Dal vecchio Borgo alla grande Lecco

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Testi:

Aloisio Bonfanti Progetto grafico e selezioni fotografiche:

Day&Night Graphic di Simona Lissoni Mandello del Lario (LC) Stampa:

Editoria Grafica Colombo s.n.c. Valmadrera (LC) Contributo ricerca fotografica:

Aloisio Bonfanti, Aristide Angelo Milani, Romeo Curti, Giuseppe Giudici, AL di Locatelli Alberto Proprietà letteraria e fotografica riservata di Claudio Redaelli a norma delle vigenti leggi nazionali per i diritti di riproduzione, parziale o totale, salvo consenso scritto © 2007 Claudio Redaelli

Nelle pagine precedenti, una veduta del vecchio borgo dei pescatori lungo la riva dell’Adda a Pescarenico (1870)


Aloisio Bonfanti

Dal vecchio borgo alla grande Lecco

Prefazione:

Claudio Bottagisi Claudio Redaelli

Appendice:

Angelo Sala

Edizioni Monte San Martino LECCO

Editoria Grafica Colombo s.n.c. Valmadrera - Lecco



PREFAZIONE

Una storia

C

d’autore

onosce la storia di Lecco e della sua terra come pochi altri e sa parlarne con grande dimestichezza e al tempo stesso con assoluto rigore. Se poi si tratta di tradurla in uno scritto, o come in questo caso in un libro, lui sa farlo con dovizia di particolari. Ha anche un altro pregio, Aloisio Bonfanti. Sa cioè guidare e addirittura accompagnare per mano il lettore alla scoperta degli avvenimenti descritti. L’ha fatto - non è azzardato dirlo - in ogni sua pubblicazione e lo fa in particolare in questo volume, dove si evidenzia non soltanto il gusto dello scrivere ma altresì il piacere di raccontare episodi che a una prima lettura potrebbero sembrare apparentemente insignificanti, o comunque di importanza marginale rispetto ad altri eventi su cui l’autore si sofferma, e che invece - per il periodo storico o per la circostanza in cui si collocano - si rivelano fondamentali per capire l’esatta portata dell’argomento trattato. È poi anche giornalista, Aloisio. E lo dimostra quando si sofferma su taluni fatti di cronaca accaduti negli anni che hanno contrassegnato il passaggio di Lecco da borgo a città. Stiamo pensando, ad esempio, alla descrizione della frana di Versasio che il mattino del 16 settembre 1882 causò la morte di sei persone, con un bilancio reso se possibile ancora più grave dal numero delle case crollate e da quello delle persone senza tetto, oltre che dalle decine di ettari sommersi dall’acqua e dal fango. O ancora all’episodio del dicembre 1943, mese e anno della terribile tragedia del tram deragliato in località Cavalesine, in quartiere San Giovanni. I morti furono 14 e oltre 30 i feriti. Non a caso Bonfanti ne parla come della più pesante tragedia cittadina di tutto il Novecento, per numero di vittime superiore alla frana del monte San Martino del ’69, allo scoppio - causato dal gas - del dicembre 1987 in rione Castello e, addirittura, alle incursioni aeree belliche della primavera del ’45 sulla “Fiocchi Munizioni” di Belledo. Pensiamo però anche alle pagine scritte da Lecco e dai lecchesi, con un innegabile senso della patria e del dovere e spesso anche con il sangue, durante il primo conflitto mondiale, quando una vedetta stazionava sul terrazzino terminale del campanile di San Nicolò per segnalare l’eventuale avvicinamento alla città di aerei nemici. Non mancano neppure curiosità e aneddoti (e anche questo fa parte del suo “stile”) nel libro di Aloisio Bonfanti. Tra le prime, non possiamo non annoverare il referendum di Laorca del lontano 1861, quando i capifamiglia del quartiere si recarono alle urne per decidere quale dovesse



essere la sistemazione dei fedeli all’interno della chiesa dei santi Pietro e Paolo. È certamente curioso pure il capitolo dedicato ai Carnevaloni lecchesi e, soprattutto, alle regine Grigna e ai re Resegone che si sono avvicendati nella storia delle “monarchie” della settimana grassa. Uno degli ultimi capitoli del libro non poteva peraltro non essere dedicato all’unificazione municipale e al regio decreto del 1923, anno che precedette l’aggregazione a Lecco dei Comuni contermini di Castello, Rancio, Laorca, San Giovanni alla Castagna, Acquate e Germanedo, nonché parte del territorio di Maggianico. Insomma storie e vicende che si sono accompagnate al cammino percorso da Lecco per trasformarsi da vecchio borgo a città e che hanno appassionato l’autore di questo volume. Ora, però, Bonfanti lasci che ad appassionarsi siano i “suoi” lettori, pronti a “immergersi” nella ricostruzione delle vicende e nell’analisi dei problemi delle diverse realtà municipali cittadine, un tempo autonome e oggi quartieri della “grande Lecco”. Il libro è poi completato da un’appendice nella quale Angelo Sala, giornalista e autore di una serie di pubblicazioni dedicate a Lecco e al suo territorio, accenna alla stagione della solidarietà negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del secolo successivo. L’attenzione si concentra in particolare sulla risposta a due grandi problemi di una società in rapido sviluppo: quelli dell’assistenza e della casa. E la risposta, va detto, si diversificò secondo i problemi locali e - nel caso dell’assistenza - attinse motivazioni e spinte da una tradizione tutta lecchese (per la precisione nata e cresciuta ad Acquate) piuttosto lontana nel tempo, ossia quella dell’ospedale della Beata Vergine Maria sorto nel 1594 per testamento di Giovanni Antonio Airoldi. Una tradizione antica, che ha largamente superato il traguardo dei 400 anni, e che continua oggi negli Istituti Riuniti Airoldi & Muzzi. Ad affrontare il problema dell’assistenza, come pure quello della casa (anche questa un’esperienza che continua tuttora nella realtà lecchese dell’Aler) furono di stimolo personalità e gruppi diversi, ma anche scelte e interventi autorevoli come quelli della Santa Sede, che non poterono non influire nelle articolazioni periferiche del movimento cattolico. C’erano però soprattutto i grandi problemi che, seppure con modalità e ritmi propriamente locali, si ponevano in tutte le aree. Il movimento cattolico e quello operaio, che a partire dall’ultimo scorcio dell’Ottocento ebbero a Lecco una diffusione organizzata, si espressero anche nella costituzione di società di mutuo soccorso e di cooperative che operarono certamente nei casi - allora assai frequenti - di malattie e di incidenti sul lavoro (o di mancanza di lavoro) ma che divennero negli anni effettive soluzioni sociali ed economiche capaci di aggregare e di penetrare profondamente nel tessuto socio-economico locale, conseguendo importanti risultati. Claudio Bottagisi Claudio Redaelli 7



INDICE

Le lampade con olio del 1837

pag.

11

1850 Demarcazione di tutte le contrade, numerazione delle case del borgo di Lecco e di tutte le sue frazioni

pag.

17

2

La diligenza 1847 verso Bergamo

pag.

25

3

Lecco città: 22 giugno 1848

pag.

33

4

I fratelli garibaldini di Onno

pag.

43

5

Lecco italiana: 29 maggio 1859

pag.

51

6

Gli Agudio di Malgrate

pag.

59

7

Il battaglione della Guardia ad Ancona e la votazione di Laorca 1861

pag.

67

8

1863: Castello sopra Lecco

pag.

75

9

1869: Maggianico Comune

pag.

83

10 La ferrovia verso la Valsassina e le corriere della Sal

pag.

91

11 Re Carnevalone 1884

pag.

97

12 Il monumento a Garibaldi: primo in Italia?

pag. 107

13 La frana di Versasio sopra Acquate

pag. 113

14 Il 20 settembre 1895 e la “Questione romana”

pag. 121

15 Il campanile della prepositurale: lapis verso il cielo

pag. 127

16 Un Capodanno tra due secoli

pag. 135

17 Il tricolore del 1° maggio sul balcone del municipio

pag. 143

18 Elezioni roventi: 1904 - 1909

pag. 149

19 Retrovia del fronte sullo Stelvio: 1915-18

pag. 157

20 I municipi e la “tappa” lecchese del Re

pag. 165

21 L’unificazione municipale e il regio decreto 1923

pag. 173

22 11 dicembre 1943 - Il tram della morte

pag. 181

1

APPENDICE: La grande stagione della solidarietà

pag. 189 9



CAPITOLO 1

Le lampade con olio del 1837

O

tto lampade a olio costituirono il primo impianto di pubblica illuminazione del borgo di Lecco. L’inizio, a titolo sperimentale, avvenne il 1° ottobre 1837, senza nessuna spesa per le finanze municipali. La somma necessaria per fronteggiare il consumo d’olio, di lucignoli e candelotti era stata raccolta con elargizioni di privati dal deputato Cima. Nella fase di prova, durata qualche anno, si discusse a lungo sul numero delle lampade da sistemare, sulla collocazione delle medesime, dal centro alla periferia, sull’orario di accensione, con fasce diverse secondo le stagioni e le fasi lunari. I componenti la Deputazione Amministrativa furono concordi sull’utilità dell’impianto in forma permanente e affidarono l’incarico all’agrimensore Francesco Provasi (lo stesso che aveva collaborato alla preparazione della pianta di Lecco del 1830) di predisporre il progetto per la notturna illuminazione del borgo. Furono particolarmente favorevoli all’iniziativa i deputati civici (vale a dire gli assessori di oggi) Giovanni Battista Erba, Giuseppe Bertarelli, Giovanni Battista Cima. La nuova illuminazione entrò in funzione il 1° gennaio 1844, l’anno che doveva vedere l’inaugurazione del Teatro della Società in quella che sarebbe poi divenuta piazza Garibaldi. Nella notte di San Silvestro, al passaggio dal 1843 al 1844, dodici lampade ruppero improvvisamente le tenebre, fra la meraviglia e l’entusiasmo dei cittadini.

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Una panoramica della città dal lungolago. Si può notare che la prepositurale di San Nicolò appare senza un accenno dell’altissimo campanile e sulla riva vi è solo un pontile di imbarco, senza costruzione della stazione di navigazione lacuale.

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Le lampade a olio erano state fabbricate da Giuseppe Garganico, definito “artefice privilegiato di Sua Maestà Serenissima”, che giunse a Lecco preceduto dalla fama di aver allestito analoga illuminazione a Pavia. Nella relazione del progetto, il tecnico Francesco Provasi ha descritto in questo modo le lampade: “Ognuna è composta da un ben congegnato sistema di spranghe di ferro snodate, con gli occorrenti ordigni per abbassare e rialzare il fanale all’oggetto di accenderle e pulirle, stando l’incaricato comodo sul suolo, e anche seduto. È tale spranga assicurata in un muro sopra colonna di legno o di pietra da un lato, e dall’altro porta l’opportuno fanale costrutto alla Boudier, composto di una cassa di latta di figura piramidale capovolta, con lastre di vetro all’ingiro, nel cui mezzo vi esiste la corrispondente macchina di illuminazione a due, a tre ed a quattro riverberi, a seconda del servizio che ognuna di esse deve prestare. Annessi a tale meccanismo vi sono, come di pratica, gli occorrenti attrezzi”. L’ubicazione delle lampade venne dettagliatamente verificata, ma qualche polemica scoppiò ugualmente per una certa rivalità fra negozianti e proprietari di stabili. I fanali apparvero al quadrivio fra la strada per la Valsassina e quella per lo Stelvio (oggi largo Montenero); all’incrocio di contrada Bovara con contrada Santa Marta; nella contrada Santa Marta stessa; in contrada dell’Angelo; nelle vicinanze della chiesa di San Nicolò. E poi ancora in piazza del Mercato (oggi XX Settembre), al Porto (ora piazza Cermenati), all’imbarcadero, all’angolo della piazza della Fiera (oggi Garibaldi). Il regolamento di manutenzione della pubblica illuminazione prevedeva che i fanali fossero accesi, eccezion fatta per i periodi di luna piena, dal suono dell’Ave Maria a un’ora dopo la mezzanotte. Nella notte della vigilia di Natale, nella commemorazione dei defunti e nelle ultime sere della settimana di carnevale, l’illuminazione doveva invece essere funzionante dal tramonto all’alba. Era poi prevista una straordinaria accensione quando, per maltempo, venisse registrata una scarsa visibilità. L’accenditore incaricato doveva vigilare continuamente sul buon funzionamento dell’impianto e la Deputazione Comunale si riservava di affibbiare sanzioni finanziarie, con trattenute sul canone d’appalto, per fiamma spenta o languente come per il ritardo nell’accensione e per l’anticipo nello spegnimento. L’accenditore godeva, in compenso al suo duro lavoro serale e notturno, di ferie molto lunghe: dal 1° maggio al 31 agosto, quando il servizio di illuminazione veniva sospeso nei mesi della bella stagione.

Il ponte di Azzone Visconti, che i lecchesi chiamano “Vecchio”, in una foto che risale a prima degli interventi di trasformazione della parte alta, resi necessari dal transito dei veicoli a motore. Comballi e gondole all’approdo sulla riva del porto lecchese, nel tratto oggi compreso tra piazza Cermenati e via Nazario Sauro. Il giorno di più intenso movimento era il sabato.

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L’imbarcadero, punto di imbarco e sbarco dei numerosi passeggeri che allora usavano la Navigazione Lariana. Si possono notare le lavandaie sul bordo della riva e l’”Hotel Mazzoleni - Belle Vue du Lac”, nello stabile dove oggi c’è il ristorante “Al Pontile-Orestino”.

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L’illuminazione a olio durò dal 1844 sino al 1871, quando subentrò quella a gas. Avvenne pure in occasione del capodanno l’inaugurazione dei lampioni a gas. Il progetto era stato predisposto dall’ingegner Attilio Bolla e realizzato dall’impresa Antonio Badoni. Il nuovo impianto prevedeva 91 lampade per il borgo, oltre le otto necessarie per il corso Vittorio Emanuele (oggi corso Martiri della Libertà), da Lecco centro al quartiere Pescarenico. L’energia elettrica c’è dal 1904, con dodici lampade: cinque in via Cavour, due in piazza Garibaldi, una in via Roma, due in piazza XX Settembre e in via Stoppani. È stata una convenzione stipulata fra il Comune, rappresentato dal sindaco Giuseppe Ongania, e la Società Anonima Gas ed Elettricità, presieduta da Domenico Sala. L’energia elettrica trovava un centro urbano più che discretamente illuminato: le otto lampade del primo impianto risalente al 1937 erano salite a 230, con 61 accese tutta la notte.


1850 Demarcazione di tutte le contrade, numerazione delle case del borgo di Lecco e di tutte le sue frazioni Al Bione 1

Diego Martinez - casa masserizia

Al Guado 2 3

Fedele Erba - casa di affitto Giacinto Ghislanzoni - casa masserizia

Contrada di Carate 4 5

Fedele Erba - casa di affitto Fedele Erba ed eredi Monti fu Luigi casa di abitazione propria 6 Maria Riva - casa di abitazione e di affitto 7 Fedele Erba - casa di affitto 8 Antonio Rocca - casa di abitazione propria 8½ Eredi del fu Luigi Monti 9 Pietro Conti ed Eredi Conti fu Innocente casa di abitazione propria 9½ Giovanni Botta e Giuseppe del fu Giuseppe Conti 10 Tommaso Fumagalli ed Eredi Monti fu Battista casa di abitazione propria e d’affitto 11 Eredi Conti fu Giuseppe - casa di abitazione propria

25 26 27 28 29 30 31 32 33

Vicolo del Rizzo 34 35 36 37

38 39 40 41 42 43 44

Contrada Maggiore 15 Gottardo - casa d’affitto 16 Monti, Erba e soci - casa per magazzeno del pesce 17 Francesco Ghislanzoni - casa d’abitazione propria 18 Battista Biffi - casa d’abitazione propria 19 Eredi Monti fu Giovanni Battista casa d’abitazione 20 Angelo Gilardi - casa d’abitazione propria 21 Francesco Monti - casa d’abitazione propria 22 Luigi e Fedele F.lli Monti ed Eufrasio Polvara casa d’abitazione propria 23 Luigi Antonio e Giuseppe Conti, e Francesco Bussola - casa d’affitto 24 Carlo Erba del fu Martino - casa d’abitazione 24½ Carlo Erba fu Federico

Giovanni e F.lli Monti fu Luigi - casa d’affitto Francesco Monti - casa d’abitazione Cesare Monti ed Angelo e F.lli Monti casa d’abitazione Monti Carlo e fratello fu Francesco casa d’abitazione

Contrada della Madonnina

Piazza del Pesce 12 Eredi Monti fu Franco - casa non abitata 13 Battista Ghislanzoni - casa di affitto 14 Monti, Erba e soci - casa per magazzeno del pesce

Pietro e f.lli Corti Francesco Biffi - casa d’abitazione d’affitto Stefano Pellegrini - casa d’affitto Carlo Farina - casa d’affitto Carlo Pellegrini - casa d’abitazione propria Cesare e Giuseppe Monti - casa d’affitto Carlo Pellegrini - casa d’affitto Giovanni Erba del fu Giuseppe Giovanni Rocca

45 46 47 48 49 50

Giuseppe Colombo - casa d’abitazione propria Giuseppe Colombo - casa d’affitto Carlo e Giovanni Riva fu Silvestro casa d’abitazione propria Castelletti Giuseppe - casa d’abitazione Carlo Gilardi - casa d’abitazione Cattaneo Lucia e Battista Rocca - casa d’abitazione Giuseppe e fratelli Ghislanzoni fu Igniazio casa d’abitazione Giuseppe e fratelli Polvara fu Giovanni Maria casa d’abitazione Giuseppe Negri, Giuseppe Biffi, Giosuè Gilardi casa d’abitazione d’affitto Giovanni Monti fu Pasquale - casa d’abitazione Battista Conti fu Damiano e Giovanna Conti casa d’abitazione d’affitto Giovanni Monti fu Pasquale - casa d’affitto Giuseppe Conti fu Giovanni - casa d’affitto

Contrada di Mezzo 51 52

Carlo Erba fu Federico - casa d’affitto Antonio Maria Ghislanzoni, Natale Ghislanzoni, Mansueto Gilardi - casa d’affitto e abitazione


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Il Grand Hotel Lecco, con balcone panoramico centrale e lunghe terrazze per la vista del lago. Era molto frequentato nel mese di settembre e nei primi giorni di ottobre, la stagione del “dolce autunno dei laghi�.

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Contrada del Fossato 53 54 55 56 57 58

Pietro Polvara - casa d’abitazione e d’affitto Giuseppe Ghislanzoni, Carlo Maria Monti e Giovanna Butti - casa d’abitazione propria e d’affitto Battista Riva fu Antonio - casa di abitazione propria Beneficio Polvara - casa d’affitto Pasquale Ghislanzoni - casa d’abitazione propria Legato dei Poveri - casa d’affitto

Piazzetta del Fossato 59 Francesco e Gaetano Ghislanzoni del fu Giovanni Giuseppe - casa d’affitto e d’abitazione propria 60 Antonio Ghislanzoni del fu Igniazio casa d’abitazione 61 Pietro Benassedo - casa d’abitazione 62 Carlo Benaglio - casa d’abitazione 63 Carlo Benaglio - casa d’affitto 64 Legato dei Poveri - casa d’affitto

Vicolo del Pesce 65 66

Marianna Dell’Oro - casa d’abitazione propria Michele Polvara - casa d’abitazione propria

Alla Tribulina 67

68

Luigi e Carlo Monti del fu Battista casa d’abitazione 69 Michele Monti fu Evangelista - casa d’abitazione 70 Eufrasio monti fu Evangelista - casa d’abitazione 71 Giovanni Erba fu Giuseppe - cassina

Contrada della Vianella Marcello Monti di Milano - casa d’affitto

Strada del Pescherino 73 74 75

Carlo Antonio Colombo e Galli Antonio casa d’affitto e abitazione propria Beneficio Cima - casa d’affitto Giuseppe Bertarelli - casino non abitato

Strada Provinciale per Bergamo 76 77 78 79

Giacomo Negri - casa d’uso osteria Girolamo Monti - casa d’abitazione d’affitto Giovanni Erba fu Giuseppe - casa d’affitto Fedele Erba - casa d’abitazione

Piazzale del Padre Fra Cristoforo 80 81

Fratelli Erba del fu Giovanni Battista convento d’affitto Corti Giovanni - casa d’affitto

Strada per Belledo 82

Ignazio Negri del fu Francesco casa d’abitazione propria

Pietro Confalonieri - casa d’abitazione propria Beneficio - casa d’affitto

Contrada del Piscen 85

Carlo Pellegrini - casa d’affitto

Strada del Colombaio 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98

Girolamo Monti - casa d’affitto

Vicolo dello Stallo

72

83 84

Giuseppe Gesuè Fratelli Monti del fu Giuseppe casa d’abitazione Gaetano Negri di Giuseppe - casa d’uso osteria Giovanni Monti fu Giuseppe - casa d’abitazione Eredi del fu Luigi Monti, Alessandro e f.lli Monti fu Giuseppe - casa d’abitazione propria e d’affitto Ignazio Ghislanzoni fu Evangelista - casa d’affitto Ignazio Corti - casa d’abitazione Ignazio Corti - casa d’affitto Giovanni Ghislanzoni fu Daniele casa parte d’abitazione propria e parte d’affitto Antonio Ghislanzoni fu Daniele casa d’abitazione propria Eredi del fu Pietro Malugani - casa d’affitto Franco Ghislanzoni fu Daniele - casa d’abitazione Battista Biffi del fu Evangelista - casa d’uso osteria Giovanni Gamba fu Francesco casa d’abitazione d’affitto

Al Colombaio 99 100 101 102

Giovanni Gilardi fu Domenico - casa d’uso osteria Stefano Pellegrini - casa d’affitto Alessandro Scola fu Giuseppe - casa da massaro Fedele e Giuseppe fratelli Erba fu Battista casa d’affitto 103 Gerolamo Scola fu Giuseppe - casa da massaro 104 Diego Martinez - casa d’affitto e da massaro

Al Caleotto 105 Gerolamo Scola fu Giuseppe caseggiato grande d’abitazione propria e d’affitto 106 Gerolamo Scola fu Giuseppe casa d’affitto unita al palazzo 107 Gerolamo Scola fu Giuseppe casa da massaro vicino al ponticello 108 Gerolamo Scola - casa d’affitto 109 Gerolamo Scola - casa d’affitto

Cassina Brusada 110 Gerolamo Scola - casa da massaro

Alla Fiandra 111 Antonio Locatelli - casa da massaro

Alla Foppa 112 Pompeo Radaelli - casa d’affitto 113 Gregorio Scandella - casa d’affitto

Corso di Pescarenico 114 Angelo Mauri - casa d’uso osteria


115 Francesco Gamba di Pasquale - casa d’uso osteria 116 Ferdinando Rocca - casa d’abitazione propria

149 Giovanni Gilardi 150 Giuseppe Bertarelli - cereria 151 Eredi del fu Serafino Nava - casa d’affitto

Strada al Ponte Grande 117 Figini Carlo - casa d’affitto ad uso osteria 118 Ambrogio e fratelli Manzoni casa d’abitazione propria e d’affitto 119 Giuseppe Pigazzini - casa d’affitto 120 Mauri - casa d’uso pelatteria

Strada del Lazzaretto 121 122 123 124 125 126 127 128

Francesco Locatelli - casa d’affitto e d’abitazione Eredi Scanagatti fu Carlo - casa d’affitto Eredi Scanagatti - casa d’affitto Labiche - casa masserizia Giuseppe Campelli - casa d’abitazione propria Labiche - casa masserizia Antonio Locatelli - casa d’affitto lungo al Caldone Antonio Locatelli casa d’affitto vicino al ponte piccolo 129 Cesare Campelli casa d’abitazione con filatoio da seta

Strada del Caleotto 130 Giovanni Gilardi caseggiato nuovo d’abitazione d’affitto 131 Giovanni Gilardi - caseggiato nuovo d’affitto 132 Carlo Pirovano caseggiato d’abitazione con filatoio da seta

Corsia 133 134 135 136 137

Giovanni Gilardi - casa rustica Eredi del fu Vittore Cremona - casa rustica Giovanni Gilardi - casa d’affitto Giovanni Gilardi - casa d’affitto Eredi del fu Vittore Cremona casa d’abitazione propria

Contrada del Caldone 138 139 140 141 142

Riva Francesco - casa d’affitto Eredi di Vittore Cremona Riva Francesco - casa d’affitto Eredi di Vittore Cremona - albergo del ponte Riva Francesco - casa d’affitto

Contrada di S. Giacomo 152 Alessandro Signorelli - casa d’affitto 153 Giuseppe Corti e Gaetano Canali casa di loro abitazione 154 Battista Riva - casa d’abitazione 155 Cornelio Zaccaria - casa d’uso osteria 156 Alessandro Gattinoni, Lorenzo Mazzoleni, Teresa Possanza maritata Gattinoni - casa d’abitazione 157 Giuseppe Gamba casa d’uso osteria, albergo delle due Torri 158 Eredi Agliati fu Lorenzo 159 Eredi Nava fu Angelo - casa, albergo delle due Torri 160 Eredi Ghislanzoni fu Carlo Giuseppe casa di propria abitazione 161 Antonio Gamba casa d’abitazione propria e d’affitto 162 Giovanni Stoppani casa d’abitazione propria e d’affitto 163 Eredi Nava fu Angelo albergo della Croce di Malta

Vicolo Privato 164 Eredi Sesini fu Giovanni Batta casa d’abitazione propria e d’affitto 165 Natale Riva di Angelo casa d’abitazione propria e d’affitto 166 Natale Riva - casa rustica non abitata 167 Cornelio Zaccaria - casa rustica 168 Pasquale Colombo - casa d’affitto

Piazza del Teatro 169 170 171 172 173

Antonio Tagliaferri - casa di sua abitazione Antonio Gamba - osteria del Morone Francesco e fratelli Cornelio - osteria dell’Arpa Cornelio suddetti - botteghe d’affitto Cornelio suddetti fabbrica nuova tuttora incompleta 174 Locali del Teatro

Contrada del Lago

143 Riva Francesco - casa di propria abitazione 144 Bartolomeo Bartolazzi, Cecilia Gattinoni ed Eredi di Angelo Pozzi casa ad uso osteria e d’affitto 145 Giuseppe Gamba - casa d’affitto 146 Giuseppe Gamba - casa d’affitto 147 Antonio Gamba - stallazzi

175 Fratelli Anghileri fu Giovanni casa d’abitazione propria e d’affitto 176 Francesco e fratelli Cornelio - casa d’affitto 177 Antonio Pini - casa d’uso osteria 178 Francesco e fratelli Cornelio - casa d’affitto 179 Tentori Eredi del fu Giuseppe caseggiato d’abitazione propria e d’affitto 180 Eufrasio Polvara casa d’abitazione propria e d’affitto

Contrada di Carate

Piazzetta dei Galli

148 Airoldi Giuseppe - casa d’abitazione

181 Eufrasio Polvara - casa d’affitto

Piazza della Fiera


182 Giuseppe Scanagatti, Gnecchi Franco e Cugini Gatti - casa d’affitto e d’abitazione propria

Spiaggia del Lago ai Galli 183 Francesco Gnecchi - nuovo caseggiato 184 Francesco Gnecchi - nuovo caseggiato 185 Paolo Galli - casa d’abitazione propria

Contrada delle Torre 186 Giovanni Gilardi - casa d’affitto 187 Fratelli Tentori casa d’affitto e d’abitazione propria 188 Francesco Riva - casa d’affitto 189 Giovanni Gilardi - casa d’affitto 190 Francesco Riva - casa d’affitto 191 Fratelli Cirati - casa di loro abitazione 192 Lelio Baruffaldi - casa d’affitto

Contrada Nuova 193 Invernizzi Antonio casa d’affitto e d’abitazione propria 194 Carlo Rusconi - casa d’abitazione propria 195 Angelo Mauri fu Francesco casa d’abitazione propria e d’affitto 196 Eredi di fu Ubaldo Gattinoni casa parte d’affitto e parte d’abitazione propria 197 Pasquale Baggioli casa parte d’affitto e parte d’abitazione propria 198 Eredi del fu Paolo Ghislanzoni - casa d’affitto 199 Eredi Monti fu Stefano - casa d’uso albergo 200 Ezechiele Mauri - casa d’affitto 201 Francesco Riva - casa d’affitto 202 Ezechiele Mauri - albergo del Leon d’Oro

Contrada Larga

Contrada di S. Marta 218 Giovanni Todeschini casa d’affitto e d’abitazione propria 219 Eredi Mauri fu Giuseppe casa d’affitto e d’abitazione propria 220 Giacinta Agudio Crespi - rustico non abitato 221 Eredi Mauri fu Giuseppe - stallazzi 222 Abbondio Monti casa d’affitto e d’abitazione propria 223 Diego Martinez casa d’affitto e d’abitazione propria 224 Spirito Rovegnati - casa ad uso osteria 225 Spirito Rovegnati - casa d’affitto 226 Giosuè Anghileri - casa d’affitto 227 Francesco Mandelli casa d’affitto e d’abitazione propria 228 Battista Scatti - casa d’affitto 229 Casa dell’Oratorio di Santa Marta 230 Francesco Mandelli - casa d’affitto 231 Longhi Pompeo casa parte d’affitto e parte d’abitazione propria 232 Giosuè Gilardi - casa d’affitto 233 Fratelli Nava del fu Serafino - casa d’affitto 234 Serafino Cazzaniga casa d’affitto e d’abitazione propria 235 Angelo Nava del fu Angelo - osteria del Moro

Contrada del Pozzo 236 237 238 239 240

Francesco Locatelli - casa d’affitto Fratelli Nava del fu Angelo - casa d’affitto Agudio - casa d’affitto, e d’abitazione propria Bonacina Giuseppe - casa d’affitto Giuseppa Cornelio maritata in Burocco casa d’affitto Ezechiele Conti - casa d’affitto Giuseppe Erba - casa d’affitto Bira Balbiani, Eredi di Agostino Rusconi e Paolo Balbiani - casa di loro abitazione Giuseppe Erba - casa di propria abitazione

203 Gaetano Confalonieri - casa d’affitto 204 Fratelli Nava del fu Angelo casa d’affitto annessa alla Croce di Malta 205 Eredi del fu Paolo Ghislanzoni casa d’affitto e d’abitazione propria 206 Ezechiele Mauri - casa d’affitto 207 Fratelli Nava del fu Angelo casa d’affitto annessa alla Croce di Malta 208 Gesuè Mazzoleni casa d’abitazione propria e d’affitto 209 Andrea Mauri - casa d’affitto e d’abitazione propria 210 Ezechiele Mauri - casa d’affitto 211 Giovanni Stoppani - casa d’affitto 212 Giovanni Secchi - albergo del Falco 213 Antonio Locatelli - casa ad uso osteria 214 Giuseppe Airoldi - casa d’affitto

241 242 243

Contrada Stoppa

Piazza del Mercato

215 Locatelli Antonio - casa d’affitto 216 Giovanni Gattinoni - casa d’affitto 217 Giovanni Stoppani - casa di educazione

251 Fratelli Gamba fu Luigi - casa d’abitazione propria 252 S.R. Pretura 253 Costantino Molteni - Albergo d’Italia

244

Piazzetta del Teatro 245 246 247 248

Salvatore Monti - casa d’abitazione propria Salvatore Monti - casa d’affitto Ezechiele Mauri - casa d’affitto Eredi Mauri fu Giuseppe - casa d’affitto

Vicolo del Leon d’Oro 249 Giuseppe Castelli ed Angela Milani casa d’abitazione 250 Ezechiele Mauri - casa d’affitto


254 Fratelli Cima fu Giovanni Batta casa d’abitazione e d’affitto 255 Cima suddetti 256 Eredi Malugani fu Pietro 257 Serafino Cazzaniga - casa d’abitazione propria 258 Giovanna Doniselli - casa d’affitto 259 Angelo Nava - casa di commercio 260 Pietro Stoppani - casa d’abitazione propria 261 Parroco Valsecchi d’Aquate - casa d’affitto 262 S.R. Finanza 263 Carlo Tarelli, ed Eredi Nava fu Serafino casa rustica d’affitto 264 Maria Longhi vedova Nava 265 Eredi Nava fu Serafino - casa d’abitazione propria

Contrada dei Cantarana 266 Giuseppe Bertarelli casa d’abitazione propria e d’affitto 267 Francesco Greppi - casa d’abitazione propria 268 Felice Colombo - casa d’abitazione propria 269 Giosuè Anghileri - casa d’abitazione propria 270 Giuseppe Bertarelli 271 Cornelia Buvocco - casa d’affitto 272 Giuseppe Maroni

