso abbondano entrambe. Ma questo ci farebbe perdere di vista il nodo centrale: i mercati finanziari deregolamentati sono sempre e comunque instabili.” Qui c’è il centro ideologico dell’analisi da contestare. Il nodo centrale, secondo questa analisi, è che i mercati deregolamentati sono sempre e comunque instabili. Specificando l’aggettivo “deregolamentati” si afferma implicitamente, che i mercati regolamentati non lo sarebbero e dunque la soluzione non può che scivolare in qualche misura di regolamentazione del mercato. Questa teoria è abbastanza nota, e con varie sfumature di gradualità è presente dal giorno successivo a quello in cui economisti e politici


hanno iniziato a dover dire, di fronte all’evidenza, che c’era la crisi. La finanza è il corpo malato all’interno del corpo sano, al massimo è possibile tollerarne una quota (regolamentazione), la cui maggiore o minore entità varia a seconda di chi lo afferma. Ma siamo davvero sicuri che basti eliminare il presunto corpo malato? Qui rientra in gioco l’analisi che abbiamo fatto in precedenza. Non esiste un corpo malato che minaccia un corpo sano. Chi contrappone secondo questo schema “finanza” ed “economia reale” non fa altro che trarre le conclusioni errate da un’analisi errata sulle cause della crisi. Ma l’illusione è una gramigna assai tenace. “A 3 anni dal crollo di Wall Street del 2008 e il salvataggio del governo, negli Usa non è stata attuata nessuna riforma del sistema finanziario: i monopoli bancari continuano a pesare all’interno del sistema finanziario, nessun grande banchiere è stato processato, nessun responsabile è stato chiamato a rispondere davanti a un tribunale. Le banche americane, salvate dalla Fed, hanno registrato profitti record e hanno distribuito grassi bonus ai loro amministratori, che continuano a sedersi su miliardi di dollari in titoli ipotecari senza valore.” Qualcuno si aspettava forse che all’interno di questo sistema i banchieri sarebbero stati processati? E di fronte alle leggi del sistema capitalistico, per quale reato? Aver tratto più profitto degli altri? In genere questo sistema premia con le medaglie questa gente, ed infatti anche i bonus non stupiscono assolutamente perché in questa crisi qualcuno ha continuato a guadagnare.

Le banche, gli Stati e i debiti sovrani. Anticipiamo l’ordine di alcuni passaggi per meglio legarli in un discorso sistematico, ed iniziamo ad introdurre la questione dei debiti sovrani. Lo facciamo ripartendo proprio da ciò che inizialmente ha caratterizzato la crisi: lo scoppio della bolla speculativa. A dire la verità i segnali dell’imminente scoppio di una crisi senza precedenti per la sua dimensione erano ben evidenti. Prima dello scoppio della bolla dei mutui subprime, la fine degli anni ’90 è stato un susseguirsi di bolle speculative esplose in ogni parte del mondo (giappone, russia, bond argentini, paesi emergenti, new economy…). L’esplodere della bolla speculativa sui mutui mette in un attimo tutti di fronte alla vulnerabilità del sistema bancario internazionale. Le banche hanno conti pieni di mutui di famiglie ed imprese e titoli di società diventate insolvibili. Il rischio del crollo del sistema bancario internazionale e l’innesco di una enorme reazione a catena è dietro l’angolo. Così gli Stati mettono in atto la più grande socializzazione delle perdite private della storia. Lo strumento che fa da leva a questo processo è il debito pubblico. La crescita del debito pubblico dallo scoppio della crisi ad oggi è impressionante. In Italia nel 2008 il 106% del PIL, che nel 2010 è diventato il 119%, Nel periodo 2008-2010, infatti, il peso del debito pubblico italiano sul Pil è cresciuto di 15,4 punti percentuali, (dal 103,6% al 119%), contro i circa 18 punti di Germania e Francia e i 19 punti della Uem. Nel 2010, la consistenza del debito italiano è stata superata per la prima volta da quella del debito tedesco ed il suo peso sul totale dell’area si è ridotto di 3,25 punti percentuali (al 23,5%). In altri paesi è andata anche peggio: in Grecia da poco meno del 110% si supera abbondantemente il 140%, la Spagna è passata da meno del 40% al 61% e l’Irlanda addirittura dal 25% al 97% (dati Eurostat). Questa formula di “socialismo per ricchi” ha prodotto un enorme spostamento del peso della


