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Spedizione in A. P. - 45% art. 2 comma 20/b L. 662/96 DCO/DC Abruzzo Pescara - ROC 9312

VOX MILITIÆ CAVENDO TUTUS ANNO VIII - N° 2

Giugno 2009

VIZI E VIRTU’ DEGLI ITALIANI Non è possibile prevedere i terremoti, ma è possibile limitarne i danni Per studiare il comportamento e la normativa da adottare per limitare i danni in caso di catastrofi naturali vengono svolte ricerche universitarie, si organizzano convegni, congressi, conferenze, dibattiti e chi più ne ha più ne metta. Da un po’ di tempo abbiamo anche imparato a fare esercitazioni. Purtroppo, ogni volta che si verifica un terremoto (ma la considerazione vale per qualsiasi altra catastrofe quali incendi boschivi e sicurezza sul lavoro) scopriamo che la normativa vigente in materia è disattesa.

Tutti quegli studi appena richiamati a cosa sono serviti? Evidentemente è stato puro esercizio dialettico per pochi addetti ai lavori. “Passata la festa gabbato il Santo” , tutto viene riposto nel cassetto e i risultati di quanto emerso, dopo aver anche dissipato generose risorse economiche, rimangono inapplicati. I vari Amministratori, che avevano il compito di trarre gli ammaestramenti da quelle belle esercitazioni accademiche, cosa hanno fatto? Quanti controlli hanno fatto per verificare l’applicazione della normativa? Hanno mai preteso un esame geologico del terreno? Quando hanno elaborato il piano Regolatore del Comune hanno tenuto conto della categoria dei suoli, della posizione topografica del sito, delle caratteristiche stratigrafiche del terreno o le scelte sono state guidate da altri criteri? Forse non avevano le risorse economiche sufficienti per applicare quanto emerso nei dibattiti? Quando, poi, si verifica la catastrofe escono allo scoperto gli sciacalli politici e morali. Ognuno grida allo scandalo e gli Amministratori locali, consci del loro dovere di tutori del territorio (non controllato prima della catastrofe), organizzano nuovi dibattiti e, questa volta, anche proteste che guidano con la loro bella “Fascia”, e minacciano dimissioni di massa per reclamare denaro

pubblico e potere. Non sarebbe stato meglio attivarsi per prevenire? Ma c’è un altro aspetto importante che emerge nelle crisi, questo, però, a carico dei singoli cittadini e cioè: gli italiani pur di risparmiare, anziché investire in Sicurezza, preferiscono spendere i loro soldi per abbellimenti superflui di pura vanità, mettendo a rischio la loro vita e quella degli altri. Mal consigliati, dall’ultimo manovale sapientone, non rispettano la normativa perché ritenuta eccessiva, restrittiva e, a volte, inutile. Se qualche ispettore si reca a verificare l’applicazione delle norme, le inadempienze rilevate vengono giustificate con argomentazioni del tipo”vogliamoci bene che niente ci costa”. Infine, e questa volta in positivo, in ogni tragedia emerge chiaramente la generosità degli italiani con sottoscrizioni, donazioni, offerte ed aiuti di ogni genere e la funzionalità delle Strutture Operative Nazionali: Vigili del Fuoco, Forze e Corpi Armati dello Stato, Servizio Volontario della Protezione Civile. Quando impareremo a far tesoro degli errori del passato? Raffaele SUFFOLETTA


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IL TERREMOTO (Terræ Motus) La maggior parte dei terremoti è causata da fenomeni di natura tettonica interessanti vaste zone della crosta terrestre chiamate zolle o placche (ne sono state individuate 20) che si muovono in conseguenza di squilibri Termici interni alla Terra. L’Italia si trova al confine tra la placca euroasiatica e quella africana. Nei punti di incontro di due placche, le forze che in esse agiscono determinano una rottura nella roccia lungo delle linee meno resistenti, chiamate faglie, sprigionando in tal modo tutta l’energia accumulata durante il movimento di contrasto, dando luogo alla scossa sismica. L’energia, si disperde nel terreno in tutte le direzioni in forma di onde sismiche scuotendo la terra. Il punto preciso da cui si origina il terremoto in profondità è detto ipocentro, mentre lo stesso punto portato in verticale sulla superficie terrestre si chiama epicentro. Alla vibrazione della superficie terrestre sembra sia da ascrivere il rombo sismico, un rumore sordo che proviene dal centro della terra che può precedere le scosse o seguirle, a volte accompagnato dal lampo sismico, un bagliore che è sempre contemporaneo alle scosse. Il movimento delle scosse può essere sussultorio, movimento del terreno in senso verticale, o ondulatorio, movimento del terreno in senso orizzontale. Molto spesso

si combinano dando al terreno un movimento rotatorio. La misurazione dei terremoti, cioè l’energia sprigionata, si effettua con la scala Richter, che indica la magnitudo, cioè l’energia sprigionata nel punto in cui si è generato il terremoto. Alla scossa principale seguono una serie di

scosse di assestamento che in genere hanno magnitudo decrescente e, in qualche caso possono raggiungere la principale. Allo stato attuale non è conosciuta alcuna legge fisica sulla frequenza e sulla distribuzione dei terremoti né esistono conoscenze tali da poterne prevedere lo sviluppo.

IL TERREMOTO A L’AQUILA I dati ufficiali del terremoto che ha colpito L’Aquila e la sua provincia alle ore 03,32 del 6 aprile u.s. parlano di una scossa sismica pari a 5,8 ML (Magnitudo Locale – misurata dai sensori vicini) e 6,3 MW (Momento Sismico – misurata da strumenti lontani, più attendibile) della scala Richter. Durata 30 secondi, profondità stimata circa 9 km. La scossa è stata devastante perché si è propagata con moti ondulatorio e sussultorio, che combinati, hanno determinato anche movimenti rotatori, amplificandosi od attenuandosi in funzione della categoria dei suoli, della posizione topografica del sito, delle caratteristiche stratigrafiche. La città ne ha risentito così tanto perché sorge proprio sopra la faglia principale. Lo sciame sismico è sicuramente lungo e rientra nella normalità, ma, per quanto la scienza conosce con riferimento ai dati statistici, non sono da escludere comportamenti del tutto imprevedibili. I danni del terremoto, accertati in un raggio di 30 km, sono stati particolarmente devastanti in prossimità dell’epicentro, il piccolo centro abitato di Onna a 5 km dal capoluogo abruzzese, dove si contano numerosi morti e feriti. Complessivamente si registrano 307 morti e oltre 1.500 feriti.


