Nuova Finanza 5/2016

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BIMESTRALE ECONOMICO FINANZIARIO

Poste Italiane Spa - Sped. abb. post. DL 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma1, C/RM/22/2013 del 19/06/2013

Anno 2016 Numero 5 SETTEMBRE OTTOBRE

ITALIA PROVINCIA CINESE (a pag. 4)

IL PUNTO Programmi e non mance

SOCIETÀ In nome del padre



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Il Punto Progetti, non mance

4

Emergenze italiane L’invasione cinese

6

La Spezia L’atout crociere

9

Fincantieri Il successo militare

10

Appalti Una riforma a metà

12

L’intuizione Gli alberi camuffati

35

Credito Un sistema da salvare

OBIETTIVO SANITÀ pag 1533

DOSSIER SANITA’

15

L’intervista Il presidente Sicve

18

L’iniziativa Officina Sanità Italia

20

L’impegno Malattie rare

23

L’ultra-specialità Radiologia interventistica

26

Sanità umana Artemisia Lab

28

La tecnica rivoluzionaria Noblestitch

30

Malattia da record L’insufficienza venosa

32

Cvlab Incubatore d’Europa

Nuova Finanza Bimestrale Economico - Finanziario Direttore Editoriale

Francesco Carrassi Direttore Responsabile

Pietro Romano Direzione Marketing e Redazione

Katrin Bove Germana Loizzi

Editore Kage srl 00136 Roma - Via Romeo Romei, 23 Tel. e Fax +39 06 39736411 www.nuovafinanza.com - redazione@nuovafinanza.it Per la pubblicità: nuovafinanza@nuovafinanza.it Autorizzazione Tribunale di Roma n. 88/2010 del 16 marzo 2010 Iscrizione ROC n. 23306

COSTUME & SOCIETA’ 52 54 56 59 60

IN NOME DEL PADRE LA SALVEZZA DELL’ARTE CON L’ORIENTE NEL CUORE INTIMO AVVOLGENTE IL PIACERE DELLA CICCIA

Stampa STI - Stampa Tipolitografica Italiana Via Sesto Celere, 3 - 00152 Roma Progetto Grafico Mauro Carlini Abbonamento annuo Euro 48,00 Hanno collaborato: Domenico Alberti, Domenico Alessio, Franco Antola, Nicola Bartolini Carrassi, Katrin Bove, Maurizio Cariati, Giuseppe De Lucia Lumeno, Achille Gaspardone, Piero Gherardeschi, Mariastella Giorlandino, Federica Gramegna, Germana Loizzi, Donatella Miliani, Sandro Neri, Francesco Solimando


IL PUNTO del direttore

PROGETTI, NON MANCE di Pietro Romano Una persona su tredici in Italia vive in povertà assoluta. In un anno la quota è salita dal 6,8 al 7,6 per cento. Di gran lunga il numero più alto dell’ultimo decennio, certifica l’Istat. Per rendere l’idea, ci sono tanti poveri quanto gli abitanti del Veneto. A trainare la crescita dell’indigenza sono le famiglie di stranieri: oltre il 28 per cento vive in povertà. Un dato che spiega l’inutilità, l’ingiustizia, la pericolosità dell’apertura indiscriminata a milioni non di profughi da guerre, come falsamente si continua a dire, ma di persone che scappano da situazioni di disagio (per ripiombarci da noi). Continuando in questa aperura indiscriminata, non si fa altro che importare povertà e malessere, se non peggio. Non va meglio per le famiglie di autoctoni. Soprattutto tra quanti hanno perso il lavoro, i pensionati, le famiglie numerose. E sono tanti i nuclei della classe media risucchiati nel vortice del disagio. Risultato? L’anno scorso undici milioni di residenti nel nostro Paese hanno rinunciato a curarsi. Erano nove milioni solo un anno prima, assicura il Censis. E’ evidente che in Italia la crisi continua. Ha ragione il premier Matteo Renzi, che finalmente guarda alla realtà: bisogna unire giustizia sociale e crescita. Anche perché, è l’opinione del Fondo monetario internazionale, le disuguaglianze sociali frenano la crescita. Quindi, i due problemi sono strettamente collegati. In Italia, in verità, non si è all’anno zero. Provvedimenti anti-povertà, an-

che molto costosi per i contribuenti, sono già stati presi. Ma non si comprende quanto abbiano agito sul fronte della giustizia sociale. Un esempio? L’ampiamente pubblicizzato, e oneroso per le casse pubbliche, bonus fiscale degli 80 euro. Prima di tutto, non si comprende perché sia stato concesso solo ai lavoratori dipendenti e non ai pensionati, già discriminati a livello fiscale. Né si capisce perché non sia stato previsto l’equivalente per gli incapienti, vale a dire per i contribuen-