crisi dalla borghesia finanziaria a strati larghissimi della popolazione, acuendo il processo di proletarizzazione del ceto medio e schiacciando ancora di più i lavoratori ed i pensionati. Scriveva Marx: “Il patrimonio dell’intera società, che il governo rappresenta, dovrebbe ripianare le perdite subite dai capitalisti privati. Questo genere di comunismo, in cui la reciprocità è assolutamente unilaterale, esercita una certa attrattiva sui capitalisti europei” Appena pochi giorni fa Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno deciso un piano di salvataggio di centinaia di miliardi di euro per le banche esposte in modo rilevante con titoli di Stato greci. La Grecia è stata spremuta fino alla fine, e ancora lo sarà, ma a tavolino è già stato deciso il suo fallimento e per evitare l’effetto fallimenti a catena di importanti istituti di credito, l’asse franco-tedesco ha preferito il rifinanziamento delle banche e l’ulteriore socializzazione delle perdite private al versamento della stessa cifra in favore del popolo greco. In tutto questo la Rete della Conoscenza nella sua analisi sul debito pubblico preferisce concentrarsi sul terreno del contrasto alla proposta del pareggio di bilancio in Costituzione. Seguiamo per un attimo il ragionamento. “Il debito pubblico è uno dei principali strumenti tramite cui lo stato, in un’economia di mercato, può finanziarsi e soddisfare i bisogni dei suoi cittadini: il welfare, l’istruzione, la sanità, ecc… Normalmente il debito viene ripagato facendo altro debito, e la crescita economica, portando, tramite le tasse, nuovo denaro nelle casse dello stato, permette di pagare gli interessi. Questo sistema, che funziona in tutti i paesi del mondo da decenni, può entrare in crisi…” In sostanza si assume come punto di partenza l’analisi keynesiana del debito pubblico, in questi giorni rilanciata tra gli atri da Krugman e da altri economisti, che hanno criticato la gestione operata da Obama ed il compromesso con i repubblicani in occasione del voto del parlamento americano sul tetto del debito pubblico. Tutto questo è chiarito successivamente. “L’indebitamento pubblico ha consentito negli anni di costruire e mantenere uno stato sociale in Europa. In queste settimane si è avviato un dibattito tra gli stati europei sull’inserimento nelle costituzioni nazionali di un vincolo al raggiungere e mantenere il pareggio di bilancio. Si tratta di una scelta gravissima, sarebbe la ratifica della morte del welfare state e della rinuncia a qualunque politica keynesiana o più in generale socialmente responsabile: una delega in bianco ai mercati, il via libera per privatizzazioni e qualunque altra forma di saccheggio dei beni comuni.” Assumendo come dato oggettivo la fine delle politiche keynesiane e non come nostra bandiera, possiamo concordare su alcuni passaggi di questa analisi, in particolare nell’affermazione che la questione del debito pubblico e di conseguenza del pareggio di bilancio non provocherà altro che lasciare ulteriore spazio ai privati, portando ad un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita di lavoratori, studenti e pensionati e diminuendo ulteriormente i servizi pubblici di ogni tipologia. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che la difesa del sistema del debito pubblico deve necessariamente portare con sé anche delle critiche di fondo. Perché se è vero che esso ha consentito il mantenimento di uno stato sociale, è pur vero che il suo scopo ultimo è ben altro e Marx lo aveva individuato chiaramente. “ Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni


facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche fatta astrazione dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene cosi creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna.” Questa analisi sul debito pubblico manca totalmente e nell’ambito della critica al pareggio di bilancio – critica che noi condividiamo - si cela però un irrealistico ritorno ad un passato che si è dimostrato esso stesso fallimentare. Aveva ragione Marx quando sosteneva che “Il credito pubblico diventa il credo del capitale” perché effettivamente anche all’interno delle analisi più di sinistra non si mettono in discussione alcune differenze fondamentali. La Rete della Conoscenza afferma che “Il debito pubblico è uno dei principali strumenti tramite cui lo stato, in un’economia di mercato, può finanziarsi e soddisfare i bisogni dei suoi cittadini: il welfare, l’istruzione, la sanità, ecc.” Due ordini di osservazioni sono necessari. In primo luogo bisogna fare distinzione tra la richiesta di finanziamento rivolta ai cittadini, nella formula dei cosiddetti Bot per intenderci, e il ricorso al grande capitale finanziario e all’intermediazione in questo processo di istituti di credito privati. Continua la Rete della Conoscenza: “Praticamente lo stato chiede in prestito dei soldi ai suoi cittadini o agli attori finanziari, emettendo in cambio dei titoli, cioè delle promesse che quei soldi saranno restituiti con un determinato interesse.” Il ragionamento descrittivo è correttissimo nella sua sinteticità, ma mette sullo stesso piano due cose assolutamente differenti, che non a caso si riscontrano in due periodi diversi della storia dei debiti pubblici. Sarà un caso che l’aumento esponenziale del debito pubblico si registra proprio quando avviene l’inversione della titolarità di questo debito da piccoli risparmiatori, cittadini italiani, a grandi istituti bancari ed assicurativi nazionali ed internazionali? Forse no. E alla luce di tutto questo riprendendo la prima affermazione, ossia che il debito pubblico “è uno dei principali strumenti può finanziarsi e soddisfare i bisogni dei cittadini” arriviamo alla seconda osservazione. Leggendo il bilancio dello stato si vede chiaramente che la spesa corrente al netto degli interessi è inferiore alle entrate tributarie (344.509 milioni di euro, contro 412.186) e che il passivo si verifica solamente per gli interessi (82.243 milioni di euro). Dire che il pareggio in bilancio è una truffa è corretto, ma non vedere quanto il debito pubblico sia strutturalmente uno strumento di oppressione dei popoli e mezzo per l’accumulazione di capitale da parte dei grandi monopòli capitalistici è un errore.

L’Unione Europea. Ma il vero tasto dolente che la Rete della Conoscenza ha il merito di mettere in evidenza è l’Unione Europea. L’Italia è il paese più filo europeista del continente e solo questa crisi sta riuscendo a metterne in discussione alcuni fondamentali, ma a sinistra sembra che la prudenza sia d’obbligo ogni volta che si parla d’Europa. Andiamo come sempre con ordine. Scrive la Rete della Conoscenza: “Nelle istituzioni europee, da tempo, sta prevalendo l’obiettivo di adattare le economie europee ai bisogni della globalizzazione: le grandi élite