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IL SERVIZIO NAZIONALE DELLA PROTEZIONE CIVILE La legge 225/92, all’articolo 11, annovera le Organizzazioni del Volontariato tra le Strutture Operative del Servizio Nazionale della Protezione Civile al pari del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco, delle Forze Armate, delle Forze di Polizia, del Corpo forestale dello Stato, ecc,. L’obiettivo condiviso con le Associazioni di volontariato di Protezione civile è di creare in ogni territorio un servizio di pronta risposta alle esigenze della Protezione Civile, in grado di operare con gli altri livelli di intervento previsti nell’organizzazione del sistema nazionale della Protezione Civile (sussidiarietà verticale), valorizzando al massimo le forze della cittadinanza attiva ed organizzata presente in ogni comune d’Italia (sussidiarietà orizzontale), in piena integrazione con le forze istituzionali presenti sul territorio. Le organizzazioni di volontariato che intendono collaborare nel sistema pubblico di Protezione Civile, si iscrivono in appositi albi o registri, regionali e nazionali. Al momento, nell’elenco nazionale del Dipartimento della Protezione civile sono iscritte circa duemila cinquecento organizzazioni (tra le quali i cosiddetti “gruppi comunali” sorti in alcune regioni italiane), per un totale di oltre un milione e trecentomila volontari disponibili. Di essi, circa sessantamila sono pronti ad intervenire in pochi minuti sul proprio territorio, mentre circa trecentomila sono pronti ad intervenire nell’arco di qualche ora. All’interno delle organizzazioni di volontariato esistono tutte le professionalità della società moderna, insieme a tutti i mestieri. Sebbene l’opera del volontariato sia assolutamente gratuita, il legislatore ha provveduto a tutelare i volontari lavoratori: in caso di impiego nelle attività di Protezione Civile essi non perdono la giornata, che viene rimborsata dallo Stato al datore di lavoro, pubblico e privato. Il Servizio Nazionale della Protezione Civile si è rivelato di fondamentale importanza nella grave emergenza abruzzese. I soccorsi sono stati immediati. Da ogni regione d’Italia sono accorse colonne mobili con dotazioni di mezzi, materiali ed attrezzature di ogni genere: dal primo soccorso, all’organizzazione e gestione delle tendopoli ed ogni altro genere di materiali per alleviare le sofferenze dei cittadini. I soldi sono stati spesi bene.

Tendopoli di “Acquasanta”

EMERGENZA SISMICA IN ABRUZZO ASSISTENZA ALLA POPOLAZIONE Dati ufficiali della Protezione Civile al 18 giugno 2009 TOTALE POPOLAZIONE ASSISTITA: 53.887 di cui: PRESSO AREE DI RICOVERO: 23.262. Centri Presidi Tende Popolazione Cucine Operativi Tendopoli da Medici allestite montate assistita Misti campo Avanzati 8 153 5374 23.262 97 27 PRESSO ALBERGHI E CASE PRIVATE: 30.952. Teramo 22.086

Pescara 5.261

Chieti 2.684

Ascoli Piceno 921


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CONCORSI DELLE FORZE ARMATE CRITERI DI IMPIEGO

Preparazione del sedime per la sistemazione delle tendopoli

Montaggio di tendopoli

Le Forze Armate, quale Struttura Operativa del Servizio Nazionale della Protezione Civile, nelle situazioni di emergenza nazionale determinate da un sisma assicurano, d’iniziativa, i concorsi immediati per il salvataggio di vite umane avvalendosi di personale delle unità presenti sul territorio. Nel prosieguo dell’emergenza forniscono supporto alla Protezione Civile, con contributi riguardanti livelli di specializzazione sempre più elevati : - personale e mezzi con le rispettive dotazioni; Ufficiali medici esperti in psicologia e psichiatria con pregresse esperienze - ripristino della viabilità principale e secondaria con specialisti del maturate in situazioni di emergenza in missioni di oltremare genio, trasmissioni ; - rilevamento aereo-fotogrammetri-

Immissione di schede tecniche nel database delle agibilità strutturali degli immobili.

Lavori per la canalizzazione di acqua nelle tendopoli

co di zone di interesse e produzione del relativo supporto cartografico, nonché scambio di informazioni, elaborati e dati di natura geotopografica e geodetica; - trasporti con mezzi militari e cessione di materiali (medicinali, viveri, coperte e casermaggio, ecc.). l’Autorità decisionale risale allo SMD che coordina i concorsi attraverso una nuova struttura operativa denominata “ITA – JFHQ” (Italian – Joint Force Headquaters), proiettata sul luogo delle Operazioni, in grado di esercitare il Comando e Controllo su assetti Terrestri, Marittimi ed Aerei, resi disponibili per l’assolvimento del compito.

Operazioni di rimozione e contenimento di detriti per la riattivazione della circolazione stradale.


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CONCORSI DELLE FORZE ARMATE PERSONALE E MEZZI IMPIEGATI IN ABRUZZO

Rimozione e brillamento di un masso di grandi dimensioni staccatosi da una parete rocciosa e pericoloso per la caduta a valle. I primi reparti delle Forze Armate intervenute in Abruzzo sono state le squadre ed i mezzi per la ricognizione e il primo soccorso delle Unità dell’Esercito, dislocate in forma stanziale in Abruzzo, del 9° Reggimento alpini e del 33° Reggimento di artiglieria terrestre “Acqui” con sede a L’Aquila e del 123° Reggimento di Chieti. A questi concorsi si sono aggiunti via via assetti specialistici terrestri ed aerei che hanno consentito la costituzione di tre “ task forces ” di Esercito , Marina ed Aeronautica per un totale di circa 1530 uomini dotati di: · 96 mezzi speciali (escavatori, ruspe, torri di illuminazio-ne, ecc.); • 104 mezzi ruotati; • 20 elicotteri; • 7 aerei. Tra gli interventi più significativi finora effettuati dal personale delle Forze Armate si evidenziano: • la rimozione e lo sgombero, specie dalla strade, di varie tonnellate di macerie; • l'illuminazione di emergenza con complessi mobili campali del genio militare nelle aree interessate all'evento; • il montaggio di tendopoli in corso presso i centri abitati di Onna, Monticchio, Pizzoli e L'Aquila; • l'effettuazione di 27 trasporti aerei per sgomberi sanitari ed afflusso di elementi specialistici; • lo schieramento di shelters cucina per il confezionamento di circa 5000/pasti/giorno; • il concorso a TRENITALIA di personale del Reggimento genio

ferrovieri per l'operatività della linea ferroviaria Sulmona – L’Aquila – Terni, normalmente automatizzata tramite DCO (Dirigenza Centrale Operativa - non più funzionante), con il presidio di 15 stazioni ferroviarie; • la realizzazione di un posto di controllo del traffico aereo e movimentazione velivoli realizzato sull' aerosuperficie di Preturo (AQ); • numerosi interventi per il ripristino della viabilità di emergenza; • la ricerca di dispersi attraverso l'impiego di camere termiche; • la realizzazione di collegamenti via radio, in ponte radio e satellitari. Ai suddetti concorsi si è aggiunto l’immediato intervento del personale dell’ Arma dei Carabinieri inquadrato nel Comando Regionale “Abruzzo” ( circa 2000 uomini tra Ufficiali, Sottufficiali, Appuntati e Carabinieri), che è stato via via rinforzato da altri 300 Carabinieri provenienti da Regioni limitrofe nonché dagli assetti specialistici fatti affluire in zona, comprendenti, tra i più rilevanti: • 7 unità cinofile per la ricerca di dispersi; • 1 nucleo per l'identificazione delle vittime di disastri; • un'aliquota del Comando Carabinieri per la tutela della salute (controllo della salubrità delle acque, ecc.); • 16 stazioni mobili in sostituzione delle caserme particolarmente danneggiate ed ubicate in località specificatamente colpite dal sisma; • 2 elicotteri impiegati in volo aventi compiti di ricognizione e trasmissione delle immagini; • nuclei di collegamento dotati di apparati satellitari.

Concorso a Trenitalia

Gruppi tecnici di supporto verificano la staticità degli immobili.


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LA FIGURA PROFESSIONALE DEL MILITARE ITALIANO NON UN “RAMBO” MA UN PROFESSIONISTA Motivato, consapevole del compito affidatogli e in grado di far fronte alle nuove minacce nei vari Teatri Operativi con professionalità ed equilibrio psicofisico. E’ quanto emerso da un incontro con il col. Andrea MULCIRI, comandante del 9° reggimento alpini, e due caporali dello stesso reggimento al rientro dalla missione ISAF in Afghanistan.