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ti che non arrivano al limite minimo tassabile, ancor più bisognosi. Il discrimine vieppiù evidente è determinato dalla concessione a pioggia che lo caratterizza. Una famiglia dove quattro persone lavorano con redditi bassi ottiene 3 2 0 e u r o mensili di bo-


nus fiscale. Una famiglia dove lavora solo il capofamiglia, anche con un reddito di 2mila euro mensili (quindi di gran lunga inferiore all’altra), con moglie due figli disoccupati, non ottiene il becco di un quattrino né di bonus fiscale. Ora lo stesso errore si sta commettendo per le pensioni. A chi percepisce un assegno minimo sarà concessa la quattordicesima. Ma non c’è tempo per valutare la ricchezza dei pensionati con il cosiddetto riccometro, secondo autorevoli esponenti governativi, e quindi l’integrazione sarà concessa indiscriminatamente. Anche, di conseguenza, a chi possiede quattro appartamenti e/o 100mila e più euro in banca. Viceversa, un pensionato da 1200 euro mensili con moglie casalinga e, magari, nessuna proprietà è considerato un privilegiato. La logica prevalente, insomma, sembra essere quella delle elargizioni a pioggia, che possono anche avere un ritorno politico a breve, ma poi alla lunga finiscono per mostrare la corda. Senza effetti benefici né sull’economia né sulla giustizia sociale. Causando l’ennesimo bagno di antipolitica.

Capita lo stesso alle iniziative per la crescita. Una crescita che non può non passare per le imprese, è evidente. Ma che ha bisogno, procedendo sugli stessi binari della giustizia sociale, di una “resettazione”. Lo ha chiesto anche il presidente della Confindustria, Vincenzo Boccia, che è meridionale, e quindi conosce le situazioni di più grave disagio, e piccolo imprenditore, di quelli abituati a “sporcarsi le mani”, quindi, con il lavoro vero non con le operazioni finanziarie dai dubbi risultati. Boccia ha chiesto al governo di darsi un obiettivo di crescita non inferiore al due per cento, altrimenti si potrà parlare di vivacchiamento, non di ripresa. Per crescere a questi livelli, però, bisogna rendere più competitive le imprese. Per farlo va innalzata la produttività. L’accresciuta produttività può condurre a retribuzioni più elevate. Maggiori introiti familiari possono far ripartire la domanda interna dei consumi. Maggiori consumi possono far tornare a crescere gli investimenti, crollati del 30 per cento in dieci anni. Un circuito virtuoso facile sulla carta, di certo non facile da rendere concreto. E’ il modello di crescita tedesco, passato attraverso la detassazione dei premi di produzione, legati appunto alla competitività delle imprese, sui quali sarebbe allora da ipotizzare una posta copiosa nella futura partita della exlegge finanziaria. Entrare nel dettaglio degli interventi necessari a innescare il circuito virtuoso è, in questa sede, superfluo. Di sicuro, i tre miliardi destinati annualmente alle imprese

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non possono essere più distribuiti a pioggia. Diventano uno spreco, magari una goccia che non riesce ad alleviare l’arsura degli imprenditori, non in grado, però, di far ripartire il sistema Paese. Un sistema che ha un problema principale da risolvere: gli investimenti. In Italia mancano gli investimenti non perché non ci siano soldi, tutt’altro. L’elevata quantità di ricchezze, sempre più concentrate, è evidente. Un numero a dimostrarlo: da esportatore di merci, il nostro Paese si sta trasformando in esportatore di capitali. A fronte di un avanzo commerciale di 59 miliardi accumulato tra giugno 2015 e giugno 2016, il saldo per investimenti italiano è stato negativo per 45 miliardi e addirittura negativo per 152 miliardi se si aggiungono gli investimenti di portafoglio, quelli puramente finanziari. Nel frattempo, nonostante il denaro messo a disposizione dalla Banca centrale europea, il sistema del credito italiano ha ridotto i finanziamenti alle imprese di 12 miliardi, che salgono a 25 rispetto a giugno 2014. Il problema italiano sta tutto qui. Nella difficoltà a far incontrare risorse finanziarie e iniziative produttive. Se non lo si risolve, la situazione economica italiana rischia di avvicinarsi più a quella dei Paesi africani (ricchi sulla carta, come la Nigeria) che a quella della Germania. Benché, proprio dietro Berlino, l’Italia rimanga il secondo Paese manifatturiero d’Europa. E sia forte di una propensione al risparmio tra le più alte dell’Ue.