élite finanziarie hanno utilizzato l’integrazione europea come grimardello per minarne il welfare state e deregolamentare le economie. L’Europa politica non esiste, il Parlamento europeo è assolutamente incosistente, e così l’unico vero potere è quello della bce di Trichet e Draghi, veri artefici delle politiche di austerity. Infatti la Banca Centrale Europea è autonoma dai poteri politici democraticamente eletti.” La prima cosa che non convince è il richiamo in questo caso alle élite finanziarie. Si ricade nella caratteristica di non chiamare mai con il proprio nome il colpevole e nascondersi dietro etichette come “i poteri forti” che alla fine non dicono niente. L’attribuzione alla finanza dei processi in atto in Unione Europea ha come al solito il fine di fossilizzare tutta la discussione proprio sulla “deriva finanziaria” e salvare il resto del sistema. Affermare che l’integrazione europea è utilizzata come grimaldello per minare il welfare è giustissimo, ma vediamo in che modo questo accade realmente. Serve qui un piccolo richiamo a quanto abbiamo sostenuto in precedenza riguardo alla sovrapproduzione e all’esigenza del sistema capitalistico di sovraprodurre per abbassare complessivamente il costo della produzione. Ad un determinato grado di sviluppo il mercato interno di ogni paese non soddisfa più le esigenze di profitto e dazi, barriere doganali sono abbattute per consentire quel processo che chiamiamo mondializzazione o globalizzazione, che crea un mercato unico a livello globale. La concorrenza dei prezzi a questo punto diventa una concorrenza micidiale, che entra in relazione con tutti i popoli del mondo, scatenando una competizione al ribasso che travolge gran parte delle conquiste che i lavoratori in precedenza avevano ottenuto. I lavoratori di diversi paesi sono messi l’uno contro l’altro in una lotta tra poveri che fa leva sul ricatto della perdita del posto di lavoro e sulla presenza di un enorme e moderno “esercito industriale di riserva” pronto a sostituire chi non si adegua, sia singolarmente che collettivamente. Questo processo non riguarda solo l’Unione Europea ma le relazioni tra occidente e resto del mondo. L’Unione Europea entra in questo gioco in due momenti differenti. In primo luogo l’istituzione delle Comunità Europee essa crea una prima grande area di libero commercio che si pone l’obiettivo di saziare parte dell’appetito, limitando al minimo processi di impedimenti alla realizzazione di un mercato unico europeo. Ma più di tutto è il secondo passo che conta. Di fronte all’emergere di paesi ed aree sempre più competitive e al fenomeno delle c.d. delocalizzazioni che avvenivano al di fuori dell’area comune europea (Brasile, India, Cina, ecc…), la minaccia della perdita sempre maggiore di luoghi reali di produzione, a vantaggio di paesi con i quali la competizione interimperialistica è enorme, crea le premesse per l’allargamento della UE ai nuovi paesi dell’Est, con il chiaro obiettivo di costruire un’Europa a due velocità inizialmente ed evitare il trasferimento di imprese fondamentali fuori dall’area UE, fornendo le stesse caratteristiche ricercate dalla grande industria (salari a basso costo, scarse tutele sul lavoro, governi filo padronali) all’interno della stessa Unione Europea. In un secondo momento la competizione al ribasso, che come sempre usa il costo delle merci come potente artiglieria, spinge ad uniformare – ovviamente al ribasso – i livelli salariali e le legislazioni sul lavoro dei paesi membri. Ma in tutto questo dire che la responsabilità è della finanza è ancora una volta molto limitativo e profondamente errato. E da questa errata analisi non possono che discendere errati obiettivi. Secondo la Rete della Conoscenza i traguardi da raggiungere sulla UE sono: “Costruzione di un’Europa politica e democratica. - Rimettere in discussione il libero movimento dei capitali e dei beni tra l’Unione europea e il resto del mondo, negoziando accordi bilaterali o multilaterali, se necessario. - Porre come principio