Contrada Bovara 273 Angelo Nava, Gaetano Confalonieri casa di uso proprio 274 Angelo Mauri casa parte d’affitto e parte d’abitazione propria 275 Marietta Gregorio - casa d’affitto 276 Giuseppe Bovara - casa d’affitto 277 Giosuè Gilardi - casa d’affitto 278 Diego Martinez 279 Pietro Valsecchi - casa d’affitto 280 Nava eredi fu Angelo 281 Giuseppe Bovara - casa con filatoio da seta 282 Giuseppe Bovara - casa d’affitto 283 Pompeo Radaelli - casa d’affitto 284 Pompeo Radaelli - casa d’affitto 285 Eredi del fu Giuseppe Mauri - casa d’affitto 286 Eredi del fu Giuseppe Mauri - casa d’affitto 287 Bovara, e Pompeo Radaelli - casa d’affitto 288 Bovara casa d’abitazione propria con Edifici da seta 289 Pompeo Radaelli - casa d’abitazione propria 290 Bovara - casa d’affitto

297 Fratelli Cornelio fu Francesco casa d’affitto e d’abitazione propria 298 Marietta Gregorio casa d’affitto e d’abitazione propria 299 Vitto Gatti - casa d’abitazione propria 300 Pompeo Corti - casa d’abitazione 301 Fratelli Rossi fu Calimero 302 Fratelli Ghislanzoni fu Giuseppe 303 Fratelli Rossi fu Calimero 304 Casa Cogitoriale 305 Battista Scatti - casa d’affitto

Strada Militare 306 Gattinoni Antonio casa parte d’uso proprio, e parte d’affitto 307 Giacinta Agudio maritata Crespi - casa d’affitto 308 Zaccaria Gilardi - casa d’affitto 309 Suddetto - Osteria del Cappello 310 Angelo Gattinoni casa d’abitazione propria con Edifici da seta 311 Antonio Rusconi casa d’abitazione propria e d’affitto 312 Cosmo Pini - casa d’abitazione propria 313 Cosmo Pini - casa d’affitto 314 Francesco Vassena casa d’abitazione propria e d’affitto 315 Pasqualina Doniselli, vedova Parolari casa d’abitazione propria 315½Pompeo Radaelli - casa d’affitto 316 Giuseppa Cornelio maritata Burocco

Contrada dell’Ospitale 317 Luigi Rovegnati casa in parte d’uso proprio, ed in parte d’affitto 318 Eredi Corti fu Giacinto - casa in parte ad uso Osteria, ed in parte ad uso proprio 319 Ospitale

Porto Maggiore 320 Fedela Borini vedova Nava casa d’abitazione propria 321 Giuseppe Bovara - Osteria dell’Angelo 322 Franco Panzeri casa parte d’affitto e parte abitazione propria 323 Dionigi, e fratelli Ghislanzoni fu Giuseppe casa d’abitazione propria 324 Casa Prepositerale 325 Batta Scatti - casa d’affitto

Contrada dell’Angelo

Spiaggia del Lago

291 292 293 294 295 296

326 Giovanni Gilardi - casa d’abitazione propria 327 Costantino Molteni - casa d’affitto 328 Battista Fossati - casa d’abitazione propria

Rosa Gerosa - casa d’affitto Clotilde Casati maritata Mauri Giuditta Cantù vedova Pellegrini Sorelle Mazzola fu Pietro - casa d’abitazione propria Marietta Gregorio - casa d’affitto Brambilla Giuseppe - casetta d’affitto

Vicolo del Torchio 329 Bovara - casa d’affitto


330 Maria Corti - casa parte d’affitto e parte d’abitazione propria

361 Antonio Tagliaferri - casa d’affitto 362 Sorelle Mazzola - casa d’affitto

Vicolo S.Elena

Malpensata

331 332 333 334

363 Caterina Citera casa parte d’affitto e parte d’abitazione propria 364 Dionigi, e fratelli Ghislanzoni - casa di proprio uso 365 Francesco Bianchi di Milano - casa 366 Dionigi, e fratelli Ghislanzoni - casa d’affitto 367 Suddetti - casa d’affitto 368 Francesco Bianchi - casa d’affitto

Francesco Panzeri - casa d’affitto Giovanni Longhi - casa d’affitto Pompeo Corti - casa d’affitto Maria Corti - casa d’affitto

Contrada della Maddalena 335 Angelo Nava casa d’abitazione propria, detta Casa Sonzini 336 Suddetto - casa d’affitto, detta come sopra 337 Battista Scatti - casa d’abitazione propria 338 Suddetto - casa d’affitto 339 Bartolomeo Colombo - casa d’abitazione propria 340 Francesco Riva - casa d’affitto 341 Antonio Manzoni - Fucine 342 Marianna Dall’Oro casa parte d’affitto e parte d’abitazione propria

Piazzetta della Malpensata 343 344 345 346

Marianna Dell’Oro - casa d’affitto Carlo Torri Tarelli - rustici Suddetto - Osteria della Maddalena Suddetto - caseggiato parte d’affitto e parte d’abitazione propria

Contrada della Malpensata 347 Alessandro Crotta casa d’abitazione con filatoio da seta 348 Crotta suddetto - casa di proprio uso 349 casa d’affitto 350 Eredi del fu Giuseppe Valsecchi casa d’abitazione propria 351 Rosa Chiesa - casa d’affitto 352 Andrea Mauri - casa d’affitto 353 Giacinto Longhi - casetta d’abitazione propria 354 Bernardo Cendali - casa d’abitazione propria 355 Labiche - casa da massaro 356 Dionigi, e fratelli Ghislanzoni 357 Bernardo Cendali - casa d’abitazione propria 358 Antonio Monti - casa d’abitazione propria 359 Giacomo Castagna - casa d’abitazione propria 360 Labiche - casa d’affitto

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Contrada del Cimitero 369 Eredi Nava fu Serafino - casa in parte di proprio uso ed in parte ad uso caserma 370 Angelo Nava - rustici 371 Giuseppe Bovara - rustici

Alle Foppe 372 Casa masserizia 373 Casa masserizia

Spirola 374 Giuseppe, e fratelli Mauri fu Steffano casa masserizia 375 Eredi Corti detti - casa d’abitazione propria

Alla Buga 376 Prebenda prepositurale - casa masserizia

S. Stefano 377 Prebenda prepositurale - casa masserizia 378 Fratelli Mauri fu Steffano - casa masserizia

Alle Capigliate 379 380 381 382 383

Eredi Ranieri - casetta di uso proprio Scatti Giovanni Battista - casa di proprio uso Bartolomeo Colombo - casa masserizia Pompeo Radaelli - casa masserizia Eredi Agudio - casa masserizia

Belvedere 384 Vergottini - casa civile d’abitazione 385 Suddetto - casa masserizia


CAPITOLO 2

La diligenza 1847 verso Bergamo

I

l 10 agosto 1847 Francesco Gamba, albergatore del “Croce di Malta”, presentava domanda all’Imperial Regio Delegato Provinciale di Como e, per conoscenza, al Commissario Distrettuale di Lecco per ottenere la licenza di viaggio giornaliero con trasporto di persone da Lecco a Bergamo. Il viaggio, con previsto ritorno, sarebbe avvenuto con carrozza diligenza senza cambio di cavalli. Nella domanda, Gamba ricordava che già da tempo veniva svolto, per sua iniziativa, un collegamento fra Lecco e Bergamo e che, essendo intenzionato a stabilirlo regolarmente, con partenza a orari precisi, chiedeva la concessione formale della relativa licenza. Il programma della nuova corsa prevedeva la partenza da Lecco alle ore 4.30 dall’albergo “Croce di Malta”, in quella che sarà poi via Roma-piazza Garibaldi. Il viaggio di ritorno avrebbe preso il via da Bergamo alle ore 16 dall’albergo “Reale”, detto “della Ganascia”. Sulla diligenza da Bergamo sarebbe stato possibile prenotare biglietti per quella che da Lecco partiva alla volta di Como. All’arrivo al “Croce di Malta” i viaggiatori avrebbero potuto salire sulle vetture per Monza e anche sulle corse postali in transito dal borgo e dirette verso lo Stelvio e lo Spluga, che facevano tappa in Contrada Larga, oggi via Cavour. Il programma di Francesco Gamba indicava pure che presso il suo albergo erano disponibili, a prezzi modici, vetture e calessi per tutte le località del territorio lecchese.

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Piazza Garibaldi, con il Teatro della SocietĂ , e al centro il monumento al condottiero dei Mille, ancora circondato dalla bassa cancellata.


Il sistema di comunicazioni in tutta la Lombardia era in quel tempo ben poco sviluppato, mentre si affacciavano crescenti richieste di viaggiatori e di commerci. Le diligenze celeri private, come quelle del Gamba, sopperivano a lacune dei trasporti pubblici ancora affidati ai vecchi postali. Ma anche il servizio delle Imperiali Poste non brillava per collegamenti rapidi e moderni. Da Lecco a Introbio, per esempio, c’era ancora il pedone postale Giuseppe Locatelli, che, quotidianamente, si sobbarcava con... il cavallo di San Francesco il viaggio di andata e ritorno in Valsassina con qualsiasi condizione meteorologica. All’inizio dell’inverno Locatelli era solito chiedere alla Direzione Postale di Como di poter anticipare dalle 14 alle 12 la partenza da Introbio per evitare il buio e il freddo del precoce tramonto. Tornando alla diligenza del Gamba, c’è da dire che l’intraprendente albergatore del “Croce di Malta” non ebbe la soddisfazione di vedere funzionante, per molti anni, il suo servizio con Bergamo; scomparve, infatti, nell’autunno 1850, dopo soli tre anni dall’entrata in funzione del collegamento celere. Come titolare di licenza subentrò la consorte, Carolina Mauri ved. Gamba. La mancanza dell’albergatore fece però sorgere i primi disguidi organizzativi. La Direzione Postale di Bergamo interveniva presso il Commissariato Distrettuale di Lecco segnalando che, alla partenza da Bergamo, la diligenza effettuava il cambio dei cavalli senza la prescritta autorizzazione e senza corrispondere ai maestri di posta le indennità previste. Nel 1854 avveniva il cambio della guardia per il titolare della licenza. La Direzione Superiore delle Poste del Regno Lombardo-Veneto, con provvedimento assunto in Verona il 10 dicembre 1854, affidava a Giovanni Viganò la licenza per una corsa giornaliera Lecco-Bergamo e viceversa, senza cambio di cavalli. Con l’arrivo del Viganò non mancarono le novità. L’impresa assunse la denominazione di “Omnibus fra Lecco e Bergamo”, con partenza da Lecco all’albergo “Due Torri” e arrivo a Bergamo, alla solita Ganascia, dopo aver percorso la strada postale Cava di Caprino-Ponte San Pietro. Gli orari erano i seguenti: partenza a Lecco alle 5 con arrivo alle 9 a Bergamo; ritorno alle 14.30 con arrivo a Lecco alle 18.30. Quattro ore esatte di viaggio. L’impresa impegnava nel servizio due carrozze: la prima con tredici posti, la seconda con dieci. Le carrozze erano tirate da tre cavalli, ma i quadrupedi aumentavano in caso di neve o di pioggia abbondante. L’omnibus del Viganò cessò il servizio nel 1863, con l’entrata in funzione della linea ferroviaria Lecco-Bergamo, primo allacciamento di strada ferrata della città manzoniana. Lo storico albergo “Croce di Malta” ha chiuso i battenti nel 1993. Ha avuto una storia lunga, secolare, che si concluse il 1° ottobre di quell’anno, quando l’albergo contava 48 camere. Il congedo avveniva con la famiglia Negri, presente al “Croce di Malta” dal 1930, dopo l’acquisto dell’albergo dalla proprietà della famiglia Nava-Torri Tarelli. Giuseppe e Pietro Negri erano arrivati al Croce di Malta dall’Albergo Corona, oggi Moderno, vicino al municipio. Rinnovarono l’albergo e, dopo i necessari lavori, aprirono i battenti il 21 novembre 1931.

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Piazza Garibaldi osservata con fronte via Cavour e con l’albergo “Croce di Malta”. Si può notare sulla destra il palazzo che per cinquant’anni, dal 1913 al 1963, ha ospitato l’Agenzia lecchese della Banca d’Italia, divenendo poi civico palazzo Enrico Falck e ora sede dell’Unione Commercianti.

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L’ultimo componente della famiglia Negri impiegato al “Croce di Malta” è stato Luigi. Le lapidi del “Croce di Malta” ricordano i risorgimentali passaggi di Giuseppe Garibaldi, il discorso manzoniano di Giosué Carducci nel 1891, in occasione dell’inaugurazione del monumento lecchese all’autore de “I Promessi Sposi”. Requisito dai tedeschi durante la guerra 1944-45 per sede di comando, il “Malta” ha poi visto gli alleati dopo la Liberazione. Dal balcone sulla piazza si sono tenuti i comizi della rinascita democratica post-bellica. Il più noto è stato quello di Pietro Nenni, leader nazionale del Partito Socialista. Il 3 novembre 1957 è morto improvvisamente, in una stanza del primo piano, Giuseppe Di Vittorio, segretario nazionale della Camera del Lavoro, protagonista del sindacalismo internazionale, giunto a Lecco per inaugurare la nuova sede di via Sirtori della Cgil. È stato anche l’albergo dei grandi pranzi risorgimentali e garibaldini. Il quarantesimo della battaglia di Mentana (1867) venne salutato dal banchetto di 150 commensali; ai reduci delle giubbe rosse parlarono, con vibranti interventi, il prof. Mario Cermenati e il sindaco, Giuseppe Ongania. Anche l’ascesa del 15 settembre 1895, sulle pendici del monte Resegone, per l’inaugurazione della Capanna “Stoppani”, primo rifugio del Cai Lecco, si concluse in serata al “Malta” con una memorabile cena. Il proprietario di allora, Albertini, preparò un menù eccezionale per autorità, rappresentanti del Cai, inviati dei quotidiani nazionali, signore della società lecchese, pionieri dell’alpinismo. È stato l’hotel dei soggiorni delle compagnie di prosa, di varietà e di rivista, che si sono esibite sul palcoscenico del vicino, prestigioso Teatro della Società. Emilia Negri Locatelli, della famiglia dei proprietari dell’albergo, ha conservato un eccezionale album di fotografie, con dediche e autografi, di grandi attori della prima metà del Novecento che hanno pernottato al “Malta” per gli spettacoli al Sociale.

La cartolina dell’albergo-ristorante “dell’Arpa”, nell’edificio di piazza Garibaldi che ora accoglie la Banca Popolare di Lecco. L’hotel ristorante “Croce di Malta” in una foto di fine Novecento, poco prima della sua chiusura, avvenuta nel 1993. La sua attività era iniziata nella prima metà dell’Ottocento, anche come rimessa di sosta per diligenze passeggeri e postali.

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Militare piemontese “di fanteria� in una rievocazione storica delle vicende risorgimentali 1848-1849.


CAPITOLO 3

Lecco città: 22 giugno 1848

L

e prime notizie di Milano in rivolta contro gli austriaci giunsero a Lecco nella mattinata del 18 marzo, portate da viaggiatori. Il mancato arrivo della diligenza pomeridiana da Milano (non era possibile uscire dalla città in quanto il comando militare austriaco aveva fatto chiudere le porte) diffuse maggiormente le voci del mattino. Numerosi cittadini si radunarono in piazza del Mercato e manifestarono sostegno alla rivolta milanese. L’aria difficile del momento venne subito intuita dalla guarnigione austriaca, formata dalla 10ª compagnia del reggimento Geppert che si chiuse in caserma. Analogo comportamento venne assunto dalla brigata dell’Imperial Gendarmeria. Nella serata del 18 ebbe inizio il reclutamento di volontari per la costituzione della guardia civica. Il giorno successivo, 19 marzo, altre notizie giunsero da Milano in rivolta. All’alba del giorno 20 il centro di Lecco vide un’imponente manifestazione popolare. Oltre diecimila persone, convenute anche dal territorio, manifestarono per i fatti di Milano, chiedendo la resa della guarnigione austriaca nel borgo. Il prevosto don Antonio Mascari e l’ing. Giuseppe Badoni, che diventerà il presidente del Comitato civico di Sicurezza Pubblica, trattarono la resa del reparto. Partiva verso Milano la prima colonna di volontari lecchesi: era formata da circa 150 uomini agli ordini di Cesare Grassi e Enrico Corti. Il Comita-

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Lo storico decreto del Governo provvisorio della Lombardia che il 22 giugno 1848 ha decretato la promozione del borgo di Lecco al rango di cittĂ .


Un altro decreto del Governo provvisorio della Lombardia insediato a Milano dopo i fatti insurrezionali delle Cinque Giornate del marzo 1848. Ăˆ il provvedimento che eleva a dogana la ricevitoria principale di Lecco.


Rievocazione storica delle barricate degli insorti milanesi contro gli austriaci nelle Cinque Giornate del 1848.

Bandiere di associazioni d’arma che si preparano alla sfilata per le vie del centro cittadino lecchese, nel 150° anniversario (1998) di Lecco divenuta cittĂ .

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to di sicurezza pubblica veniva composto da Giuseppe Badoni, Francesco Resinelli, Antonio Pestalozza, Ignazio Corti, Bartolomeo Spini, Filippo Riva, Francesco Mandelli, Giuseppe Romanelli, Carlo Marianini, Caio Gracco Ticozzi, Giuseppe Arrigoni e Giovanni Battista Ghislanzoni. La colonna di Corti e Grassi raggiungeva Monza il 21 marzo e contribuiva alla resa delle truppe austriache del locale presidio. Una seconda colonna di volontari, con 350 uomini, giunti anche dal lago e dalla Brianza, partiva da Lecco e si univa alla precedente alla periferia di Milano, partecipando vittoriosamente agli scontri di Porta Nuova e di Porta Comasina. Il Comitato civico di Lecco informava i cittadini tramite un bollettino, quotidianamente preparato dall’ingegner Giovanni Arrigoni con la collaborazione di Giovanni Battista Ghislanzoni. A metà del mese di aprile il Comitato di guerra di Milano ordinò ai reparti lecchesi, reduci dai combattimenti di Monza e di Milano, di vigilare la zona del Passo Stelvio. La neve ancora alta impediva, però, operazioni militari ad alta quota; i volontari lecchesi vennero, quindi, momentaneamente impegnati con alcune squadre della zona di Brescia. Nel mese di maggio si apriva il fronte dello Stelvio e una colonna di 163 lecchesi raggiunse Bormio per proseguire poi verso il passo. Il 3 giugno altri 40 uomini lasciavano Lecco diretti allo Stelvio. La larga partecipazione lecchese alla difesa dello Stelvio, per impedire la calata a valle di una armata austriaca, aumentò le benemerenze del borgo. Il Governo provvisorio di Lombardia, con decreto del 22 giugno 1848, promuoveva Lecco al rango di città “per il fervore con cui abbracciò la causa nazionale, per la perseveranza onde in ogni guisa la sostenne, mostrandosi pronta ad ogni maniera di sacrifici, per l’opera generosa posta a sussidiare d’uomini, d’armi, di provvigioni, il valoroso esercito italiano”. Mentre Lecco diveniva città, i reparti lecchesi combattevano allo Stelvio. Giunsero da Bormio, verso la fine di giugno, urgenti richieste di rinforzi, in quanto il nemico attaccava con disponibilità di uomini e di artiglieria. Un nuovo arruolamento per lo Stelvio venne subito aperto presso il portichetto della chiesa di santa Marta. Il 27 giugno, alla IV Cantoniera, un reparto lecchese combattè valorosamente e respinse un attacco austriaco. Una testimonianza dei lecchesi allo Stelvio appare nelle lettere che un giovane volontario, poco più che ventenne, Gioacchino Dalumi, figlio del pretore, inviava alle sorelle Antonietta, Maria, Amalia, figlie dell’orologiaio Rusconi. Gioacchino si rivolge nelle lettere a tutte le tre sorelle, ma usa espressioni particolari per Amalia, che doveva essere stata la sua fidanzata. Le missive descrivono le difficoltà in quella zona impervia ed isolata, la mancanza di viveri e di rifornimenti, i pericolosi servizi nelle pattuglie esploranti, gli scontri con le truppe tirolesi schierate dagli austriaci in prima linea. Le lettere, una ventina, sono state pubblicate da Ettore Bartolozzi nelle “Pagine di vita lecchese 1961”, nel contesto rievocativo del centenario dell’Unità d’Italia, in un servizio curato da Guglielmo Paolo Persi. Le sorti della guerra tra il Regno di Piemonte e gli austriaci, nel corso del mese di luglio, volsero purtroppo al peggio. Nei primi giorni di agosto gli austriaci erano alle porte di Milano; entravano in città il giorno 6, mentre l’esercito di

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Una panoramica del vecchio piazzale dei Mille, oggi piazza Antonio Stoppani, dopo l’inaugurazione del monumento all’abate geologo, avvenuta nell’autunno 1927. L’antica denominazione si deve alla vicinanza con la casa della famiglia Torri Tarelli.

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Militari austriaci durante la rievocazione storica del 1848 a Milano, un secolo e mezzo dopo.

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Carlo Alberto si ritirava verso il Ticino. Il 5 agosto i componenti più noti del Comitato di Sicurezza Pubblica lasciavano Lecco in barca, diretti a Menaggio, per raggiungere la Svizzera dove rimarranno in esilio. Gli austriaci si avvicinavano anche a Lecco. I reparti dei volontari lecchesi impegnati a difesa dello Stelvio combatterono per l’ultima volta l’11 agosto, iniziando subito dopo una rapida ritirata. Il Comitato di sicurezza, prima di cessare l’attività, aveva invitato i lecchesi ad accogliere senza manifestazioni ostili, temendo rappresaglie, il ritorno degli austriaci. Così avvenne. Il decreto di promozione a città venne subito abrogato dalle autorità austriache, ma fu solo una parentesi di undici anni. Nel 1859 tornò subito in vigore, dopo le decisive battaglie di Solferino e San Martino, per le sorti della Seconda Guerra d’Indipendenza nazionale e per l’aggregazione definitiva di Lecco al futuro Regno d’Italia. Lecco ha sempre, comunque, ricordato e celebrato l’anniversario a città con il decreto del 1848. Il centenario del 1948 venne festeggiato, per iniziativa del Comune, domenica 27 giugno. Dopo la messa in Basilica


si formò un corteo che raggiunse il monumento ai Caduti sul lungolago per un omaggio floreale. Il corteo si portò, quindi, in piazza Garibaldi, deponendo una corona d’alloro al monumento del condottiero dei Mille. Venne tenuto il discorso ufficiale del centenario dal prof. Luigi Colombo. Inviarono la loro adesione i sindaci di Como, Milano e Chiasso. Fra i presenti alla manifestazione, il sen. Enrico Falck e i parlamentari Celestino Ferrario e Gabriele Invernizzi. Lecco era senza sindaco, in quanto Giuseppe Mauri si era dimesso dopo le elezioni politiche del 18 aprile 1948, ritenendo il risultato del voto largamente sfavorevole alla Giunta in carica. C’era, quindi, in Comune il commissario prefettizio, in vista delle elezioni d’autunno, che portarono alla nomina del sindaco Ugo Bartesaghi. Le celebrazioni dei centodieci anni avvennero, invece, il 2 giugno 1958, quando venne posta la lapide che ricorda tuttora, sotto il portico del cortile centrale del municipio di piazza Diaz, la storica data del 1848, unendola al decennale della Costituzione repubblicana. Oratore ufficiale è stato il lecchese Aldo Rossi, presidente dell’amministrazione provinciale di Como. Lecco ricevette, in quell’occasione, la medaglia d’argento dei benemeriti della Pubblica Istruzione, affissa sul civico gonfalone. Il 120esimo del 1968 si concluse il 6 dicembre con la festa civica di San Nicolò e con il conferimento delle civiche benemerenze istituite l’anno precedente dal sindaco Alessandro Rusconi. Il discorso ufficiale venne tenuto dal prefetto di Como, Giovanni Zecchino. Venne inaugurato, nella ricorrenza, il nuovo arredamento della sala consiliare, con l’introduzione dell’impianto di amplificazione microfonica. Venne collocata presso gli uffici del sindaco la “tabella” con l’elenco dei primi cittadini dal 1848; elenco redatto dopo apposita ricerca negli archivi municipali. È l’elenco che da allora è stato sempre aggiornato con i sindaci via via eletti. La solenne celebrazione del 150esimo vide una staffetta con fiaccola partire nella notte di domenica 29 giugno 1998 dal museo del Risorgimento di via Borgonovo a Milano, dal cortile del settecentesco Palazzo Moriggia. Si alternarono lungo la sgambata di 57 chilometri verso Lecco, come tedofori, i camminatori di Pian Sciresa, ma non mancarono anche gli assessori comunali con Pinuccio Castelnuovo, Giulio De Capitani e Carlo Invernizzi. Alla cerimonia di partenza il Comune di Milano era rappresentato dal vicepresidente del consiglio comunale Stefano Di Martino e dal direttore del museo storico, Roberto Guerri. La staffetta raggiunse Lecco accolta al Ponte Vecchio e, da piazza Garibaldi, accompagnata verso il municipio, lungo via Cavour, dalla fanfara dei bersaglieri Guglielmo Colombo. Nel cortile del municipio erano in attesa, con il sindaco Lorenzo Bodega, le maggiori autorità civili e militari e le rappresentanze di associazioni varie.

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Lecco dall’alto, con panoramiche della città, cento anni dopo il fatidico 1848. Le due foto sono state riprese, rispettivamente, dall’alto del campanile del Santuario della Vittoria e dall’abitazione più alta di piazza XX Settembre, guardando alla Torre Viscontea, con il confinante edificio che è stato sede del Comune nell’Ottocento.


CAPITOLO 4

I fratelli garibaldini di Onno

L

e vicende del 1848 portano alla ribalta i cinque fratelli Torri Tarelli, nativi di Onno, ma lecchesi della contrada Maddalena, oggi via Torri Tarelli. Nelle battaglie risorgimentali, dalle Cinque giornate di Milano (1848) alla campagna del 1859, dalla spedizione dei Mille (1860) alla terza guerra di indipendenza (1866), i Torri Tarelli sono stati alfieri della terra lecchese. Ricordare Carlo, Battista, Tommaso, Giovanni e Giuseppe Torri Tarelli significa passare idealmente in rassegna i tanti lecchesi che si sono battuti per la libertà e l’unità della nazione. Carlo partecipò come garibaldino a tutte le campagne del Risorgimen, , to, dal 48-49 al 66-67. Insignito di menzione per il comportamento in combattimento nel 1859, venne promosso sottotenente e con questo grado prese parte alla spedizione dei Mille. Combattè a Calatafimi e a Palermo, dove il 27 maggio 1860 venne ferito a un ginocchio. Concluse la campagna nel regno delle Due Sicilie con il grado di capitano e una medaglia d’argento. Nel 1866 si distinse presso Bezzecca, respingendo, alla testa di pochi uomini, un attacco nemico il 21 luglio. Nel 1867 sarà a Mentana con il grado di maggiore. Ebbe poi incarichi diplomatici dal Regno d’Italia, addetto al Consolato italiano di Montevideo, dove operò intensamente per anni a favore dei compatrioti che si trovavano in quella zona sperduta e lontanissima dalla Patria italiana. Ritornato in Italia,

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La casa dei Torri Tarelli a Onno di Oliveto Lario, dove ebbero i natali i cinque fratelli garibaldini. Si affaccia sul vecchio porticciolo, davanti al nastro stradale del collegamento rivierasco da Lecco a Bellagio. L’edificio è ora proprietà di Gatti Tagliabue di Seregno, dopo essere stato delle sorelle Polti. Un garibaldino nel film storico di Rai Uno “Eravamo solo mille”, con la regia di Stefano Leali, che ha aperto le celebrazioni dei duecento anni della nascita di Giuseppe Garibaldi, avvenuta a Nizza, ancora italiana, il 4 luglio 1807.


si ritirò ad Onno: ricordava sovente le giornate garibaldine e risorgimentali. Morì a Onno, dove era nato nel 1832, il 14 dicembre 1887. Battista era studente in legge all’università di Pavia quando scoppiò la seconda guerra d’Indipendenza. Volontario nel 1° reggimento Granatieri di Sardegna, combattè sulle colline di San Martino. Nel 1860 raggiunse Quarto per salpare con Garibaldi alla volta della Sicilia. Per un inconveniente di viaggio Battista arrivò in ritardo e non gli fu possibile unirsi ai mille garibaldini, nelle cui file erano presenti i fratelli Carlo e Giuseppe. Si unirà alla successiva spedizione Medici, combattendo a Milazzo. Nel 1866 sarà in Trentino; l’anno successivo nell’Agro Romano, dove venne fatto prigioniero dalle truppe francesi schierate a difesa del Papa Re. Venne incarcerato a Roma e successivamente a Civitavecchia. Liberato, dopo qualche mese tornò a Lecco e scomparve, ultimo dei fratelli, nell’ottobre 1901. Giovanni, attivissimo cospiratore, non ebbe la gioia di salutare la Lombardia italiana. Nella primavera 1848, trasportando armi clandestine destinate all’insorta Milano, su una imbarcazione, da Malgrate a Lecco, scomparve nelle acque del lago improvvisamente agitate da un violentissimo temporale. Lasciava la giovanissima moglie in attesa del primo figlio. Armi e munizioni erano state nascoste sulla rocca di San Dionigi, a Parè, per essere distribuite agli insorti. Fu, appunto, trasportando il materiale bellico da Malgrate a Lecco che, a soli 22 anni, periva Giovanni Torri Tarelli. Era l’imbrunire del 4 maggio 1848 quando Giovanni, con tre amici fidati - Ferdinando Fondra, Battista Polti, Cesare Chiappini - mosse da un’imbarcazione dalla sponda malgratese con un carico che era stato occultato in grotte e buche della Rocca. Un vento improvviso e fortissimo si sollevò sul lago mentre i quattro patrioti remavano alla volta di Lecco. La barca, per il pesante carico che aveva a bordo, fu subito in difficoltà, mentre le condizioni atmosferiche peggioravano rapidamente. La situazione di grave pericolo venne notata sulla sponda lecchese, in località Maddalena, dalla riva dell’attuale piazza Stoppani. Venne dato l’allarme. Pescatori e barcaioli si mossero subito, nonostante il lago paurosamente mosso, in soccorso dei pericolanti. L’imbarcazione si era intanto rovesciata e i naufraghi lottavano disperatamente nelle acque del lago in attesa dei soccorsi. Fondra e Polti furono salvati, Torri Tarelli e Chiappini scomparvero inghiottiti dalle acque. Francesco Chiappini aveva solo diciotto anni, era di nazionalità svizzera ed era cuoco presso l’albergo Imperiale, poi Italia, sul lungolago lecchese, dove oggi si trova il “McDonald’s”. A temporale cessato, mentre le ombre della sera erano ormai calate sul lago, le acque vennero tristemente illuminate da lanterne e fiaccole di pescatori che cercavano sul fondo le salme dei due annegati. La ricerca fu inutile. Tommaso, divenuto poi ingegnere, è quello che tra i cinque fratelli presenta il curriculum garibaldino meno denso: partecipò solo alla campagna del 1859 come volontario in cavalleria. Giuseppe, nel 1859, alla notizia dei primi scontri tra gli austriaci e i piemontesi affiancati dai francesi, lasciò il seminario e si arruolò volontario. Nel 1860 è stato tra i primi a raggiungere Quarto, con il fratello Carlo. Nella battaglia alla periferia di Palermo, durante un assalto a un

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Il gruppo marmoreo della cappella di famiglia Torri Tarelli, nel cimitero monumentale di via Parini in Lecco.


trinceramento borbonico, venne colpito da un proiettile a un braccio. Giuseppe trascurò la ferita, limitandosi a medicazioni sommarie. Durante la marcia in Calabria la ferita divenne mortale per una complicazione infettiva. Ricoverato nell’ospedale di Catanzaro, Giuseppe morì per infezione incurabile. Venne decorato di medaglia d’argento alla memoria. Nell’estate 1991 Giuseppe Pupa, funzionario dirigente della Camera di Commercio in Lecco, nativo di Catanzaro, trascorrendo le vacanze nella città nativa, volle ricercare negli archivi comunali il certificato di morte di Giuseppe Torri Tarelli. Venne rintracciato con il determinante contributo dell’ufficiale di Stato Civile avvocato Giovanni Siciliano e del personale della ripartizione Servizi Demografici. Il documento menziona che Giuseppe Torri Tarelli, di 21 anni, tenente delle truppe garibaldine, è morto in Catanzaro il giorno 28 del mese di settembre dell’anno 1860. Giuseppe Pupa, ora in pensione, risiede a Valmadrera. Questi i cinque fratelli Torri Tarelli: Lecco non dimenticò il loro sacrificio. Già dopo la morte di Carlo, nel 1882, si era parlato di un ricordo marmoreo. La proposta tornò attuale dopo la scomparsa di Giovanni Battista nell’autunno 1901. Quasi trent’anni dovevano, però, trascorrere prima dell’inaugurazione della lapide, sul lungolago, nella via che ha preso il nome di Torri Tarelli, sulla facciata della casa paterna dei cinque fratelli. La cerimonia inaugurale ebbe luogo nel maggio 1930, con l’intervento di Ezio Garibaldi e alla presenza di due reduci dei Mille, che avevano superato i novant’anni: Luigi Bolis di Bergamo ed Enea Ellero di Pordenone. L’iniziativa si realizzò grazie al Dopolavoro Fratellanza Nazionale, divenuto poi, nel 1945, Circolo “Italo Casella” in ricordo di un caduto lecchese nei giorni della Liberazione della città. Il “Casella” ha chiuso i battenti

Il gruppo bronzeo con i cinque fratelli garibaldini Torri Tarelli, posizionato in alto alla lapide che li ricorda presso la casa di famiglia, nella vecchia contrada Maddalena. L’opera si deve allo scultore Angelo Mantegani. L’epigrafe della lapide è di Giovanni Bertacchi, il poeta delle Alpi.