IL POSSESSO DEL TERRITORIO

ITALIA PROVINCIA CINESE Piero Gherardeschi

I

n principio fu una marea silenziosa, quasi invisibile, pronta a costruirsi un terreno fertile sul quale poter costruire le proprie fortune economiche. Dapprima decine, poi centinaia di piccole aziende che attecchivano in scantinati e garage della periferia, poi l'insediamento deciso e irreversibile in zone-quartiere che sono diventate off-limits per chiunque. E poi la "presa", certo con l'interessato consenso di chi vedeva in tutto ciò un bell'affare, di aree produttive strategiche. Signori, benvenuti nelle Chinatown italiane: a Prato, all'Osmannoro fiorentino, ma anche a Milano, Napoli e Roma. La tecnica di presa di possesso del territorio, negli anni, non è mai cambiata troppo, spesso attecchita su una politica, quella italiana, pronta a girare lo sguardo altrove o ad evitare, nel migliore dei casi, scontri troppo accesi con una comunità che all'integrazione ha guardato da subito con sospetto. Ma quella marea silenziosa, che confinua a produrre reddito a nero per miliardi all'anno, condizioni di vita, spesso inumane, e luoghi di lavoro senza un minimo di sicurezza, ha cominciato a mostrare un volto più aggressivo che ha avuto recentemente negli scontri all'Osmannoro, periferia di Firenze, un campanello d'allarme pericoloso. È stato sufficiente un controllo da parte di operatori dell'Asl per trasformare un'operazione di routine, in un faccia a faccia violento anche per le abitudine della troppo tollerante To-

scana. Ne sono usciti fuori feriti e arresti e soprattutto una bandiera della Repubblica popolare cinese a simboleggiare la "presa" del territorio, diventato un sorta di "zona franca" entro la quale le regole rischiano di non essere più quelle dettate dalla legge italiana. Un innalzamento del livello della tensione che ha fatto scendere in campo il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, paladino dell'accoglienza sempre e comunque. Eppure anche lui sul rapporto con la comunità cinese e

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sul rispetto delle regole e dei principi di legalità non è stato tenero. "Se la comunità cinese - ha ripetuto il presidente Rossi - si lamenta degli scarsi controlli contro quei fenomeni di delinquenza ai propri danni, non ha altro che denunciare senza farsi giustizia da sola. In Italia e' la legge che tutela i cittadini di qualsiasi razza e orientamento esso siano." Il caso Osmannoro e' un caso simbolo che lega più realtà italiane dove la comunità cinese ha i suoi maggiori insediamenti. Ma certo Prato, nel rapporto


numerico tra cittadini italiani e orientali, non ha uguali in Europa, al punto da aver trasformato economicamente negli anni una città che, come ha sottolineato recentemente il direttore del Censis De Rita, e' passata dalla cultura dell'impresa a quella della rendita. Una rendita fatta spesso di affitti a nero. Affitti di quei capannoni industriali, nell'area del macrolotto industriale, una volta occupati da imprenditori italiani ed ora diventati laboratori-dormitorio. Una metamorfosi che si

è materializzata con il silenzio-assenso delle istituzioni e in particolare della politica che soltanto adesso ha cominciato a capire come il problema rischi di diventare irreversibile. Eppure le inchieste e i campanelli d'allarme non sono mancati: il fenomeno delle "ditte individuali" gestite da prestanome, spesso ostaggio dei veri padroni, sono la parte preminente di tante aziende che hanno così la possibilità di essere snelle: chiudere nel giro di un paio d'anni e risultare quasi sempre poco individuabili. E cosa dire dell'inchiesta della Direzione provinciale del Lavoro, che recentemente, ha sciorinato numeri che parlano del 90 per cento di aziende irregolari con la metà di lavoratori clandestini. Tutto questo alla fine ha generato un sistema di contraffazione che ha prodotto un reddito a nero di oltre un miliardo l'anno con ricadute pesantissime sulla imprenditoria locale. Una catena che ha legato inevitabilmente le attività dei money transfert , che fanno di Prato la prima città, anche rispetto a Roma e Napoli, con il più alto valore pro capite espor-

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tato: un giro di soldi che permette un ritorno di liquidità "pulita" reimpiegata per il controllo del territorio. Numeri e situazioni ( senza dimenticare l'inchiesta con ipotesi di riciclaggio e trasferimento illegittimo di capitali per quattro miliardi che ha coinvolto trecento persone) che suggeriscono la domanda più banale: come può essere accaduto tutto questo? Com'è possibile che in tutti questi anni sia attecchito un distretto parallelo di tali dimensioni senza che non si sia fatto quello che agli occhi dei più e' apparso sa sempre banale? Esercitare, cioè, controlli sui luoghi di lavoro, sul flusso dei capitali, sulla bontà dei contratti e altro ancora. Poco o niente, di tutto questo, si è fatto, anche a discapito di quella parte della comunità cinese che invece lavora dentro le regole, paga le tasse, registra affitti e compravendite. Anche questa realtà, seppure minoritaria, e' comunque vittima di un malcostume più ampio che ha trovato un terreno fertile proprio nella pancia molle di chi ha scientemente deciso di voltare lo sguardo da un'altra parte. Anche questa è Prato, la terza città dell'Italia centrale, dove lo tsunami della globalizzazione ha spazzato via elementari regole di convivenza, in una giostra di contraddizioni a volte schizofreniche che vanno dal "via tutti" ad una accoglienza indiscriminata. Signori, benvenuti a Prato, terra di conquista. Nelle foto: il Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi e la violenta manifestazione con la bandiera cinese.