guida della costruzione europea un processo di “armonizzazione” e non una politica basata sulla concorrenza. - Stabilire degli obiettivi comuni obbligatori nell’ambito sociale e macroeconomico (ad esempio, con la creazione di Gops, Grandi orientamenti di politica sociale). - Svalutazione dell’Euro.” Qui si passa dall’utopia alla concretezza del disastro. Quanto alla “costruzione dell’Europa politica e democratica” la Rete della Conoscenza usa le stesse parole di Napolitano, e ciò basta a smascherare il gioco. Cambiare alla radice i presupposti su cui l’Unione Europea è stata costituita è un esercizio di retorica che non può avere alcun valore effettivo e reale. Rimettere in discussione il libero movimento dei capitali all’interno della UE vuol dire mettere in discussione le premesse sulla base delle quali l’UE è stata costruita, l’armonizzazione non la vuole nessuno, se non al ribasso e l’Unione Europea politica potrebbe essere ancora peggiore rispetto a quella economica, fondandosi su queste premesse, coma abbiamo avuto la sfortuna di vedere in occasione dell’aggressione imperialistica alla Libia, di cui proprio l’UE è stata la più grande sostenitrice. Quanto all’Europa democratica ci chiediamo il senso di un aggettivo tanto trito e ritrito da non aver nessun significato. Ci direte a questo punto, ma allora voi siete per la difesa della nazione? Siete contro l’Unione Europea come la Lega? Siete per il ritorno allo Stato nazionale? La risposta a tutto questo è no. Noi siamo per la rivoluzione, poi il resto si discute. Ma si discute sulla base della realtà concreta, non sulla base del mondo come vorremo che fosse. E alla luce di tutto questo è chiaro che l’Unione Europea è uno strumento di oppressione, che decide sulle teste dei suoi popoli, che mai hanno realmente potuto esprimersi sulla sua legislazione (vedi referendum annullati, non tenuti in conto, rifatti fino a quando hanno dato il risultato che si voleva…) L’Unione Europea non è riformabile, essa è basata su presupposti che non possono essere cancellati. Non bisogna mai confondere l’internazionalismo, che anima la nostra lotta, con la visione dell’Unione Europea. Siamo per accordi di cooperazione internazionale che nel rispetto dell’autodeterminazione dei popoli assicurino un futuro di pace, cooperazione e sviluppo, ma l’Unione Europea non è e non sarà mai questo. Quanto all’eventuale parallelo con la Lega rispediamo al mittente l’accusa: la Lega non è realmente contro l’Unione Europea. Contrapporre il federalismo e i piccoli stati-regione all’imponenza politica e economica della Ue è l’altra faccia della stessa medaglia; è la reazione di pancia di quanti pensano che la vicinanza dell’istituzione che non conta nulla possa essere la soluzione di tutti i problemi mentre non fanno altro che acuirne ed accelerarne gli effetti.

Conclusione: riforme o rivoluzione? È possibile riformare questa società, inserire dei correttivi nel sistema? La domanda è vecchia quanto questa riflessione, ma spesso dietro l’apparenza di ciò che viene fatto passare per nuovo, si cela in realtà un ritorno al vecchio già sconfitto dalla storia. E così nei dibattiti di quanti si interrogano su cosa fare, si parla di idee nuove e involontariamente (forse…) se ne citano di vecchissime. Chi prende per buona l’idea che la crisi sia dettata dall’avidità di qualche finanziere ovviamente penserà che la degenerazione del sistema possa essere corretta con alcune misure. Chi come noi crede che, a parte l’avidità di qualche finanziere, esiste un sistema che strutturalmente porta a quanto sta accadendo ritiene che non ci sia altra soluzione che il rovesciamento dei rapporti esistenti e la costruzione di una