Col. f. (alp.) t. ISSMI ANDREA MULCIRI Colonnello Mulciri, che cosa sta succedendo in realtà in Afghanistan? L’Afghanistan è un Paese sofferente, logorato da anni di conflitti e di lotte interne che hanno segnato sia il paesaggio che la popolazione stessa. La situazione negli ultimi anni ha subito sicuramente un miglioramento, anche grazie al supporto offerto dagli Alpini italiani in missione. Certo, alcune ferite sono ancora aperte e c’è ancora tanto da lavorare. La popolazione Afghana vi vede come eroi o invasori? Com’è l’atteggiamento dei civili nei vostri confronti? Non ci vedono certo come eroi ma neanche come invasori. Il rapporto con la popolazione locale si evolve lentamente, partendo da un’iniziale diffidenza che pian piano si trasforma in rispettosa collaborazione. La popolazione afghana, d’altronde, è ben consapevole di non essere ancora in grado di camminare da sola e che l’aiuto militare è per loro vitale. Vogliono il cambiamento e collaborano con i militari per poter vivere in pace. Riscontrate atteggiamenti diversi della popolazione afghana tra voi e i militari di altre nazionalità? E’ difficile dirlo, ma penso che la popolazione afgana

abbia tendenzialmente gli stessi atteggiamenti nei confronti dei militari, siano essi italiani, americani o francesi. Di cosa hanno maggiormente bisogno gli afgani allo stato attuale? La gente afgana ha bisogno di tutto, soprattutto di sicurezza. Se intendiamo creare anche in Afghanistan uno stato democratico dobbiamo garantire loro la sicurezza necessaria nella vita quotidiana. Protezione e sicurezza sono le basi per costruire una democrazia. E’ciò è difficile perché la società afgana ha un’organizzazione ancora tribale, non sa cosa sia lo stato, non tutti sanno chi è Karzai, l’acqua non arriva ancora nei villaggi, l’energia elettrica è tutta da scoprire, anche nella stessa Kabul. Quali sono le vostre modalità di approccio alla popolazione afgana? Elemento distintivo delle forze armate italiane è la tendenza ad instaurare da subito un rapporto con le autorità politiche e militari afgane. Si cerca di entrare in relazione in primo luogo con il capo della polizia locale o con il vecchio saggio del paese, per poi estendere la rete relazionale al resto della popolazione. Si è ritenuto opportuno operare secondo queste linee guida soprattutto tenendo conto della grande influenza che hanno, ad esempio, i saggi del paese sulla popolazione afghana. Questo modus operandi si è rivelato particolarmente efficace in un paese come l’Afghanistan in cui la popolazione è segmentata in innumerevoli gruppi etnici, diversi per cultura, lingua e tradizioni. E con le donne? Avete difficoltà di rapporto? Con le donne il rapporto è decisamente più difficile. Il problema è culturale anche se si ravvisano dei lievi segnali di miglioramento. Nel campo sanitario ad esempio, a fronte di una chiara difficoltà a portare le cure alle donne afgane, specie se il medico è uomo, si riscontrano dei concreti cambiamenti negli atteggiamenti delle più giovani, che si prestano più facilmente alle cure. Qual era il suo stato d’animo quando era in missione in Afghanistan? Qual’era il suo primo pensiero mattutino? E l’ultimo prima di andare a letto? La marea di compiti da assolvere, unita alla responsabilità della vita di tanti uomini, non lascia spazio a pensieri diversi dal lavoro, a paure od

ad altro. Io personalmente non pensavo a minacce e pericoli; pensavo solo a far bene il mio lavoro, per la grande responsabilità nei confronti dei dipendenti e cosciente del reale bisogno che la popolazione afgana e dell’importanza della nostra missione per la nostra nazione, i pensieri erano indirizzati allo scopo sociale ed umanitario della missione. E nella truppa? Qual’era lo stato d’animo? Percepiva un sentimento di paura nei militari più giovani? No, non c’è paura ma neanche superficialità. La vita scorreva tranquilla senza particolari timori, sicuri di poter contare sulla preparazione professionale e sull’addestramento svolto prima della partenza per fronteggiare qualsiasi situazione. Pensare ai familiari a casa è motivo di incoraggiamento o di tristezza? Sei mesi lontano da casa sono lunghi e anche se oggi i moderni mezzi della comunicazione ci aiutano a colmare

le distanze, la nostalgia degli affetti è un sentimento molto frequente. I familiari che invece ci aspettano a casa vivono la nostra missione sicuramente con maggiore ansia e tensione, derivate forse dalla rappresentazione che viene offerta dai mass media nazionali. Non è facile vivere quotidianamente aspettando la telefonata dall’Afghanistan. Se suo Figlio fosse un volontario, lo spingerebbe ad una missione di pace in Afghanistan? Premesso che spingerei mio figlio a fare ciò che più desidera, se un giorno dovesse manifestarmi il desiderio di andare in missione di pace in Afghanistan, sicuramente appoggerei la sua volontà. Decidendo di portare il proprio aiuto ad una popolazione che ne ha realmente bisogno farebbe una nobile scelta di vita e io la appoggerei in pieno. Per concludere, sente mai la nostalgia del periodo trascorso in Afghanistan? Nostalgia vera e propria no, anche perché io ho fatto ben tre missioni in Afghanistan. Certo, penso spesso con piacere al periodo trascorso li, alle missioni che sicuramente mi hanno arricchito e che spero possano aver portato beneficio anche alla popolazione afgana.


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Intervista al primo Caporal Maggiore Letizia Chinnici e al Caporal Maggiore Raffaele Vitulano Cosa vi è rimasto della missione in Afghanistan? CHINNICI: personalmente ho partecipato a tre missioni in Afghanistan che sicuramente hanno rappresentato un momento importante della mia vita. Io nello specifico mi trovavo presso una base distaccata che aveva lo scopo di svolgere funzioni di CIMIC (Civil Military Co-operation) e MEDCAP (Medical Civil Action Project), e cioè funzioni di raccordo e coordinamento tra la componente militare e le organizzazioni civili presenti nel territorio. Ho svolto quindi le funzioni più operative, entrando spesso a contatto con la popolazione locale. Sicuramente un’esperienza molto impegnativa ma che mi ha arricchito spiritualmente. VITULANO: La missione in Afghanistan è stata un’esperienza fondamentale della mia vita. Ho potuto calarmi in una realtà totalmente diversa da quella che quotidianamente vivo nel mio Paese, tra una popolazione che ha bisogno di tante cose, tra le quali la necessità di un pasto quotidiano. E questo mi gratificava dei sacrifici di quella vita disagiata. Qual è l’atteggiamento dei civili nei vostri confronti? CHINNICI: il popolo afgano è molto diffidente e la cosa credo sia naturale, visto che per tanti anni ha vissuto in uno stato di guerra. Ho notato comunque alcune differenze nella mia terza missione rispetto alla prima. Ora gli afgani hanno imparato a convivere con noi militari e l’iniziale diffidenza si è trasformata in pacata attenzione. VITULANO: all’inizio venivamo visti come invasori e non è facile modificare questa loro visione. Le cose migliorano con il passare dei giorni e a piccoli passi si riesce ad instaurare un rapporto con i civili. Più facilità si hanno certamente con i bambini, che ci acclamano e si lasciano avvicinare senza timore. Sono queste per noi le gioie più belle, davvero impagabili.