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Il vecchio nucleo di Onno ripreso dal lago; si può osservare sulla destra la casa dei Torri Tarelli.

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Monumento al garibaldino nella spedizione dei Mille, per lo sbarco di Marsala.

sul finire del Novecento; l’edificio è stato demolito nei primi anni del Duemila e l’area occupata da un nuovo complesso residenziale. L’altorilievo in bronzo con i cinque fratelli garibaldini è opera dello scultore Angelo Mantegani. L’epigrafe della lapide si deve a Giovanni Bertacchi, il poeta delle Alpi, nativo di Chiavenna. La lapide tramanda ai posteri la memoria gloriosa dei cinque fratelli garibaldini Torri Tarelli, nelle vicinanze del monumento ad Antonio Stoppani (1927), alla statua a lago del patrono cittadino San Nicola (1955) e al candido memoriale dei marinai, fratelli caduti sulle acque (1986). La cappella della famiglia Nava-Torri Tarelli si trova nel cimitero monumentale di via Parini, presso il colonnato sul lato sinistro, entrando al cimitero stesso. Una lapide ricorda i Torri Tarelli presso la casa di Onno, che si affaccia sul piccolo porto della frazione del Comune di Oliveto Lario.

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CAPITOLO 5

Lecco italiana: 29 maggio 1859

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ecco proclamò la sua adesione al Regno piemontese sardo (il futuro Regno d’Italia) il 29 maggio 1859, durante una seduta straordinaria del consiglio comunale. La sera precedente un reparto di garibaldini era giunto in battello a Lecco da Como con il commissario regio, Emilio Visconti Venosta. Lecco era già insorta e arruolava volontari per i Cacciatori delle Alpi, le formazioni agli ordini di Giuseppe Garibaldi. Gli austriaci avevano rapidamente sgomberato il borgo dopo la sconfitta di San Fermo, avvenuta il 27 maggio, la battaglia che aveva consentito la liberazione di Como. Il consiglio comunale, convocato in seduta straordinaria, proclamò solennemente l’adesione di Lecco “al tanto desiderato Governo di Vittorio Emanuele II, incaricando la deputazione comunale di presentare l’atto di adesione al signor Emilio Visconti Venosta, nella sua qualità di commissario del Regno sardo”. Il 6 giugno arrivava Garibaldi e si stabiliva all’albergo “Croce di Malta”, dove avevano già preso residenza il commissario regio e gli ufficiali garibaldini della compagnia Ferrari. La permanenza dell’Eroe dei due mondi fu molto breve: la sera stessa ripartiva alla volta di Bergamo, dopo aver rivolto un entusiasmante appello ai volontari e alla popolazione dal balcone del “Croce di Malta”. Il 9 luglio (le sorti della guerra erano state decise a Solferino e San Martino il 24 giugno), con un decreto del governatore della Lombardia, Vigliani,

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Lecco riebbe il titolo di città, conferito nel giugno 1848 dal Governo insurrezionale milanese e abrogato dagli austriaci, il 18 agosto dello stesso anno. Il documento ricorda che nel decorso intervallo (1848-1859) “non solo si mantennero, ma crebbero, i titoli della popolazione anche pel vivo fervore onde continuò essa a propugnare la causa dell’italiana indipendenza”. In tale decennio Lecco aveva ottenuto l’ufficio telegrafico. Nel 18531854 un gruppo di commercianti si era rivolto alla Deputazione amministrativa civica per fare presente l’assoluto bisogno di una linea telegrafica da Bergamo a Lecco, con prolungamento sino a Chiavenna. La Deputazione amministrativa si rivolgeva all’Imperial Regia Luogotenenza di Lombardia e alla Direzione delle linee telegrafiche in Verona. L’esposto ricordava che “fra i paesi più commerciali e industriosi dell’alta Lombardia, il nominato borgo Lecco emerge assai, giacché vanta nel suo circondario 68 filatoi di seta, 7 filande con 3.486 fornelli, 34 fabbriche di ferro e rame con varie industrie di minore importanza”. L’esposto ricordava anche la posizione del borgo “ubicato in un punto centrico a quattro grandi comunicazioni, cioè il Lario e la Valtellina, colla Valsassina, col Bergamasco, il Milanese e la Brianza. Senza comunicazioni per battelli a vapore, per ferrovie, per telegrafi, Lecco resta come un paese ripudiato da questi frutti della civiltà moderna, quantunque aspiri e creda d’esser meritevole di parteciparvi. A Bergamo, a Monza, a Como giunge e passa il filo telegrafico: Lecco manca di questo beneficio e per tale mancanza si conosce esposto a qualche grave sorpresa nel traffico, specialmente delle sue produzioni di seta, che potrebbergli essere fatto dalle suindicate piazze”. L’autorizzazione per la sede telegrafica giunse nel 1855, anche se la visita di un Commissario ai telegrafi aveva accertato che non esistevano nel borgo locali erariali disponibili per il nuovo ufficio, con annesso alloggio dell’impiegato. L’edificio della pretura e quello della dogana di seconda classe erano interamente occupati, oltre che ritenuti poco idonei. La Deputazione comunale, in considerazione dei vantaggi di una installazione telegrafica, cercò i locali e si assunse l’onere dell’affitto sostituendosi all’apparato statale. Il 30 novembre 1855 veniva stipulato tra la Deputazione amministrativa di Lecco, rappresentata da Gerolamo Scola, Francesco Mandelli, Carlo Nava e i fratelli Angelo e Giovanni Curioni, un contratto d’affitto della durata di nove anni per un appartamento di cinque locali, più cantina e solaio, al primo piano dello stabile posto in Contrada Larga, oggi via Cavour, al civico 214. Era il medesimo edificio della sede municipale. Alla firma del contratto erano presenti il Commissario telegrafi Carlo Zelmi e il Commissario distrettuale di Lecco, Carlo Castoldi. La sede telegrafica fu pronta il 25 luglio 1856, mentre si lavorava a completare, come poi avvenne entro venti giorni, il collegamento con Chia-

Soldati piemontesi e austriaci nella rievocazione storica del film “La battaglia dei vinti”, con la regia di Vanni Vallino, dedicato alle vicende risorgimentali del 1848-1849.

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Alzabandiera italiana e francese presso il monumento dei Caduti, sul lungolago. Si alzano i vessilli dell’amicizia italo-francese, ricordando anche la decisiva campagna risorgimentale del 1859, che allontanò definitivamente gli austriaci dalla Lombardia.


venna e con il confine svizzero in località Castasegna in Val Bregaglia. Fra i lecchesi che si erano adoperati per avere nel borgo la sede telegrafica vi era Gerolamo Scola, deceduto poi il 15 febbraio 1867, all’età di 54 anni. Gerolamo Scola è sepolto nella chiesetta della Madonna Assunta presso villa Manzoni al Caleotto, acquistata dalla sua famiglia nel 1818, dopo la permanenza del Grande Lombardo. La lapide funebre ricorda “di gravi costumi generoso, a Lecco fu podestà integerrimo, per scrupolosa giustizia e bontà di cuore, amato e stimato dall’universale”. Nel 1861, con apposita legge, la prima domenica di giugno venne dichiarata festa nazionale commemorativa dell’Unità d’Italia e dello Statuto del Regno, proclamato da Carlo Alberto il 4 marzo 1848. Lecco ricordava questa data con la celebrazione di una messa solenne in Prepositurale e la sfilata dei reparti della Guardia Nazionale e del presidio. La festa nazionale del 1864 vide lo svolgimento della prima regata. L’iniziativa era del consiglio comunale, che aveva formato un’apposita commissione composta da Tommaso Torri Tarelli, Giovanni Battista Nava e Giuseppe Cima. Le modalità fissate per la regata prevedevano la partenza dalla riva di Malgrate; l’arrivo era fissato sulla sponda lecchese, all’altezza della piazza del Grano. Le gare erano riservate a residenti di Lecco e Malgrate. Una grande folla convenne sulle sponde del lago per assistere alla regata. Stefano Vassena e Pasquale Monti furono i vincitori della prima prova per barca con due uomini e due remi; fra i pescatori del rione Pescarenico si imposero Giuseppe Riva e Francesco Ghislanzoni. Nella gara delle barche con quattro remi la vittoria venne attribuita a tavolino all’equipaggio di Antonio Missaglia, Pasquale Colombo, Stefano Vassena e Luigi Morganti. Fra le prime istituzioni ottenute da Lecco nel Regno d’Italia, vi era stata nel 1862 la Camera di Commercio e Arti, con giurisdizione su tutto il territorio circostante. Presidente della Camera di Commercio ed Arti venne nominato il cav. Giuseppe Badoni, l’industriale che aveva guidato il Comitato di Sicurezza Pubblica del 1848. Il Consiglio della Camera era formato da Egidio Gavazzi, Giambattista Ghislanzoni, Salvatore Monti, Antonio Nava, Carlo Omboni, Luigi Stoppani, Francesco Resinelli e Antonio Scatti. Prima della Camera di Commercio, Lecco aveva salutato, il 10 e l’11 agosto 1861, il passaggio - con pernottamento al “Croce di Malta” - dei principi Umberto di Piemonte e Amedeo duca d’Aosta. Il sindaco Francesco Cornelio dispose l’illuminazione della piazza del Teatro, affidandola a Natale Mattarelli. Bandiere tricolori vennero esposte a balconi e finestre, mentre sempre il sindaco Cornelio invitava i concittadini ad accogliere gli illustri ospiti “con quella effusione di esultanza e di affetto che è ben dovuta ai figli del magnanimo nostro Re”. Non mancarono concerti, sfilate della Guardia nazionale e venne chiamato in città il Corpo musicale di Oggiono.

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Vecchia fotografia presso l’albergo-ristorante “Alberi”, dove oggi è tutto completamente trasformato.

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Cartolina rievocativa dei bersaglieri italiani dal 1836 al 1900, con indicate le località dei principali fatti d’arme che videro impegnati i fanti piumati. È conservata da Romeo Curti del ristorante “Al Pontile-Orestino”.

Lo stemma civico sul palazzo scolastico di via Ghislanzoni; non c’è, nella parta alta, la regia corona come invece appare sullo stemma del municipio di piazza Diaz.

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CAPITOLO 6

Gli Agudio di Malgrate

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el nuovo Stato, costituito dopo le vicende risorgimentali del 1859, è stato un malgratese il primo deputato al Parlamento nazionale del Regno per il collegio di Lecco-Introbio: era l’ingegner Tommaso Agudio. Una lapide sulla facciata del palazzo municipale di Malgrate, a breve distanza dalla riva del lago, ricorda Tommaso Agudio “ideatore ed esecutore della funicolare del rinomato colle di Superga”. Il palazzo è stato proprietà della famiglia Agudio, tante volte ricordata nella storia di Malgrate; poi è divenuto degli industriali lecchesi Aldè e ora, da diversi decenni, è sede municipale. È stato impegno di diverse amministrazioni civiche valorizzare il complesso, edificato oltre due secoli or sono. Il cortile acciottolato che si apre dopo il portico di ingresso e verso il giardino sopraelevato è divenuto da tempo “arena” di concerti e spettacoli estivi, con notevole effetto scenico. Il palazzo è pure indicato come residenza di Giuseppe Parini, quando fu ospite degli Agudio; ma l’abate poeta ha quasi sicuramente soggiornato nell’altro palazzo della famiglia, sul lungolago, poi divenuto Consonni. A Malgrate, nell’aprile 1827, nella sede municipale attuale, è nato Tommaso Agudio. Si distinse subito già in anni giovanili nello studio e nell’insegnamento. Il suo maggiore incarico professionale è stato quello di studiare l’ardito progetto per la rotaia che doveva raggiungere il colle di

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Superga, a Torino, muovendo dalla borgata Sassi. Si trattava di superare una distanza di 3.130 metri, con un dislivello di 419. L’incarico venne affidato a Tommaso nel 1877, mentre la realizzazione è del 1884. La carriera politica aveva avuto inizio molto prima, con le elezioni per il Parlamento nazionale del 25 marzo 1860. Si doveva eleggere il rappresentante del collegio Lecco-Introbio. Agudio si presentò candidato e la contesa elettorale fu subito ristretta fra lo stesso Agudio e Maurizio Gerbaix De Sonnaz, un maggiore generale di cavalleria che si era distinto sui campi del 1859. Le votazioni del marzo 1860 avvennero regolarmente. Gli elettori del collegio Lecco-Introbio andarono ai seggi allestiti presso tre sezioni: due erano a Lecco, la terza a Introbio. I due seggi elettorali cittadini furono collocati presso il Teatro Sociale di piazza Garibaldi: il primo in platea, con la presidenza del notaio Antonio Rappi, il secondo nella sala superiore del Teatro, con presidente Giovanni Campelli. Lo spoglio delle schede vide Agudio e De Sonnaz sempre divisi da pochi voti. Il conteggio finale indicò una leggera maggioranza per il generale di artiglieria. Si rese necessario il ballottaggio e i cittadini aventi diritto al voto tornarono alle urne il 29 marzo 1860. Questa volta Tommaso Agudio si impose nettamente, rovesciando la maggioranza ottenuta da De Sonnaz nella precedente consultazione. Ma la vicenda elettorale non era ancora conclusa con il ballottaggio. Quando Agudio si accorse che per il suo incarico di ingegnere all’Arsenale di Torino non avrebbe potuto essere eletto deputato, rassegnò immediatamente le dimissioni. Si tornò a votare il 6 maggio 1860, mentre nei seggi rimbalzavano le notizie che Garibaldi d i suoi volontari si erano concentrati sullo scoglio di Quarto a Genova e stavano per prendere il mare, con navigazione diretta in Sicilia per unire all’Italia le province meridionali del Regno dei Borboni. Nell’atmosfera dell’entusiasmo patriottico e garibaldino del maggio dei Mille, Tommaso Agudio fu confermato deputato ed entrò nel parlamento nazionale del Regno schierandosi tra i sostenitori del Governo presieduto dal conte Camillo Benso di Cavour. Nel campo professionale, dopo il successo della funicolare verso il colle di Superga, l’ingegner Agudio ebbe altri prestigiosi incarichi. Nel 1890 iniziò lo studio sul trasporto di energia elettrica in notevoli quantità attraverso le lunghe distanze. Nacque l’impianto idroelettrico del Moncenisio. Tommaso Agudio morì improvvisamente a Torino, dove aveva fissato residenza stabile, il 5 gennaio 1893, lasciando la consorte e cinque figli. Uno di questi, l’ingegner Paolo, sarà il progettista della teleferica che durante l’esposizione del 1911 a Torino (organizzata per celebrare il cinquantenario dell’Unità d’Italia) sorvolava il corso del Po.

Le due lapidi collocate sulla facciata di palazzo Agudio a Malgrate, sede del municipio.

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Il ponte Azzone Visconti verso Malgrate, con il panorama del Monte Barro. La località , appena oltre il ponte sul confine comunale tra Malgrate e Galbiate, era detta dai lecchesi San Michele per un albergo-ristorante con tale denominazione, funzionante sino agli anni ’60 del Novecento.

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La lapide di Malgrate risale al 1923, trent’anni dopo la scomparsa. Tommaso Agudio è preceduto nel testo della lapide dalla memoria del fratello Francesco “dottore illustre in ostetricia e ginecologia”. Nella zona di Torino, ma anche in Liguria, risiedono numerosi discendenti della famiglia Agudio. Nel 1994 sono stati invitati a Malgrate per iniziativa del sindaco Gianni Rota. Sono saliti nel palazzo lungo lo scalone d’onore, con volta a botte e rosoni in stucco, uno degli “angoli” più eleganti dell’edificio denso di serenità antica. È stata una rimpatriata di circa 40 Agudio, a vario titolo imparentati. Il gruppo era guidato dalla sorelle Maria Teresa e Vittoria Agudio che hanno portato al sindaco Gianni Rota e al Comune di Malgrate la riproduzione del bassorilievo di Tommaso Agudio che si trova presso il sepolcro del cimitero di Torino. Dal capoluogo piemontese, come da Roma, Rapallo e altri centri, gli Agudio sono tornati a Malgrate in quel raduno del 1994, sull’onda dei ricordi della famiglia che divenne potente con il commercio e la produzione della seta. Gli Agudio, oltre ai commerci e ai traffici, avevano una grande attenzione per le lettere, le scienze, le arti. Così, nel casato familiare a Malgrate, si ricorda il canonico Candido Giuseppe, mecenate e amico dell’abate Giuseppe Parini.

Foto di gruppo al raduno degli eredi Agudio promosso dal sindaco Gianni Rota, nel 1994, a Malgrate. Incontro nel municipio il 28 aprile 1997, nel trentennale della scomparsa dell’inventore Pietro Vassena. Si nota in primo piano il modellino dell’eccezionale sommergibile tascabile C3, la più nota realizzazione dell’inventore malgratese, che stabilì un record di profondità nelle acque lariane di Argegno Nesso. Si riconoscono nella foto, da sinistra, Giuseppe Crippa, il prefetto Pietro Marcellino, Angelo Vassena figlio dell’inventore, il sindaco di Malgrate Gianni Rota, il questore Giovanni Selmin, il presidente della Canottieri Lecco Marco Cariboni e in primo piano Gianfranco Vassena, altro figlio dell’inventore.

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Una processione negli anni Cinquanta in corso Monte Ortigara, a Laorca.

La visita pastorale del cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano (lo si vede sotto il baldacchino), nel 1946 a Laorca.

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CAPITOLO 7

Il battaglione della Guardia ad Ancona e la votazione di Laorca 1861

U

na pagina sconosciuta della storia lecchese riguarda la spedizione ad Ancona, per servizio di ordine pubblico, del Battaglione Mobile del circondario della Guardia nazionale, nel febbraio 1861. La Guardia nazionale era stata costituita in Lombardia, con il Governo provvisorio delle giornate del 1848, fedele al motto “Tutto il popolo in armi per difendere la Patria”. Dopo la definitiva liberazione dall’Impero austriaco, nel 1859, anche le amministrazioni civiche della zona lecchese avevano provveduto a costituire reparti della Guardia nazionale. Ogni comune aveva, solitamente, almeno una compagnia. Si trattava di reclutare e di inquadrare militarmente un centinaio di uomini, nell’età compresa tra i 18 e i 60 anni. Esistevano poi i Battaglioni Mobili, formati da cittadini tra il 20esimo e il 40esimo anno di età. I Prefetti assegnavano a ciascun comune un contingente fisso per il battaglione del proprio circondario. Gli elementi migliori venivano selezionati e messi a disposizione del reparto di pronto impiego. Un battaglione era formato da 4 a 6 compagnie, con una forza variabile da 400 a 600 uomini. Il circondario di Lecco riguardava anche i comuni della zona di Introbio, Oggiono, Brivio, Missaglia e Canzo. Tutti i comuni lecchesi avevano, quindi, qualche rappresentante nel reparto che venne mobilitato da ordini superiori, provenienti dal ministero della Guerra, in accordo con quello dell’Interno, all’inizio del 1861.

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L’Intendente Francione, l’11 febbraio 1861, salutava a Lecco con un vibrante discorso il battaglione del circondario in partenza per Ancona. Il battaglione raggiungeva Como, in piroscafo, il giorno 11 e proseguiva subito, in ferrovia, sino a Milano. C’è da ricordare che nel 1861 Lecco non aveva ancora un collegamento ferroviario; il primo è del 1863, con Bergamo. Il viaggio del battaglione proseguiva per Bologna, Imola, Faenza, Forlì, Cesena e Rimini, con giornata di sosta e di riposo il 18 febbraio. Il battaglione ripartiva da Rimini il 19 per raggiungere Pesaro, Fano, Senigallia e arrivare ad Ancona alle ore 15 del 22 febbraio. Un rapporto del comandante maggiore Giovanni Bertolè riferiva: “Favorito dal bel tempo, il battaglione marciava serrato e lesto come a una breve passeggiata militare e sempre con quella giovialità e con quel brio che è proprio caratteristico dei nostri terrieri. Lo stato sanitario fu letteralmente perfetto, la disciplina, il buon accordo ed il generale contegno dei militari tali da ben meritarsi le lodi delle varie autorità”. Il battaglione prendeva servizio ad Ancona il 24 febbraio, affiancato da un’altra unità mobilitata della Guardia nazionale, quella del circondario di Alba in Piemonte. La popolazione lecchese veniva informata sull’attività del battaglione con i dispacci telegrafici del maggiore Bertolè. Queste comunicazioni venivano affisse all’albo pretorio di ogni comune. I battaglioni di Lecco e di Alba cessarono di formare il presidio della Guarda nazionale il 25 marzo 1861, con un ordine del giorno del comandante militare delle Marche, generale Rosselli. I reparti vennero sostituiti con la Brigata Parma. La giornata della partenza fu densa di saluti e di elogi. Il municipio di Ancona rendeva noto un proclama dove affermava “che ricorderà sempre con affetto i giorni che avete qui passato, perché questi contribuirono a stringere i vincoli di fraterno amore e di stima verace con i figli di altre città che hanno comuni le speranze e le glorie”. I reparti della Guardia nazionale rientrarono a Lecco il 9 aprile. Nei vari comuni sindaci, assessori, autorità tutte organizzarono pubbliche manifestazioni di riconoscimento ai reduci della spedizione marchigiana. Prima del battaglione ad Ancona, nel gennaio 1861, il territorio lecchese aveva visto il singolare referendum popolare nella parrocchia dei santi Pietro e Paolo, in Laorca. Domenica 13 gennaio i capifamiglia andarono a votare intorno a un argomento che non mancava, in quell’epoca, di suscitare discussioni e divergenze: era la divisione per sesso dei fedeli in chiesa.

Il monumento ai Caduti di Ancona, la città marchigiana dove, nella primavera 1861, operò il battaglione mobile della Guardia Nazionale di Lecco e circondario. Una panoramica del vecchio nucleo di Laorca, sotto la neve, com’era quella domenica del 13 gennaio 1861, quando avvenne il referendum popolare dei fedeli.

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Panoramica del vecchio nucleo di Laorca, comune sino al 1째 marzo 1924.

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Con l’inizio del nuovo anno 1861, a Laorca la sistemazione dei fedeli in chiesa era stata proposta in questi termini: gli uomini avrebbero occupato per tutta la lunghezza la navata destra della chiesa, mentre le donne avrebbero dovuto prendere posto a sinistra. Alcuni parrocchiani avevano sollevato perplessità e pareri contrari alla progettata divisione e dal parroco, don Francesco Arrigoni, era partita l’iniziativa di chiamare a raccolta i capifamiglia e di chiedere il parere di tutti intorno al nuovo ordinamento, per non imporre una decisione non condivisa dalla maggioranza della popolazione. Il referendum era stato portato a conoscenza della giunta municipale di Laorca (allora Comune e lo sarà sino al 1923-24). Gli amministratori avevano subito comunicato al parroco adesione e collaborazione, incaricando il cursore (l’odierno messo notificatore) di distribuire a tutte le famiglie una scheda per la votazione. La riunione plenaria in parrocchiale venne fissata alle ore 13 di domenica 13 gennaio 1861, annunciata dal pulpito durante le messe e preceduta dal suono festoso delle campane. I capifamiglia avrebbero consegnato le schede votate, vi sarebbero state le operazioni di scrutinio e la conseguente proclamazione dei risultati. La regolarità della votazione era assicurata dalla presenza, nella chiesa parrocchiale, del sindaco Giovanni Bolis, dell’assessore anziano Francesco Barone, del sottoassessore Giovanni Battista Spreafico, dei fabbricieri Giacomo Spreafico, Angelo Barone e Giuseppe Chiesa, con il segretario comunale Francesco Meles. La votazione avvenne per chiamata, famiglia per famiglia, secondo la numerazione delle case. Le operazioni non durarono oltre due ore, in quanto vennero concluse, con verbale, alle 15, dopo aver avuto inizio alle 13. Votarono i rappresentanti di 194 famiglie. Le schede favorevoli alla “proposta novità” furono 177, le contrarie solo 17. Una schiacciante maggioranza si schierò, quindi, per la divisione dei fedeli nella parrocchiale.

La vallata industriale del Gerenzone, appena sotto il ponte di Malavedo. Il vecchio lavatoio sul sentiero verso Pomedo, sopra Laorca.

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L’antica colonna “dei crapuni”, sul sagrato della parrocchiale di Laorca. La piazza ha assunto la denominazione “Giovanni Paolo II” dal luglio 2006, con una cerimonia che ha visto l’intervento del cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano.


CAPITOLO 8

1863: Castello sopra Lecco

I

l Comune di Castello divenne “Castello sopra Lecco” con Regio Decreto dell’8 febbraio 1863, firmato da Vittorio Emanuele II di Savoia. Il consistente Comune, compreso nell’allora Mandamento di Lecco, aveva rischiato di dover cambiare denominazione. Il Regno d’Italia, di fresca proclamazione (1861), aveva dovuto affrontare tra i numerosi problemi della unificazione di territori che andavano dalla Lombardia alla Sicilia, anche quello dei troppi Comuni con uguale denominazione. Il ministro dell’Interno, nell’estate 1862, aveva fatto pervenire disposizioni a tutte le Prefettura del Regno, sottolineando che “l’identità di nome che si riscontra in parecchi Comuni è spesso causa di equivoci e di imbarazzi per i privati, come per le pubbliche amministrazioni. A togliere un tale inconveniente basterebbe che le rappresentanze di quei Comuni deliberassero, se non di cambiare l’attuale denominazione, almeno di fare qualche aggiunta, che si potrebbe desumere dalla speciale situazione di ciascun Comune, secondo che si trova in monte o al piano, al mare o con un fiume o torrente”. I notabili di Castello furono contrari a una modifica radicale del nome, anche se la Prefettura aveva fatto ufficiosamente notare che meglio sarebbe stato lasciare il nome di Castello a centri con antiche rocche o manieri. La proposta avanzata di trovare il nuovo nome in Arlenico, il nucleo più importante del territorio comunale dopo quello centrale, incontrò

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La fontana sul sagrato della parrocchiale di Castello, con la statua di San Giovanni Nepomuceno. Il restauro è stato promosso nel 1996 dall’Associazione ex allievi Liceo Classico Manzoni di Lecco con il presidente Pietro Sala. Il progetto è di Bruno Bianchi, con la collaborazione di Roberto Spreafico e di Giacomo Luzzana. La piazza è dedicata alla memoria del tenente pilota Antonio Dell’Oro, decorato di medaglia d’oro, caduto in missione di volo.


scarse adesioni. I maggiorenti del tempo non si soffermarono a considerare le origini e le vicende della zona oltre il corso del Gerenzone vicina al seminario diocesano (che nel 1862 era però già chiuso da oltre vent’anni) e quasi alle prime propaggini del Monte San Martino. Gli amministratori di Castello guardarono, invece, intorno per cercare fiume o monte da affiancare al nome già esistente. La scelta era difficile in quanto il territorio non presentava corsi d’acqua di rilievo (Gerenzone al massimo) e tantomeno vette maestose (confinava a nord-est con il colle di Santo Stefano). Il 26 ottobre 1862 il consiglio comunale di Castello si riuniva con la presidenza del sindaco Angelo Ticozzi, presenti sette consiglieri. Il sindaco invitava ad esprimere, con voto segreto su apposita scheda, la proposta di ciascuno per il nuovo nome. Lo spoglio delle schede manifestò, con voto unanime, l’intenzione già manifestata dalla popolazione di mantenere il nome di Castello aggiungendovi “sopra Lecco”. I consiglieri comunali che vollero mantenere la denominazione Castello sono stati, oltre al sindaco Ticozzi, Francesco Brini, Paolo Cantù, Giuseppe Badoni, Carlo Sirtori, Antonio Gattinoni, Giuseppe Manzoni fu Paolo e Giuseppe Sacchi. Ritenuto l’argomento di particolare importanza per la comunità, i consiglieri presenti alla riunione del 26 ottobre decidevano di rinviare a nuova seduta la delibera definitiva sulla denominazione comunale, auspicando la presenza del maggior numero possibile di membri del civico consesso. Il consiglio comunale di Castello tornava a riunirsi il 2 novembre, confermando a pieni voti, presenti il sindaco e otto consiglieri, la proposta già avanzata. Quattro mesi dopo, nel febbraio 1863, il decreto del Re giungeva ad autorizzare ufficialmente “Castello sopra Lecco”, che tale rimase sino all’unificazione con Lecco, divenuta operativa il 1° marzo 1924, quando il Comune risultava il più popoloso del Lecchese, dopo la città capoluogo, arrivando a una popolazione di 5.211 abitanti. Nel frattempo, il 1° gennaio 1870, Castello aveva assorbito il Comune di Olate, che allungava il suo territorio comunale nella valle del Gerenzone, sino al minuscolo abitato di Bonacina. Olate era un piccolo Comune. Il censimento del Regno d’Italia del 1862 aveva registrato 544 abitanti. Modeste erano le disponibilità finanziarie. Il passivo del bilancio civico era il principale motivo che aveva spinto i consiglieri comunali di Olate a chiedere la soppressione del Comune e l’unione a Castello sopra Lecco, con delibera del 24 marzo 1867. Castello non riservò, comunque, entusiasmo alla decisione di Olate di chiedere l’unione. I debiti del confinante Comune, anche se non molto pesanti, frenavano le pur esistenti aspirazioni di allargare la cerchia di giurisdizione municipale. Il Consiglio di Castello, nella seduta del 10 settembre 1868, con il sindaco ingegner Paolo Cantù, approvò, comunque, di formare un solo Comune con Olate e di concorrere all’estinzione delle passività, costituendo le rappresentanze consiliari del nuovo ente sulla base del numero degli abitanti dei rispettivi due nuclei.

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Cartolina del vecchio Comune di Castello sopra Lecco, assorbito dalla “Grande Lecco” il 1° marzo 1924.

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Una visione panoramica del giardino di palazzo Belgioioso, durante la cerimonia inaugurale del 1955, con il sindaco Luigi Colombo, che destinava a giardino pubblico la vasta area verde del complesso.


La lapide sulla fontana di San Giovanni Nepomuceno, voluta dai terrieri di Castello nella celebrazione della prima festa del Regno d’Italia.

Nella seduta dell’8 settembre 1869 il consiglio provinciale di Como aveva espresso parere favorevole alle delibere assunte dai due Comuni in merito all’unificazione. Re Vittorio Emanuele II, il 10 ottobre 1869, firmava il decreto che al punto primo stabiliva: “A partire dal 1° gennaio 1870 il Comune di Olate è soppresso ed unito a quello di Castello sopra Lecco”. L’ultimo manifesto della giunta municipale di Olate è stato reso noto il 26 novembre 1869. Comunicava ai cittadini l’ormai prevista soppressione del Comune e informava che domenica 12 dicembre 1869, alle ore 10, nella sala consiliare avrebbero avuto svolgimento le elezioni per nominare i quattro rappresentanti della frazione di Olate nel consiglio comunale di Castello sopra Lecco. Vennero eletti: Giuseppe Rizzeri, Lorenzo Fumagalli, Carlo Gattinoni ed Antonio Manzoni. Uno dei quattro nuovi consiglieri di Castello, Lorenzo Fumagalli, possidente di 55 anni, era stato l’ultimo sindaco di Olate. 81


La piazza di Castello, con il tram della linea Malavedo-Maggianico. Sotto, il porticato centrale del settecentesco ex seminario diocesano restaurato ad abitazioni civili, dopo avere ospitato anche trafilerie. I lecchesi chiamano ancora la localitĂ Seminario.