società nuova che noi, a differenza di altri, non abbiamo paura a chiamare con il suo nome: socialismo. Anche la Rete della Conoscenza ammette che le misure segnalate non saranno probabilmente in grado di risolvere la crisi, però non resiste all’idea di elencarle e di fatto legittima questa visione della riforma possibile. Entriamo nel dettaglio. La Rete della Conoscenza parla di “Separare rigidamente i mercati finanziari e le attività degli operatori finanziari… Ridurre la speculazione destabilizzante attraverso controlli sui movimenti di capitale e la tassazione delle transazioni finanziarie, Limitare le transazioni finanziarie a quelle che soddisfano i bisogni dell’economia reale…” Qui si capisce quanto l’analisi che precede questo capitolo sia fondamentale e come da una errata analisi della crisi non possano che discendere errate conclusioni. La finanza non è stata costituita per decreto e non potrà essere modificata per decreto. Questa fiducia nelle possibilità di interventi legislativi dimenticano che il diritto è una sovrastruttura e anche se non meccanicamente riflette rapporti di forza sottostanti e che le idee dominanti, anche in campo giuridico, sono sempre le idee della classe dominante. Pensare che sia la legge a poter fare l’economia non è possibile in questo sistema. Quando poi si parla di riduzione della “speculazione destabilizzante”- continuando ad ammettere implicitamente che ce ne possa essere una non destabilizzante – si continua ad idealizzare. Quale dovrebbe essere l’organismo internazionale che a livello globale può porre una tale misura? Potrebbero mai gli stati anche quegli staterelli che vivono di speculazione e finanza – accettare unanimemente una tale misura? Chi non riflette sul fatto che ogni legge nazionale oggi non può contare di fronte alla globalizzazione non pone soluzioni effettive, e chi pensa che da accordi internazionali possano discendere norme di questo tipo, dimentica che il capitalismo sarà sempre costruito sulla competizione e pertanto ogni fazzoletto di terra che rifiuterà questi accordi sarà sommerso da fiumi di denaro, tali da far impallidire ogni politica anti-finanza. Quando si parla di fuga di capitali all’estero non si afferma il falso. Si dice una verità oggettiva che esiste all’interno di questo sistema. Che poi sulla base di questa si affermi che non è possibile fare nulla è un altro discorso, ma di certo è quanto mai anacronistico pensare a misure e dazi applicabili su scala nazionale, ed irrealistico ed utopistico pensarli a livello globale. La Rete della Conoscenza riprende poi il salvataggio dell’economia reale con una formula abbastanza ambigua di “limitare le transazioni finanziarie a quelle che soddisfano i bisogni dell’economia reale” . Peccato che proprio queste transazioni finanziarie sono nate per soddisfare l’economia reale, nel senso che sono nate per creare profitto, come la nostra analisi dimostra chiaramente. Chi sostiene la necessità di “tornare all’economia reale” contrapponendo a questa espressione l’attuale peso della finanza, chiede il compimento di un’operazione antistorica, che non può esistere nel sistema capitalistico. L’evoluzione del capitalismo da produttivo a finanziario è una legge della storia, che ha alla base proprio la negazione operata dal capitalismo stesso del fallimento della produzione come unica leva della creazione del profitto. La storia ci insegna che una negazione non può mai essere superata con un ritorno al passato. La riduzione del peso della finanza ci sarà in questo sistema solo il giorno in cui il capitalismo non la riterrà più conveniente e troverà altri modi per fare profitto – ammesso che sia possibile – non certo per questioni di moralità. Sul debito pubblico poi appare assai timida la proposta della Rete della Conoscenza. Si dice: “Ristrutturare il debito pubblico, distinguendo i creditori in base al volume delle quote possedute e le loro caratteristiche (piccoli investitori o grandi istituzioni finanziarie). Gli