Con le donne riuscite ad avere contatti? CHINNICI: se avvicinare un civile afgano è per noi impresa ardua, avvicinare una donna è quasi impossibile. Per una donna militare come me forse è un pochino più facile, ma comunque gli ostacoli da superare per avvicinarsi ad una donna afgana sono molti. VITULANO: personalmente non sono mai entrato in contatto con una donna afgana. Si nascondono al nostro passaggio ed evitano ogni forma di relazione. Riscontrate atteggiamenti diversi nei confronti della popolazione afghana tra voi e i militari di altre nazionalità? CHINNICI: forse qualche differenza c’è a nostro vantaggio, anche se penso che tutti i militari che vanno in Afghanistan in missione hanno l’unico scopo di offrire il proprio aiuto a una popolazione che ne ha parecchio bisogno. VITULANO: penso che noi italiani siamo trattati leggermente meglio rispetto ai nostri colleghi inglesi, francesi o statunitensi. Sicuramente la popolazione afgana apprezza la nostra umanità. Di cosa hanno maggiormente bisogno gli afgani allo stato attuale? CHINNICI: certamente di sicurezza, noi cerchiamo subito di entrare in contatto con la polizia locale per garantire quella sicurezza che a loro è venuta a mancare. Oltre alla sicurezza però hanno bisogno di cure sanitarie, di alimenti e di strutture. La strada da percorrere è ancora lunga, ma qualche importante passo è stato mosso nella giusta direzione. VITULANO: gli afgani ci chiedono di essere aiutati a ricostruire il loro Paese. Il problema della sicurezza è da loro sicuramente sentito anche se oltre ad esso ce ne sono altri di più immediata necessità. C’è da ricostruire tutto il sistema idrico, il sistema sanitario è pressoché inesistente e le provviste alimentari sono insufficienti. Il 95% della popolazione vive in uno stato di estrema povertà e ha

Caporal Maggiore RAFFAELE VITULANO Nato a Pompei (NA) il 28 gennaio 1986, vive da sempre a Vallecrosia (IM), vicino Ventimiglia. Ha partecipato a due missioni estere con il )° Reggimento Alpini: nel 2007 a Pristina (Kosovo) e nel 2008 a Kabul (Afghanistan). Primo Caporal Maggiore LETIZIA CHINNICI Nata a Palermo il 5 agosto 1982, ha tutta la propria famiglia a Belmonte Mezzagno (PA). Nel corso della carriera ha partecipato a tre missioni in Afghanistan: nel 2005 nella zona Ovest di Herat e nel 2006 e 2008 a Kabul. LE INTERVISTE SONO STATE CURATE DALLA DR. SSA KATIA ALBANESE E DAL DR. PIERLUIGI DI STEFANO.

bisogno di tutto. Quale era il vostro stato d’animo in Afghanistan? Avevate paura? CHINNICI: un po’ di paura c’è, soprattutto all’inizio, è inevitabile. Tuttavia, dopo il primo periodo, si riesce a non pensarci. VITULANO: la paura c’è, ma siamo addestrati a governarla. Io personalmente cercavo di svolgere bene il mio dovere cercando di non pensare ad altro. Qual è lo stato d’animo della pattuglia in giro per i territori afghani? CHINNICI: c’è un rapporto strettissimo con tutti i membri della pattuglia, e non potrebbe essere altrimenti, lavorando a stretto contatto ventiquattro ore su ventiquattro. Ci sentiamo tutti fratelli e sorelle. VITULANO: si lavora tutti insieme per degli scopi comuni. Si crea una complicità unica. E’ in queste occasioni che si manifesta lo “spirito di corpo” alpino. Rifaresti volentieri una missione in Afghanistan? CHINNICI: ho ventisei anni e ne ho già fatte tre. Se venissi richiamata sicuramente onorerei i miei obblighi. Fa parte del mio lavoro. VITULANO: questo è il mio lavoro, ho scelto io di farlo e sono contento, quindi se mi si dovesse richiedere di riandare in Afghanistan lo farei senza indugio. Per concludere, spingerebbe suo figlio ad una missione di pace in Afghanistan? CHINNICI: mi piacerebbe che mio figlio realizzasse le sue aspettative; in ogni caso, forse, lo indirizzerei verso altre strade, fermo restando che se decidesse di intraprendere questa, certo non lo ostacolerei. VITULANO: sarei contento se lui fosse contento. Non lo spingerei semplicemente perché deve decidere da solo, come è successo per me, che ho deciso di andare in missione in Afghanistan senza nessuna pressione, e sono ben felice di aver fatto questa scelta di vita.


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E U TA NA SI A In memoria di Richard Jemme, uno di noi di Massimo Coltrinari (ricerca23@libero.it)

Come è stato possibile lo sterminio di esseri umani nella Germania nazista? Un bambino non voluto Nel 1938 nella famiglia Knauer nacque un bambino gravemente deforme e handicappato. Gli mancava una gamba ed un braccio, sembrava cieco, soffriva di convulsioni e fu diagnosticato “idiota” dal medico di turno. Dopo aver affidato il bambino alla clinica pediatrica dell’università di Lipsia, il padre chiese al dott. Werner Katel, direttore della clinica di ucciderlo. Questi si rifiutò ed il padre si appellò direttamente a Hitler. Dopo un breve approfondimento del caso, descritto in nota, il bambino fu ucciso. Senza che c’entrasse in alcun modo la ideologia nazista che qui è succedanea della cultura tedesca in genere, questo episodio mise in moto il programma di eutanasia, autorizzato per iscritto da Hitler nell’ottobre 1939, ma retrodatato al 1 settembre 1939, data dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Come si vede, attenzione massima per la forma, nulla per la vita di un bambino. Hitler autorizzò l’uccisione di persone (tedesche) non conformi alle norme razziali tedesche. Da notare che il documento firmato da Hitler non aveva il carisma di legge, ma nessun medico tedesco coinvolto lo mise mai in discussione o lo contestò apertamente. Da qui l’assunto che i medici tedeschi, tutti i medici tedeschi, potevano scegliere chi far vivere o morire, a loro arbitrio; quindi accanto al “pazzo” Hitler dobbiamo mettere questa categoria, i medici tedeschi che svolsero un ruolo di grande rilievo nello sterminio degli ebrei. Il sogno di costoro era di purificare da ogni imperfezione ( definita da loro) il patrimonio genetico tedesco. Non vi è lo spazio per descrivere come si ramificò l’organica della attuazione del programma di eutanasia. Si può dire qui che la prima fase del programma di eutanasia prevedeva la eliminazione dei bambini, molti dei quali, con gli standard odierni, avrebbero condotto una vita normale: epilettici, ciechi, sordi, alcoolisti cronici ereditari, handicappati gravi, chiunque non rispondesse ai canoni biomedici tedeschi. Dall’eutanasia dei bambini si passò a quella degli adulti; alle categorie sopra descritte, si aggiunsero, coloro affetti da sindrome depressivo -maniacale e simili. Ma il passaggio dai bambini agli adulti comportò un problema, il procedimento di eliminazione doveva essere adattato, adottandone uno più efficiente che la semplice iniezione letale. Il dottor Brand rammentò che una volta aveva perso i sensi respirando i fumi di una stufa mal funzionante: proprio da questo ricordo nacque l’idea di usare le camere a gas fisse per il programma di eutanasia per adulti. Furono individuati in Germania e in Austria dei siti idonei per il programma di eutanasia, in massima parte accanto ad ospedali e cliniche. Questi siti si trovavano a Limburg, Bernburg sulla Saale, Grafeneck, nei pressi di Stoccarda, Sonnenstein, vinco a Prina, e Hartheim, vicino a Linz. Interessante conoscere come nacque la prima camera a gas. In un carcere riconvertito ad ospedale a Brandebirg sulla Havel, si costruì una