GRANDE IMPULSO DAI CROCIERISTI

LA SPEZIA, IL FRONTE DEL PORTO Franco Antola

È

una città che sta cambiando lentamente pelle, dal punto di vista urbanistico ed economico, ma non solo. Negli ultimi anni La Spezia sembra aver finalmente acquisito più consapevolezza delle proprie risorse, soprattutto quelle ambientali e culturali, che si è sforzata di migliorare, promuovere e farne uno dei punti di forza della propria economia turistica. La strada da fare però è ancora lunga; la crisi, qui come altrove, ha colpito duro, ma è un fatto che la città sta cominciando a cogliere i primi frutti di questa inversione di tendenza. Un ruolo decisivo lo ha giocato il porto, sia sul fronte della movimentazione di merci e container, sia su quello crocieristico, che si avvia a diventare una delle voci più importanti del "fatturato" della città e della provincia. Non senza critiche, ripensamenti e battute di arresto. L'idea di sottrarre spazio alla tradizionale attività portuale, fatta di merci e container, a suo tempo ha incontrato molte resistenze, soprattutto da parte dei terminalisti, poco disposti a cedere spazio alle navi da crociera, spostando in altre aree portuali le proprie gru e il resto delle strutture per la movimentazione delle merci. L'Autorità portuale ha comunque vinto la battaglia, soprattutto sotto la spinta del suo attuale presidente Lorenzo Forcieri, che ha portato l'approdo dei colossi di Costa, Msc, e Royal Caribbean al molo Garibaldi, sfrattando le gru. È arrivata anche la nuova stazione marittima (provvisoria), requisito strutturale indispensabile per lo sbarco dei crocieristi. Un flusso in continua crescita, attualmente attestato sui seicentomila passeggeri movimentati in un anno, con positive ricadute sull'economia cittadina e provinciale. Ne parliamo con il presidente dell'Authority, Lorenzo Forcieri, già senatore, sottosegretario, oltre he sindaco di Sarzana. Forcieri, prendiamola un po' alla larga. Come mai, almeno fino a qualche anno fa, non c'era un grande rapporto fra la

città e il suo porto? Ci sono stati momenti in cui lo scalo sembrava essere un corpo estraneo rispetto alla comunità... "Sì, è così. Ci sono stati momenti di tensioni acute, anche con manifestazioni pubbliche da parte di chi osteggiava la crescita del porto.Uno degli obiettivi indicati nel mio programma era di recuperare un rapporto positivo. Ci siamo comunque mossi, come Autorità portuale, con vari interventi come lo spostamento della barriera doganale, la realizzazione di un percorso ciclo-pedonale e di una nuova barriera fra porto e città, capace di attutire i rumori, oggetto delle proteste degli abitanti dei quartieri più vicini al porto. Lo scalo ha saputo diversificarsi ed oggi è la principale attività della città. Gli oppositori oggi vogliono le spiagge, ma non dimentichiamo che in quelle aree prima c'erano i cantieri di demolizione". Dopo il primato dei container, con i picchi degli anni scorsi, ora è il traffico crocieristico ad aprire nuove prospettive. Quali sono le ultime tendenze? "Questa delle crociere è un'attività che ho voluto io, anche scontrandomi con i terminalisti che vedevano solo container nel futuro del porto. Non è stato facile sottrarre la banchina Garibaldi alle merci per destinarlo all'attività crocieristica. Averlo fatto è stato positivo: ora stiamo parlando di seicentomila passeggeri in movimento ogni anno. Così come abbiamo trasformato l'ex dogana in stazione marittima provvisoria, destinando l'area con le vecchie tettoie dei canottieri ad accogliere strutture per l'accoglienza dei crocieristi" Un'espansione, quella del porto passeggeri, destinata a continuare? "La Spezia, per la parte crocieristica, è stata in gran parte un porto di transito e in minima parte di imbarco-sbarco. La mia idea è che lo scalo possa essere anche un importante porto di imbarco, inteso come terminal dei flussi turistici provenienti