azionisti più grandi (individui o istituzioni) dovrebbero accettare un rilevante allungamento dei tempi di scadenza del debito ed, eventualmente, una sua cancellazione parziale o totale.” Sul distinguere i piccoli risparmiatori, che poi sono in larga parte lavoratori – si pensi al caso dei contributi pensionistici ad esempio - siamo d’accordo. Ma riguardo ai grandi monopòli industriali noi non proponiamo assolutamente una ristrutturazione del debito ed un allungamento dei tempi di pagamento. A questi, che fino ad oggi hanno guadagnato a mani basse sulla pelle di milioni di lavoratori stretti da finanziarie sempre più macelleria sociale, lo diciamo chiaramente: noi il debito non ve lo paghiamo né ora e né mai! Non ci interessano le “regole del gioco” capitalistico. Quando un popolo decide è sovrano e ogni accordo precedente, di fronte ad un cambiamento effettivo e rivoluzionario cosa che di certo sottintende il non pagare il debito - è destinato ad essere rimesso in discussione e non c’è regola giuridica che tenga (non a caso a livello di diritto internazionale esiste la clausole rebus sic stantibus). È chiaro poi che non pagare il debito non è un obiettivo unico ed assoluto, nel senso che ad esso è necessario affiancare un cambiamento reale della società, altrimenti il rischio è quello di precipitare semplicemente ad un livello ancora più basso. Non pagare il debito deve essere accompagnato dalla nazionalizzazione delle banche, dal processo di collettivizzazione dei mezzi produttivi. Tutti sanno che il debito pubblico italiano non può strutturalmente essere ripagato – così come quello greco ancora maggiormente – e l’idea di una ristrutturazione che consenta al grande capitale di riottenere comunque quel denaro, in tempi maggiori, non è altro che prolungare ed acuire ulteriormente la crisi e i danni che ne derivano per lavoratori, studenti e classi sociali più deboli dal pendere di questa continua spada di Damocle. Anche riguardo alla “crescita” notiamo nella Rete della Conoscenza una certa ambiguità. Troviamo scritto: “In questo senso, scommettere su un rilancio della crescita, data la situazione climatica, energetica e ambientale, non appare particolarmente lungimirante.” Siamo in parte d’accordo se si assume quello che questo sistema sta compiendo, ma noi non siamo contro la crescita in sé, non apparteniamo cioè alla schiera dei teorici della cosiddetta “decrescita”. Questo passaggio va esplicitato con maggiore chiarezza. Riprendendo la critica di Marx al concetto di sovrapproduzione, che in realtà si risolve in una costante sottoproduzione possiamo dire che non è la crescita che deve essere messa in discussione – non si può fermare la storia – ma la crescita legata al profitto e non alla soddisfazione dei bisogni dell’uomo e di conseguenza la modalità con cui oggi avviene la distribuzione delle risorse e la redistribuzione della ricchezza. Noi vogliamo accrescere il livello di vita della popolazione, noi vogliamo accrescerne la ricchezza culturale, innalzare gli standard di educazione, salute, benessere. Il socialismo non è la socializzazione della miseria, ma è far si che tutti stiano meglio. Noi sappiamo che tutto questo è possibile se la società sarà liberata dalla logica del profitto. Detto in parole povere quello che deve essere messo al centro della discussione è cosa produrre e come produrre, intendendo con ciò appunto l’esigenza di adattare la produzione ai bisogni effettivi della popolazione, distribuire equamente le risorse e ridistribuire la ricchezza creata, certamente partendo dall’assunto che le risorse del pianeta sono finite. Da ognuno secondo le sue possibilità e a ciascuno secondo i suoi bisogni, non è uno slogan privo di significato, ma una via maestra da seguire. E oggi di fronte all’emergere delle contraddizioni del capitalismo a livelli che non hanno precedenti nella storia, al nascere di uno scontro interimperialista a livello globale, che parte dal controllo strategico sulle


materia prime, di fronte ad un mondo che va precipitando verso l’abisso, la scelta è una sola: socialismo o barbarie. Tutto il resto è utopia. Solo abbattendo lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la logica del profitto, solo sviluppando su questa base un modello alternativo di sistema basato sulla giustizia sociale e sull’uguaglianza reale dei cittadini, solo costruendo, sulla base di questi presupposti, veri accordi di cooperazione internazionale, pace e sviluppo tra i popoli, solo in questo modo potremo evitare la catastrofe in cui il capitalismo ci sta spingendo.

Una nota in conclusione. Speriamo con questo testo di aver dato uno strumento di discussione agli studenti e non solo. Speriamo di aver contribuito a rompere quel muro che il pensiero dominante ci impone anche di fronte a tentativi, come quello che abbiamo criticato in questa analisi, di distanziarsene e di contestarlo. Speriamo che questo nostro documento possa sviluppare quell’analisi di fondo che il movimento studentesco non ha mai fatto in questi anni e che probabilmente è stata causa della sua sconfitta. Perché il movimento senza il fine, il movimento per sé stesso, l’estetica del movimento come rito di una conflittualità priva di traguardi, ha fatto oramai il suo tempo.


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