camera a gas che sembrava una comune doccia. I responsabili del programma di eutanasia si riunirono per vedere se le loro teorie erano giuste e potevano avere un risvolto pratico. In questa riunione erano presenti P. Bouhler, K. Brandt, L. Conti, H.Linden, tutti i medici interessati al programma, i chimici dell’Istituto che forniva il veleno, e un certo C. Wirth, della polizia di Stoccarda, che sarà uno dei più brutali preparatori dell’Olocausto. La dimostrazione si svolse secondo il programma: prima si uccisero alcuni pazienti con una iniezione letale; poi venne il pezzo forte. Le vittime, nude, furono portate nella falsa doccia con l’assicurazione che avrebbero fatto una semplice doccia. Anziché acqua fu pompato monossido di carbonio. Il direttore della struttura fu assai compiaciuto dal successo della sua dimostrazione, come lo furono tutti i presenti. La camera a gas di Brandenburg fu il prototipo di tutte le altre camere a gas fisse. Rimaneva però il problema dello smaltimento dei cadaveri. Dopo aver profanato i cadaveri che avevano una qualche utilità commerciale (denti d’oro o altro) venivano posti su una lastra di metallo che veniva infilata in un forno crematorio per essere ridotti in cenere. Chiunque faceva parte di questo programma era convinto che la massificazione era il modo più rapido e umano per liberare i pazienti dai loro mali e sofferenze. Come tutte le scelleratezze umane, oltre ad un manto di legalità e perbenismo, dovevano queste uccisioni rimanere segrete. Fu istituito un sistema burocratico “alla tedesca”, estremamente efficiente che produceva cartelle cliniche false, certificati di morte fraudolenti, e false lettere ai parenti delle vittime, tutto con lo scopo di nascondere che cosa si stava facendo. Queste bande di medici assassini erano così orgogliosi del loro lavoro che al centro di Hadamar, il più efficiente, la

Direzione organizzò una cerimonia speciale per il raggiungimento della decimillesima vittima. Quando il cadavere del n. 10.000 si trovò sulla lastra di metallo pronto a essere infilato nel forno crematorio, circondato dai fiori, il Direttore e sovrintendete del centro tenne un discorso e premiò i suoi collaboratori con birra a volontà. Il programma di eutanasia andò avanti, anche se Hitler formalmente volle nel 1941 fermarlo. Ma nonostante questo si continuò ad uccidere, essendo diventato ormai pratica comune. Si calcola che furono uccise 70.723 persone. L’ultima vittima del programma di eutanasia fu un bambino di quattro anni di nome Richard Jemme, ucciso a Kaufbeuren il 29 maggio 1945. Un modello da imitare Secondo le tesi negazioniste, aver ucciso “solo” 70.723 persone non è poi un gran male, nel quadro degli stermini di massa del Novecento. A parte l’aberrazione di questo assunto, occorre rilevare che il danno fatto dal programma di eutanasia è molto più vasto: servì da modello e scuola per l’Olocausto. Il programma fu un terreno di addestramento e un modello da imitare e lo si può sintetizzare in quattro punti: 1. Una ideologia razziale pseudoscientifica che giustifica l’uccisione equiparandola ad una cura; 2. La camera a gas come metodo di uccisione “più umano”; 3. Il centro di uccisione del programma di eutanasia come scuole di addestramento per il genocidio; 4. Approfondimento della natura dei killer. Con riferimento al primo punto, il programma di eutanasia rappresenta la realizzazione dei più profondi desideri dello Stato razzista e dei suoi sostenitori. Vi era il desiderio nazista, e dal 1938, fascista (anche se da noi grazie alla cialtroneria congenita dei fascisti, per dirla alla Montanelli, grazie a Dio non progredì oltre) di avere un patrimonio genetico puro, immacolato e perfetto. Da qui il ruolo del medico, che tradizionalmente si prende cura del paziente e lo guarisce, ma che per i nazisti invece deve essere ribaltato. I medici e il personale sanitario hanno il dovere di diventare “dei soldati biologici” e quindi uccidere tutti quegli esseri umani non geneticamente puri, ovvero eliminare quelle vite che, per i nazisti, non erano considerate degne di essere vissute. Con riferimento al secondo punto, il programma di eutanasia diede un contributo straordinario al genocidio con l’invenzione delle camere a gas. I centri di Limburg, Bernburg, Grafeneck, Sonnenstein, e Hartheim, furono dei modelli per i campi di sterminio usati per l’Olocausto. Nulla fu improvvisato. Inoltre servirono da modelli per lo smaltimento dei cadaveri. L’efficienza di questi centri convinsero Hitler ed Himmler che le uccisioni di massa erano tecnicamente possibili e potevano essere replicate su scala più grande ad est, lontani dagli occhi e dalle menti tedesche. (continua a pagina 9)


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segue da pagina 8) Con riferimento al terzo punto, i centri di uccisione del programma di eutanasia servirono da scuole di addestramento per tutti gli operatori del genocidio. La stragrande maggioranza del personale che operò nei predetti centri fu trasferita nei campi di sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka. Qui si può fare l’elenco dei personaggi che furono prima operanti nei centri di eutanasia poi protagonisti nei campi di sterminio; una lista lunga di cui mi fo grazia nella estenderla. Basta citare Cristina Wirth che attuò le prime massificazioni a Chelmo e poi operò su vasta scala, e il suo collega Franz Stangl, sovrintendente del centro di Hartheim. Le carriere furono assicurate ai partecipanti del programma di eutanasia: due cuochi del programma T4 Gustav Munzberger e Kurt Franz furono i protagonisti a Treblinka con il Franz che fu l’ultimo comandante. Con riferimento al quarto punto, occorre una volta per tutte sfatare che tutto questo fu commesso in nome “gli ordini vanno eseguiti”. La natura di questi killer, come dimostra il programma di eutanasia, va ben oltre l’asserzione di cui sopra. La esecuzione di ordini è uno dei motivi ma non il principale e nella lista è posto molto in basso del motivo per cui si uccidevano vittime innocenti, siano essi bambini, adulti, ebrei, rom, omosessuali, politici, ecc. Questi killer le uccisero per una serie di ragioni che possiamo individuare nella ideologia, nel carrierismo, nel profitto personale, nel piacere del dominio, nella mancanza di valori

VM morali, nei valori etici e civili, nel puro sadismo. E nonostante questo elenco ci si accorge che manca un elemento. E questo può essere colto soltanto entrando nel mondo da incubo di questi assassini di massa. Questi killer sono stati inseriti in un processo di brutalizzazione crescente, rafforzato,

sanzionato dalla autorità finchè tutti furono avviluppati in una cultura di brutalità senza fine. La strada che si sarebbe intrapresa ad Auschwitz può essere intuita studiando la quotidianità del programma di eutanasia e la crescente brutalità dei suoi partecipanti in un vero e proprio addestramento per i compiti ancora più ardui che li aspettavano. In una fabbrica di morti che produce solo cadaveri si fa presto a perdere ogni sensibilità. Da questo assunto si comprende come discende e a che cosa si possono riferire tutte le violenze e le brutalizzazioni soprattutto sul fronte orientale che i tedeschi commisero nel corso della guerra, spesso con criteri che andavano anche contro i

loro interessi, che rappresenta uno dei macigni che pesa sulla coscienza di ogni tedesco. La domanda che ci siamo posti all’inizio, riguardo all’Olocausto, “perché è successo tutto questo”, dopo quanto scritto sopra ha una risposta più semplice. Il regime del genocidio, quale è stato quello nazista, sostenuto dal regime fascista, è tale non per incidenti di percorso, ma per un preciso e voluto portato culturale. Se questo portato persiste ancora oggi nella nostra società, il problema non è documentare il passato, che è già stato documentato, ma come affrontare il presente ed il futuro. Quanto dobbiamo aspettare per avere una cerimonia come quella di Hadanar, con il direttore che festeggia con tutto il personale della clinica, fra fiori, pasticcini e birra, il decimillesimo cadavere del “diverso” cremato? Sebrenica, e le altre stragi o olocausti contemporanei, stanno a dimostrare che la cultura della morte, del genocidio è in essere e che l’industria che ne discende è attiva e funzionante, sostenuta da forme di negazionismo sempre più agguerrite. Una azione di contrasto di questa tendenza si impone, per non correre il rischio di essere come i tedeschi d’anteguerra che vedevano senza guardare, assistevano senza agire, nella convinzione che il problema non era il loro. Davanti alla cultura della morte, del genocidio ognuno di noi è sulla lista: prima o poi il nostro turno sulla lastra d’acciaio arriva, come è successo a tanti tedeschi di cui Richard Jemme, ucciso il 29 maggio 1945, può essere considerato il simbolo.