CAPITOLO 9

1869: Maggianico Comune

E

ra la primavera del 1869 quando i Comuni di Belledo e di Chiuso si unirono per formare Maggianico. Ultimo ad apparire alla ribalta dei municipi del Lecchese, Maggianico è stato pure l’ultimo a essere unificato nella “Grande Lecco”, nel 1928. Il rione di Belledo aveva anticipato il capoluogo passando con la città nel 1924. Non è stata semplice la fusione dei due Comuni di Belledo e di Chiuso, avviata nel 1866 e conclusa appunto nel 1869. Il decreto di Vittorio Emanuele II reca la data del 24 gennaio 1869, emesso in Firenze, allora capitale del Regno. Il documento stabiliva che dal 1° aprile 1869 i Comuni di Belledo e di Chiuso fossero riuniti in uno solo, con il nome di Maggianico. Le opposizioni maggiori alla fusione vennero da Chiuso, che contava 334 abitanti. Il consiglio comunale di Chiuso votò due volte contro l’unificazione: il 17 giugno 1866 e il 5 maggio 1867. Belledo era più consistente di Chiuso, arrivando a 1.267 abitanti. Era, però, un singolare comune come collocazione geografica e residenziale. Il capoluogo contava solo 189 abitanti ed era il vecchio nucleo di Belledo, che si trova oggi vicino alla parrocchiale costruita nel 1904 e che allora aveva come chiesa l’attuale di Sant’Alessandro al cimitero, confinante con il complesso industriale Fiocchi, sorto nel 1876. Belledo aveva la frazione Maggianico con 498 residenti e quello di Barco con 383. Il territorio municipale comprendeva poi due altri nuclei

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Cartolina del Comune di Maggianico, l’ultimo municipio a essere assorbito dalla “Grande Lecco” nel 1927.

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residenziali ed erano Missirano con 165 abitanti e Gaggianico con 42. Il nucleo rurale di Gaggianico è scomparso nel 1955, assorbito dall’ampliamento della Fiocchi Munizioni, nella parte alta di viale Valsugana. Due frazioni di Belledo, Maggianico e Barco, erano quindi ben più popolose del capoluogo; ma non solo Maggianico, dal 1567 aveva la parrocchia di Sant’Andrea che comprendeva anche Belledo. L’unificazione municipale arrivò, comunque, nonostante l’opposizione di Chiuso, che presentava un bilancio quasi insufficiente a sostenere perfino le spese obbligatorie. Belledo era un piccolo nucleo isolato, relegato in una posizione secondaria sotto le prime pendici del Magnodeno, decentrato rispetto alle direttrici di traffico e di commercio, ormai consolidate con strada e ferrovia. Maggianico era, invece, in continua crescita, posizionato sulla provinciale e sulla linea ferroviaria per Bergamo, con i binari della prima linea nel Lecchese, inaugurata nel 1863. La soluzione migliore apparve, quindi, quella di sciogliere i due piccoli Comuni esistenti e di costituire un nuovo ente locale con sede in Maggianico. Il consiglio comunale di Belledo, nella riunione del 6 ottobre 1867 con il sindaco Ulisse Ghislanzoni, approvò la fusione con Maggianico. La delibera di Chiuso arrivò, invece, nell’estate successiva, il 1° giugno 1868, quando l’opposizione interna era stata numericamente ridotta, ma ancora presente e vivace. I consiglieri Pietro Valsecchi fu Bortolo, Pietro Valsecchi fu Battista, Severino Ghislanzoni e Celestino Castagna abbandonarono l’aula in segno di protesta quando giunse la votazione per l’aggregazione. I voti favorevoli furono solo cinque: il sindaco Francesco Brini, i consiglieri Vittorino Campelli, Angelo Chea, Luigi Frigerio e Gerolamo Laini. I sindaci di Belledo e Chiuso, Ghislanzoni e Brini convocarono con la Sottoprefettura di Lecco l’assemblea per il nuovo consiglio comunale di Maggianico. Venne decisa la data del 14 marzo 1869, nell’oratorio di San Rocco in Barco. Il seggio elettorale venne presieduto dal sindaco di Belledo, Ulisse Ghislanzoni, in quanto primo cittadino del Comune più numeroso. Ulisse Ghislanzoni venne eletto primo sindaco di Maggianico e ricoprì tale carica sino all’agosto del 1872. I quindici nuovi consiglieri di Maggianico sono stati Giuseppe Bellingardi, Mosè Bolis, Francesco Brini, Vittorino Campelli, Celestino Castagna, Severino Chea, Giuseppe Delazzari, Giovanni Figini, Giovanni Genazzini, Giuseppe Ghislanzoni, Filippo Ghislanzoni, Giuseppe Invernizzi, Angelo Pattarini, Vincenzo Perego e Luigi Todeschini.

L’ottocentesca villa Gomes, che risale al periodo migliore della bella Maggianico, con i soggiorni della Scapigliatura lombarda, ora di proprietà comunale, sede della civica scuola di musica “Giuseppe Zelioli”, dopo il restauro promosso dal Comune di Lecco nel 1979-1980. L’ex albergo termale Albertini, in via alla Fonte, che ebbe grande richiamo nella seconda metà dell’Ottocento e che vide il soggiorno di esponenti illustri della musica, della cultura e dell’arte. Ora ospita una comunità delle suore di Maria Bambina.

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Si tornò a parlare del Comune di Maggianico tra il 1880 al 1889, quando il casello 34 della linea ferroviaria Lecco-Bergamo, ma anche del primo tratto verso Milano, divenne una vera e propria stazione ferroviaria, anche con scalo merci. Il sindaco di Maggianico, Giovanni Genazzini, era più volte intervenuto a livello ministeriale e governativo per ottenere la stazione ferroviaria, approfittando anche dell’avvocato Mario Martelli, deputato al Parlamento, residente a Milano, ma abituale frequentatore di Maggianico, dove possedeva una bella villa. Il 4 agosto 1882, nello studio del notaio lecchese Resinelli, veniva stipulata la convenzione tra le Ferrovie e il Comune di Maggianico, rappresentati rispettivamente dall’ingegner Ercole Bonacossa e dal sindaco Genazzini. La convenzione prevedeva da parte delle Ferrovie i lavori di ampliamento del casello 34 per costruire una sala d’aspetto. Il Comune avrebbe contribuito con 800 lire alla spesa complessiva di 4.000. Le Ferrovie si impegnavano a far sostare a Maggianico tutti i treni della stagione estiva e un numero non inferiore a tre al giorno, in ciascuna delle due direzioni, durante il periodo invernale. Nel 1888 le Ferrovie non solo dotarono la stazione di Maggianico di banchine di sosta e di arrivo nonché di nuovi locali, ma anche realizzarono uno scalo merci. La realizzazione della stazione ferroviaria a Maggianico è stata particolarmente legata al boom turistico di quel periodo, con la fonte dell’acqua solforosa di Barco e con la località divenuta ritrovo della Scapigliatura lombarda. C’erano le ville di Amilcare Ponchielli, Carlos Gomes, il palazzo Martelli, il ristorante del Davide, l’albergo termale Albertini, oggi sede di una comunità delle suore di Maria Bambina, e le “brigate” di amici guidate dal lecchese Antonio Ghislanzoni, il librettista dell’“Aida” di Giuseppe Verdi.

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L’oratorio di San Rocco in Barco, dove il 14 marzo 1869 vennero convocati i comizi elettorali per costituire il nuovo Comune di Maggianico, cancellando gli esistenti Belledo e Chiuso. Lo stemma civico del Comune di Maggianico.

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Il ponte stradale della Vittoria, in territorio comunale di Cremeno, sul vallone del Pioverna, realizzato nel 1925, nel decennale della Grande Guerra del 1915-1918, che vide l’intervento dell’Italia il 24 maggio. Il nuovo ardito ponte venne realizzato quando ormai era tramontato il progetto della ferrovia.


CAPITOLO 10

La ferrovia verso la Valsassina e le corriere della Sal

I

l progetto di una linea ferroviaria da Lecco a Ballabio e poi per tutta la Valsassina fino a Taceno fu ripetutamente alla ribalta nell’ultimo decennio dell’Ottocento e nel primo del Novecento. Diversi Comuni del Lecchese guardarono con molta attenzione alla realizzazione della linea, sperando di poter avere nel territorio municipale la strada ferrata e anche la relativa stazione. Fu il caso di Germanedo, Acquate, Castello sopra Lecco, San Giovanni alla Castagna, Rancio e Laorca. Lecco aveva avuto il primo tronco ferroviario nel 1863, con Bergamo, e dieci anni dopo la linea con Monza. Sono stati successivi i collegamenti con Como, nel 1888, e con Colico nel 1894. Il 21 aprile 1888, a Introbio, si riunivano tutti i sindaci dei 23 Comuni del Mandamento per rendere note le proprie determinazioni sulla domanda che era stata avanzata il 30 gennaio precedente dall’Ispettorato generale delle strade ferrate di Roma. La domanda richiedeva la concessione di una ferrovia da Lecco a Taceno, con riferimento a una legge del luglio 1887. I sindaci valsassinesi decisero la costituzione di un consorzio per la costruzione della ferrovia, chiamando a raccolta tutti i Comuni valligiani, compresi minuscoli centri come Barcone, Pessina, Baiedo, Concenedo, Indovero, che ormai da tanti decenni non sono più municipi. L’esecutivo del consorzio veniva formato con i sindaci Candido Artusi di Introbio, Giovanni Malugani di Crandola, Domenico Baruffaldi di Bar-

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zio, Bortolo Benedetti di Cortenova, e composto anche dal notaio Paolo Staurenghi e dagli ingegneri Angelo Manzoni e Giovanni Battista Scuri. Venne formulato voto favorevole alla possibilità di costruire una linea ferroviaria in Valsassina, partendo dalla stazione di Lecco e toccando Germanedo, Acquate, Laorca e Ballabio, per poi raggiungere Taceno. Il primo progetto venne predisposto nel marzo 1890. La partenza era fissata dalla stazione di Lecco: il tracciato raggiungeva Germanedo, Acquate, San Giovanni alla Castagna e Laorca. In quest’ultimo Comune la ferrovia entrava in galleria per cinque chilometri e usciva in località Balisio, per poi percorrere tutta la valle sino a Taceno. La galleria aveva, però, il difetto di “saltare” il Comune di Ballabio Inferiore, sede di importanti casere, con relativo commercio di formaggi. Un nuovo progetto venne elaborato nel 1891 dall’ingegner Alessandro Ferretti. Il progetto Ferretti prevedeva sempre la partenza dalla stazione ferroviaria di Lecco, ma con un tracciato diverso dal precedente attraverso Castello, Olate (zona dell’attuale incrocio viale Rimembranze con via Caldone), Cavalesine di San Giovanni, Varigione sino a Malavedo (dove era prevista una stazione) e, da quest’ultima località, lungo i pendii del Monte Albano. La funicolare da Lecco sarebbe terminata con la stazione e la rimessa vetture presso case Locatelli in Ballabio Inferiore, l’attuale via Mazzini. Una galleria lunga duecento metri era prevista in località Val Pozza, tra Laorca e Ballabio. Il progetto Ferretti trovò consensi e dissensi, ma non venne realizzato. Nel primo decennio del Novecento un nuovo comitato per la ferrovia della Valsassina venne costituito presso la Camera di Commercio di Lecco. Era presieduto dal sindaco Giuseppe Ongania, con vicepresidente Giorgio Enrico Falck. Il 6 ottobre 1910 veniva resa nota una dettagliata relazione sul nuovo progetto per la strada ferrata da Lecco alla Valsassina. La ferrovia doveva essere, secondo il Magnocavallo, una tramvia di montagna a corrente continua, con filo aereo e scartamento di un metro. Il nuovo progetto prevedeva la partenza dall’imbarcadero di Lecco, raggiungendo poi lo scalo ferroviario in piazza Muzzi (oggi Salvatore Sassi), con fermata passeggeri sul piazzale dell’attuale stazione ferroviaria. La linea avrebbe poi percorso via Volta, proseguendo lungo la provinciale della Valsassina sino a Ballabio Inferiore e a Balisio. In quest’ultima località si sarebbe divisa in due distinti tronchi: il primo scendeva verso Pasturo, l’altro saliva verso Maggio, raggiungendo l’altipiano Cremeno-Barzio, con la costruzione di un ponte sulla valle di Cremeno, quello che oggi è il ponte stradale della Vittoria, inaugurato nel 1925 e dedicato alla memoria dei Caduti della Grande Guerra 1915-1918.

L’albergo Ballabio, dove era prevista una piccola stazione della ferrovia Lecco-Valsassina. Panoramica delle Terme di Tartavalle, nel pianoro lungo il Pioverna vicino a Taceno, dove, secondo un progetto, vi sarebbe stata la stazione capolinea della ferrovia.

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Ballabio Inferiore, con in primo piano la chiesa parrocchiale di San Lorenzo, consacrata nel 1936, che appare nella fotografia non ancora completata. Si nota il campanile della vecchia parrocchiale, poi demolita, nell’area dell’attuale piazza San Lorenzo.


Il valico di Balisio, dove i binari della ferrovia sarebbero passati prima di scendere verso Pasturo-Introbio, lungo il solco vallivo del Pioverna, imboccando anche una galleria presso Casale Balisio, con l’antica chiesetta di Sant’Anna.


La Sal di ieri e di oggi, nell’incontro per il centenario delle corriere da Lecco alla Valsassina: 1907 - 2007. Al centro della foto si riconosce l’ingegner Reale Villa.

La spesa richiesta per il progetto era notevolissima. Nel 1907, intanto, era sorta la Sal, che organizzava la prima linea “corriere” da Lecco a Taceno, con fermata in località Ponte Folla, per gli abitanti della zona di Barzio. Un autobus Sal, a nove posti, aveva inaugurato nel luglio 1907 la linea, arrivando a Introbio dopo quaranta minuti e a Taceno dopo un’ora dalla partenza da Lecco. Nel 1924 aveva inizio una nuova linea da Lecco a Barzio. La prima vettura Sal disponeva di soli sei posti, ma venne subito sostituita con automezzo più capace. La nuova corriera della Società Automobilistica Lecchese è stato un avvenimento importante di valorizzazione turistica, mentre Barzio stava divenendo nota come “montagna di Milano”. Un potenziamento ulteriore delle linee valsassinesi avvenne nel 1930, con l’arrivo a Lecco, come direttore tecnico della Sal, del cavalier Vincenzo Villa, nativo di Bergamo, scomparso a 97 anni nel 1990. É la figura storica della Sal che lega il nome della famiglia Villa alla società, nella persona poi dell’ingegner Reale Villa, divenuto presidente dell’Azienda Turismo di Barzio e console del Touring Club Italiano.

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CAPITOLO 11

Re Carnevalone 1884

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el primo Carnevalone lecchese, 1884, ben poco ricordo - ha scritto Giuseppe Milani nella sua pubblicazione del 1938 sulla città di Lecco di mezzo secolo prima - Ho nella mente la visione confusa di una gran folla, che si pigiava intorno ai carri, sui quali erano maschere che battagliavano con dame e cavalieri alle finestre. La ressa maggiore era in via Roma, sotto la terrazza del ristorante Borsino, dove le armi della contesa non erano soltanto coriandoli di gesso (allora non erano state ancora inventate le stelle filanti e i coriandoli di carta), ma monete di rame. Terminato il corso mascherato, la baldoria continuava al veglione del Teatro Sociale”. A Lecco, nel 1884, stava per essere inaugurato il monumento a Giuseppe Garibaldi, deceduto due anni prima. Nel 1882 la città aveva visto la nuova stazione ferroviaria e, quattro anni dopo, inaugurò il ponte con i binari sul fiume Adda, in quartiere Pescarenico, a valle dell’Isola Viscontea, per i collegamenti della linea Lecco-Como. Il viadotto venne costruito dalla Badoni, la storica azienda di carpenteria meccanica di Castello, che ha cessato l’attività nel 1990, lasciando l’estesa area industriale al nuovo centro residenziale e commerciale detto del Broletto. Nel 1884 un gruppo di bontemponi decise di animare il carnevale a Lecco, già vivace e frizzante, tra maschere e cene, con un effimero regno di cartapesta nei giorni della settimana grassa. Venne chiamato re Rese-

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Anita Guglielmetti, prima regina Grigna negli anni Cinquanta del Novecento. Era una studentessa dell’ultimo anno di Ragioneria all’Istituto Parini. Si è poi trasferita, per motivi di lavoro del genitore, in provincia di Vercelli.


Un musicante della banda “Giuseppe Verdi� del quartiere San Giovanni in divisa da garibaldino nel Carnevale 1953. Si notano nella foto i binari del tram cittadino.



gone, in omaggio alla caratteristica montagna lecchese. Sarà successivamente affiancato da regina Grigna, interpretata le prime volte da un giovane travestito da donna. Alla coppia reale venivano simbolicamente consegnate le chiavi della città. Lo scettro di re Resegone era rappresentato da una sega e quello di regina Grigna da una stella alpina. Re Resegone e regina Grigna sono ormai nella storia delle “monarchie” della settimana grassa, a livello nazionale. La maschera più antica di Verona e d’Italia sarebbe il Papà del Gnoco, risalente al 1533. A Foiano della Chiana, in provincia di Arezzo, c’è una tradizione che parte da metà del 1500 con re Giocondo. A Novara c’è re Biscottino, a Varese re Bosino, a Milano la coppia regina del carnevale è formata da Meneghino e Cecca. Lecco ebbe re Resegone nel periodo della Belle époque. Sempre Giuseppe Milani ha scritto: “Dell’effimero regno del re Resegone, al secolo Giuseppe Gilardi, più noto come Peppin Mansuet, restarono due grandi ritratti che lo raffiguravano con una imponente barba, la corona in testa e una lunga sega alla quale era appoggiato come su uno scettro. Erano opera di quel Balzaretti di Maggianico, capo pittore dei Barzaghi. Uno faceva mostra fra le tele antiche che Francesco Bargaghi raccoglieva per adornare la sua pinacoteca; l’altro era esposto nel negozio del Geremia Corti, sotto i portici della casa Nava sul corso Vittorio Emanuele”. La casa Nava è divenuta Gerosa Crotta e il corso ha preso la denominazione, dal 1945, di Martiri della Libertà. Non è stato purtroppo possibile, in anni recenti, ritrovare una copia di quel re Resegone, nonostante le ricerche anche dell’avvocato Luigi Andreotti, già assessore comunale, nativo del quartiere Maggianico, parente della famiglia Barzaghi, che , ha avuto la sua ultima attività, negli anni 50 del Novecento, presso il magazzino nel cortile delle “botti e dei sassi”, in via Ghislanzoni. Dopo le prime corone del 1884, re Resegone e regina Grigna ebbero un periodo di vuoto sino al 1900, quando riapparvero con la settimana grassa, come ricorda l’avvocato Arnaldo Ruggiero nella sua pubblicazione “Piccolo Mondo Antico Lecchese”. , Passò quasi mezzo secolo, sino agli anni 50, per ritrovare i re di carnevale, usciti di scena all’inizio del Novecento. La tradizione venne rilanciata con un corteo di carri e gruppi mascherati che vedeva un comitato promotore con dirigenti dell’Unione Commercianti Lecchesi e dell’Associazioni Alberghi e Pubblici Esercizi, ancora nella sede di via Cairoli. Il re Resegone e la regina Grigna con i grandi cortei mascherati del sabato grasso sono continuati sino al 1958; poi la tradizione venne rinnovata in forma minore per il carnevale dei ragazzi (il giovedì grasso) e il

Regina Grigna e Re Resegone assistono alla sfilata carnevalesca del 1952. Regina Grigna (Marilisa Imberti) e Re Resegone (Peppino Rusconi) nel Carnevalone lecchese 1998.

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La sfilata di Carnevale del 1957, al passaggio in piazza Cermenati, davanti alla Canonica. Curioso notare sul terrazzo, sopra la scritta Arturo Affunti, alcune suore.

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veglione dell’Unione Commercianti, organizzato presso il dancing “don Rodrigo” di piazza Mazzini. Si deve all’Ente Lecchese Manifestazioni, con il presidente Renato Corbetta e i suoi collaboratori, il rilancio in grande stile della tradizione di re Resegone e regina Grigna a fine febbraio 1996. La coppia reale viene affiancata dal Gran Ciambellano. La serie del trono della settimana grassa è ripresa insediando nel ruolo di re Gustavo Gnecchi, che era stato già monarca nel 1958. Regina Grigna venne nominata Lilly Pozzi, nello staff di segreteria del sindaco Giuseppe Pogliani, che nel pomeriggio della domenica di apertura della settimana grassa consegnò ufficialmente ai due monarchi le chiavi dorate della città. Da allora, tutti gli anni, l’Elma ha nominato una sempre nuova Corte di carnevale, ripetendo la cerimonia delle chiavi presso il municipio, dopo la sfilata per le vie del centro. La consegna delle chiavi e il discorso della corona da parte del re di carnevale è una tradizione che si allunga per tutta la penisola da Lecco a Sciacca, in Sicilia. I proclami carnevaleschi portano tante volte a riscoprire avvenimenti che hanno caratterizzato il passato o contraddistinguono il presente. Il carnevale è stato anche nel Lecchese occasione di cene goderecce, dove accanto a piatti della cucina nostrana si abbinavano calici con i vini più noti. La cena carnevalesca che è rimasta nelle note storiche del Carnevalone lecchese è stata quella, tra fine Ottocento e inizio Novecento, del ristorante Borsino di via Roma, nel tratto compreso tra piazza XX Settembre e piazza Garibaldi. Il balcone del Borsino si può notare ancora lungo via Roma, ma il locale ha chiuso i battenti ormai da oltre ottant’anni. Il veglione di lusso era presso il Teatro della Società, mentre quello popolare si svolgeva presso l’albergo del Morone, in piazza Garibaldi, nell’edificio demolito per il nuovo palazzo della Banca d’Italia, divenuto Falck nel 1966 e poi, nel Duemila, palazzo del Commercio.

Le tre “moschettiere” del Carnevalone 1998. Foto di gruppo di Re Resegone, Regina Grigna, Gran Ciambellano dal 1996 al 2007. Si riconosce anche il presidente storico dell’Ente Lecchese Manifestazioni, Renato Corbetta. La foto è stata ripresa presso la Canottieri Lecco.

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Il Giuseppe Garibaldi di Cesenatico, opera dello scultore Tullio Golfarelli, che contende a Lecco il primato per il monumento all’Eroe dei Due Mondi.


CAPITOLO 12

Il monumento a Garibaldi: primo in Italia?

I

l 16 novembre 1884, con solenne manifestazione, Lecco inaugurava il monumento a Giuseppe Garibaldi, nella centralissima piazza fra il Teatro e la Contrada Larga. Erano trascorsi soltanto due anni dal decesso dell’“Eroe dei due mondi”, avvenuto a Caprera il 2 giugno 1882. Lecco, risorgimentale e garibaldina, aveva accolto con diffuso rimpianto la notizia della scomparsa del leggendario generale. Venne costituito un comitato, con presidente l’avvocato Giambattista Torri Tarelli, per erigere un monumento. L’iniziativa segnò l’avvio di polemiche accese perché l’ambiente cattolico richiamò una delibera del 24 maggio 1873, assunta dal consiglio comunale convocato d’urgenza dopo la morte di Alessandro Manzoni. Era stato deciso, in quella sede e con voto unanime, di dedicare un monumento all’autore dei “Promessi Sposi”. L’iniziativa garibaldina minacciava il “sorpasso” rispetto al monumento manzoniano che attendeva ancora, dopo oltre dieci anni, la realizzazione. Polemiche a parte, l’entusiasmo per Garibaldi dei tanti reduci lecchesi delle battaglie risorgimentali portò alla costruzione del monumento in tempo di record, opera del noto scultore Francesco Confalonieri. Garibaldini provenienti da tutta la Lombardia convennero a Lecco per la cerimonia inaugurale, avvenuta con grande concorso di popolo. Era, con molta probabilità, il secondo monumento d’Italia dedicato a

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Garibaldi. Il recente censimento effettuato nell’anno bicentenario della nascita, avvenuta a Nizza il 4 luglio 1807, ha fatto registrare che in tutta Italia sono circa 5.500 - su 8.100 - i Comuni che hanno un monumento, una strada o una piazza intitolati a Garibaldi. Si tratta della seconda denominazione in assoluto, dopo Roma. Anni or sono, Cesenatico rivendicò la primogenitura dei monumenti a Giuseppe Garibaldi. L’inaugurazione ufficiale risale, però, al 2 agosto 1885, come appare dal volumetto sul monumento stesso uscito nel 1998, a cura dell’assessorato alla Cultura del Comune di Cesenatico, in collaborazione con l’Istituto per i beni artistici e culturali dell’Emilia Romagna e dell’Associazione nazionale veterani e reduci garibaldini. Cesenatico celebra tuttora, il 2 agosto, la festa garibaldina nel ricordo del passaggio dell’eroe che, reduce dalla Repubblica Romana del 1849, ebbe soccorso dalla popolazione locale, prima di prendere il mare nel tentativo di portare aiuto a Venezia. Lungo la sponda del canale leonardesco di Cesenatico, che sale dal faro e dalla stazione della capitaneria di porto verso la chiesa di San Giacomo, in uno degli angoli più suggestivi del vecchio borgo marittimo e portuale, c’è ancora l’edificio dove si rifugiarono Anita e Giuseppe Garibaldi, con la caratteristica Trattoria degli Inseguiti. Quanti erano i lecchesi fra i 1.089 volontari che salparono dallo scoglio di Quarto il 5 maggio 1860? Sono noti i tre immortalati sul basamento del monumento di piazza Garibaldi: i fratelli Carlo e Giuseppe Torri Tarelli, nativi di Onno ma residenti nella vecchia contrada della Maddalena, ed Ernesto Berthè, dell’allora Comune di San Giovanni alla Castagna. È nota pure la partecipazione del valsassinese Tranquillo Baruffaldi, di Barzio. Il conteggio, però, dei lecchesi tra i Mille, appartenenti all’attuale territorio provinciale, non è mai stato fatto, in quanto la realtà istituzionale di villa Locatelli è storicamente recente. Non c’era ancora, nel 1982, quando il centenario della scomparsa venne accompagnato da diverse rievocazioni e la staffetta garibaldina passò anche da Lecco, sostando davanti al monumento del condottiero delle camicie rosse, accolta dal vicesindaco, Enrico Azzoni, a nome del Comune e della cittadinanza. La celebrazione del bicentenario è occasione per ricordare i volontari lecchesi che accorsero a Genova con l’intenzione di partecipare alla liberazione dell’Italia meridionale, raggiungendo via mare la Sicilia con la spedizione sbarcata l’11 maggio 1860 a Marsala.

Il monumento a Garibaldi circondato da cancellata, al centro della omonima piazza. Il monumento a Garibaldi, mentre si può osservare sullo sfondo il vecchio Caffè Teatro e, sul lato destro, il vecchio palazzo divenuto sede della Banca Popolare di Lecco.

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Il monumento a Garibaldi dopo lo spostamento di cinquant’anni or sono, davanti al Teatro della Società, in una giornata di festa di fine Novecento.

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L’elenco di riferimento è quello reso noto nel 1867 da Alessandro Pavia di Genova. La pubblicazione riporta i nominativi dei volontari sulla base degli atti dei furieri garibaldini, documenti nei quali, però, non mancano omissioni e imprecisioni. Dopo i quattro già menzionati (i due Torri Tarelli, Berthè e Baruffaldi), occorre subito ricordare Giuseppe Sirtori, capo di stato maggiore. Era nato a Casatevecchio di Monticello nel 1813, morì a Roma nel 1874. Fu ferito a un braccio nell’assalto di Calatafimi, comandò una divisione nella battaglia sul Volturno. Era uno dei più stretti collaboratori di Garibaldi, con Nino Bixio, Ippolito Nievo, Giuseppe Cesare Abba, Francesco Nullo, Benedetto Cairoli. La caserma dell’Esercito a Lecco, attuale sede degli uffici della Questura in via Leonardo da Vinci, era dedicata a Giuseppe Sirtori, sino al 1973, quando venne chiuso il presidio militare affidato a una compagnia di fanti della Legnano. Nell’elenco vi sono poi Giacomo Beretta di Barzanò, Eugenio Gaffuri di Brivio, Eligio Panzeri di Bulciago, Luigi Rota di Bosisio, Lazzaro Salterio


di Annone. Rimane, invece, da decifrare, al numero 453 dell’elenco, Francesco Frediani, di Carlo, da Comillo presso Lecco di Massa, come è scritto nelle note dell’elenco medesimo. La ricognizione dei 1.089 può, quindi, far concludere che i residenti nell’attuale provincia di Lecco, sono stati dieci fra i garibaldini della prima ora. È però doveroso ricordare un giovanissimo che non è stato tra i Mille ma che raggiunse la Sicilia con le successive spedizioni di rinforzo delle camicie rosse. È il lecchese Giovanni Battista Ongania, 19 anni, deceduto il 18 agosto 1860 all’ospedale di Messina. Una lapide a sua memoria si trova presso la cappella di famiglia, al Monumentale di via Parini: ricorda la sepoltura lontana e il suo grande amore di Patria. Ongania segue nel ricordo commosso Giuseppe Torri Tarelli, 21 anni, tenente delle truppe garibaldine, deceduto il 28 settembre 1860 all’ospedale di Catanzaro. Nella battaglia di Palermo era stato ferito a un braccio. Nella marcia in Calabria la ferita divenne mortale per complicazioni infettive. È stato decorato di medaglia d’argento.

Villa Manzoni al Caleotto ha sempre fatto parte del territorio comunale di Lecco.Venne acquisita al patrimonio municipale, con delibera votata all’unanimità dal consiglio comunale, nel 1963-1964.

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Il monumento all’abate geologo Antonio Stoppani, con la statua in bronzo dello scultore Michele Vedani, inaugurato nel settembre 1927. Il discorso ufficiale venne tenuto dal sottosegretario alle comunicazioni, on. Alessandro Martelli.


CAPITOLO 13

La frana di Versasio sopra Acquate

S

ei morti, otto case crollate, diciassette persone senza tetto, decine di ettari sommersi dal fango: questo il drammatico bilancio della frana caduta a Versasio, allora in territorio comunale di Acquate, alle ore 11 del 16 settembre 1882. Risultarono gravemente colpite le famiglie di Pietro Invernizzi, Giovanni Colombo, Angelo Colombo, fratelli Invernizzi e Gerolamo Invernizzi. Le vittime furono Teresa Colombo di 24 anni, Ancilla Colombo di 36, Maria Invernizzi di 33, Giuseppe Manzoni di 62, Olivia Invernizzi di 62 e Anna Rota di soli 3 mesi che si trovava a balia presso Ancilla Colombo. La frana, precipitata dal sovrastante pendio verso il Pizzo Erna seppellendo alcune abitazioni rurali, provocò anche la scomparsa di numerosi capi di bestiame, che si trovavano nelle stalle. Le piogge dell’autunno 1882 furono torrenziali. Il Bione demolì a Belledo il ponte nella zona dell’attuale parrocchiale e superò gli argini lungo un tratto di strada verso Maggianico, allagando i campi. Il Comune di Acquate chiese subito soccorso alla Sottoprefettura di Lecco, al Genio Civile e al Comando di Distretto, per poter avere sul luogo della tragedia reparti militari della caserma Giuseppe Sirtori, al Lazzaretto. Il 18 settembre il sottoprefetto comunicava al Comune di Acquate che veniva messa a disposizione la somma di 500 lire per far fronte ai più urgenti bisogni delle famiglie di Versasio.