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dal Nord Europa lungo la direttrice della Tirreno-Europa, una sorta di via Francigena in chiave marittima - celia Forcieri -. Ho avuto incontri con i vertici di Msc, per cercare di convincerli sulla scelta strategica di portare imbarchi e sbarchi da noi, coinvolgendoli nella realizzazione della nuova stazione marittima. Già dal prossimo anno alcuni navi sbarcheranno e imbarcheranno passeggeri da noi. L'idea è di fare lo stesso con Royal Caribbean, che oggi imbarca e sbarca solo a Venezia e Civitavecchia. Già con Msc e Costa abbiamo numeri importanti, con forti ricadute sul territorio. Nei giorni immediatamente precedenti e in quelli successivi agli imbarchi e agli sbarchi, le presenze nelle strutture ricettive di Spezia e dintorni, addirittura a fino a Pontremoli, registrano autentiche impennate". Ma lo sviluppo crocieristico è compatibile con la vocazione turistica del territorio? "Non solo è compatibile - assicura Forcieri - ma è stato una specie di catalizzatore per la trasformazione di una città grigia e chiusa in una città aperta e turistica. È ora di smetterla di trattare i turisti come forestieri, sono ospiti importanti, con cui manifestare uno spirito aperto. E non potrebbe essere diversamente, loro sono una nostra risorsa importante". Cinque Terre come Venezia? Per alcuni si ripeterebbe il

dilemma della scelta fra tutela del territorio, o almeno quello più fragile, e strategia di sviluppo, come appunto quello legato alle crociere. Possono convivere queste due esigenze? "Parliamoci chiaro, gli arrivi alle Cinque Terre costituiscono solo il cinque per cento degli sbarchi, cioè un contingente limitato, programmato e programmabile. Sappiamo quando arrivano e come si muovono. Il problema, semmai, è quello dei turisti che arrivano coi pullman. Carichi di persone imprevisti e imprevedibili che rischiano di mettere in crisi il territorio". Porto e crociere a parte, quali dovrebbero essere a suo parere le cose da fare subito per il rilancio del turismo? "Sto guardando verso il porto e vedo due grosse navi da crociere ormeggiate davanti alla città. Sono uno spettacolo, oltre che una grande opportunità per l'economia di Spezia. Il turismo, ripeto, è un'importante fonte di reddito, ma deve diffondersi la mentalità dell'accoglienza. Il territorio poi deve sapere attrezzarsi, consolidando il legame con la sua storia e la sua cultura. E porre mano ad una energica cura per migliorare la qualità del territorio, sia in termini di strade e collegamenti, ma anche mettendo mano a un serio piano per il decoro urbano, con il rifacimento delle facciate e la pulizia delle strade. Diversamente i turisti sceglieranno altre rotte".

QUANTO FATTURANO LE CROCIERE

C

ome si evince da uno studio della Port Authority, fino al 2012 La Spezia era ai margini del fenomeno crocieristico nazionale con un traffico passeggeri mai superiore alle 100.000 unità. Dal 2013, con l'adesione di ulteriori soci al Consorzio Discover La Spezia, a seguito dell'ingresso dell'Autorità Portuale avvenuto l'anno precedente, si è assistito a un vero e proprio boom, con una crescita del 1500% nel quadriennio 2012-2015. “Il porto spezzino – scrivono gli analisti della Port Authority - è ora stabilmente presente nella geografia dei principali porti crocieristici italiani forte della localizzazione nella parte nordoccidentale del Mediterraneo, così come delle numerose località che si possono raggiungere utilizzando La Spezia come porta d'accesso”. Dal 2013 le crociere, con la loro forte accelerazione, hanno ritagliato insomma un posto di tutto rilievo per lo scalo spezzino nella geografia crocieristica mediterranea e nazionale. Nel 2015 il peso delle crociere è ulteriormente aumentato, facendo guadagnare altri posti nella classifica nazionale con gli oltre 660.000 crocieristi. Ma quanto pesa l'indotto crocieristico sull'economia spezzina? Il primo dato è quello della spesa dei crocieristi a terra. Si tatta in sostanza dell'importo che viene “lasciato” in città e provincia durante lo scalo della nave da crociera. Secondo l'indagine eseguita, i 667.000 crocieristi movimentati nel porto della Spezia nel 2015 avrebbero speso – a prescindere dal luogo - oltre 41 milioni di euro a terra, con un valore medio di 62 euro, legato per lo piu alle escursioni organizzate. Considerando le sole spese nell'area spezzina, sulla base del totale considerato, si può quantificare in 22,7 milioni di euro il contributo che arriva alla Spezia dalle spese dirette dei crocieristi a terra (il 55% sul totale), per un valore di spesa media nel territorio provinciale pari a 34,1 euro procapite, 37,9 euro se si considerano solo i passeggeri scesi, visto che si è stimato in un 10% chi ha preferito restare a bordo durante la sosta della nave in porto). Quanto alle spese dei membri dell'equipaggio a terra, si è valutata una ricaduta nella provincia spezzina di quasi 1,96 milioni di euro. Oltre alle spese sostenute dalle persone a terra (crocieristi e membri dell’equipaggio) si devono poi considerare sia i costi dei servizi tecnico-nautici sostenuti durante l’itinerario dalle compagnie, che versano anche agli scali le tariffe portuali e terminalistiche previste, sia le spese sostenutedalla compagnia per acquisire i beni e servizi necessari alprodotto turistico offerto ai crocieristi.