AH, QUEI FORNI PER LA PULIZIA ! LA TESTIMONIANZA DI UN INVOLONTARIO “ CLIENTE “ Prof. Ilio Di Iorio Lo scorso mese di gennaio ho visto in un programma TV un prete affermare che, durante la II guerra Mondiale, in Germania non c’erano forni crematori per eliminare gli Ebrei ma venivano usati “solo per motivi igienici”. A quel prete che, dal colore dei capelli, mi è sembrato men che cinquantenne, e quindi forse ignora la realtà aetatis causa, voglio spiegare la dura esperienza da me vissuta come internato non collaboratore (anzi, come lavoratore forzato!). Nella miniera di carbone di Palemberg ( Aachen ) nel 1943 - 1944 c’era un forno come quello da lui ricordato e funzionava per i Russi, gli Italiani (Militaer internierte - militari internati ) e per le donne Russe e Polacche ridotte a schiave nel Frauenlager. Anche noi eravamo trattati da schiavi, affamati, pieni di pidocchi e pulci; ne erano pieni i vestiti e le coperte militari da campo che ci portavamo sempre dietro fin da quando, nel settembre 1943, fummo catturati dai tedeschi nei Balcani per essere deportati nei campi di lavoro in Germania (ho raccontato questa triste esperienza su questo periodico nel luglio 2008). Ovviamente le coperte erano

tenute ben strette da noi italiani, perché chi ne era sprovvisto dormiva senza, su castelli di tavole a tre piani in baracche di legno; non potendo uscire di notte per i bisogni corporali, eravamo costretti ad utilizzare un grosso, fetido bugliolo ricavato in un angolo della camerata. Le cimici regnavano sovrane in quelle baracche troppo piccole per contenere ciascuna circa 35 italiani, ossia quelli che avevano rifiutato di arruolarsi e tornare in Italia a costituire la Divisione Monterosa (dissero così offrendoci - per invogliarci - il rancio della Wehrmacht; ci furono ragazzi italiani, pochi in verità, che accettarono). Per un paio di volte i soldati tedeschi condussero noi italiani del Lager in quel forno annesso al vasto sito della miniera dove eravamo costretti a lavorare. Ivi ci denudammo e ponemmo in ordine (Ordnung) i nostri stracci e le nostre coperte; ne uscimmo nudi per andare al riparo ad un centinaio di metri di distanza. Dopo un certo tempo tornammo nel forno per rivestirci dei nostri stracci, ma di corsa perché nell’interno l’ aria era veramente irrespirabile. Si: pidocchi e pulci erano state

eliminate ma il mio tesserino universitario, conservato in una tasca della giubba, era stato completamente accartocciato. Però le cimici erano state graziate, perché continuavano graziosamente a pendere dalla volta lignea della baracca, come legate l’una all’altra in file lunghe anche mezzo metro. In seguito, da una certa distanza nell’ immenso sito della miniera assistemmo alla stessa operazione di spidocchiamento a cui noi italiani eravamo stati già sottoposti. Non si trattava però di prigionieri russi o polacchi, ma di un gruppo di donne, anche loro russe e polacche, che di corsa, in pieno inverno, cercavano un riparo dopo essersi denudate. Ora vorrei dire al suddetto prete, che non crede all’esistenza dei forni di incenerimento degli Ebrei (operazione effettuata dai tedeschi costringendo altri Ebrei a fare da inserviente per l’ infernale operazione), che esiste una bella differenza fra quest’ultimi ed i forni di spidocchiamento utilizzati dagli internati militari e dai prigionieri. Oppure, forse , trattandosi di operazione igienica per lui è la stessa cosa (pulizia della persona e pulizia etnica )!


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ANCORA SULL’ SULL’ 8 SETTEMBRE 1943

LETTERA APERTA DEL NOSTRO SOCIO GIOVANNI PAPI Ho assistito alla 1ª giornata del convegno della Vox Militiae del 18 novembre 2008 sul tema “la guerra di Liberazione in Italia: il ruolo dei militari e la Memoria nelle Forze Armate” apprezzando gli interventi, in particolare quello del prof. Dante che considero tra i più approfonditi ed obiettivi. Tra le varie problematiche sono emerse, a mio avviso, perplessita’ circa : 1. la scarsa disponibilità di fonti o la loro accessibilità; 2. il ritardo nella memoria della tragedia di Cefalonia ; 3. la scarsa considerazione da parte dei vertici militari alleati delle truppe italiane inquadrate nei reparti impiegati nella battaglia di Montelungo. Mi interesso da sempre della Storia della Guerra di Liberazione in quanto mio padre vi partecipò (meritando un Encomio Solenne nel Fronte di Cassino) e perciò ho letto e raccolto molti libri sul tema. Tra questi due mi hanno colpito particolarmente in quanto risalgono a date che li pongono all’avanguardia di quanto si e’ scritto successivamente. Nel primo, “Bandiera Bianca a Cefalonia”, edizione Feltrinelli (1963), se i fatti storici ed i nomi dei protagonisti tedeschi sono, come penso, veri allora bisogna riconoscere che se si fosse voluto indagare non avremmo dovuto attendere il famoso “armadio della vergogna” del tribunale militare di Roma per iniziare a ricordare e studiare quella tragica pagina della nostra recente storia. Fa male dover ammettere che l’opinione pubblica si e’ interessata ai fatti in occasione della uscita del film “Il mandolino del Capitano Corelli“ che, a mio parere, ricalca, in qualche modo e male, proprio la trama del libro. Nel secondo, “Roma 1943” di Paolo Monelli, stampato nella libreria del Senato nel febbraio del 1945, l’autore descrive i fatti avvenuti a Roma in particolare il 25 luglio e l’8 settembre del 1943. Quei fatti l’autore li ha vissuti personalmente o ne ha avuto conoscenza diretta e precisa. Quello che mi ha colpito in questo libro, che e’ una cronaca di avvenimenti con le considerazioni dell’autore, é l’assoluta mancanza di professionalità politica, amministrativa e militare dei vertici del nostro disgraziato paese. Io non biasimo la “ fuga “ del re ma il modo in cui fu organizzata e condotta. In ogni epoca storica ed anche nella II^ G.M. le famiglie regnanti hanno, in caso di pericolo imminente, spostato la sede del regno per far sopravvivere la dinastia e la nazione. Quello che invece fa ribollire il sangue nelle vene è che a questa fuga si unirono il Capo del Governo ed i vertici dello Stato Maggiore Generale, dell’Esercito e chi avrebbe dovuto difendere Roma (Gen.Ambrosio, Gen.Rossi e Gen. Carboni). Il libro racconta anche della visita segreta, nella notte tra il 6 e il 7 settembre, del Generale americano Taylor (che sarà il Comandante in Viet Nam ) venuto a coordinare, con il Gen. Carboni (?) l’imminente sbarco di truppe americane aviotrasportate a Roma per incrementarne la difesa in occasione