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La notizia della sciagura di Versasio, vicino a Lecco, destò commozione in tutta la provincia di Como e in gran parte della Lombardia. Le piogge di settembre avevano provocato quasi ovunque danni gravi, ma a Versasio sei persone avevano perso la vita. Il Comitato milanese di soccorso per gli alluvionati, il 26 settembre decideva un primo stanziamento di 500 lire, a sostegno degli abitanti di Versasio. La città di Como, dopo pubblica sottoscrizione, inviava 300 lire. Il consiglio comunale di Acquate si riuniva, con il sindaco Carlo Pozzi, e deliberava sussidi ai danneggiati dalla frana. Erano presenti all’importante seduta i consiglieri Antonio Villa, Crespino Gilardi, Tommaso Dell’Oro, Gaspare Sala, Federico Sala, Angelo Pozzi, Pietro Invernizzi, avvocato Ernesto Pozzi, dottor Giovanni Pozzi, Giovanni Rota, Giuseppe Villa e Carlo Dell’Oro. Continuava intanto la catena degli interventi di soccorso e di sostegno oltre il Comune di Acquate. La Municipalità di Laorca inviava 40 lire. Analoga somma veniva fatta pervenire dall’associazione di mutuo soccorso fra gli operai della città e del mandamento di Lecco. Il 13 dicembre il negoziante Signorelli di Lecco recapitava al sindaco di Acquate, Carlo Pozzi, un assegno di 150 lire inviato dal lecchese Pietro Verga, residente in Argentina. Intanto la Commissione centrale di beneficenza in Milano della Cassa di Risparmio aveva messo a disposizione 300 lire e la città di Monza 200, dopo pubblica sottoscrizione. La legge numero 1147, del 27 dicembre 1882, annoverò Acquate fra i comuni ammessi ai sussidi straordinari per inondazioni e calamità naturali. Nel ruolo dei beneficiari figuravano otto gruppi familiari compresi nel territorio di Acquate: Angelo e Bernardo Colombo, Giovanni Colombo, fratelli Invernizzi fu Pasquale, Gerolamo Invernizzi, Angelo Invernizzi, Carlo Vitali e fratelli Vitali fu Ambrogio. I fratelli Giovanni e Filippo Vitali, fu Ambrogio, ebbero il sussidio solo nel 1899, per essere emigrati dopo la frana. Rientrati a Versasio di Acquate, trovarono complicazioni burocratiche a ottenere il contributo perché lo stanziamento di bilancio riguardava un esercizio finanziario precedente e i mandati relativi erano in un primo tempo introvabili tra le tante scartoffie dei pubblici uffici. Il minuscolo abitato di Versasio venne ricostruito, mentre il tempo trascorso di 125 anni ha cancellato il ricordo di quella giornata di terrore e di lutto del settembre 1882. Versasio era allora raggiungibile solo attraverso la mulattiera verso Erna, che saliva da Acquate toccando i nuclei rurali di

Il paesaggio ancora verde di prati e di boschi sopra il vecchio nucleo del quartiere Acquate, nella zona dell’attuale via ai Poggi. La stazione di partenza, in località Versasio, della funivia verso i Piani Erna, inaugurata ufficialmente nel luglio 1966, dopo essere entrata in funzione nel dicembre precedente.

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Piazza XX Settembre nel primo decennio nel Novecento. Si può notare l’insegna del Caffè Commercio.

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Falghera e Malnago, allora ben evidenziati nella separazione esistente di vasti prati e boschi lungo quella che oggi è denominata via ai Poggi. Nell’autunno 1940, nel corso della permanenza in Valsassina di migliaia di militari della divisione Brennero (impegnati in un’esercitazione che simulava l’invasione dalla Svizzera), reparti della stessa, durante il periodo di avvenuto attendamento in attesa dell’arrivo di tutta la formazione ve nero impiegati a costruire la carrozzabile che si fermava allora appena sopra Acquate, in località Canto. La nuova arteria in terra battuta raggiunse la frazione Falghera, poi quella di Malnago. Una lapide ricorda ancora oggi l’evento alla curva di Falghera. La carrozzabile sino a Malnago ha segnato l’avvio di una notevole trasformazione della zona di via ai Poggi, avvenuta nella seconda metà del Novecento. La strada carrozzabile raggiunse Versasio, costruendo il tracciato tra il 1946 e il 1948, con un cantiere di lavoro per l’occupazione promosso dal Comune di Lecco. La luce elettrica arrivò a Versasio solo nel 1953. Lo sviluppo edilizio , della zona sopra Acquate ha avuto inizio negli anni 60 del Novecento, con il progetto di costruzione della funivia Versasio-Piani Erna. La funivia è stata inaugurata ufficialmente nel luglio 1966 dall’arcivescovo di Milano, cardinale Giovanni Colombo, presenti numerose autorità con il sindaco di Lecco, Alessandro Rusconi. Il nuovo impianto venne illustrato al cardinale dal presidente della Sper, Achille Colombo, e i progetti di urbanizzazione per i nuovi Piani Erna dal presidente dell’Immobiliare Resegone, Angelo Beretta. La funivia ha potenziato i flussi turistici, invernali ed estivi, non solo verso Erna, ma in tutto il gruppo montuoso del Resegone, a iniziare dal rifugio Antonio Stoppani del Cai Lecco. C’è da segnalare anche che la lapide alla curva di Falghera è sopra vissuta alle turbolenze post-belliche dell’aprile 1945, “purificata” da simboli e stemmi di altri tempi politici. La lapide è, però, rimasta quasi inalterata nel testo: si ricorda che il Comune di Lecco, con il determinante contributo dei militari della divisione Brennero della IV Armata, volle la strada con “romano spirito”, dimostrando quanto i soldati dell’esercito italiano fossero pronti alle opere di pace, come a quelle di guerra. La lapide ricorda, altresì, che le truppe lasciarono il Lecchese destinate al fronte greco-albanese. Il territorio di Versasio, appena sotto il punto inferiore della lingua di frana, è attraversato, dal 2006, dal nuovo tracciato di collegamento fra Lecco e la Valsassina.

Il pendio dove è scesa la frana di Versasio del 16 settembre 1882. Casolare rurale della vecchia Versasio, quasi al termine della strada che sale dal quartiere Acquate.

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Piazza XX Settembre, con le bancarelle del mercato, anni ’30. Si può notare sulla destra l’insegna Angelo Nava, negozio di tessuti, presente presso i portici vecchi per tutto il Novecento.


CAPITOLO 14

Il 20 settembre 1895 e la “Questione romana”

I

l 20 settembre 1895, venticinquesimo della breccia di Porta Pia a Roma, registrò a Lecco il punto più alto del “conflitto” fra clericali e laici. La “questione romana”, sempre viva e attuale, agitava in tutta Italia i rapporti fra Stato e Chiesa: la politica nazionale era imbevuta da un diffuso anticlericalismo, sempre per Roma capitale. Il quadro generale si accentuava a Lecco per le polemiche, che divampavano ormai da decenni, fra gli opposti schieramenti e che avevano avuto un ulteriore surriscaldamento con l’inaugurazione nel 1884 del monumento a Giuseppe Garibaldi. Nello stesso 1884 don Giuseppe Cavanna, prete dinamico e battagliero, aveva costituito un Circolo della Gioventù Cattolica, che si distinse per fedeltà al Pontefice. Il circolo venne intitolato al beato Pagano, il predicatore domenicano lecchese assassinato dagli eretici albigesi nel secolo XIII. Il nome del martire, vittima della fede, doveva infondere coraggio nell’azione contro i “novelli albigesi”, garibaldini, liberali e laici in testa. La ricorrenza del 25° della breccia di Porta Pia fu occasione anche a Lecco per una celebrazione particolare di Roma capitale d’Italia, dopo essere stata la capitale del Papa Re. Tutta la nazione festeggiò l’avvenimento con iniziative promosse da un comitato permanente per la festa del 20 settembre, intendendo celebrare le “nozze d’argento della Liberazione”. L’atmosfera divenne particolarmente calda a Lecco dopo la seduta consi-

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Piazza XX Settembre, dove si può notare, sulla destra, la casa dell’abate Antonio Stoppani, nato il 15 agosto 1824.

Uno scorcio di piazza XX Settembre sotto la neve, vista dal portico presso la Torre Viscontea.

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liare del 12 settembre. Venne infatti approvata una deliberazione dove, oltre a commemorazioni e cerimonie con cortei e discorsi, si decise di intitolare al “20 settembre” la piazza del Mercato. La deliberazione venne approvata dal Consiglio dopo un ordine del giorno presentato da Carlo Bonfanti, Angelo Grassi, Antonio Vicini, Albino Biffi, Angelo Bettini, Ernesto Pozzi e Carlo Castelli. La protesta dei giovani del Circolo Pagano fu immediata. Si fece subito notare che la decisione di cambiare nome alla piazza del Mercato era un atto quantomeno di mancanza di rispetto alla tradizione e alla decisione degli avi, nonché un fatto di grossolana faziosità politica. Venne, inoltre, evidenziato che in una vecchia casa della piazza del Mercato, proprio nella parte più caratteristica dei portici, era nato il 15 agosto 1824 l’abate geologo Antonio Stoppani, il figlio più illustre del borgo lecchese, autore, tra l’altro, del notissimo “Il Bel Paese”. Stoppani era morto improvvisamente a Milano il 1° gennaio 1891. Era divenuto, sì, sacerdote nel 1848, dopo aver partecipato -con altri seminaristi- alle Cinque Giornate di Milano, ma era soprattutto un sacerdote rimasto sempre fedele al Papa e alla Chiesa di Roma. Nuove polemiche divamparono quando la banda Manzoni accettò l’invito della Giunta per un pubblico concerto il XX Settembre. I cattolici provocarono subito una scissione nella Manzoni e formarono il Corpo musicale San Giuseppe che verrà poi ricordato come “la banda dei paolotti”. I giovani cattolici del Pagano celebrarono il 20 settembre 1895 con una loro “contromanifestazione” partecipando a una messa in suffragio dei venti soldati pontifici caduti difendendo il Papa Re Pio IX, dagli assalti delle truppe “piemontesi” di Cadorna. Le perdite italiane del 20 settembre 1870 furono superiori a quelle pontificie; il bilancio complessivo è stato di 56 morti e 41 feriti tra bersaglieri, fanti e militari del Genio zappatori.Gli avvenimenti di Roma capitale vennero rievocati in una successiva riunione dei giovani del circolo, tutta indirizzata a sottolineare il valore dell’Armata pontifica che con soli 14.600 uomini aveva tenuto testa al Corpo di spedizione italiano, forte di 60.000 militari e di una potente artiglieria campale. Venne anche additata, ad esempio, la disperata e eroica resistenza, a segnale di resa già data, di un gruppo di zuavi del colonnello Allet, intorno a villa Bonaparte. L’appello conclusivo della riunione fu che era necessario continuare a combattere contro i nemici della Chiesa, gli usurpatori del trono papale, gli invasori di Roma cristiana. Ebbe così inizio un periodo di continue polemiche e di roventi accuse incrociate. Nel 1898, dopo i noti tragici fatti di Milano con la repressione brutale del generale Bava Beccaris, il Circolo Pagano venne chiuso con un provvedimento di polizia, avendo troppo parteggiato per “gli insorti” milanesi, mortalmente colpiti mentre chiedevano un piatto di minestra e un pezzo di pane. Il Circolo riaprì nel 1901, ma il presidente Alessandro Figini finì in tribunale per aver ribadito la fedeltà al Pontefice contro lo Stato italiano, indicato come massone e anticlericale. Venne nominato membro d’onore del Consiglio nazionale della Gioventù Cattolica e insignito dell’onorificenza “Pro Ecclesia et Pontefice”.

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Un raduno motociclistico in piazza XX Settembre, sul finire del Novecento.

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La piazza XX Settembre, nei primi anni del Duemila.

L’ultima clamorosa fiammata anticlericale avvenne nel novembre 1904, quando Mario Cermenati fu superato alle elezioni politiche di ballottaggio da Lodovico Gavazzi, candidato liberale moderato di Valmadrera, dove era titolare di filande. Un gruppo di fanatici sostenitori di Cermenati prese a sassate le vetrate della canonica della basilica di San Nicolò e gettò nel lago lo stemma arcivescovile collocato sul portale d’ingresso, che oggi non è più visibile, essendo stato demolito nella generale ristrutturazione del fabbricato avvenuta nel 1972. Mario Cermenati disapprovò subito le intemperanze di un gruppo sparuto di suoi sostenitori. Tutto ciò era avvenuto perché attivisti del candidato lecchese radical-democratico avevano accusato alcuni preti di sostenere “sotto banco” la candidatura di Lodovico Gavazzi, che aveva vinto per una manciata di voti. La piazza del Mercato di Lecco, divenuta XX Settembre nel 1895, è rimasta tale anche dopo oltre cento anni. Nel 1895 la città di Lecco, sull’onda entusiastica di nuovi sodalizi di aggregazione sociale, salutava, intanto, l’inaugurazione della capanna Stoppani del Cai, sulle pendici del monte Resegone, appena sopra la località Costa e la fondazione della Canottieri Lecco, società remiera che scelse i colori blucelesti come vessillo, “copiati” poi anche dalle squadre di altre discipline agonistiche. Spente le polemiche, dissipati le divisioni e i rancori, la piazza XX Settembre, “salotto” della città, ricorda ancora oggi quel breve mattino di pur sanguinosa battaglia alla periferia di Roma, che completò il nostro primo Risorgimento. La carica dei bersaglieri avvenne presso una breccia vicino a Porta Pia, sulle mura perimetrali della capitale, “battute” dai cannoni italiani nel tratto dove le stesse erano meno fortificate, secondo una mappa molto probabilmente preparata da agenti infiltrati.

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Le bancarelle di frutta, verdura e fiori animano il mercato in piazza XX Settembre.


CAPITOLO 15

Il campanile della prepositurale: lapis verso il cielo

I

l campanile della Basilica di San Nicolò è stato inaugurato la notte di Natale del 1904 con il concerto festoso delle sue nove, possenti campane che chiamavano i fedeli alla messa di mezzanotte per la Natività. Il secolo abbondante trascorso ha reso più che familiare nel paesaggio lecchese il campanile di San Nicolò, come il monte Resegone, il trecentesco ponte Azzone Visconti, la barchetta manzoniana di Lucia. Una sola cosa è cambiata: i nove bronzi della sua cella campanaria suonano ormai da oltre quarant’anni mediante congegni elettrici; per diversi decenni, invece, “attaccarsi” alle corde delle campane, nei giorni e nelle solennità più importanti, era un privilegio ricercato per i ragazzi dell’oratorio, per gli accoliti della Basilica, per gli uomini della Confraternita del Santissimo Sacramento. Notte di Natale 1904: i lecchesi avevano faticato parecchio per arrivare all’inaugurazione del campanile di ben 96 metri, secondo in altezza come costruzione religiosa dell’intera Diocesi di Milano, superato soltanto dalla guglia con la Madonnina del Duomo. Si incominciò a parlare di un nuovo campanile per la prepositurale collegiata di San Nicolò con don Antonio Mascari, ricordato come il prevosto del Risorgimento lecchese, al quale è dedicata la via che passa nel vecchio borgo e che porta dalla chiesa a via Cavour.

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La chiesa prepositurale di San Nicolò, negli anni ’20 del Novecento.


I lavori ebbero inizio con il successore di don Mascari, deceduto nel 1861, il prevosto Pietro Galli. Il 24 gennaio 1873 don Galli aveva acquistato dai fratelli Bertarelli l’avanzo di un antico torrione della cinta difensiva del borgo fortificato, collocato vicino al coro della chiesa. Il massiccio avanzo delle fortificazioni militari doveva servire come solida base per far sorgere la nuova altissima torre campanaria. Il 18 luglio 1888 il priore della fabbriceria parrocchiale faceva pervenire in esame ai competenti uffici comunali il progetto predisposto dal lecchese ingegner Enrico Gattinoni. Il progetto era, appunto, ardito: 96 metri di campanile, 400 gradini sino all’ultima terrazza belvedere. Cominciarono ad arrivare nelle vicinanze della chiesa i primi massi di pietra, già squadrati e numerati, destinati alla costruzione. Il campanile cominciò a crescere, pietra su pietra, lentamente perché nell’edilizia non vi erano i mezzi attuali. Nel 1894, giunti circa all’altezza dell’orologio, i lavori furono sospesi per mancanza di fondi. Occorreva nuovo denaro e non era facile trovarlo anche per la particolare situazione politica, e di riflesso religiosa, che Lecco registrava in quel periodo con accese “zuffe” fra laici e clericali. I lavori vennero ripresi nel 1901 e completati nel 1904. Dopo alterne vicende veniva finalmente portata a termine la torre campanaria che sembrava forare il cielo con la sua aguzza cuspide, progettata nel 1901 dall’architetto milanese Giovanni Ceruti, che modificò - nella parte terminale - quanto previsto dal Gattinoni. Il 24 ottobre 1904 vennero calate dal campaniletto tuttora visibile sul lato della chiesa verso via San Nicolò e via Mascari, le cinque vecchie campane, spedite a Grosio in Valtellina. Vennero rifuse e alle cinque ne furono aggiunte altre quattro. Martedì 26 novembre 1904 le nove campane arrivarono a Lecco su carri ferroviari e portate presso la “giesa granda” per la benedizione solenne della domenica successiva, accompagnata dalle note festose della banda parrocchiale San Giuseppe. Saranno poi sollevate, non senza trepidazione, nella cella campanaria. Il peso complessivo era di circa 95 quintali. La campana maggiore, “el campanun”, pesa da sola 7 quintali. La terza campana, in ordine di peso, è dedicata all’Immacolata Concezione e reca incisa in latino l’iscrizione che fissa nella storia l’avvenimento. Si può infatti leggere: “Nell’anno 50esimo della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, essendo Papa Pio X, arcivescovo di Milano il cardinale Andrea Ferrari, Giuseppe Confalonieri prevosto parroco di Lecco, con questo nuovo concerto tratto dal bronzo, opera dei Prunieri, di Grosio, i lecchesi, riconoscenti e devoti, la sullodata Vergine eccelsa, lieti acclamano”. Don Pietro Galli, il “prevostone” (come veniva chiamato per la sua corporatura e per i modi energici di buon brianzolo di Annone), non vide l’opera che aveva tanto sostenuto nel lungo periodo trascorso a Lecco: don Galli era, infatti, scomparso nel gennaio 1902, a 87 anni. Riposa nella cappella del clero di San Nicolò, presso il Monumentale di via Parini. Lanciato verso il cielo con i suoi 96 metri, quasi un lapis appuntito, il campanile, grazie anche al paesaggio che lo circonda, dal lago alle montagne, non ha perso l’iniziale freschezza, pur nel trascorrere di oltre cento

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stagioni. Da quel lontano Natale 1904 le sue campane hanno accompagnato la vita cittadina, annunciando avvenimenti lieti e tristi. Il lavoro edilizio si deve all’impresa di Martino Todeschini, un capomastro di riconosciuta esperienza professionale. Tutti i collaboratori di Todeschini meritano un pensiero riconoscente, perché affrontarono una faticosa e pericolosa impresa, operando su traballanti ed esposti ponteggi. È un pensiero che rammenta, tra l’altro, che senza fatica e impegno di duraturo si costruisce ben poco, ieri e oggi. Segnato dal tempo trascorso, ma soprattutto dagli agenti atmosferici, a iniziare da saettanti fulmini, il campanile venne sottoposto a un generale restauro nel 1979, 85 anni dopo la sua inaugurazione, su iniziativa del prevosto monsignor Ferruccio Dugnani e con progetto dell’architetto Bruno Bianchi. I lavori videro anche la collaborazione di due Ragni del Cai Lecco, i rocciatori Fabio Lenti e Ivo Mozzanica, che con pendolanti acrobazie


salirono e scesero lungo il campanile per interventi di sistemazione. C’è da ricordare che nel pomeriggio dell’antica festa di Lecco, della prima domenica di ottobre 1987, i Ragni avevano violato le pareti del campanile con un’arrampicata in direttissima, richiamando tanta gente sul sagrato e nel cortile dell’oratorio San Luigi, nonché sulla passeggiata del lungolago. Le cronache della giornata riferiscono che “la festa della prima domenica di ottobre si concluse con tanta gente con il naso all’insù”. Nell’estate 1989, durante il generale restauro, venne girato un filmato televisivo di venti minuti dall’emittente locale Tsl Lecco, con interviste di Aloisio Bonfanti e riprese di Paola Nessi, passata poi alla Rai-Tv. Il filmato rimane un documento eccezionale per conoscere da vicino il campanile e per ammirare il panorama circostante che, tra l’altro, nel tempo trascorso ha subìto diverse modifiche nell’assetto urbanistico della città.

La riva portuale del lungolago lecchese sotto la neve, mentre appare ancora in costruzione, sul finire dell’Ottocento, il campanile di San Nicolò.

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La riva del lago senza la “scarpa d’approdo” (anno 1890), mentre i lavori per il campanile avevano raggiunto poco più della metà della costruzione.

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Movimento di carri presso il porto di Lecco intorno al 1915. Panoramica della zona intorno alla prepositurale con il campanile appena terminato, ma ancora senza bronzi. Si può notare nella foto il cantiere di costruzione del nuovo famedio all’ingresso del cimitero monumentale di via Parini, datato 1904.

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CAPITOLO 16

Un Capodanno tra due secoli

L

o scoccare della mezzanotte tra il 1900 e il 1901, fatidico momento del cambio tra Ottocento e Novecento, vide Lecco flagellata dalla pioggia e dal vento, mentre una nevicata abbondante cadeva sui circostanti monti. Vi furono ugualmente giovani animosi che a Neguggio, sulle prime pendici del Magnodeno, sopra Germanedo, accesero grandi falò. Le campane della parrocchiale di Castello suonarono a distesa, mentre il maltempo rovinò l’illuminazione prevista a Lecco, Acquate e Olate, e anche un gigantesco falò sulla vetta del Monte Barro, per iniziativa di giovani di Galbiate. Solo Malgrate, nonostante il vento e la pioggia, riuscì a illuminare alcune case e vie del paese. A Castello, dopo la messa solenne di mezzanotte che concludeva tre giorni di adorazione al Santissimo, i fedeli raggiunsero il cimitero con insolita processione notturna. Per le celebrazioni di fine Ottocento, sempre a Castello, il grande Crocifisso della parrocchiale, solitamente collocato in altare laterale, venne portato al centro della navata. Gli auguri di mezzanotte furono particolarmente vivaci presso il Teatro Sociale, dove era in corso il grande veglione di fine secolo organizzato dal Corpo musicale cittadino “Alessandro Manzoni”. Il maltempo ostacolò l’afflusso dei partecipanti al veglione e il bilancio si concluse con un deficit finanziario per la banda Manzoni, che aveva sperato di ricavare qualcosa per le casse sociali.

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L’albergo ristorante Mazzoleni, sul lungolago, davanti all’imbarcadero dei piroscafi dove oggi si trova il ristorante “Al Pontile - da Orestino”.


Nell’entusiasmo della notte tra i due secoli, con molta gente nelle strade e nei pubblici esercizi, non mancarono litigi e risse. Pugni e calci volarono in via Cavour fra alcuni giovani, mentre complimenti piuttosto... calorosi, rivolti in via Cattaneo a una bella ragazza reduce dal Sociale, scatenarono un parapiglia. Nella serata di San Silvestro un solenne Te Deum di ringraziamento era stato cantato dai fedeli presso la prepositurale. All’alba del primo giorno del nuovo secolo una messa venne celebrata, sempre presso la prepositurale, dal prevosto monsignor Pietro Galli, in sorprendente, vigorosa salute a 86 anni. Il Capodanno 1901, dopo il maltempo della notte, venne accompagnato da una giornata quasi primaverile. La città rimase addormentata a lungo, dopo tanta baldoria notturna. Nel primo pomeriggio la banda Manzoni attraversò il centro, portando gli auguri musicali del complesso. Una torta gigantesca, donata ai musicanti dalla pasticceria Mauri di via Cavour, venne consumata presso il Caffè Unione di piazza Garibaldi. Fu poi la volta della banda “San Giuseppe”, il complesso musicale della parrocchia, a portare gli auguri ai lecchesi. Il secolo Ottocento lasciato alle spalle era stato particolarmente ricco di avvenimenti e novità storiche per il borgo di Lecco, promosso al rango di città con le vicende risorgimentali del 1848. Grandi novità erano state l’apertura, nel 1828, della nuova strada militare austriaca lungo la sponda orientale del Lario, verso lo Stelvio, e la costruzione dell’Ospedale civico (attuale municipio) e del Teatro Sociale, entrambi su progetto dell’architetto Giuseppe Bovara.Nel 1856 il telegrafo era giunto a Lecco, ancora con la presenza austriaca. Nel 1855, nella lontanissima Woodlark, nell’arcipelago immenso vicino all’Australia, era stato trucidato il missionario del Pime, nativo di Rancio, padre Giovanni Battista Mazzucconi, che la Chiesa ha proclamato Beato. Sempre l’Ottocento aveva visto, nel 1859, la conferma per Lecco al titolo di città, dopo la vittoriosa conclusione della seconda guerra di Indipendenza nazionale, e la nomina del primo sindaco, nella persona di Francesco Cornelio, ricordato poi con una via davanti al Palazzo di Giustizia. I primi binari della ferrovia erano arrivati nel 1863 con l’inaugurazione della linea Lecco-Bergamo. Nello stesso anno era stata costituita la Camera di Commercio e Arti. Nel 1873 verrà inaugurata un’altra linea ferroviaria, l’importantissima Lecco-Milano. E sempre per le ferrovie, al trecentesco ponte stradale di Azzone Visconti veniva affiancato nel 1886 il ponte in ferro sull’Adda della ditta Badoni, per i binari della Lecco-Como, con la galleria del San Michele, sotto il monte Barro. La parte finale dell’Ottocento aveva visto l’inaugurazione dei monumenti a Giuseppe Garibaldi e Alessandro Manzoni, la scomparsa di Antonio Stoppani e Antonio Ghislanzoni. C’era stato l’impegno di tanti lecchesi verso nuove strutture di aggregazione sociale. Dopo la Società del Tiro a Segno erano, infatti, sorte la sezione del Cai, l’Associazione degli alpinisti “Antonio Stoppani”, la Canottieri Lecco, la Ginnastica Ghislanzoni, la Società Escursionisti Lecchesi e altre ancora. Nel 1867, nella periferica località verso il Lazzaretto, appena oltre il cor-

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Convoglio ferroviario sul ponte dell’Adda, a Pescarenico, con locomotiva a vapore.

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so del Caldone, veniva costruita la caserma del Regio Esercito Italiano, dedicata poi al generale garibaldino Giuseppe Sirtori, nativo di Casatevecchio, oggi frazione del Comune di Monticello Brianza. Soggiornando nella villa del Caleotto, “sua sino al 1818”, Alessandro Manzoni ambientava nel Lecchese il suo famoso romanzo, che tanta fama letteraria ha dato al borgo incamminato a diventare città. L’Ottocento è stato poi il secolo del boom industriale di Lecco, che ha consolidato e allargato una vocazione già radicata con le trafilerie e le officine nella vallata del Gerenzone e lungo la canalizzazione artificiale della Fiumicella. È stato il secolo nel quale è nato un nome di Lecco nel mondo: la Badoni per le costruzioni metalliche. Giuseppe Badoni è stato presidente nel 1848 del comitato insurrezionale nelle giornate che portarono il borgo a essere promosso città: ma è stato, soprattutto, il fondatore di un’impresa che ha costruito strutture metalmeccaniche in tutto il mondo. Nel 1876 era sorta la Giulio Fiocchi Munizioni, tuttora presente con il grosso complesso in quartiere Belledo e con altra realtà produttiva di diverso settore in quartiere Castello. Nel 1896 era nata l’Acciaieria e Ferriera del Caleotto, imponente complesso con gli altiforni delle roventi colate, definita la nuova “cattedrale” del lavoro e del progresso. L’Ottocento aveva anche salutato il sorgere di altre storiche aziende, come il Colorificio Pietro Gandola, che già tra il 1883 e il 1888 si distingueva sempre più nell’industria delle vernici e di altri prodotti chimici, allestendo uno stabilimento nelle prossimità del ponte Azzone Visconti. Nel 1893 era stata fondata la Fabbrica Velluti Alfredo Redaelli, con sede a Rancio, subito conosciuta per una produzione di qualità, non solo sul mercato italiano, ma anche all’estero.

Piazza Manzoni con il ponte sul corso del Caldone, che sarà coperto nel 1960-1965. 140

Lo scalo ferroviario della Piccola; sullo sfondo l’edificio dell’ospedale del Novecento.



Il tratto di via Roma che porta da Piazza Garibaldi a Piazza XX Settembre. Sul lato sinistro si può notare l’angolo dl Caffè Colonne, noto ritrovo della borghesia lecchese, demolito nel 1955-1956 per costruire il grattacielo con la filiale bancaria del Credito Italiano.


CAPITOLO 17

Il tricolore del 1° maggio sul balcone del municipio

I

l prefetto di Como, nella primavera del 1900, sospese dalle funzioni di primo cittadino il sindaco di Lecco, Giuseppe Ongania, per avere esposto il tricolore nella ricorrenza del 1° maggio, data che non era ancora riconosciuta come festività civile per il lavoro; lo sarà solo nel 1946, con l’avvento in Italia della Repubblica, voluta dal referendum istituzionale, a suffragio universale, del 2 giugno. Quanto avvenuto a Lecco ebbe risonanza nazionale, anche per le interrogazioni presentate al Governo dai deputati di estrema sinistra Gustavo Chiesi e Ettore Socci. Il sindaco Ongania, dichiaratamente repubblicano, aveva fatto esporre la bandiera nazionale sul balcone del municipio di via Roma, come omaggio per tutti coloro che con il quotidiano lavoro operavano per il progresso dell’umanità. Nella mattinata stessa del 1° maggio, verso le ore 11, il sottoprefetto di Lecco (che aveva l’ufficio nel palazzo dell’attuale corso Martiri dove si trova la Polizia Stradale), convocò urgentemente il sindaco per avere spiegazioni sulla bandiera esposta. Nel pomeriggio Ongania venne nuovamente convocato presso la sottoprefettura e invitato, telegramma del prefetto alla mano, a ritirare immediatamente la bandiera. Il sindaco fu irremovibile nel diniego, assumendo tutte le responsabilità dell’avvenuta esposizione. Giunse in serata il telegramma urgente del prefetto di Como che, con effetto immediato, sospendeva Ongania dalle funzioni di sindaco.

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Divamparono subito polemiche tra le più accese. Il settimanale “Il Prealpino”, vicino al sindaco, scrisse di “ira reazionaria” contro un primo cittadino reo solo di nutrire sentimenti liberi. Il periodico esprimeva piena solidarietà a Ongania, che non si era adattato, dopo il telegramma prefettizio, “ad essere un servitore cieco e fedele degli stipendiati rappresentanti del Governo”. Il consigliere socialista avvocato Antonio Vanzelli indirizzava una lettera aperta al prefetto dove sottolineava che “correttamente agì il sindaco di Lecco, il quale trovandosi a capo di una cittadinanza fortunatamente lavoratrice ha creduto di interpretare i sentimenti comuni associandosi con l’esposizione tricolore alla festa del lavoro”. La vena poetica di Giovanni Bertacchi trovò modo, sempre sulle pagine del Prealpino, di far pubblicare la singolare ode “Il 1° maggio di una bandiera”. Il consiglio comunale veniva, intanto, convocato urgentemente in seduta straordinaria, presso il salone di via Roma, situato nella palazzina del cortile interno di palazzo Ghislanzoni. Un numeroso pubblico affollò l’aula con manifestazioni di aperta simpatia per il sindaco sospeso, accolto da calorosi applausi. Il consiglio comunale venne, però, presieduto dall’assessore anziano Giuseppe Mariani, essendo Ongania sospeso. Il “sindaco in castigo” si limitò a riferire sui fatti avvenuti il 1° maggio, in particolare ai due incontri avvenuti con il sottoprefetto. Il consiglio comunale approvò con voti unanimi, fra nuovi vigorosi applausi, una mozione di solidarietà e di piena fiducia ad Ongania, deplorando l’arbitrio dell’autorità governativa. Giuseppe Ongania tornò nel suo ruolo di sindaco il 7 luglio 1900; la sospensione, infatti, era stata di soli due mesi, mentre in un primo tempo si parlava di un semestre e, per alcuni, addirittura di un anno. Mezza Italia democratica e popolare aveva parlato di Ongania, in particolare radicali, socialisti, repubblicani, circoli di ispirazione laica e progressista. Ongania era nato a Lecco il 23 dicembre 1869; aveva studiato nel liceo del collegio dei Barnabiti di Lodi. Si era laureato in ingegneria civile, al Politecnico di Milano, nel settembre 1893. Il suo debutto in politica avvenne nelle elezioni municipali del 1895; divenne sindaco il 5 maggio 1897, subentrando proprio al suo ex capolista, nello schieramento “Concentrazione Democratica”, Guido Ghislanzoni. Fissò allora un primato che resiste tuttora e che, molto probabilmente, sarà difficilmente battuto: è stato il più giovane cittadino ad assumere la carica di sindaco di Lecco. Ongania aveva allora 27 anni e mezzo. Un primato che è stato solo sfiorato nell’autunno 1948 da Ugo Bartesaghi, primo sindaco democristiano della città, eletto a 28 anni. Ongania rimase sindaco, salvo la parentesi di alcuni mesi nel 1898

Come si presenta oggi il balcone al primo piano di Palazzo Ghislanzoni, in via Roma, già sede municipale, dove il 1° maggio 1900 venne esposta la bandiera tricolore che provocò la sospensione per due mesi dall’incarico del sindaco Giuseppe Ongania. La palazzina nel cortile di via Roma, dove, al piano terra, si trovava il salone riunioni del consiglio comunale di Lecco e dove la sede municipale rimase sino al 1928.