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FINCANTIERI SULL’ONDA

ROTTA SULL’AUSTRALIA Katrin Bove

U

anfibia e due pattugliatori), con il supn nuovo mercato potrebbe in ambito sia civile sia militare si integrano porto post vendita per un periodo di schiudersi per la produzione sinergicamente in una perfetta logica quindici anni a partire dalla consegna militare di Fincantieri. Il gigante duale e consentono di sviluppare prodotti delle unità. Queste navi saranno conavalmeccanico italiano guidato da Giuavanzati e innovativi, garantendo tempi struite interamente seppe Bono ha infatti firmato un condi produzione che rafforzano nei cantieri italiani tratto con il governo dell’Australia per il vantaggio competitivo del gruppo a parpartecipare alla selezione per la costrudell’azienda. tire dal 2018, aszione di nove fregate di nuova generaIl risultato? La collaborazione sicurando sei anni zione. con numerose Marine stradi lavoro e una Fincantieri è uno dei tre costruttori niere, a cominciare da quella ricaduta significamondiali scelti nella scorsa primavera più prestigiosa di tutte, queltiva sulle princidal Capability and Sustainment Group, la degli Stati Uniti, per la pali società attive l’ente del Dipartimento della difesa di quale Fincantieri, all’interno nel comparto delCanberra, per partecipare la difesa. al processo di valutazione Fincantieri, che e selezione destinato a duha subito come rare circa un anno, e che tutti i gruppi del condurrà all’aggiudicazione settore i cospicui della commessa. Gli altri Giuseppe Bono, Ad Fincantieri tagli ai bilanci midue player concorrenti litari derivati dalla sono Bae Systsems e Nacrisi scoppiata nel 2008, sia vantia. Fincantieri si propur reagendo molto meglio pone con un progetto dedella concorrenza, è ora in rivato dell’esperienza già pole position, per usare la accumulata dalle sue fregate terminologia sportiva, per Fremm in versione antiapprofittare della ripresa sommergibile in forza alla “Carlo Bergamini”, unità del programma FREMM - Fregate Europee Multi Misdella spesa militare, che l’anMarina militare italiana. sione, commissionate a Fincantieri dalla Marina Militare Italiana nell’ambito dell’accordo di cooperazione internazionale italo-francese. no scorso è tornata a creQuesta è il partner di rifescere dopo anni di continue rimento di Fincantieri, ma del consorzio capitanato da Lockheed riduzioni. Molto importante, oltre al anche in campo militare come in altri Martin, costruisce nei propri cantieri mercato australiano, potrebbe risultare settori, a cominciare dalle navi da crociera del Wisconsin unità nell’ambito del per il produttore italiano il Canada. Il in cui il gruppo con sede a Trieste è un programma Littoral Combat Ship. Il Paese nordamericano ha lanciato il prinoperatore mondiale di assoluto riferimerito di questi successi va ascritto cipale programma navale della sua storia, mento per le tecnologie all’avanguardia, anche agli sforzi commerciali sviluppati denominato “Canadian Surface Comla gamma tipologica offerta (navi da da Fincantieri su tutti i mercati mondiali, batant”, che potrebbe complessivamente superficie, navi speciali, sommergibili), culminati a giugno scorso nel contratto arrivare a un controvalore di 27,5 miliardi la qualità largamente sperimentata, l’asfirmato con il ministero della Difesa di euro, per il quale Fincantieri risulta sistenza offerta alla clientela. E’ una del Qatar per la fornitura di sette navi prequalificata, potrebbe ritagliarsi un realtà articolata e coesa nella quale le di superficie (quattro corvette, una nave ruolo importante. soluzioni derivate dalle attività sviluppate

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IL NUOVO CODICE DEGLI APPALTI