dell’armistizio già firmato e di prossima diffusione. Ebbene il Generale americano fu costretto ad annullare l’operazione già in atto con le truppe imbarcate sugli aerei, perché si trovò di fronte delle persone pusillanimi ed incompetenti preoccupate solo della loro incolumità! E questo fu il motivo per cui l’annuncio dell’armistizio fu diffuso immediatamente dagli Alleati e colse di sorpresa tutti i vertici civili e militari che si giustificarono per questo delle sciagure che ne seguirono: ma se fosse stato annunciato quando se lo aspettavano (quattro o cinque giorni dopo) sarebbe cambiato qualche cosa? Forse si, perché ci sarebbero state almeno due o tre Divisioni tedesche in più in Italia aumentando l’alibi della assoluta impossibilità di qualsiasi difesa. E così l’8 settembre 43 con un colpo solo l’Italia si attirò l’odio dei Tedeschi e contemporaneamente la diffidenza dei nuovi Alleati. Va anche ricordato che nei giorni seguenti l’armistizio l’Italia, e quindi i suoi soldati, non ebbe una posizione definita nell’ambito del conflitto, cosa di cui approfittarono subito i tedeschi che non riconobbero come combattenti regolari quei militari che, per il proprio singolo eroismo, resistettero da subito. E questo inizio immediato delle azioni di resistenza alle forze tedesche fu provocato dalla consapevolezza errata che la Nazione fosse ancora unita e soprattutto che le sue istituzioni fossero al loro posto a coordinare e dirigere insieme ai Comandanti intermedi. Io credo che l’8 settembre ogni soldato pensasse di avere ancora sopra di se un Comandante di Reggimento, uno di Divisione, una d’Armata e così via fino allo Stato Maggiore Generale ed il Governo. Quando si accorse, purtroppo dopo breve tempo che, salvo casi isolati, questa catena di comando e le istituzioni non esistevano più, allora fu il momento delle scelte individuali

che a volte furono dettate da coincidenze e dalla posizione geografica in cui ogni singolo si trovava. Ad esempio mio padre si trovava in Puglia con la Divisione Piceno e per lui non vi fu bisogno di scelte perché il suo Reparto transitò gerarchicamente unito nel nuovo Esercito Italiano mantenendo fede al giuramento prestato al Re. Viceversa alcuni suoi amici e colleghi, che si trovavano al Nord, continuarono a combattere contro lo stesso nemico da tre anni e per questo alla fine della guerra furono “discriminati” e poi riabilitati per poi ritrovarsi nuovamente colleghi ed amici nell’ Esercito repubblicano. A queste voglio aggiungere anche altre due brevi note. La prima, ritengo che chi ha tratto maggior profitto dall’uscita dell’Italia dall’alleanza con i tedeschi sia stata l’Unione Sovietica che ha visto ridursi il numero delle Divisioni Tedesche impiegate contro l’Armata Rossa sul fronte orientale e penso che non sia improbabile un accordo segreto con Stalin che avrebbe garantito al Re una sorta di tregua politica la cui ratifica fu la svolta di Salerno da parte di Togliatti. E dulcis in fundo vale la pena di ricordare che il Re Vittorio Emanuele III scelse per la sua fuga la stessa via Tiburtina che 83 anni prima suo nonno Vittorio Emanuele II aveva percorso da Pescara a Popoli per recarsi all’Assedio di Gaeta. Che sia la Nemesi storica? E quale esempio di dignità offrì invece Francesco II di Borbone che si trasferì a Gaeta ma che resistette eroicamente, al di là della storiografia ironica che lo circonda, e che, comunque, risparmiò ai suoi sudditi una campagna militare nel capoluogo del Regno che avrebbe causato lutti e distruzioni ancora peggiori di quelli di Gaeta. E’ curioso ricordare che ancora ai primi del ‘900 i Gaetani continuavano a reclamare i danni di guerra che non erano stati ancora risarciti: nulla di nuovo sotto il sole!


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ONORE ALLA LEVA IL DIAVOLO, TUTTO SOMMATO, NON ERA COME LO DIPINGEVANO - ANCHE I CAPITANI HANNO UN CUORE! Giovanbattista PITONI Nel 1963, dopo essere stato bocciato (ufficialmente per non aver superato l’esame, ma, di fatto, per indisciplina) al 33° Corso AUC, Giovanbattista Pitoni fu inviato a Torino: appena sceso dal treno alla stazione di Porta Nuova, un maresciallo chiese ad alta voce: chi sa battere a macchina? Il soldato che aveva acquisito un po’ di confidenza con una vetusta macchina presso il comune di Avezzano (AQ), alzò la mano ed il maresciallo Bertoldo Settimio lo arruolò presso il suo ufficio! Bertoldo, napoletano di nascita, torinese di adozione, finita la guerra si era raffermato ed aveva fatto carriera fino a diventare maresciallo maggiore: ora impiegato presso l’Ufficio Personale e Benessere del 22° Reggimento in corso Brunelleschi. Cinema e spaccio reggimentale, sussidi ai soldati già padri di famiglia, note di qualifica per ufficiali e sottufficiali, trasferimenti e promozioni: era questo il pane quotidiano del quale si nutriva il povero Pitoni. La convivenza con Bertoldo e con un altro maresciallo di origine napoletana di cognome Riconosciuto, fu facile anche per via della … filosofia partenopea della quale ancora, malgrado tutto, risentivano i due anziani sottufficiali. Un altro oneroso compito, però, attendeva il soldato avezzanese: scrivere quasi quotidianamente a macchina, sotto dettatura, le relazioni che il capitano Oreste Bovio redigeva a seguito d’incidenti stradali occorsi alle automobili appartenenti a qualsivoglia Forza Armata della piazza torinese: la dipendenza dal giovane ufficiale fu difficile e non priva di amarezze, delusioni, risentimenti, scoraggiamento. Il lavoro non era faticoso, ma il cipiglio del giovane capitano era poco rassicurante! I commilitoni più anziani ed i due marescialli con i quali era a contatto di gomito avevano debitamente avvertito il Pitoni: si tratta del nipote di un colonnello dei carabinieri e del figlio di un generale di Corpo d’Armata, proveniente dall’Accademia Militare di Modena, militare di carriera, carattere indomito, battagliero, spigoloso, irriducibile. Di carattere poco malleabile, non era privo dei tipici difetti dei figli unici: nato e vissuto in casa ove, ab immemorabili, si ragionava soltanto … in termini militari. Un giorno tra il Bovio ed il Pitoni scoppiò … la guerra per un episodio che vogliamo ora raccontare.

Consigliato da suo padre comunista ed antimilitarista, avvertito da amici che già avevano prestato servizio militare, frenato dalla sua indole sostanzialmente timida, Pitoni si trovava al riparo … da brutte sorprese! Un giorno, però, accadde l’imprevedibile: il capitano Oreste Bovio era particolarmente agitato per motivi rimasti ignoti: il clima era teso, l’aria pian piano si rabbuiava, una tempesta stava per scatenarsi! Dopo aver dettato una relazione, anche il capitano – come giustamente era suo solito fare – volle rileggerla e, d’improvviso, gli si aggrottarono le ciglia! Disse, alquanto adirato: quì c’è una virgola di troppo! Pitoni, con le giuste maniere e con il riguardo dovuto al superiore, fece presente di aver scritto esattamente ciò che gli era stato dettato; il capitano, ancora più adirato, replicò seccamente: so esattamente cosa è giusto e cosa non è giusto scrivere! Non ti ho dettato la virgola e, quindi, hai sbagliato.