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La lapide della sepoltura di Giuseppe Ongania presso la cappella di famiglia, nel cimitero monumentale di via Parini.

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(quando fu sostituito da Achille Gattinoni), fino al 13 ottobre 1909. Nel 1910 venne eletto consigliere provinciale. Le sue condizioni di salute erano, intanto, divenute critiche e trascorse un lungo periodo di cura presso le terme della Val Masino, in provincia di Sondrio. Giuseppe Ongania morì l’11 giugno 1911, presso l’Istituto Biffi di Monza, dove era stato ricoverato per l’aggravarsi della malattia. Lecco perdeva un cittadino di primo piano, a meno di 42 anni di età, protagonista per oltre vent’anni, non solo nell’ambito municipale. Ongania era stato, infatti, vicepresidente della sezione Cai, presidente del Teatro della Società, consigliere di amministrazione della Banca Popolare di Lecco, fondatore e dirigente della Canottieri Lecco. Le sue spoglie riposano nella cappella di famiglia presso il Monumentale di via Parini. L’irrequieto personaggio, l’acceso repubblicano, ebbe addirittura due funerali. Le sue volontà erano, sembra, per esequie civili ma, per l’intervento della sorella, suora di Maria Bambina, si fecero solenni onoranze religiose con la partecipazione di 18 sacerdoti. I funerali avvennero nel


pomeriggio del 14 giugno, sotto una pioggia incessante. C’era tutto lo stato maggiore “cermenatiano”, guidato dal leader indiscusso, l’onorevole Mario Cermenati, deputato nel Parlamento del Regno dal 1909. Nella mattinata del 15 giugno vi furono, invece, le onoranze civili, promosse dai circoli democratici e laici. Un corteo di duemila persone si mosse dal palazzo scolastico di via Ghislanzoni per raggiungere il cimitero. C’erano le bandiere di repubblicani, radicali, socialisti, i vessilli di corpi musicali e di organizzazioni sportive; c’erano deputati e uomini politici giunti da Milano, Sondrio, Como e da altre città. Spiccava un’enorme corona di garofani rossi con la scritta “La democrazia lecchese a Giuseppe Ongania”. La città di Lecco ricorda il sindaco che volle il tricolore il 1° maggio 1900 con una via a due passi dal Monumentale di via Parini. È il cimitero che fu al centro di polemiche accese quando, nel 1904, Ongania voleva costruire nel nuovo famedio d’ingresso anche un forno crematorio. L’opposizione clericale fu durissima e intransigente a tale progetto, che non venne realizzato.

Lo stemma arcivescovile gettato nel lago durante i tumulti elettorali nella serata del 13 novembre 1904. Si trova ora sulla facciata della canonica di piazza Cermenati.

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La prima statua di Mario Cermenati, opera dello scultore Mario Rutelli. Venne inaugurata nel settembre 1927. L’epigrafe del basamento si deve al poeta Giovanni Bertacchi. Negli anni ’40, durante la seconda guerra mondiale, la statua venne tolta per essere fusa in materiale bellico. È stata sostituita con l’attuale, in marmo, opera di Francesco Modena.


CAPITOLO 18

Elezioni roventi: 1904 - 1909

I

l primo “duello” politico elettorale fra Mario Cermenati e Lodovico Gavazzi avvenne per l’elezione dei deputati al Parlamento del Regno del 3 giugno 1900. Cermenati era allora un docente di geologia e di paleontologia. Gavazzi, invece, un importante imprenditore serico della vicina Valmadrera. Il primo era sostenuto dalle forze progressiste del centrosinistra e, in particolare, da repubblicani e radicali; il secondo era il leader riconosciuto dei moderati e dei conservatori, che lo avevano già eletto al Parlamento nazionale nel Collegio di Lecco. La candidatura di Mario Cermenati venne accompagnata dall’appello agli elettori di un comitato di personalità cittadine e di esponenti di circoli laici e democratici. La “battaglia” elettorale si annunciò avvincente e incerta: Gavazzi poteva vantare l’esperienza di deputato e un’intensa attività svolta a favore del territorio lecchese; Cermenati era un esponente di notevole popolarità e di riconosciuto ingegno. Il responso delle urne venne atteso con trepidazione. I tre seggi di Lecco videro la prevalenza di Cermenati, come in larga parte dei vecchi Comuni lecchesi, gli attuali rioni cittadini. La maggioranza cermenatiana fu consistente ad Acquate, Germanedo e Rancio; di stretta misura a Maggianico e San Giovanni. Laorca e Castello votarono, invece, per Gavazzi. Se la città aveva votato Cermenati (intendendo tutti i Comuni che

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Il tratto del lungolago di Lecco che ha preso il nome di Cesare Battisti, quando la vicina piazza venne dedicata a Mario Cermenati, dopo l’inaugurazione del monumento. All’eroe trentino Cesare Battisti era, infatti, dedicata la piazza, prima del monumento a Cermenati.

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formarono la grande Lecco nel 1928), il territorio si pronunciò per Gavazzi. Schiacciante la maggioranza di Valmadrera: i voti a Gavazzi furono 331, contro i 14 per Cermenati. Netta maggioranza per Gavazzi anche a Malgrate. Gavazzi stravinse a Premana (106 voti contro 6) e a Cortenova e Casargo. Il risultato finale vide la rielezioni al Parlamento di Lodovico Gavazzi. Quattro anni dopo, nel novembre 1904, Cermenati e Gavazzi si trovarono nuovamente impegnati nella campagna elettorale. Nel quadriennio trascorso il professore di geologia aveva consolidato la sua posizione, ormai indiscussa, di leader locale degli ambienti di democrazia laica. La sua candidatura venne resa nota con manifesto sottoscritto dal Circolo democratico radicale, con sede in via Mascari, presso la scomparsa trattoria del Piazz, da un Comitato di commercianti e esercenti e dall’Unione democratica valsassinese. Il clima politico divenne subito rovente. I cermenatiani denunciarono coalizioni di industriali e di preti “che usavano contadini superstiziosi e


L’attuale statua in marmo di Mario Cermenati. L’epigrafe del monumento, dovuta a Giovanni Bertacchi, evidenzia, tra l’altro, che “l’aperto senso della vita tradusse in affetti generosi. Degno di vivere perenne nel bronzo, negli intelletti, nei cuori, 1868-1924”.

operai disorganizzati” per far propaganda a Gavazzi. Un esponente radicale dichiarò di aver constatato che un prete approfittasse addirittura del camposanto per sostenere il candidato conservatore, avvicinando dolenti al termine di un funerale. Il sindaco Ongania, con gli assessori Bonfanti e Mariani, protestò dal sottoprefetto per le continue ingerenze del clero nella campagna elettorale e per l’azione “diffamatoria” di alcuni parroci contro Mario Cermenati. Le elezioni si svolsero il 6 novembre 1904. Erano 8.784 gli elettori iscritti nelle liste del Collegio di Lecco: andarono alle urne 6.282. Tutti prevedevano uno scarto minimo di voti tra i due candidati. Erano pronostici azzeccati: Gavazzi ebbe 2.997 voti, Cermenati 2.934. La differenza sottile rendeva indispensabile il ballottaggio e le elezioni vennero subito fissate per la domenica successiva, il 13 novembre 1904. La settimana pre-elettorale trascorse tra nuove polemiche. Le operazioni di voto si svolsero in modo regolare e senza incidenti: la tensione cominciò a salire presso il seggio centrale del Collegio di Lecco, allestito presso

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Una panoramica della piazza con il monumento a Mario Cermenati, ancora dedicata a Cesare Battisti.

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il Teatro Sociale. I primi risultati confermarono subito le tendenze delle precedenti votazioni: vittoria di Cermenati a Lecco e comuni limitrofi, maggioranza per Gavazzi nel territorio. L’altalena dei risultati che collocava in testa nei parziali l’uno o l’altro candidato, con una manciata di voti, provocò dispute fra i rappresentanti dei due schieramenti e non mancarono accuse di corruzione e di brogli. Dalle parole, purtroppo, si passò ai fatti. Urne elettorali, sedie, fascicoli dei verbali vennero scagliati in un generale parapiglia. I carabinieri di guardia chiesero rinforzi alla vicina caserma Sirtori, dove vennero mobilitati plotoni di fanteria. Il teatro venne sgomberato con un’operazione di rastrellamento quasi militare, il che avvenne anche per l’antistante piazza Garibaldi. Intervenne lo stesso Cermenati, improvvisando un comizio dal balcone del ristorante “Cetra d’Oro”, detto Borsino, in via Roma, per invitare alla calma i suoi seguaci. Il Borsino era un locale con scelta cucina, dove Cermenati aveva il suo quartier generale in periodo elettorale. Sempre Cermenati dovette improvvisare un altro discorso presso la sua abitazione di via Cairoli, invitando nuovamente alla calma. L’appello non fu troppo ascoltato perché nella notte tafferugli si verificarono in diverse zone del centro. L’episodio più grave avvenne presso la canonica di San Nicolò. Un gruppo di cermenatiani prese a sassate le vetrate dell’edificio e scaraventò nel lago lo stemma arcivescovile collocato sul portale d’ingresso. Il prevosto Giuseppe Confalonieri era stato accusato di sostenere Gavazzi. Il seggio centrale del collegio, impossibilitato a redigere un verbale per la scomparsa di plichi e schede avvenuta durante gli incidenti, inviò gli atti a Roma, affidando alla Giunta centrale l’incarico di nominare il deputato per il Collegio di Lecco. L’8 dicembre 1904 la decisione venne resa nota: Lodovico Gavazzi era rieletto al Parlamento. Era prevalsa la tesi che gli incidenti fossero scoppiati per responsabilità di attivisti cermenatiani quando i risultati dei seggi periferici avevano permesso a Gavazzi di passare in testa. Valmadrera festeggiò la notizia con una fiaccolata: un fantoccio di stracci e di carta, riproduzione sommaria dell’effige di Cermenati, venne bruciato tra generale esultanza. I cermenatiani si radunarono, invece, a Maggianico, per una manifestazione di protesta contro “i soprusi elettorali governativi”. Cermenati era assente, in quanto impegnato a Roma per lezioni all’università. Aveva pubblicamente disapprovato, prima di lasciare Lecco, le intemperanze compiute da suoi seguaci più accesi. A Maggianico la manifestazione si svolse presso la villa del senatore Mario Martelli, un milanese più volte eletto al Parlamento. Martelli era politicamente molto vicino a Cermenati. Il senatore parlò dal balcone della sua villa e attaccò pesantemente “la reazione moderata e clericale”, scatenando un uragano di applausi. Sconfitto nel 1904, Cermenati si prese la grande rivincita il 7 marzo 1909. Venne eletto deputato con una strepitosa maggioranza di suffragi, superando il candidato liberal-moderato Giorgio Enrico Falck. Ebbe inizio quel periodo, durato quindici anni, che vide Cermenati protagonista indiscusso della politica locale e che si concluse con la sua scomparsa, avvenuta l’8 ottobre 1924 a Castelgandolfo.


L’eco delle accese battaglie elettorali nel primo decennio del Novecento si era, però, già spenta. Nelle elezioni municipali lecchesi dell’ottobre 1920 i militanti dei due schieramenti antagonisti avevano dato vita alla lista di concentrazione democratica per “resistere alla duplice bufera del bolscevismo e del popolarismo”. La lista uscì vittoriosa, ottenendo 24 dei 30 seggi del consiglio comunale, grazie al sistema maggioritario. I sei seggi della minoranza andarono ai socialisti guidati da Giacomo Brambilla e Giuseppe Mauri, che sarà il primo sindaco di Lecco dopo la Liberazione della primavera 1945. La prima seduta consiliare vide gli eletti della maggioranza, alcuni dei quali a suo tempo contrapposti per Cermenati e per Gavazzi, entrare in corteo, uniti sottobraccio, nel salone civico di via Roma, cantando inni patriottici.

Villa Gavazzi di Valmadrera, dimora della storica famiglia di importanti imprenditori serici, in una fotografia del Novecento.

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La cerimonia inaugurale, il 4 novembre 1968, della campana della pace, collocata sul campanile del Santuario di Nostra Signora della Vittoria e che tutte le sere, alle 19, fa scendere sulla cittĂ lenti rintocchi. Ha presieduto la cerimonia il vescovo ausiliare di Milano, monsignor Luigi Oldani. Madrina è stata Gisella Orio Cesaris, sorella del tenente degli alpini Guido Orio, medaglia d’argento al valor militare alla memoria, caduto sul Pasubio nel 1916.


CAPITOLO 19

Retrovia del fronte sullo Stelvio: 1915 -18

U

n comizio “interventista” di Cesare Battisti, l’11 marzo 1915 presso il Teatro Sociale e poi uno successivo, da un balcone della casa fronteggiante la caserma Sirtori, il 30 aprile, fecero intuire a numerosi lecchesi che l’entrata in guerra dell’Italia era sempre più vicina, come lo sarà, appunto, il 24 maggio. Una lapide, nell’attuale via Leonardo da Vinci, con l’epigrafe dettata da Mario Cermenati, ricorda l’appello rivolto ai lecchesi e ai militari della caserma (oggi sede di uffici della Questura) dal martire del Castello del Buon Consiglio in Trento, a sostegno delle terre italiane ancora sottomesse allo straniero. Nel 1915 furono numerosi i lecchesi, giovani ma anche meno giovani, che lasciarono la città per indossare la divisa grigioverde dell’Esercito italiano. La logorante e tremenda guerra di trincea richiedeva il sacrificio continuo di molte vite umane. Già nelle prime settimane di guerra Lecco viveva la tragedia bellica nell’attesa delle notizie che giungevano dal fronte. Nel palazzo municipale, allora in via Roma, negli uffici dell’Anagrafe, giungevano purtroppo i primi telegrammi che dai comandi militari segnalavano ai parenti la scomparsa di un congiunto. Erano tante le famiglie che trepidavano per la sorte dei loro cari, impegnati nei reparti in linea. L’apertura del fronte dello Stelvio collocò Lecco nella zona di retrovia. Severe disposizioni del comando supremo proibivano, nelle retrovie, l’uso di qualsiasi veicolo o carro con il coprifuoco delle ore 21. Il ponte

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Il Santuario di Nostra Signora della Vittoria in una foto del 1940, quando venne completato il campanile. La chiesa era stata consacrata il 5 novembre 1932, nel ricordo dei Caduti lecchesi della Grande Guerra 1915-18.

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Una panoramica in lontananza del monumento ai Caduti sul lungolago, in un pomeriggio di festa per lancio di paracadutisti nelle iniziative del Giugno Lecchese.

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Azzone Visconti era controllato in permanenza da pattuglie di carabinieri. Le arcate del ponte erano state perforate per poter prontamente sistemare cariche di esplosivo nel caso di avanzata nemica. Lecco doveva rappresentare l’estrema frontiera di arresto nel caso di uno sfondamento nemico proveniente dalla Valtellina. La città si trovava, così, ad essere una “capitale” della retrovia. L’edificio scolastico di via Ghislanzoni venne adibito ad ospedale militare. Una sezione militare di censura venne installata nell’edificio dei fratelli Ripamonti in via Como. La caserma Sirtori al Lazzaretto era insufficiente a ospitare i militari presenti in città, a iniziare dai fanti del 73° reggimento. Vennero, quindi, requisiti edifici privati per essere destinati ad alloggi di truppe: è stato il caso della Cereria Manzoni di via Cavour, della Trafileria Mira al Lazzaretto, la Filanda Scatti di via Bovara, la Bulloneria di via Amendola, presso il ponte Visconti, che divenne posto tappa per diversi reparti in transito, in particolare truppe alpine e batterie di artiglieri da montagna. Nell’orfanotrofio del Caleotto di don Salvatore Dell’Oro presero quartie-


re squadre del Genio Militare, pronte a intervenire per minare i torrioni di Rialba, sopra la Torraccia di Abbadia Lariana, e rendere intransitabile l’importantissima strada costiera proveniente dallo Stelvio.Un deposito legnami della 1ª Armata era allestito sul piazzale detto “dei giardinett”, dove è sorto poi il monumento ai Caduti, inaugurato il 24 ottobre 1926. Il deposito vedeva la presenza, come facchini, di prigionieri austriaci e croati, accampati in disagevoli baracche di legno. Le sofferenze della guerra aumentarono nell’inverno 1917, dopo la rotta di Caporetto e l’invasione austriaca del Veneto, fermata sulla linea difensiva del Piave. I lecchesi sostavano dinanzi al municipio di via Roma, dove, all’Albo Pretorio, veniva esposto quotidianamente il bollettino diramato dal Comando supremo dell’Esercito italiano. Era il modo più tempestivo per conoscere le vicende belliche, non essendovi, oltre ai quotidiani di carta stampa, alcun altro canale di informazione, in quanto radio e televisione arriveranno in anni successivi. Lecco rientrò anche nel territorio degli allarmi aerei, dopo la prima in-

La cerimonia presso il monumento ai Caduti del 4 novembre 1975, anniversario della Vittoria 1918. Il discorso commemorativo è tenuto dal sindaco di Lecco, Rodolfo Tirinzoni, ufficiale degli alpini.

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Il monumento ai Caduti ripreso da un’imbarcazione sulle acque del lago, davanti alla scalinata di approdo, appena dopo l’inaugurazione avvenuta il 24 ottobre 1926, con imponente manifestazione patriottica. L’opera si deve allo scultore Giannino Castiglioni.

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cursione di due velivoli austriaci su Milano, avvenuta alle ore 9 del 14 febbraio 1916. Il bilancio fu grave: sedici civili morti e una quarantina di feriti, nella zona cittadina, da Porta Romana a Porta Volta. Una vedetta era vigile sul terrazzino terminale del campanile di San Nicolò, pronta a segnalare l’eventuale avvicinamento di aerei nemici. L’allarme venne dato solo qualche volta, ma gli aerei austriaci arrivarono a Paderno d’Adda, nel tentativo di colpire l’importante ponte, il San Michele, nodo stradale e ferroviario di primaria importanza. Dopo oltre tre anni di durissima guerra giunse il giorno tanto atteso della Vittoria e della Pace, il 4 novembre 1918. La notizia dell’armistizio pervenne a Lecco nel pomeriggio del 3 novembre 1918 con le edizioni straordinarie del Corriere della Sera e del Secolo di Milano.Vi furono immediatamente manifestazioni di gioia popolare. Parlarono dal balcone del municipio di via Roma, dinnanzi a tantissima gente festante, il sindaco Monti, gli assessori Fermo Magni e Antonio Gerosa, il capitano Giulio Ripamonti, più volte decorato. La notte trascorse tra brindisi in esercizi pubblici, improvvisati cortei nelle vie del centro, militari esultanti presso la caserma Sirtori e lungo l’allora strada sterrata della zona Lazzaretto, l’attuale via Leonardo da Vinci. Nuovi festeggiamenti avvennero in piazza Garibaldi, nella mattina del 4, quando venne reso noto lo storico Bollettino firmato Armando Diaz. La gioia immensa della vittoria era, però, velata intimamente dal ricordo di tanti caduti, del triste bilancio che anche Lecco aveva dovuto registrare negli anni bellici. La città era rimasta quasi vuota dai suoi giovani


e lo si poteva notare anche all’istituto per ragionieri Parini, allora nel palazzo di via Ghislanzoni. Delfina Bonaiti Aldè, nata il 1° novembre 1898 e deceduta il 28 dicembre 1999, più che centenaria, ricordava ancora commossa, alla festa del secolo raggiunto, di essere rimasta unica alunna, nella classe V del Parini nell’anno scolastico 1917-1918. La classe era formata da 15 studenti, Delfina era l’unica ragazza. I compagni delle leve 1898 e 1899 erano stati chiamati a vestire il grigioverde dell’Esercito italiano, strenuamente impegnato sul Piave. Alcuni non sono tornati e riposano nella cripta-sacrario della Vittoria, che ha visto la stessa signora Delfina generosa benefattrice. Lecco ricorda non solo con il monumento sul lungolago i Caduti del 1915-1918. Il 5 novembre 1932 venne consacrato il Santuario di Nostra Signora della Vittoria, tempio civico e dal 1936 divenuto sacrario dei Caduti nella sottostante cripta. Il 4 novembre 1968, nel 50° della Vittoria, veniva benedetta la grande campana, gemella di Maria Dolens a Rovereto. È il bronzo che tutte le sere, alle 19, fa scendere sulla città lenti e solenni rintocchi, a memoria dei Caduti e come prece di pace. La campana è stata benedetta dall’allora vescovo ausiliare di Milano e vicario episcopale di Lecco, monsignor Luigi Oldani. L’iniziativa si deve a una sottoscrizione pubblica promossa dal Comune di Lecco, con il sindaco Alessandro Rusconi, e la presidente dell’Associazione Famiglie Caduti e Dispersi in Guerra, Maria Fusi. Madrina della campana è stata Gisella Orio Cesaris, residente in quartiere Acquate, sorella della medaglia d’argento Guido Orio, tenente del IV Alpini, caduto nel 1916 sul monte Pasubio, a 21 anni. Il discorso ufficiale della cerimonia venne tenuto dall’ex sindaco Luigi Colombo, presidente dell’Associazione Combattenti e Reduci e ufficiale con i fanti della Legnano, nella battaglia di Montelungo dell’8 dicembre 1943, con il rinato Esercito Italiano per la Liberazione.

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La celebrazione, nel cortile centrale del municipio di piazza Diaz, nel giugno 1958, dei 110 anni di Lecco cittĂ . Oratore ufficiale (in piedi) è il lecchese Aldo Rossi, presidente dell’Amministrazione provinciale di Como.


CAPITOLO 20

I municipi e la “tappa” lecchese del Re

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ecco “italiana”, dopo il definitivo allontanamento degli austriaci dalla Lombardia nell’estate 1859, vedeva la sede municipale in Contrada Larga, l’attuale via Cavour. Il contratto di locazione dell’appartamento di quattro locali, situato al primo piano, come nuova sede del municipio, era stato stipulato con decorrenza dall’11 novembre 1852. I proprietari dello stabile si impegnarono nel contratto a non affittare la “sottostanti botteghe a battirame o fabbri ferrai”. Nel 1856 altri locali del primo piano dello stesso edificio vennero occupati dalla nuova stazione telegrafica di Lecco. La sede municipale rimase in Contrada Larga sino al 1862, quando si rese necessario un nuovo trasferimento per l’ampliamento degli uffici, che passarono nella piazza del Mercato, proprio a fianco della Torre Viscontea. Il 23 gennaio 1893 moriva a Milano Luigi Ghislanzoni, possidente, celibe, nativo di Lecco, che serbava grande affetto per la sua città. Ghislanzoni, con testamento del 14 aprile 1891, aveva nominato erede dell’edificio di sua proprietà in via Roma (oggi civico 51) il Comune di Lecco, affinché il complesso fosse adibito a sede municipale. La civica amministrazione, con il sindaco Guido Ghislanzoni, accettò subito le volontà dello scomparso e affidò all’ingegner Enrico Gattinoni il progetto per sistemare il palazzo a municipio. Una lapide, collocata nell’atrio dell’edificio, ricorda il gesto munifico di Luigi Ghislanzoni “benemerito cittadino elargiva

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Il salone del consiglio comunale gremito di pubblico durante una cerimonia di festa nazionale negli anni ’80 del Novecento.

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cospicui lasciti all’ospedale, all’asilo d’infanzia, al Comune per sollievo dei poveri, dotava la città di questa casa per sede del municipio”. Un’altra memoria è collocata nell’atrio del palazzo Ghislanzoni: si tratta della targa bronzea per “i generosi concittadini caduti per l’indipendenza d’Italia, 1859 Tagliaferri Pietro, 1860 Torri Tarelli Giuseppe (uno dei Mille), Ongania Giambattista, Beltramini Pasquale, Bonacina Giovanni Mosè”. Vi era poi una terza lapide, sempre a palazzo Ghislanzoni, con il bollettino della Vittoria del 4 novembre 1918, firmato dal comandante supremo dell’Esercito italiano, Armando Diaz. Il “bollettino” è stato tolto e trasferito sulla facciata dell’attuale municipio di piazza Diaz, lato sinistro guardando il portone d’ingresso. Venne posizionato per il pomeriggio di domenica 13 aprile 1928, quando è stato inaugurato, con solenne cerimonia, il nuovo municipio della “grande Lecco”, con l’intervento del Re d’Italia, Vittorio Emanuele III di Savoia. Era la prima, ed è stata la sola, visita ufficiale del Re a Lecco che, però, era già transitato durante la guerra 1915-1918, in particolare nella notte del 24 agosto 1915, diretto a visitare le truppe sul fronte dello Stelvio. Il convoglio militare con il Re si fermò in piazza Garibaldi; riprese il viaggio verso lo Stelvio, uscendo da Lecco lungo l’attuale tracciato di via Cavour, via Volta, incrocio detto delle quattro strade, oggi Largo Montenero, poi via Col di Lana verso la zona di Santo Stefano, sull’arteria cancellata dalla tragica frana dal monte San Martino la notte del 23 febbraio 1969. Era, quest’ultimo, il tratto lecchese della statale dello Stelvio e dello Spluga, in quanto non esisteva la costiera a lago nella zona di Brick e Caviate, realizzata nel 1932-33. L’edificio municipale, posto nelle vicinanze della stazione ferroviaria, era stato costruito come ospedale cittadino ancora nell’Ottocento. Nel 1835, con le donazioni effettuate da Pompeo Redaelli e Antonio Muzzi, fu possibile dare avvio all’ospedale, progettato dall’architetto Giuseppe Bovara. La costruzione fu ultimata nel 1843. Il palazzo Bovara rimase ospedale fino all’ottobre 1900 quando, divenuta insufficiente quella sede, venne inaugurato il nuovo complesso di via Ghislanzoni su progetto Ongania e Mella. È stato, quest’ultimo, l’ospedale che ha accompagnato tutto il secolo Novecento, sino alla realizzazione del “Manzoni”, in quartiere Germanedo, alle soglie del Duemila. Vittorio Emanuele III giunse a Lecco con treno speciale alle 15.45 del 13 aprile 1928, accolto dalla marcia reale eseguita dalla banda del 67° Reggimento Fanteria. All’interno della stazione era schierata una compagnia d’onore dei fanti sempre del 67°. In piazza Diaz, invece, era alli-

Il palazzo municipale nel 1968, 120° di Lecco città. Panoramica della zona intorno al Ponte di Azzone Visconti, all’inizio del Novecento. Al centro del ponte stesso, sul lato valle, si può notare la cappelletta votiva dedicata alla Madonna, protettrice dei viandanti, che venne tolta nel 1910 con i lavori di modifica del parapetto.

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Messa al campo celebrata il 30 settembre 1995 nel salone del consiglio comunale per l’arma di Cavalleria, con il presidente Giovanni Bartolozzi. Celebra il cappellano militare don Andrea Valsecchi, parroco 25 anni a Ballabio Superiore. Il sindaco, con la fascia tricolore, è Giuseppe Pogliani.

Il manifesto con il programma delle celebrazioni del 150° anno di Lecco città, nella giornata di domenica 28 giugno 1998.

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neato un reparto di truppe alpine del Battaglione Morbegno del V. Il re inaugurò il palazzo municipale e si affacciò al balcone centrale per salutare la folla. Si incontrò brevemente con le maggiori autorità presenti, a iniziare dal prefetto della provincia di Como, Luigi Maggioni, e il podestà di Lecco, Angelo Tubi. Raggiunse poi l’Istituto per la profilassi e la cura della tubercolosi polmonare, in via Tubi. Era una realizzazione di avanguardia sanitaria, che onorava la città di Lecco, anche per la generosità della pubblica sottoscrizione e delle donazioni di tanti cittadini. Il complesso si collocava in un’ampia area verde lungo il corso del Caldone, tra i quartieri Castello e Caleotto. Il presidente dell’Istituto, il noto imprenditore Riccardo Badoni, in un breve intervento, evidenziò che il Centro antitubercolare si doveva al compianto dottor Nino Gazzaniga, che nell’autunno 1919 - con iniziativa da filantropo - volle avviare un progetto benemerito, ma sicuramente non facile, considerando gli anni tristi dell’immediato dopoguerra. La prima pietra era stata posta il 24 ottobre 1926 da Emanuele Filiberto di Savoia duca d’Aosta, comandante dell’invitta III Armata, giunto a Lecco per inaugurare il monumento ai Caduti sul lungolago, opera dello scultore Giannino Castiglioni. Il 13 aprile 1928 il Re raggiunse anche il monumento ai Caduti, incontrando vedove, mutilati, reduci e deponendo una corona d’alloro alle lapidi. Volle poi percorrere in auto il lungolago sino al ristorante Ripamonti, presso le Caviate, estremo limite della strada rivierasca. Ammirò il paesaggio dell’ultimo tratto del Lario e volle osservare da vicino i monumenti a Mario Cermenati e Antonio Stoppani, che erano stati inaugurati nell’autunno 1927. Ritornò, quindi, verso la stazione ferroviaria e intorno alle 18 risalì sul treno speciale alla volta di Milano. Le cronache giornalistiche della primavera 1928 riferiscono che i lavori per l’adattamento dell’ex sede del Tribunale a palazzo comunale avevano assunto un ritmo affrettato. Un periodico locale scriveva: “La facciata che conserva, come l’interno, le belle linee architettoniche disegnate dal Bovara è stata ornata dallo stemma governativo, da quello comunale, da quello del fascio e dalla lapide recante il bollettino della Vittoria, tolta all’antica sede del Comune. Oltre a tutti gli uffici, il nuovo palazzo del Comune avrà, al primo piano, un grande salone per cerimonie capace di cinquecento persone. Anche il piazzale della stazione si sta sistemando. Tolto il monumento con il busto in bronzo di Antonio Ghislanzoni, trasportato altrove l’orinatoio e abbattuto tutto il muro che nascondeva il braccio sinistro del palazzo, il piazzale presenta un nuovo aspetto e a renderlo decoroso ha valso pure l’abbellimento, testé compiuto, della casa De Toma, ove ha sede la Banca Commerciale”. Il municipio è ormai da ottant’anni nel palazzo di piazza Diaz, dove spicca, sopra il balcone, un grande stemma civico di Lecco.

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Sopra, il salone consiliare del municipio durante la prima cerimonia di conferimento delle civiche benemerenze di San Nicolò, il 6 dicembre 1967. Sotto, il sindaco di Lecco, Alessandro Rusconi, rivolge un indirizzo di saluto al presidente del Consiglio, Aldo Moro, in visita alla cittĂ nell’anno 120° della sua storia. La cerimonia si svolge nel salone del palazzo municipale domenica 11 febbraio 1968.


CAPITOLO 21

L’unificazione municipale e il regio decreto 1923

I

l cammino municipale della “Grande Lecco” prese avvio il 1° marzo 1924, quando divenne operativa “l’aggregazione a Lecco dei Comuni contermini di Castello, Rancio, Laorca, San Giovanni alla Castagna, Acquate, Germanedo, nonché parte del territorio di Maggianico, quello relativo al rione di Belledo”. Un regio decreto era stato reso noto in tal senso il 27 dicembre 1923, firmato dal Re d’Italia Vittorio Emanuele III e controfirmato dal Primo ministro, Benito Mussolini. L’importantissimo provvedimento giungeva dopo un apposito, dettagliato, memoriale inviato al ministero dell’Interno con l’elencazione delle motivazioni che sostenevano l’unificazione amministrativa dei Comuni sparsi nel territorio lecchese, tra lago e montagne. Un aspetto della singolare divisione amministrativa dell’area lecchese veniva evidenziato dall’elencazione di interferenze esistenti tra Comuni confinanti. La stazione ferroviaria di Lecco, per esempio, era collocata per buona parte nel territorio di Castello. Curiosa era la distribuzione dei cimiteri: Castello aveva il cimitero ad Acquate, mentre accoglieva nei suoi confini amministrativi quelli di San Giovanni e Lecco centro, destinato, quest’ultimo, anche per le sepolture di Pescate. Il campo di calcio “ai Cantarelli” e il poligono di tiro “al Bersaglio”, in località Santo Stefano, entrambi a disposizione di società lecchesi, si trovavano in Comune di Castello. Importanti complessi industriali, come

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Piazza Cermenati con i primi posteggi di bus ed auto, a metà anni ’50.

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Via Leonardo da Vinci vista dal retro teatro, con il ponte sul Caldone presso la caserma Giuseppe Sirtori. La foto risale agli anni ’40 del Novecento, prima della costruzione del nuovo ponte sull’Adda.