RIFORMA TRA LUCI E OMBRE Francesco Solimando*

L

’economia del Mezzogiorno in generale e quella della Basilicata in particolare sono ancora troppo dipendenti dal mercato della pubblica amministrazione, tanto che quasi il 70% delle imprese edili lucane partecipa a gare di appalto di lavori pubblici. Per questo motivo il nuovo codice degli appalti, entrato in vigore da appena tre mesi, riveste un’importanza strategica per il sistema economico locale, oltre che per i piccoli comuni, che in Basilicata costituiscono la stragrande maggioranza delle stazioni appaltanti. La coda del 2015, infatti, ha visto un leggero aumento dei bandi per mandare in gara le opere programmate con la disciplina del vecchio codice degli appalti, dal mese di aprile di quest’anno sostituito dalle nuove norme. Il settore edile ha perso in questi anni di crisi il 30% del suo valore in termini di produzione, con percentuali ancora maggiori in termini di posti di lavoro. Un intero patrimonio di professionalità disperso e compromesso. Gli operatori contano molto sul fatto che le nuove norme aiutino in un certo qual modo la ripresa, accorciando i tempi lunghissimi che occorrono per cantierizzare le opere e per realizzarle, evitando le distorsioni del mercato, combattendo la corruzione e tutelando maggiormente le pmi e i subappaltatori. Tuttavia, da aprile a oggi gli appalti sono calati di oltre il 50% perché, in attesa del nuovo sistema c.d. di soft law dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, che sostituirà a poco a poco il regolamento del vecchio codice, le amministrazioni locali stentano a recepire le novità della riforma, a mandare in gara solo progetti esecutivi, a qualificarsi come stazioni appaltanti con l’ANAC, e intanto chiedono un periodo transitorio tra i due regimi normativi che però non sarà concesso. Siamo costretti nel letto di Procuste, ristretti tra le nuove norme in vigore e molti piccoli comuni che non sono ancora pronti per applicarle. Il risultato è una grande confusione nei

bandi di gara, con “copia e incolla” dal vecchio codice che, tuttavia, non compaiono più nel nuovo. Ne deriva un giudizio in maggioranza negativo sulla riforma che, scritta con eccessiva fretta, presenta diversi lati oscuri con il rischio di una mancata operatività. L’8 aprile scorso Confapi Matera, che associa oltre 400 imprese edili della provincia di Matera essendone l’Associazione più rappresentativa, ha organizzato un convegno con la partecipazioni di due esperti della materia, l’avv. Arturo Cancrini e il sen. Salvatore Margiotta componente della 8^ Commissione Lavori Pubblici del Senato, con lo scopo di chiarire i cambiamenti introdotti dalla novella legislativa e avviare un confronto prospettico sulle opportunità che si aprono o, al contrario, si chiudono per le PMI. Abbiamo perso il conto di quante manipolazioni abbia subìto la normativa sugli appalti pubblici dal dopo-tangentopoli a oggi. Pur nella consapevolezza che le leggi mutano, si evolvono e si adattano ai cambiamenti tecnici, economici e sociali, dobbiamo comunque constatare che, in via generale, troppe rielaborazioni non giovano alla chiarezza, in qualche caso nocciono alla certezza del diritto e comunque sono il segnale di un insuccesso della legislazione previgente. Per questo motivo tutti noi ci aspettiamo che la riforma porti novità positive per le imprese, ma soprattutto ci sia una trasparente applicazione delle norme da parte di tutti gli addetti ai lavori. Oggi riponiamo nuove speranze su una normativa che parte sotto i migliori auspici, forte dell’alleanza con l’Autorità Nazionale Anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone e perché sopraggiunge in un momento in cui il settore cerca di uscire dalla crisi. Per una crisi che ha perso i caratteri della transitorietà, aprendoci a un nuovo stile di vita, occorrono nuove strategie, nuovi strumenti, nuovi percorsi. Oltre a nuove leggi occorrono

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imprese più serie, pubbliche amministrazioni più rapide ed efficienti, progettisti più preparati. Le norme sono solo uno strumento per lavorare, ma il lavoro si crea diversamente. Gradiremmo, inoltre, che la Pubblica Amministrazione sia un interlocutore alla pari con le imprese. Una Pubblica Amministrazione coraggiosa, concreta, responsabile, dinamica, capace di prendere delle decisioni, avulsa da comportamenti pilateschi e da atteggiamenti dilatori. E anche una P.A. che non sia prigioniera dell’accezione negativa del termine burocrazia, che spesso gioca un ruolo frenante negli appalti. In linea di principio, una riforma era necessaria per cercare di rimediare ai danni che il settore ha subito in questi anni. Tuttavia, legiferare per legiferare non è sufficiente e in questo senso soccorrono i rilievi critici espressi lo scorso 1° aprile dal Consiglio di Stato che, con una deliberazione di 227 pagine, paventava che l’eccessiva fretta del legislatore potesse nuocere alla chiarezza e quindi all’effettiva operatività del Codice. Secondo i giudici di Palazzo Spada, insomma, la legge andava scritta meglio per poter effettivamente raggiungere gli scopi prefissi di accentramento delle stazioni appaltanti, di selezione dei componenti delle commissioni di gara, di qualificazione delle imprese, di nuovi metodi di affidamento sopra soglia, di procedure semplificate per gli appalti sotto soglia, di non ridurre i controlli, sia amministrativi che giurisdizionali, su una materia, quella degli appalti pubblici, con forte rischio di corruzione. In ogni caso, se una riforma era necessaria, ci auguriamo che si apportino quegli aggiustamenti utili per garantire una