Questa volta – pensò il soldato – non posso arrendermi. La misura è colma devo resistere! Signor capitano – balbettò – le faccio presente che mi ha dettato la virgola ed io la virgola ho scritto. Ad ogni buon conto posso sempre correggere! Il capitano Bovio non era abituato a battere il passo di fronte ad un suo subalterno e così argomentò: So che la virgola è di troppo e, quindi, non posso averla dettata. Dicendomi di averlo fatto è come se tu avessi detto ignorante ad un tuo superiore! Posso mandarti a Gaeta! Alle insistenze del subalterno nel difendere il lavoro correttamente svolto, il capitano chiese: che titolo di studio hai? Sono geometra, rispose prontamente. Non capisci un c…, sentenziò in preda all’ira! Il docile Pitoni, punto nel vivo, diventò quasi una belva, raccolse tutte le sue energie, si armò di coraggio e si scagliò contro il capitano quasi puntandogli sul viso il dito indice: ricordati che

qui dentro sono uno stronzo, ma fuori sono il signor Pitoni e non ti permetto di fare apprezzamenti, hai capito bene? Lo aveva duramente apostrofato dandogli del tu, dimenticando in quel momento di avere di fronte il duro, incorruttibile, coriaceo capitano Oreste Bovio che non esitò un solo istante ed ordinò con tono che non ammetteva repliche: vai nella tua stanza e battiti a macchina un biglietto di punizione! I marescialli, che stavano quasi origliando fuori della porta e che avevano udito qualcosa, ma non percepito esattamente l’oggetto della disputa, chiesero spiegazioni: mentre il soldato raccontava l’accaduto, sbiancavano in volto e si segnavano il capo sconvolti! Vai subito dal signor capitano – consigliarono – chiedi umilmente scusa altrimenti quello ti farà passare sicuramente dei guai seri, ti denuncerà, ti farà condannare e la condanna potrebbe pesare in seguito nella vita civile! Pitoni andò nella sua stanza e scrisse rapidamente per se un bel biglietto di licenza premio: si era nell’imminenza delle vacanze pasquali e gli avrebbe fatto piacere rivedere i suoi familiari, gli amici, la sua città! Quando i marescialli lessero il biglietto, lo implorarono di non recarsi nella stanza dell’Ufficiale e quasi gli impedirono fisicamente di avanzare: aveva, però, deciso di compiere le sue eroiche gesta e nessuno lo avrebbe potuto ostacolare! Bussò, entrò nella stanza del superiore, salutò e porse il biglietto: il capitano Bovio, dopo aver letto, firmò decisamente dopo aver scritto di proprio pugno: trattasi di elemento molto meritevole! Congedò il soldato dicendogli: vai, vai a casa per Pasqua, riposati, sei un bravo ragazzo, te lo meriti! Pitoni non voleva credere a ciò che avevano udito le sue orecchie e neanche a ciò che avevano letto i suoi occhi: gli sembrava quasi impossibile eppure era tutto vero! Quando i marescialli ascoltarono il racconto e lessero il biglietto di licenza premio, non potettero fare a meno di esclamare: pare impossibile, ancora stentiamo a credere, si tratta di un vero miracolo! Il diavolo, tutto sommato, non era come tutti lo dipingevano ed il soldato Pitoni capì finalmente che anche dietro la divisa dell’inflessibile capitano batteva un cuore e che era necessario meditare attentamente prima di giudicare il prossimo!


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CI HANNO LASCIATO

IL PRECARIATO NELLʼESERCITO

DOTTOR GIOVANNI DE FILIPPO Nostro convinto sostenitore Si è spento a 94 anni a Pescara con grande dignità. Rimarrà sempre nei nostri cuori Ufficiale di complemento del 26° reggimento di fanteria. Mobilitato in territorio dichiarato in stato di guerra nella 2ª G.M. (ex Jugoslavia). Rientrato in Italia per motivi di salute ed assegnato al 540° battaglione Costiero in Sicilia. Partecipa ai combattimenti conseguenti allo sbarco degli Alleati nell’ isola. Prigioniero degli inglesi in Egitto dal 12 luglio ’43 al 4 aprile ’46.

1° MARESCIALLO RAFFAELE SERRA - Ricordo di un amico improvvisamente mancato all’affetto dei suoi cari venerdì 6 marzo 2009 all’età di 54 anni

A LORO, CHI LI DIFENDE?

Caro Raffaele, chi ti ha conosciuto non dimentica le tue qualità di leale, onesto, generoso professionista. Trasmettevi calma e serenità anche nei momenti di maggiore fervore lavorativo o in situazioni di emergenza allorquando si poteva contare sulla tua incondizionata disponibilità al servizio. Ci manchi Raffaele come ci manca il tuo sorriso, la tua simpatia, la tua discrezione. Rimarrai sempre nei nostri cuori.

LORENZINO TESSAROLO nel ricordo incancellabile di un grande amico Lo avevamo conosciuto nel 1968 all’Accademia Militare di Modena, allievo del 150° Corso “Montello”. Lasciato l’Istituto per scelta personale rimane sempre legato all’Istituzione Militare ed ai compagni di Corso. Il 18 maggio 2009, ci ha lasciati. Mancherà tanto a tutti noi, ma resterà sempre vivo nei nostri ricordi.

VOX MILITIÆ

LʼAssociazione Culturale VOX MILITIÆ si propone di: · Catalizzare le persone che condividono i valori della Società Militare; · Diffondere la cultura e il ruolo dei militari nella Nazione che cambia; · Condividere momenti di vita (solidaristico-ricreativo) con persone che hanno identiche motivazioni; · Fornire ai soci assistenza e consulenza giuridica e amministrativa. La partecipazione è aperta a tutti coloro che vogliono far sentire la loro voce. Gli articoli investono la diretta responsabilità degli autori e ne rispecchiano le idee personali, inoltre devono essere esenti da vincoli editoriali. Di quanto scritto da altri o di quanto riportato da organi di informazione occorre citare la fonte. La redazione si riserva di sintetizzare gli scritti in relazione agli spazi disponibili; i testi non pubblicati non verranno restituiti. Contattateci tramite telefono: 320 1108036 e-mail: acvm@libero.it

DIRETTORE GENERALE Raffaele Suffoletta

ASSOCIAZIONE CULTURALE VOX MILITIÆ QUOTA ASSOCIATIVA ANNO 2009 euro 25,00 CI SI ASSOCIA INVIANDO DOMANDA, CORREDATA DI DATI ANAGRAFICI, A: ASSOCIAZIONE CULTURALE VOX MILITIÆ Via Puglia, 18 - 67100 L’Aquila Il versamento della quota associativa per i nuovi soci ed il rinnovo della tessera per gli associati può essere effettuato sul c/c bancario n. 104934 intestato a «ASSOCIAZIONE CULTURALE VOX MILITIÆ» CARISPAQ di LʼAquila, sede centrale.

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DIRETTORE RESPONSABILE Alessia Di Giovacchino COORDINATORE Gianluca Romanelli Hanno collaborato Albanese Katia, Carubbi Maurizio, Coltrinari Massimo, Di Iorio Ilio, Di Stefano Pierluigi, Papi Giovanni, Pitoni Giovanbattista. Impaginazione e grafica TIPOGRAFIA LA ROSA Via La Costa 40 (Bagno Piccolo) 67100 L’Aquila Autorizzazione Tribunale di L’Aquila N. 480 del 21.11.2001 VOX MILITIÆ Tel. 320.11.08.036 Stampato il 25 giugno 2009 Spedito il 29 giugno 2009


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