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l’Acciaieria e Ferriera del Caleotto e le industrie Badoni e Faini, erano divisi tra Lecco e Castello. Villa Manzoni, al Caleotto, era sempre stata, invece, in territorio lecchese. La valutazione specifica delle varie realtà municipali era stata affidata a un’apposita commissione presieduta dall’assessore comunale lecchese Vittorio Muttoni. La commissione, concludendo il lavoro di ricognizione, aveva chiesto al ministero dell’Interno il provvedimento di aggregazione a Lecco non solo dei Comuni unificati il 1° marzo 1924, ma di un’altra fascia più estesa, riguardante tutto il Comune di Maggianico e anche i confinanti territori oltre il fiume Adda, da Malgrate a Pescate, nonché “per ragioni di continuità territoriale” delle piccole frazioni Ponte Azzone Visconti e San Michele, del Comune di Galbiate. Maggianico verrà assorbito nel 1928, mentre Malgrate e Pescate non saranno mai aggregati alla “Grande Lecco”. Pescate verrà assorbito da Garlate e tornerà autonomo municipio nel 1953. La cittadinanza lecchese fu informata del provvedimento di unificazione con apposito manifesto firmato dal sindaco Giovanni Gilardi e dal presidente della commissione, Vittorio Muttoni. Lecco raggiungeva allora il numero di 14.861 abitanti. L’assorbimento portò praticamente a un raddoppio della popolazione e raggiunse nel 1927 la cifra di oltre 28.000 abitanti. Il Comune più popoloso era Castello (5.211), seguito da Acquate (2.495), Rancio (2.427), San Giovanni (2.177), Laorca (1.806), Germanedo (1.133). La zona di Belledo contava 470 abitanti, sui 2.870 del Comune di Maggianico, il terzo nella popolazione, dopo Lecco e Castello. C’era un lavoro imponente da compiere, non solo di organizzazione bu-


rocratica di uffici e del personale, ma di soluzione unitaria per problemi prioritari come acquedotto, strade, cimiteri, istruzione, illuminazione, toponomastica, pubblico macello, servizi sanitari e lavori pubblici. La commissione consultiva appositamente nominata comprendeva i rappresentanti di tutti i Comuni interessati all’unificazione. I componenti erano: Giovanni Gilardi, Giuseppe Riccardo Badoni, Vittorio Muttoni, Giulio Amigoni per Lecco; Giovanni Battista Sala, Giuseppe Sala, Carlo Fiocchi per Castello; Alfredo Redaelli e Federico Corti per Rancio; Giacomo Molteni e Bixio Rusconi per San Giovanni; Pietro Gerosa Crotta e Felice Bonaiti per Laorca; Adelchi Cima e Gino Fasoli per Acquate; Bernardo Sironi per Germanedo. Spuntavano subito i primi imponenti progetti della “Grande Lecco”, in particolare il nuovo ed esteso cimitero in località Gaggio di Malgrate, sotto le prime pendici del Monte Barro, in zona allora completamente isolata. Sarebbe stato l’unico cimitero della città, in previsione anche dell’unificazione di Malgrate a Lecco. Sarà realizzato a tempo di record nel 32-33, ma rimarrà incredibilmente inutilizzato per decenni, sino alla sua demolizione per costruire complessi scolastici del Comune di Malgrate. L’apertura del cimitero era stata rinviata nel tempo, in attesa del ponte Nuovo sull’Adda al Lazzaretto che avrebbe facilitato i collegamenti disagevoli verso il Gaggio, affidati solo al ponte stradale di Azzone Visconti e alla linea tramviaria verso Como. Le nuove opere municipali non si limitavano, comunque, al grande cimitero, ma riguardavano importanti collegamenti stradali, come il viale verso Santo Stefano, l’attuale Turati, allora dedicato alla principessa

Piazza Manzoni vista dallo sbocco di viale Dante, mentre si può notare sulla sinistra la protezione di paracarri e di sbarre verso il corso d’acqua del Caldone ancora scoperto.

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Maria José e al vialone alberato tra Sant’Ambrogio di Maggianico e Belledo, l’attuale via Valsugana. Sorse il modernissimo macello pubblico, in quartiere Pescarenico. Si progettarono anche nuovi edifici scolastici. Lecco perdeva però il Distretto Militare, sciolto ufficialmente il 10 settembre 1930. La stampa scriveva: “Per tutte le pratiche che lo stesso esperiva, quind’innanzi occorre rivolgersi a Como. Ad occupare la vasta caserma Sirtori non rimane, per ora, che il deposito del Morbegno. Auguriamo e speriamo che vi possa prender stanza una compagnia del V Alpini. A dare il saluto ai partenti, gli ufficiali in congedo offrirono un pranzo a quelli del disciolto Distretto. Brindarono il capo sezione, capitano Giulio Fiocchi, il commissario prefettizio Amorth e il colonnello Moni, tra il più vivo entusiasmo dei presenti”. Lecco, se perdeva il Distretto, recuperava però un nuovo Palazzo di Giustizia, considerando che venne ritenuto troppo decentrato lo spostamento di aule e uffici giudiziari presso Palazzo Belgioioso, in


quartiere Castello, dopo aver lasciato Palazzo Bovara, divenuto municipio. Nel 1937 veniva costituita la Società Anonima Immobiliare Littoria, che aveva per oggetto, particolare ed esclusivo, la costruzione di uno stabile da adibirsi a Palazzo di Giustizia, e specialmente a sede del Tribunale e della Regia Pretura, nonché, eventualmente, della Corte d’Assise. Lo statuto della società veniva inviato il 23 aprile 1937 dall’Immobiliare Littoria al Podestà Giovanni Battista Aldè, per opportuna conoscenza. Il nuovo palazzo, in via Cornelio, venne realizzato all’inizio degli anni Quaranta, su progetto dell’architetto Mario Cereghini. Il nuovo ponte sull’Adda, che doveva rappresentare il simbolo della “Grande Lecco”, estesa anche sull’altra riva del fiume, subiva ritardi nel programma di attuazione e veniva poi bloccato, a cantiere già aperto, con i primi piloni di sostegno posizionati sulla sponda, dalla seconda guerra mondiale 1940-1945. Verrà inaugurato solo nell’autunno 1955.

Piazza Manzoni ancora senza le rotaie del tram, quindi prima del 1927.

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Monsignor Antonio Barone, nativo di Laorca, che ragazzo di 14 anni rimase ferito nel gravissimo incidente del tram a San GiovanniCavalesine l’11 dicembre 1943, mentre celebra una messa a suffragio degli scomparsi.


CAPITOLO 22

11 dicembre 1943 Il tram della morte

E

ra la mattina di sabato 11 dicembre 1943 quando avveniva la gravissima tragedia del tram deragliato alla curva della località Cavalesine, in quartiere San Giovanni. I morti furono 14, 31 i feriti. È stata la più pesante tragedia cittadina di tutto il secolo Novecento, superiore - per numero di vittime - alla frana del monte San Martino del febbraio 1969, allo scoppio del gas in quartiere Castello del dicembre 1987 e alle incursioni aeree belliche della primavera 1945 sulla Fiocchi Munizioni di Belledo. Era già un terribile inverno di guerra, tra miserie e bombardamenti, tra lutti e angosce per giovani militari caduti e per altri dispersi o prigionieri. Le operazioni di guerra erano giunte anche nel Lecchese, dopo i fatti dell’8 settembre 1943 e la battaglia intorno al Pizzo d’Erna, dell’ottobre successivo. Il tram della linea urbana Laorca-Maggianico, partito alle 8.05 dalla fermata capolinea di Malavedo, sulla strada per la Valsassina, di fronte all’attuale Bar Sole, alle 8.20 aveva già tragicamente concluso la sua discesa verso Lecco centro. Era terribilmente deragliato nel vasto prato sottostante la fermata di Cavalesine, dove oggi si trova l’Orio Garden. Allora nella zona c’era solo l’antica villa Sangregorio, ora sede di un Centro di Educazione Motoria della “Nostra Famiglia”. La voce popolare, la memoria della gente, ma anche una relazione del-

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La vettura tranviaria della linea Como-ErbaLecco alla fermata di piazza Manzoni presso il monumento del celebre autore dei Promessi Sposi.

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l’allora comandante dei vigili urbani, Pietro Bonacina, indicano come motivo principale della sciagura il carico dei passeggeri, molto superiore alla normale portata consentita. Sandro Bontempelli, classe 1923, ventenne residente a Laorca, era sul tram per raggiungere il posto di lavoro presso l’azienda Badoni, in quartiere Castello. “Il tram era stracarico – è la testimonianza di Bontempelli – C’erano circa 100 persone pigiate ovunque, strette a grappoli sui predellini esterni. I viaggiatori deceduti sono stati quelli seduti sul lato destro quando la carrozza si è rovesciata. Mi trovai impigliato tra sedili fracassati, con le gambe unte di olio lubrificante uscito dal serbatoio. Riuscii a uscire da solo, tra lamenti di dolore e invocazioni di aiuto, e a collaborare ai primi soccorsi, in attesa dei pompieri, della Croce Rossa e dei militari della Rsi. Rimase ferita mia sorella Nora, che aveva 24 anni”. Diversi superstiti sono concordi nel ricordare che il tram prese una velocità impressionante sulla discesa di corso Monte Santo, dopo le scuole di San Giovanni; alcune donne si misero a urlare di paura. La vettura si era fermata, poco prima, alla “Castagna”, l’attuale largo sull’angolo con via Micca. Alla curva di Cavalesine il tram giunse già sollevato sulle ruote di sinistra, ripiombò di nuovo sui binari, ma a questo punto si rovesciò sul lato a valle, oltre l’attuale fermata bus della linea Laorca-Chiuso. Anche per il tram c’era fermata, ma la carrozza impazzita tirò diritto, rischiando di travolgere passeggeri in attesa, tra i quali il professor Ireneo Coppetti, che sarà negli anni ’50 assessore al Comune di Lecco. Tra i primi soccorritori vi furono il medico condotto dottor Angelo Colombo, il parroco di San Giovanni don Luigi Monza (che la Chiesa ha proclamato Beato) e Pietro Caspani, classe 1925, ora residente in via Carlo Cattaneo, a Lecco centro. La mobilitazione popolare dei soccorsi fu davvero generosa e ampia, superando le ristrettezze del tempo di guerra, come la mancanza di benzina, la scarsità di automezzi, la carenza di medicinali e di materiale sanitario. Alcuni feriti raggiunsero l’ospedale di via Ghislanzoni a bordo di carri agricoli; gli stessi vennero usati per portare i cadaveri presso il cimitero di San Giovanni, che si trovava nella zona dell’attuale via Orlando Sora. Si recò sul luogo dell’incidente il commissario prefettizio del Comune di Lecco, Alberto Jermi, che visitò i feriti in ospedale e distribuì sussidi in denaro alle famiglie più colpite. Tra le vittime c’era una bimba di 3 anni (Maria Rosa Galbusera) e tre ragazze di 11: Graziella Riva, Carla Vitali e Ione Valsecchi. Morì anche suor Elisa Chiesa, del collegio San Giuseppe di Rancio, giovane religiosa di Maria Bambina. Due sfollati per bombar-

Vettura tranviaria della linea urbana cittadina Malavedo-Barco di Maggianico all’angolo di piazza Garibaldi con piazza Mazzini, presso il palazzo che allora ospitava l’agenzia lecchese della Banca d’Italia, chiusa nel 1963. 184

La vettura tranviaria nel prato di Cavalesine dopo il tragico deragliamento dell’11 dicembre 1943.



Il tram alla fermata del ponte di Malavedo, capolinea di Lecco alta. È da Malavedo che partì il tram della sciagura del 1943. L’altro capolinea era a Barco di Maggianico, come si può notare nel cartello posizionato all’altezza del conducente.

Una vettura tranviaria lungo via Roma, all’incrocio di via Carlo Cattaneo, dove si trovava la vetreria Frassi, nei locali che oggi vedono una libreria.

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damenti erano tra le vittime: un ragazzo di 13 anni, sepolto a Bergamo, e una giovane donna di 31, tumulata a Milano. Uscì miracolosamente quasi incolume, invece, Amleto Rocca, classe 1930, che allora abitava a Laorca e ora è un pensionato che risiede a Lecco centro, in corso Martiri. Se la cavò con una breve degenza ospedaliera anche Bruna Mazzucotelli, ventenne, tranviera bigliettaia che abitava in via Cavour. Si è poi trasferita con il matrimonio in Svizzera, a Neuchatel, dove è deceduta dieci anni or sono. Testimone del racconto di Bruna è il fratello minore Rinaldo, che risiede in corso Matteotti, dopo essere stato per decenni nel cortile “delle botti e dei sassi” di via Ghislanzoni. Il tram era anche gremito di ragazzi che raggiungevano Lecco centro, diretti alle scuole di via Ghislanzoni. Tra loro c’era Antonio Barone, classe 1929, che nel 1957 è divenuto sacerdote. Con lui c’erano due altri adolescenti di Laorca che sarebbero divenuti preti: Carlo Spreafico e Augusto Gianola, entrambi già scomparsi, come altri superstiti della tragedia. L’11 dicembre 1993, cinquant’anni dopo, la comunità parrocchiale di Laorca ha commemorato la tragedia del tram. Laorca è stato il quartiere più colpito, con sette vittime. Nella chiesa di Malavedo, vicino al capolinea tranviario dove la vettura - contrassegnata dal n. 22 - prese avvio per un percorso tragicamente spezzato, una messa di suffragio venne celebrata da monsignor Antonio Barone, affiancato dal parroco, don Angelo Galbusera. Presenziava una delegazione della giunta municipale, con gli assessori Fausto Cariboni e Angelo Fortunati. C’era il gonfalone civico, con i vigili urbani. Ha accompagnato la messa la corale di Laorca, diretta da Antonio Scaioli. Alcuni superstiti si sono ritrovati dopo decenni, come è stato il caso di Amleto Rocca, Maria Rosa Airoldi Ripamonti, Amabile Melesi, Domenico Paroli, Graziano Invernizzi e altri. Nessun “marmo” ricorda la tragedia del tram alla curva “della morte”. “Erano tempi bruttissimi di guerra – hanno dichiarato alcuni superstiti – dove i morti si univano, purtroppo, a tanti altri morti. C’era il terrore diffuso che gli intensi bombardamenti che Milano aveva subìto, soprattutto ad agosto con migliaia di vittime, si estendessero ad altre città lombarde, prendendo di mira anche Lecco, nodo stradale e ferroviario di primaria importanza, centro con grossi complessi industriali. Poi, nel 1953, il tram venne sostituito dai bus e, osservando il nuovo mezzo di trasporto, che tra l’altro consentiva nella vallata di raggiungere un capolinea ben più alto sul piazzale di Ponte Gallina (mentre il trasporto sui binari tranviari si fermava al Ponte di Malavedo sul Gerenzone), del tram si parlò sempre meno. La tragedia rimase, però, viva nei sentimenti della gente. Sarebbe però ora doveroso riprendere una proposta avanzata dal Consiglio di Zona 3, quando venne commemorato il 60°, nel dicembre 2003. Si parlò di un cippo in memoria del doloroso evento, da collocare presso la fermata attuale della linea bus, corrispondente al tratto dove il tram sfondò il muretto laterale, uscendo dalle rotaie e precipitando nei sottostanti prati.

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APPENDICE

La grande stagione della solidarietà Angelo Sala

C

hi consideri superficialmente le testimonianze sulla storia locale della prima metà dell’Ottocento può essere indotto a negarle un particolare interesse, priva com’è di avvenimenti di ampia risonanza. Pochi sono gli episodi che “fanno notizia” e che scuotono il corso tranquillo e ordinato della vita del paese, scandita dalle tradizionali cerimonie religiose, dall’appuntamento settimanale del mercato, dal ciclico avvicendarsi dei lavori agricoli e dalla ritmica attività degli opifici. Tuttavia è proprio grazie a questa silenziosa ma intensa operosità che Lecco, lontana dai rumori della cronaca, occupa un posto importante nella storia lombarda dell’Ottocento. Vari fattori concorrevano allo sviluppo economico di un insieme di comuni che traevano dalla loro posizione in una zona ricca d’acqua e dall’intraprendenza di alcune famiglie, esponenti di un’attiva borghesia che impresse un nuovo dinamismo all’economia lombarda, la caratteristica tipologia del paesaggio industriale, vero specchio della progressiva ascesa delle famiglie e teatro di importanti innovazioni di tecnica. È il caso della filanda a vapore, dotata di un impianto articolato che comprendeva, accanto all’edificio destinato al vero e proprio lavoro di trattura, un numero considerevole di vani accessori, dai locali per la caldaia a quelli adibiti a deposito degli attrezzi, della legna e della seta, mentre al piano superiore venivano ammassati e fatti seccare i bozzoli.

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Favorita dall’estesa coltivazione del gelso, diffusa soprattutto sul finire del XVIII secolo, la bachicoltura occupava buona parte della popolazione contadina, impegnata nella difficile arte dell’allevamento dei bachi da seta, e costituiva un’importante risorsa per alcuni proprietari terrieri che si trasformavano in industriali creando sui loro fondi filande dotate di sempre più moderni impianti. Se già nel 1781 il borgo di Lecco poteva apparire “dei migliori in popolazione e traffico” della provincia, nel 1829 vantava “ricchi stabilimenti”. In un arco di tempo compreso tra la metà del Settecento e il primo trentennio dell’Ottocento si collocano, dunque, l’avvio e la prima affermazione dell’industria, che registrò un incremento in epoca napoleonica ed una ulteriore espansione nel primo ventennio della restaurazione, quando la produzione risultò pressoché triplicata. Se dal quadro sin qui tracciato traspare soprattutto un’immagine di prosperità, non bisogna dimenticare tuttavia la realtà complessiva del Lecchese, che non si esaurisce negli aspetti economici e nella fortuna di alcune sue famiglie. Risulterebbe infatti distorta e lacunosa una ricostruzione storica che non prendesse in considerazione la vita del popolo, costituito in gran parte da contadini, operai, artigiani, o che trascurasse di cogliere le tensioni politiche di un’epoca densa di fermenti e di preparativi, destinati a sfociare nei moti per l’indipendenza e per il raggiungimento dell’unità nazionale. Non è facile immergersi nella vita quotidiana, per la scarsità di testimonianze che rende arduo penetrare in un mondo così mobile e sfuggente. Non è difficile tuttavia immaginare quali potessero essere le condizioni di vita di buona parte della popolazione qualora si consideri la configurazione agricola e industriale del Lecchese dove la componente maggioritaria è ancora una classe di contadini, che conducevano un’esistenza dura e stentata. L’allevamento dei bachi da seta poteva recare, è vero, qualche sollievo, ma le scarse cognizioni tecniche e la mancanza di luoghi adatti, ben ventilati, dove tenere i bozzoli, rendevano non sempre redditizia tale attività ed accrescevano l’insalubrità delle abitazioni, anche se la crescente divulgazione di studi di bachicoltura permise l’introduzione di metodi più razionali e un conseguente beneficio per le popolazioni agricole. Che non siano facili e scontati luoghi comuni le condizioni malsane delle abitazioni e la scarsità dell’alimentazione è dimostrato dalla frequenza di malattie polmonari, gastro-enteriche e, soprattutto, della pellagra che affliggevano la popolazione, come attestano i libri dei morti e i permessi di sepoltura custoditi negli archivi parrocchiali. Partico-

Acquate: la lapide collocata sulla prima sede dell’ospedale Airoldi in via Marchesini. Mario Cereghini - Chiesa dell’Istituto Airoldi e Muzzi realizzata nel 1938 e consacrata nel 1942.

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Istituti Riuniti Airoldi & Muzzi: il padiglione Bettini-Pazzini in costruzione.

larmente colpiti da malattie epidemiche e intestinali erano i bambini, tanto che la mortalità infantile toccava tassi molto elevati. Il colera, poi, che si abbattè rovinosamente sull’intera penisola riapparendo a non lunghi intervalli per tutto il corso dell’Ottocento, portò morte e desolazione tanto che nel 1855 e nel 1867 la gravità del morbo suggerì alle autorità governative - come misura precauzionale - la provvisoria chiusura delle filande, dove più facilmente poteva diffondersi il contagio per l’alto numero delle operaie.

In prima fila l’ospedale di Acquate

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In occasione delle due epidemie colerose del 1855 e del 1867 tornò a spalancare le sue porte ai bisognosi, come peraltro era già successo in analoghe occasioni nei due secoli precedenti, l’ospedale di Acquate. Quest’ultimo era stato fondato nel 1594 sulla base di un testamento steso quattro anni prima, nel 1590, da Giovanni Antonio Airoldi: «Di


tutti gli altri beni miei mobili e immobili che ora posseggo e che lascerò il giorno della mia morte istituisco e stabilisco mia erede generale e universale la Beata Vergine Maria, in modo, cioè, che si eriga una casa ossia ospedale, e in essa casa si raccolgano tutti i poveri del territorio di Lecco, i quali possano avere ivi vitto di pane, vino e pietanza, e vestito secondo la loro condizione, e ciò a scelta del Reverendo Guardiano di Castello, oppure in un altro Padre presente attualmente e in futuro, e secondo la scelta e la discrezione del parroco di Acquate; Custodi e Governatori di detto Ospedale siano e debbano essere i predetti Guardiano e parroco, e due dei sindaci della Vicinanza di Acquate». Monsignor Carlo Marcora nelle meticolose annotazioni in La Pieve di Lecco ai tempi di Federico Borromeo dove sono riportati sia il testamento dell’Airoldi che l’instromento di fondazione ed erezione nel contesto della visita compiuta da monsignor Albergato all’Ospedale della Beatissima Vergine Maria il 18 luglio 1608, fa questa importante e significativa considerazione: «Veramente bello è questo testamento che istituisce

Istituti Riuniti Airoldi & Muzzi: il padiglione Bettini-Pazzini completato.

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L’edificio già filanda diventato sede degli Istituti Riuniti Airoldi & Muzzi prima degli ultimi interventi di restauro: realizzato nel 1860 lungo il corso del torrente Bione aveva cessato l’attività nel 1923.

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erede universale la Madonna. Colpito dalla lettura del Vangelo della messa, la parabola delle cinque vergini prudenti e delle cinque stolte, che invita a vigilare quia nescitis diem neque horam, Antonio Airoldi pensa di far piacere alla Madre celeste beneficando i figli di Lei, i più poveri, i più abbandonati, con l’istituzione di un Ospizio. Invece di erigere un santuario prezioso per opere d’arte e arredi, mette i suoi beni nelle mani della Vergine consolatrix afflictorum perché siano soccorsi quanti sono afflitti dalla miseria e dalla solitudine». Con l’instromento redatto l’8 agosto 1594 alla presenza dell’Arcivescovo di Milano Gaspare Visconti - atto ufficiale di battesimo dell’Ospedale di Acquate - viene siglato quell’accordo, che si manterrà nei secoli successivi, tra i vicini di Acquate, il loro parroco, il guardiano del Convento di Castello per la gestione di un’opera locale: un patto che riconosce di fatto, ad un nucleo ben preciso di persone residenti nello stesso territorio, il diritto di gestire l’opera stessa in perfetta sintonia di intenti. Un principio che mette subito radici, diventando robusto e durevole. Al punto che un episodio locale in apparenza poco significativo come la fondazione di un ospizio per i poveri diventa una precisa affermazione dell’autonomia comunale.

Rifugio e ristoro per i poveri Quello lasciato da Giovanni Antonio Airoldi all’ospedale era un cospicuo patrimonio con il quale si poté dare il via a un’iniziativa sociale e assistenziale che ne fece la struttura più rappresentativa, non solo in Acquate, anche della nuova e impegnata religiosità scaturita dal rinnovamento conciliare tridentino. E dopo la primissima fase in cui ci si limitò a distribuire elemosine ai poveri, si cominciò, nell’abitazione già dell’Airoldi dove l’istituzione sarebbe rimasta per secoli fino al suo trasferimento nella sede di Germanedo, a dare rifugio e ristoro ai poveri e, periodicamente in occasione di epidemie, anche ai malati. È da sottolineare, infatti, come in quegli anni per hospitale non si intendesse un luogo destinato a curare i malati ma piuttosto una struttura ricettiva in grado di assicurare assistenza indifferentemente a infirmi, pauperes e peregrini con una continua alternanza e sovrapposizione di ruoli e funzioni. Malattia e povertà costituivano mali entrambi bisognosi di risposte immediate e per le quali nacquero le Congregazioni di Carità che rappresentarono il primo, anche se magari indistinto e generico, tentativo di dare veste istituzionale alla carità dei privati. Solo secoli

Una veduta completa degli Istituti Riuniti Airoldi & Muzzi con il lungo edificio della vecchia filanda e, dietro, i nuovi padiglioni e la chiesa. Via Azzone Visconti nel 1924 quando vi aveva sede il ricovero Muzzi.

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dopo, e sulla scorta delle esperienze nel frattempo storicamente maturate, si iniziò a selezionare le strutture in ragione della loro specifica destinazione assistenziale. La povertà, soprattutto, tenderà a calamitare tutte le attenzioni. La distribuzione di elemosine e l’assistenza diretta caratterizzeranno l’opera dando vita ad una sorta di consorzio non solo perché vi erano preposti, a nome della collettività, alcuni amministratori eletti, ma anche perché altri seguirono l’esempio dell’Airoldi lasciando beni con la prescrizione che quanto ricavato dalla gestione delle relative rendite venisse distribuito a favore non solo dei poveri, ma anche in maritandis puellis virginibus pauperibus, cioè nel fornire di dote e fare sposare fanciulle vergini e povere. E che l’iniziativa, per la sua positività, continuasse a svilupparsi e a crescere in maturità e consapevolezza sociale, è in qualche modo testimoniato dal fatto che circa due secoli dopo altri disposero legati perché venissero destinati alla costruzione di una struttura ospedaliera moderna e funzionale per l’intera comunità lecchese. C’è poi da aggiungere che l’ospedale non si limitò agli interventi finalizzati a lenire gli effetti, che sembravano irreversibili, della povertà, ma tentò anche di organizzare un supporto alla produzione, sia agricola sia imprenditoriale, per evitare che nuove persone, ormai sulla soglia di una stentata sopravvivenza, fossero costrette a trasformarsi, per necessità, anch’esse in una torma di poveri affamati. L’ospedale diede sicuramente vita, come si rileva dalle carte conservate nell’archivio parrocchiale di Acquate, a qualche forma creditizia privilegiata mentre non è possibile verificare se realizzò, come altre opere pie fecero in altre parti della Lombardia, ad esempio un mercato di prodotti che venivano venduti, nei periodi di penuria, a prezzi minimi, oppure la raccolta e distribuzione dei prodotti stessi che servissero da calmiere contro le pesanti oscillazioni speculative che il mercato, soprattutto dei grani, periodicamente subiva, né se in qualche modo svolse un’altra opera pure di grande interesse sociale, quella del cosiddetto Monte di pietà.

Opere a sollievo dei miserabili In una situazione economica e agricola che punta all’autosufficienza, non occorre aspettare gli anni delle grandi carestie per trovare larghe fasce di poveri e miserabili, gente cioè che non ha lavoro, non sa trovare di che sfamarsi, non ha una lira per farsi curare. Il certificato di miserabilità rilasciato dal parroco resta l’ultima speranza per tanti di sopravvivere: è ad esempio quello che permetterà di ottenere gratuitamente

Uno scorcio degli Istituti Riuniti Airoldi e Muzzi nel quartiere lecchese di Germanedo. 198

Acquate, scuola elementare Cesare Battisti: era stata costruita per diventare la nuova sede dell’ospedale di Acquate.



Acquate: la storica sede dell’ospedale Airoldi in via dei Marchesini.

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dal Comune la polenta o il pane in caso di carestie e fame, l’esenzione da tasse e contributi, l’assistenza durante la malattia o il parto, il seppellimento dopo la morte. Poveri dichiarati ce n’erano tanti e dappertutto. All’indomani dell’unità del Paese, nel decennio 1860-1870, la percentuale dei poveri dichiarati che avevano diritto all’assistenza gratuita del medico condotto oscillava, nei diversi Comuni lecchesi, tra il 35 e il 40 per cento della popolazione. Ad essi pensavano soprattutto i Comuni, con voci consistenti di bilancio, ma crescevano di pari passo i lasciti di famiglie facoltose che manifestavano così la loro magnanimità. In questo contesto vanno collocati l’elargizione di Antonio Muzzi per i poveri di Lecco, il legato di Isidoro Calloni per i poveri di Rancio, unitamente a quelli ancora numerosi, nell’Ottocento, a titolo di dote a fanciulle povere che andassero a marito. Tutti questi lasciti furono concentrati poi nelle pubbliche Congregazioni di Carità per effetto della legge 17 luglio 1890 e gestiti direttamente dai Comuni pur rispettando i vincoli dei testamenti.


Con il certificato di miserabilità, si poteva ricorrere all’estremo rimedio della questua. Sotto l’Austria la questua era severamente regolamentata e ristretta a pochissimi casi, per paura anche che girassero sotto tale veste dei comuni malfattori o ribelli politici. Dopo l’annessione al regno sabaudo, i questuanti si moltiplicarono. Nel 1867 ce n’erano ben 19 nel borgo e 8 o 9 ciascuno negli altri Comuni della conca. E ancora nel 1880 altri 29 poveri chiesero e ottennero il permesso di mendicare e girarono per le case mostrando la loro umiliante carta di identità: una piastra metallica con su scritto «Comune di ... - Mendicante». È da ritenere comunque che nei confronti dei questuanti, almeno a giudicare dalle testimonianze lasciate dai parroci, ci fosse da parte di tutti una affettuosa e generosa solidarietà, di sapore molto diverso dai pur cospicui lasciti dei signori. Gli episodi di solidarietà tra le mura del paese sono poi numerosissimi come le occasioni delle questue: l’incendio della casa o del fienile, la frana, la morte degli animali quando non quella del capofamiglia... ogni volta la colletta generale portava a risultati che, data la povertà diffusa, appaiono ora veramente incredibili. Furono i cattolici responsabili delle Congregazioni di Carità che nel 1890, sull’esempio di quanto stava facendo in altre città il movimento sociale cattolico che faceva capo al bergamasco Nicolò Rezzara, pensarono di istituire anche nel Lecchese le cucine economiche «in sollievo della classe povera, dei cronici, dei pellagrosi e dei mendicanti». Nel borgo, ad esempio, la loro istituzione avrebbe permesso di utilizzare meglio gli importi dei «bollettini di beneficenza» che la Congregazione distribuiva ma che spesso venivano impiegati per «usi non conformi»; si sarebbero potute preparare circa 150 razioni di minestra al giorno (e si badi bene che una razione equivaleva ad un litro circa di minestra di pasta, riso od orzo, con aggiunte di manzo, verdure e legumi, lardo, sale e brodo) per sfamare altrettante famiglie; terzo e ultimo fatto positivo, il risparmio complessivo che un simile intervento prometteva, consentiva di mantenere estremamente ridotto il prezzo d’acquisto della minestra, allargando in tal modo la cerchia delle famiglie che ne potevano trarre beneficio. Le cucine avrebbero dovuto trovare luogo nella casa della Congregazione di Carità, nell’attuale via Spirola, ove si pensava di dar luogo a un piccolo ricovero di mendicità: si chiese al Comune di concedere di trarre dall’acquedotto una spina d’acqua potabile per le necessità delle cucine, cui avrebbero poi accudito, gratis e senza spese per il Comune, delle suore di carità. Il permesso del Comune per l’acqua potabile venne rapidamente concesso, ma il discorso cadde perché la Congregazione di Carità nel novembre 1890 decideva di sospendere temporaneamente l’istituzione delle cucine economiche per mancanza di fondi, già tutti assorbiti dalle elargizioni ai poveri e dalle spese per le riparazioni della casa destinata ad ospitarle. Sospensione temporanea, che divenne però definitiva. In compenso alcuni parroci realizzarono altre due iniziative a favore della popolazione, specie più bisognosa, delle rispettive parrocchie. Resisi conto che la crescente occupazione di manodopera femminile

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nelle industrie della zona poneva il problema della custodia dei bimbi più piccoli, avevano aperto asili infantili che provvedevano alla custodia di bambini fino ai 6-7 anni; poi, sempre sull’esempio dell’impegno sociale dei cattolici, fondarono con altri soci le «Casse di prestiti», società cooperative in nome collettivo, che avevano lo scopo di «migliorare la condizione morale e materiale» dei soci.

Legato Calloni e Società Muzzi

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Con testamento del 12 novembre 1901, Isidoro Calloni di Rancio, deceduto lo stesso anno, legava il suo patrimonio all’erezione in quel Comune di un ospizio per il ricovero dei vecchi poveri. Per vent’anni però non fu possibile fare niente. La donazione era infatti vincolata all’usufrutto a favore del nipote, don Amedeo Calloni, che morì il 28 giugno 1921. La Congregazione di Carità di Rancio intraprese solo allora le iniziative per l’attuazione delle disposizioni testamentarie, incontrando però sia difficoltà di ordine tecnico che di ordine finanziario in quanto il fabbricato che il testatore aveva designato a sede del ricovero era in condizioni precarie di manutenzione e le riparazioni e l’adattamento a ricovero richiedevano spese rilevanti e tali da assorbire gran parte del patrimonio ereditario. E mentre ci si dibatteva tra queste difficoltà, avveniva la fusione del Comune di Rancio con quello di Lecco, e stessa sorte subiva la Congregazione di Carità, il cui patrimonio passò alla Congregazione di Lecco. Quest’ultima, constatate da un lato le difficoltà a realizzare un ospizio a Rancio e impegnata dall’altra a dar vita a quello che pochissimi anni dopo sarebbe diventato l’Istituto Airoldi-Muzzi, decise di far convergere in quest’ultima direzione quanto ereditato con il legato Calloni. Anche nel Comune di Lecco si fa vivamente sentire il bisogno di istituire un capace ricovero per i vecchi poveri. L’idea di fare qualcosa di concreto si fece strada all’inizio del 1888 quando un gruppo di persone, in privato convegno, gettò le basi di una Società di Beneficenza che doveva interessarsi di raccogliere denaro sufficiente per fondare un ricovero atto ad ospitare i vecchi poveri del Comune di Lecco, d’ambo i sessi, resi dalla grave età incapaci al lavoro. La società fu ufficialmente costituita il primo aprile 1888 e, “quasi come un faro che guidasse a sicuro porto” (l’espressione è nel libro soci e patronesse della società stessa), la nuova società stabilì “di far suo il nome d’un chiaro apostolo del bene, passato ad altra vita, cioè il compianto cittadino Antonio Muzzi” che cinquant’anni prima aveva elargito il primo fondo per la creazione del Civico Ospedale. “E per il benevolo appoggio morale e materiale, dell’illustre scienziato, il professor Antonio Stoppani, si coronò l’opera di carità”. La nascente società, infatti, con unanime voto deliberava di riconoscere come suo presidente onorario proprio Antonio Stoppani e, affinché non le mancasse l’appoggio dell’autorità comunale, il riconoscimento della vicepresidenza onoraria veniva attribuito al cavalier Guido Ghislanzoni, sindaco di Lecco. Alla nomina di Stoppani e di Ghislanzoni alla presidenza e alla vicepresidenza, si aggiunse quella di altri “rinomati cittadini” col titolo di soci


onorari “sopra i quali la Società Antonio Muzzi si ripromette patrocinio e confida nel loro appoggio”. Venne anche compilato uno statuto nel quale si fa cenno ai doveri di ogni socio impegnandoli a “nulla trascurare per l’incremento e la prosperità del sodalizio affinché nel più breve tempo possibile sorga il ricovero dei vecchi poveri del comune, dotato delle volute rendite, per decoro di una città che nulla lascia a desiderare per ispirito di civile filantropia”. Quanto alla raccolta dei fondi si pensava di operare in tre direzioni: le donazioni, in valori e in contante, offerte da ogni ceto di cittadini; rappresentazioni teatrali a pagamento, sia in musica che in prosa, “date dai dilettanti filarmonici o filodrammatici della società colla cooperazione dell’orchestrina composta parimenti dei soci della Muzzi”; da riffe, lotterie di beneficenza, concerti, feste da ballo a pagamento, conferenze, letture, pubblicazioni, viaggi, gite o passeggiate di piacere. Il nascente sodalizio nominò un Comitato per la custodia del fondo per un ricovero dei vecchi poveri in Lecco formato da nove persone: il sindaco di Lecco Guido Ghislanzoni, Albino Biffi, Francesco Chierici, Francesco Cornelio, Battista Ronchi, Tommaso Scatti, Alessandro Signorelli, Ulderico Tornaghi e Francesco Zamperini. Come primo atto, il comitato invitò le signore del territorio e della città di Lecco a far progredire, in qualità di patronesse, l’opera di carità. La risposta fu immediata: già a fine 1891 le patronesse iscritte nell’apposito albo erano 32, che andavano ad affiancarsi ai 44 soci onorari e ai 162 soci effettivi. Il 31 marzo 1894 la somma raccolta era di lire 17 mila 500 e il risultato rendeva attuabile l’idea di istituire, anche in via sperimentale, il ricovero, in proporzioni adeguate ai mezzi. La data scelta per l’avvio fu quella del primo gennaio 1896 e nel corso del 1895 la società si impegnò, con la Congregazione di Carità, per darvi pratica attuazione. Il ricovero viene aperto il primo gennaio 1896 in una casa di proprietà del Civico Ospedale, al quale viene corrisposto un affitto annuo di lire 240, in una strada allora in Comune di Castello che corrisponde all’attuale via Spirola. I primi ricoverati sono quattro, tutti uomini, accuditi da un inserviente. Nel 1910, in forza anche di un’elargizione straordinaria di 20 mila lire della Cassa di Risparmio di Milano e di altre 8 mila della Società Antonio Muzzi, e di elargizioni e lasciti (Giuseppina Milesi, Antonio Colombo, Pietro Nava, Antonio Corti, Pompeo Bassani, Giuseppe Cantù, Teresa Forni, Francesco Cornelio), la Congregazione di Carità di Lecco provvede all’acquisto della nuova sede per il ricovero, in via Visconti e nello stesso anno viene effettuato il trasferimento. I ricoverati sono 25, 18 uomini e 7 donne. Alla fine del 1913 il Consiglio di Stato esprime parere favorevole alla trasformazione della Società Muzzi in ente morale, cosa che avviene l’anno successivo con la dotazione di uno statuto organico.

Gli sviluppi dell’ospedale di Acquate Anche ad Acquate si verificò un fatto nuovo, pari per rilievo a quello che aveva portato alla fondazione dell’ospedale tre secoli prima. Il 13 ottobre 1911 moriva a Bernareggio, dov’era parroco, il sacerdote lec-

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chese Attilio Gilardi, lasciando erede dei suoi beni l’ospizio dei vecchi poveri in Acquate. Vera e propria manna dal cielo per la Congregazione di Carità che, ritenendo insufficiente il vecchio edificio, decideva di costruire il nuovo in località Bassana, già via Nizza, ora viale Montegrappa. Il progetto del geometra Pietro Garolini da Bellano, che aveva uno studio da progettista in Lecco, fu approvato dalla Commissione di Pubblica Beneficenza in Como nella seduta del giorno 11 luglio 1914. Il 9 ottobre, ad Acquate, si tenne l’asta per l’assegnazione dei lavori: essi furono aggiudicati a Guglielmo Colombo, Pietro Milani e Gaspare Vassena in società, ed ebbero inizio il 9 novembre. Il 29 seguente, il parroco don Giovanni Piatti dopo i vesperi si portò processionalmente con tutta la Confraternita e con la rappresentanza del Comune e della Congregazione di Carità a benedire la prima pietra, collocata all’angolo sinistro del padiglione destro. Vi si pose una targa in rame coi nomi del Papa (Benedetto XV), del re (Vittorio Emanuele III),


dell’arcivescovo (Andrea Carlo Ferrari), del parroco (don Giovanni Piatti), del presidente della Congregazione di Carità (Carlo Ferrari) e molte medaglie e monete del tempo. Nel novembre 1915 l’edificio era compiuto, ma causa la guerra in corso fu subito adibito a caserma del 73° reggimento fanteria. Nel 1921, il Comune di Acquate, dopo averlo acquistato dalla Congregazione di Carità per 270 mila lire, vi installò il municipio e le scuole elementari. Un promemoria manoscritto di don Giovanni Piatti consente di aggiungere altri elementi. Dapprima caserma poi convalescenziario dei soldati, l’edificio di viale Montegrappa fu sgomberato dai militari nel maggio 1919. Troppo gravose sarebbero state per la Congregazione di Carità le opere di sistemazione, così che si decise di cedere l’edificio al Comune di Acquate. Nel frattempo fu fatta l’unificazione dei Comuni del territorio con Lecco. Cessò quindi di esistere anche la Congregazione di Carità di Acquate. “A questo punto - si legge nel manoscritto di don Piatti - auspice l’avvocato Carlo Corti, presidente del Ricovero

La consegna dei bozzoli in una filanda.

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Muzzi di Lecco, si incominciarono le pratiche per la fusione dei due ricoveri. Le trattative furono presto ultimate”. Nella settimana dal 10 al 16 ottobre del 1926 si fece il trasporto dei vecchi e di tutto il materiale da Acquate a Lecco. Era nato l’Airoldi-Muzzi.

L’Airoldi-Muzzi a Germanedo

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Il primo marzo 1927 la direzione degli Istituti Riuniti Airoldi-Muzzi veniva convocata per esaminare la proposta di acquisto dello stabile da adibire a nuova sede del ricovero. L’attenzione si fermò sul complesso degli stabili di proprietà Bonazzi, già appartenenti alla famiglia Muller e adibiti a uso di filanda del rione di Germanedo. Il complesso faceva parte di una serie di opifici realizzati prima del 1860 lungo il corso del torrente Bione, acquistati dal Muller nel 1876. L’attività, che nel 1882 dava lavoro a 450 operai, saliti a 498 dieci anni più tardi, cessò nel 1923. Nel 1929 il complesso venne ceduto agli Istituti Riuniti Airoldi-Muzzi. Il prezzo fu stabilito in 675 mila lire. Pierfrancesco Cornelio ripagò l’amministrazione degli Istituti Riuniti dell’intera cifra. Antonio Nava lasciò oltre mezzo milione e quindi si diede il via al progetto di sistemazione, adattamento e arredamento dei fabbricati, affidato all’ing. Bernardo Sironi. Lavori per oltre un milione, ma Lecco rispose generosamente e, come scrisse una volta completata l’opera l’avvocato Angelo Bonaiti che ne diventerà presidente, “fu tutto un plebiscito di popolo che offrì la sua concreta attestazione di fiducia e di benevolenza e contribuì alla realizzazione di quello che fu uno dei più arditi programmi. Quei vecchi ambienti, assordati un tempo dal rumoroso fragore delle macchine industriali, si trasformano celermente in ampi, arieggiati saloni, templi silenziosi della carità, dove i dolori e le deficienze fisiche della vecchiaia lecchese, trovano il meritato conforto. Nuovi edifici sorgono accanto ai vecchi completando così l’organizzazione dei vari servizi di cucina, lavanderia, ecc. ed ampliando la sfera della benefica attività. Corona e completa la sede il magnifico parco dove antichissimi esemplari si ergono maestosi quasi a tutela e protezione dell’inerme vecchiaia”. Che Lecco sia stata capace di realizzare un’opera così - che continua ancora oggi, con il presidente Giovanni Mauri che ha raccolto il testimone dei suoi predecessori Maria Gandini, Pietro Colombo, Angelo Bonaiti, Carlo Silvio Vassena, Angelo Bettini, Adelchi Cima e Carlo Corti - è motivo di orgoglio per il suo passato e segno di speranza per il presente e il futuro: la realtà, sempre attuale, di un impegno umano e civile, con i suoi problemi quotidiani e la voglia di risolverli secondo fede e ragione. L’esempio di ieri e l’impegno di oggi sono una garanzia per il futuro. Non dimentichiamo che quelli erano gli anni in cui si verificava la straordinaria mobilitazione della comunità lecchese che realizzava una serie di opere di grande valore sociale tra le quali sono da ricordare la nuova sede dell’ospedale di circolo, l’opera pia Nino Gazzaniga per le cure balneari e climatiche dei poveri, l’asilo notturno, le case del povero e quelle degli sfrattati.


Il Cesarino, per anni una figura popolarissima a Lecco.


Il problema della casa a Lecco

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Il problema della casa si era posto all’indomani dell’unità nazionale quando, fatta eccezione per quella “sorta di città sociale” creata a Valmadrera dai filandieri Gavazzi, non esistevano nella zona lecchese villaggi operai sul modello dei Crespi “né tantomeno - come rileva Barbara Cattaneo in Archeologia industriale nel Lecchese, le filande - nuclei di case per maestranze appositamente costruite dagli industriali per le famiglie dei propri dipendenti”. Questa carenza veniva rilevata dal Tubi che, nel 1875, in Le strade e le case nel territorio di Lecco, osservava come lo sviluppo economico di Lecco avrebbe potuto essere favorito ancorando definitivamente la mano d’opera forestiera alla città. Lo stesso Tubi proponeva come soluzione la creazione di case operaie che avrebbe senz’altro favorito il domicilio fisso delle maestranze a Lecco. Quanto alle condizioni degli alloggi, è eloquente quanto scrive Serafino Bonomi in Intorno alle condizioni igieniche degli operai e in particolare delle operaie in seta della provincia di Como, scritto raccolto negli Annali universali di medicina, fascicolo 674. Il quadro generale è quello di una popolazione che viveva agglomeratissima, in case anguste, spesso mal riparate, umide, poco ventilate e praticamente tra le immondizie a causa “di quella incuranza di quanto si riferisce all’igiene e alla nettezza radicata nei nostri contadini e indotta dall’ignoranza e dal torpore in cui si lasciano vegetare”. Anche le operaie venute da fuori e che venivano alloggiate nelle fabbriche, secondo il Bonomi “passavano le notti in androni poco ventilati, angusti, perché di rado seppur mai in rapporto col numero delle inquiline, ove si addormentano alla rinfusa su giacigli umidi, ben altro che puliti, di modo che dovendosi respirare un’aria pregna di esalazioni umane e d’ogni sorta di detriti organici, le malattie più miti non tardano ad assumere una forma maligna, che ne altera il corso e le trae spesso ad esito fatale”. Parallelamente anche Lecco è contagiata dal furore postunitario che affianca all’iniziativa pubblica volta alla riorganizzazione del centro con la ristrutturazione di piazze e la costruzione di monumenti, l’iniziativa degli investitori privati che prendono in considerazione l’opportunità di edificare nuovi quartieri per le classi abbienti. Il caso è evidente a Lecco con l’espansione a sud del perimetro delle mura del borgo. Con un risultato facilmente immaginabile se solo pochi anni più tardi, nel 1875, Graziano Tubi rendeva pubbliche queste considerazioni in Le strade e le case nel territorio di Lecco: “Qualunque studio si volesse intraprendere intorno alla edilizia ed alla viabilità di Lecco e del suo territorio, riuscirebbe insufficiente e sconnesso, ove non fosse coordinato ad un piano regolatore generale”. Infatti “una delle maggiori pecche che si verificarono in tutti i tempi e in tutti i luoghi nelle sistemazioni stradali e nelle riforme edilizie, sta in ciò, che esse vennero quasi sempre studiate isolatamente e secondo i bisogni del momento e non coordinate ad un piano generale, nel quale siasi tenuto conto di ogni probabile maggior sviluppo avvenire. Le città non hanno la vita né di pochi lustri né di pochi secoli. In materia edilizia chi si lascia guidare dalla sola utilità presente senza spingere oltre lo sguardo, opera quasi


sempre a detrimento di un maggior utile avvenire. Ciò che era quasi di troppo ai nostri antenati è ora per noi insufficiente, come ciò che può bastare a noi non basterà certamente ai nostri posteri. L’esperienza ci crea perciò il dovere di prevedere i loro maggiori bisogni a soddisfare i quali dobbiamo lasciar aperta e sgombra la via”. “Idee chiarissime e sensate, come ognun vede”, commentava cinquantadue anni più tardi Uberto Pozzoli sulle pagine di All’ombra del Resegone (n. 3, dicembre 1927) “ma che non fecero breccia nella mente dei nostri padri; i quali, a casaccio, tagliarono strade, costruirono case, gettarono ponti sui torrenti, seguendo il sistema di quel cieco che s’avventurava pian piano per vie non conosciute e, un passo alla volta, andava a battere il naso in un muro che, da brav’orbo, non aveva previsto”. Nel suo scritto, il Tubi aveva sollevata la questione delle case operaie, che però rimase lettera morta per altri ventisette anni, fino al 1902 quando la questione fu sollevata dall’Ufficio del Lavoro. Si tenne un incontro che portò alla formazione di un comitato incaricato di studiare il problema. Tale comitato, composto da esponenti di diversi partiti, non realizzò nulla di concreto. Nel 1906 il problema fu riproposto e i socialisti tennero una conferenza nella quale Carlo Della Valle sostenne la necessità delle case popolari. La stampa locale ne diede notizia e il settimanale cattolico Il Resegone dichiarò di accettare, nelle sue linee fondamentali, il discorso del Della Valle e sostenne che “quel che si è fatto in altre città lo si può fare benissimo anche a Lecco ove il bisogno c’è e urgente” e proseguì dicendo: “Ora la questione torna in ballo e noi non potremmo fare a meno di appoggiarla. Le nostre idee in merito sono abbastanza note: dove c’è iniziativa privata noi vogliamo che il Comune abbia a favorirla, e dove questa manca il Comune stesso deve farsene l’iniziatore”.

Prime iniziative di edilizia popolare Attività manifatturiere industriali e artigianali riempiono progressivamente l’intera scena dell’economia e della società lecchese, come ben documenta il contributo di Antonio Albertini Evoluzione urbanistica di Lecco nell’età postunitaria pubblicato in Arte, letteratura, società, la provincia di Como dal 1861 al 1914: “Nel processo di formazione delle città medie lombarde il caso di Lecco si presenta emblematico per la stretta interdipendenza tra lo sviluppo delle attività produttive e le trasformazioni delle città. Se è vero che le ragioni prime della formazione di un centro urbano sono da ricercarsi nella sua situazione geografica e nella sua posizione rispetto alle vie di comunicazione, e se è vero che le ragioni della sua sussistenza stanno nella vitalità del rapporto con il suo territorio, occorre osservare che la condizione di Lecco nel corso della sua storia, e in particolare modo nel periodo della industrializzazione, è legata alle vicende delle attività economiche sviluppate nel territorio o richiamate dalle vie di traffico che lo attraversano. Il vero motore dell’evoluzione urbanistica di Lecco va ricercato nella sinergia venutasi a creare alla fine dell’Ottocento e nel primo trentennio del secolo successivo tra attività industriali e infrastrutturazione ferroviaria”.

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Case operaie Fiocchi a Belledo, 1949.

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L’espansione industriale determina l’insorgere del fabbisogno abitativo che viene parzialmente affrontato dai primi interventi di edilizia popolare, con le realizzazioni delle case per i dipendenti delle ferrovie e con il primo intervento al Bione della Cooperativa Case Popolari nel 1910. A questi seguiranno altri interventi realizzati dalle stesse aziende industriali, pure di notevole interesse architettonico ma al di fuori di un organico programma rivolto a risolvere un problema che diverrà sempre più rilevante. Ma non il principale. Infatti tanto le ricostruzioni effettuate da Aroldo Benini in Organizzazione operaia e movimento socialista a Lecco, come quelle di Antonio Gottifredi in Lavoratori cattolici a Lecco, sottolineano come ben più pressanti fossero altre condizioni dei lavoratori rispetto a quella dell’alloggio. Se ne parlerà infatti solo a partire dal 1909, anno di costituzione della Cooperativa Case Popolari. Non si trattava di una iniziativa, come si direbbe oggi, sorta dalla base. C’erano sì esponenti dell’area socialista come di quella cattolica, ma pure quelli di area liberale e radicale, per lo più avvocati, professionisti e industriali, in maggioranza nella cooperativa. Troviamo i nomi di Giovanni Bonelli, vicepresidente dal 1901 al 1906 e quindi presidente fino al 1915 della Banca Popolare di Lecco, quello del sindaco Giuseppe Ongania, degli avvocati Corrado Baruffaldi e Arturo Monti, degli industriali Pietro Frigerio e Giovanni Gerosa. La nascita della Cooperativa Case Popolari segnava comunque il culmine di un decennio caratterizzato da un grande fervore di iniziative. Nel 1901 diventava operativo l’Ufficio del Lavoro, di matrice cattolica;


l’anno seguente la Camera del Lavoro, di matrice socialista. Nel 1902 nasceva la Banca di piccolo credito lecchese; nel 1903 si costituivano, contemporaneamente, due Casse popolari: quella di San Giovanni e quella di Acquate; nel 1904 era la volta della Cassa popolare di Olate; nel 1905 di quella di Pescarenico; nel 1907 di quella di Malgrate; nel 1910 della Cassa rurale per i Comuni di Cremeno e Cassina, in Valsassina. Casse popolari nascono anche a Lecco, Olgiate, Somana, Rancio, Germanedo, Laorca e Valmadrera. A Osnago, in Brianza, viene costituita la Società mutua di risparmio tra i contadini; a Rogeno la Cassa di mutuo soccorso per il bestiame; a Bellano l’Unione agricola per Bellano e paesi limitrofi. Nel 1909 nasce la Cassa federale di mutuo soccorso tra gli operai di Lecco e circondario che raggiunge rapidamente le dieci sezioni (Acquate, Malgrate, Olate, Moggio, Cremeno, Perledo, Bellano, Maggio, Primaluna, Galbiate). La Cooperativa Case Popolari ottiene il terreno di Pescarenico e realizza le prime due case popolari lungo il nuovo corso tracciato tra il vecchio nucleo di Pescarenico, che fino ad allora aveva rappresentato il limite dell’espansione urbana della città, e il Comune di Maggianico. Sono i due edifici ancora esistenti all’incrocio tra corso Carlo Alberto e via Buozzi. La scelta insediativa non fu delle migliori, appesantita poi dalla costruzione delle cosiddette “case del povero” realizzate tra il 1926 ed il 1939 dalla ditta Locatelli Mattia per ricordare, con un’opera di pubblica utilità, il cinquantesimo di fondazione. Le case, complessivamente quattro, dovevano essere destinate ai poveri senzatetto

Case operaie Fiocchi a Belledo, 1949.

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allora ricoverati in locali di proprietà comunale (altro non erano che gli edifici municipali dei Comuni soppressi ed unificati a Lecco) che dovevano essere adibiti ad altro uso. Le nuove case sorsero su un’area estremamente periferica anche rispetto all’abitato di Pescarenico, in una pesante situazione di isolamento. Per fare un confronto, basta ricordare che contemporaneamente alle case del povero venivano realizzate - anche queste con dichiarate caratteristiche di case popolari - le case del fascio a ridosso del vecchio nucleo di Castello. Sono quelle ancora oggi visibili su entrambi i lati della via Vercelloni. Caratteristiche riconducibili a queste ultime, cioè più signorili che popolari, le avevano e le hanno sostanzialmente mantenute le altre due “case popolari” che la Cooperativa realizzava una volta completate le due case di Pescarenico. Si tratta dell’edificio all’angolo tra l’attuale viale Turati e via Belvedere e quello all’angolo tra via Lazzaretto e via Leonardo da Vinci. La situazione abitativa a Lecco alla vigilia della prima guerra mondiale non vede quindi sostanziali modificazioni rispetto ai decenni precedenti. È sempre l’iniziativa privata a tenere banco, confermando l’espansione della città in direzione sud con la formazione del corso verso Pescarenico e il consolidamento della via Visconti verso il ponte, ma sempre a vantaggio dei ceti abbienti. La gran parte della popolazione continua a rimanere entro il vecchio perimetro daziario del borgo (per quanto riguarda Lecco centro) e dei vecchi nuclei per quanto riguarda gli altri Comuni, con la sola eccezione delle case operaie (realizzate per iniziativa diretta di alcune aziende a Rancio, Belledo e Germanedo) e delle già ricordate case per ferrovieri (ancora oggi esistenti al Belvedere). Situazione che rimane cristallizzata fino agli anni della Grande Guerra 1915-1918. Cosa successe nel primo decennio dopo la guerra, lo racconta questa gustosa paginetta di La rivista di Lecco dell’agosto 1929: “C’è a Lecco una Commissione edilizia, composta da persone d’indiscutibile ingegno e capacità. Appunto per questo non si spiegano le costruzioni fatte a casaccio, senza un ordine logico, senza vedute lungimiranti. Ognuno fabbrica come vuole e dove vuole. Prendiamo ad esempio il Lazzaretto, ove dieci anni fa non c’era neppure un’abitazione. Nessuno ha pensato alla necessità di fare un progetto unico per le costruzioni da farsi in quella località. Si sarebbe potuto avere un gruppo di fabbricati sorti l’uno a completamento dell’altro; strade ben tracciate e spazio sufficiente per la futura passeggiata di Lecco che lungo il Lario e l’Adda, potrebbe allacciare le Caviate a Pescarenico. Invece ognuno ha fab-

Case operaie Bigoni a Pescarenico, 1929. Panoramica di Lecco nel 1884.

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bricato a suo capriccio. Case che si aprono a sud, case che si aprono a nord; giardini prospicienti il lago, muraglie che si alzano in riva al lago. Ogni simmetria è cancellata; e manca anche la poesia di certi villaggi volutamente asimmetrici, comuni nella Svizzera. Abbiamo parlato di quello che si è fatto in questi ultimi anni al Lazzaretto con la speranza che anche il Lungo Lago, così bello naturalmente, non venga deturpato come è stata deturpata quella località. Anche le poche costruzioni e rifacimenti di case in città, non sempre sono state fatte con criterio amorevole. Ne citiamo una per tutte, la palazzina della Stipel. Mai capriccio incosciente di costruttori pensò una più aberrante costruzione, in una bella e armonica strada com’è via F.lli Cairoli!”.

L’iniziativa pubblica e privata dopo la Grande Guerra

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A partire dal 1919 si verifica un nuovo massiccio inurbamento, assieme a un processo di nuova industrializzazione. L’espansione del borgo superò l’ostacolo dei binari e due dei centri satelliti finirono in breve con il risultare completamente saldati al centro città, Pescarenico a sud e Castello a nord est, il primo entrando così a far parte integrante del centro pur avendo conservato il suo vecchio nucleo particolare, il secondo soprattutto attraverso un ordito intermedio di costruzioni industriali. Non c’è più traccia della Cooperativa Case Popolari, in compenso è tutto un fiorire di iniziative tra le quali spiccano le due case economiche in località Giazzera (1929), le case popolari (Bigoni) a Pescarenico (1929-30), le case economiche (Todeschini) a Castello (1929), la casa economica della Cooperativa Mutilati (1929) e quella della Cooperativa “La Moderna” (1929-30), la casa economica (Airoldi) a Castello (1930). Case popolari vengono costruite al Lazzaretto (1931), lungo l’attuale corso Promessi Sposi (1932-33) e vengono anche presentati due progetti di quartieri popolari, uno denominato “Bione”, nel 1930, e uno “Maria del Belgio” l’anno seguente. L’attività nel campo dell’edilizia popolare culminerà con il progetto del quartiere popolare “Italo Balbo” (1940) ma gli eventi bellici ne limiteranno la realizzazione al solo primo lotto. Quanto all’Istituto Case Popolari, la fondazione comasca risale al 1926, mentre l’operatività sancita dal riconoscimento del regio decreto 9 gennaio 1927, n. 128, è dell’anno seguente. E l’anno dopo ancora veniva trasformato in Istituto autonomo per le case popolari della Provincia di Como. Allo scoppio della seconda guerra mondiale (1940) erano pronti i progetti per i primi lotti del quartiere di via Monte Grappa a Lecco (il quartiere Balbo) che vennero appaltati e, nonostante le difficoltà belliche, completati e resi abitabili tra il 1941 e il 1942: comprendevano 105 appartamenti per 293 locali. Il precipitare degli eventi bellici bloccò ogni iniziativa. All’Istituto rimase comunque la consolazione che nessuno dei fabbricati realizzati subì danni dal conflitto. Negli anni tra le due guerre mondiali, il problema della casa per gli


operai si era sostanzialmente risolto grazie all’intervento diretto delle aziende che, come sottolinea la pubblicazione dell’Unione Industriali di Lecco L’industria lecchese per i suoi lavoratori, “fin dal loro sorgere, pensarono all’esigenza fondamentale per quegli indispensabili collaboratori dell’imprenditore che sono i lavoratori: ecco così sorgere e svilupparsi di pari passo, a Lecco ed in Brianza, sul ramo del Lario e in Valsassina, lo stabilimento e le case per le maestranze, case ora piccole e civettuole, ora grandi e tutte simili, ora proprio accanto alla fabbrica ora in angoli tranquilli e panoramici”. Tra le prime aziende che si sono preoccupate di dare un’abitazione ai propri dipendenti è da ricordare la Giulio Fiocchi di Lecco la quale ha via via costruito negli anni, in proprio, 400 locali complessivi. Anche la ditta Pizzi provvide ad acquistare vari stabili che, adattati e in alcuni casi rifatti completamente, le hanno dato modo di alloggiare una dozzina di famiglie di propri operai e impiegati. L’Acciaieria e Ferriera del Caleotto ha anch’essa realizzato un vasto piano di abitazioni per i propri dipendenti, mettendo a disposizione degli stessi un complesso di 102 appartamenti. E la già citata ditta Mattia Locatelli ha ceduto molti alloggi alle proprie maestranze oltre a dare vita, con la fondazione della Casa del Povero, a un’altra interessante forma di assistenza nel campo dell’edilizia per i lavoratori. A Mandello la Moto Guzzi ha costruito un villaggio per i propri dipendenti. E lo stesso ha fatto la Carcano, mettendo a disposizione delle sue maestranze 21 appartamenti. Poi a Castello Brianza la Fornaci Valbevera, a Merate la Catene calibrate Regina, a Paderno la Martinelli,

Il portico del quartiere popolare a Germanedo.

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Le case del povero a Pescarenico sono state realizzate tra il 1926 e il 1939 dalla ditta Locatelli Mattia per ricordare, con un’opera di pubblica utilità , il cinquantesimo di fondazione.


Lecco: il progetto del quartiere popolare a Germanedo.


sono solo alcuni degli esempi di iniziative diffuse a macchia d’olio in tutto il territorio e che subito dopo il secondo conflitto mondiale troveranno un rapidissimo sviluppo. Merito, questa volta, della legge 28 febbraio 1949, il Piano Incremento Occupazione Operaia mediante la costruzione di Case per Lavoratori, conosciuto come Piano Fanfani dal nome del ministro proponente ed in seguito, per essere la gestione sia del finanziamento (attraverso i contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro) sia degli immobili costruiti affidata ad una speciale sezione dell’Istituto Nazionale Assicurazioni, denominato per brevità Ina-Casa. Per quanto riguarda Lecco e il suo territorio, il piano ebbe ragguardevole e rapido sviluppo soprattutto per la coraggiosa e felice iniziativa della locale Unione Industriali che, nel giugno 1949, attraverso un accordo fra le maggiori ditte interessate alla risoluzione dei problemi sociali, costituì il Raggruppamento Industriali che, per primo in Italia, provvide ad anticipare i contributi che sarebbero maturati negli anni successivi a titolo Ina-Casa, così da permettere l’immediata costruzione di fabbricati per togliere i lavoratori da quel disagio in cui si trovavano per la mancanza di alloggi. Lo sforzo del Raggruppamento è documentato dai 97 fabbricati, per un totale di 294 alloggi, al 30 marzo 1953. Contemporaneamente la gestione Ina-Casa affidava altre costruzioni a diverse stazioni appaltanti, quali alcune cooperative, l’Istituto Autonomo Case Popolari, l’Incis e i Comuni per cui, sempre al 30 marzo 1953, furono ultimati altri 64 fabbricati per un totale di 421 alloggi. Testimonianze, queste, della vitalità e delle caratteristiche evolutive del settore dell’edilizia popolare nell’area provinciale. Anche questa una storia che continua ancora oggi e che guarda al futuro, con il settore dell’edilizia residenziale pubblica affidata a un’azienda - Aler Lecco - che con la presidenza di Giuseppe Canali gestisce un grande patrimonio edilizio e offre il proprio contributo all’evoluzione della questione residenziale.

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Si ringraziano per la collaborazione:

Comunità Montana

Istituti Riuniti “Airoldi e Muzzi” Lecco

del Lario Orientale


Di quest’opera “Dal vecchio borgo alla grande Lecco” di Aloisio Bonfanti con appendice di Angelo Sala sono stati impressi 1.200 esemplari


Quest’opera di Aloisio Bonfanti con appendice di Angelo Sala è stata impressa sotto la cura delle Edizioni Monte San Martino e dell’Editoria Grafica Colombo. Finito di stampare nel mese di luglio 2007 da Editoria Grafica Colombo snc Via Roma, 87 - Valmadrera (Lecco)





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