maggiore chiarezza e speditezza su aspetti fondamentali come progettazione, appalto e realizzazione delle opere pubbliche. Nondimeno, chiariti gli aspetti tecnici e normativi, vogliamo capire anche quali sono le prospettive che si aprono per un settore duramente colpito da 8 anni consecutivi di crisi, che hanno messo in ginocchio il comparto dell’edilizia e dei lavori pubblici, con effetti negativi sul piano sociale. Convinte dell’equazione investimenti = sviluppo, le imprese chiedono un quadro legislativo chiaro, operativo e snello, che sia un valido strumento e supporto per lo sblocco delle opere e per assicurare che i cantieri, una volta avviati, procedano in maniera spedita e senza intoppi. Il nuovo codice, una volta sedimentato, porterà indubbi vantaggi, soprattutto nella fase della progettazione dell’opera pubblica. Una progettazione chiara e non equivoca, infatti, previene i contenziosi e non lascia spazio a quelle imprese che vivono di espedienti e danno lavoro più agli avvocati che agli ingegneri, i furbi che si trovano a proprio agio nelle ambiguità e nelle indeterminatezze. Manca ancora una norma che garantisca la certezza dei pagamenti e che tuteli le imprese fornitrici, ma speriamo di arrivare a normare anche questi aspetti. In ogni caso, norme più semplici e deregulation non bastano se non si preparano adeguatamente gli addetti ai lavori – stazioni appaltanti, progettisti e imprese esecutrici - che per troppi anni hanno fatto strame della trasparenza delle norme e della certezza del diritto. *Imprenditore aderente a Confapi Matera

LE REGOLE DI GARA

I

l nuovo codice degli appalti investe sulla valorizzazione dei progetti, limitando il ricorso al massimo ribasso e introducendo come criterio normale di aggiudicazione degli appalti quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che oltre al prezzo tiene conto anche degli aspetti di organizzazione del cantiere e miglioramento del progetto. “Noi siamo favorevoli alla prevalenza del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa rispetto al criterio del massimo ribasso. Siamo consapevoli, tuttavia, che con l’offerta economicamente più vantaggiosa le imprese di minori dimensioni partono svantaggiate rispetto ai propri competitors, dovendosi dotare di un ufficio di progettazione e, in generale, di una migliore organizzazione per partecipare alle gare. Per molti di noi si tratta di una sfida, una sfida che ci porterà a organizzarci meglio, a metterci insieme, in una parola a crescere e migliorare. In ogni caso, l’offerta economicamente più vantaggiosa è preferibile al criterio del massimo ribasso che ha creato innumerevoli disastri e dato spazio a imprese che, essendo già decotte e collocate ai margini del mercato, non avevano nulla da perdere”.

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L’INTUIZIONE DI MARCO CALZAVARA

GLI ALBERI “CAMUFFATI” Sandro Neri*

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hianti, primavera 1998. Si scatena una vera rivolta popolare contro i tralicci installati nei boschi. Il caso finisce sui giornali: in tutto il mondo si parla di quel panorama devastato. Lontano da Siena, a Udine, all’imprenditore Marco Calzavara, da poco entrato nell’azienda di telecomunicazioni della sua famiglia, viene un’idea: perché non trasformare quelle ingombranti strutture in acciaio in elementi del paesaggio? È un’intuizione realizzabile e proficua. Tanto da diventare presto la base di una importante realtà commerciale: sembrano palme, cipressi, pini marittimi. Impossibile distinguerli nella macchia mediterranea. Ma non sono alberi, sono torri per le telecomunicazioni altamente tecnologiche, dotate di veste estetica a zero impatto ambientale. L’azienda friulana Calzavara Spa, specializzata nella progettazione e realizzazione di strutture di telecomunicazione in acciaio e policarbonato, è riuscita a trasformare ecomostri in oggetti invisibili. A quel punto il passo in direzione dell’arredo urbano è stato breve. Spiega Marco Calzavara, oggi amministratore de-

legato della sua azienda: «Dopo gli alberi camuffati abbiamo pensato di risolvere il problema estetico anche nelle città. Nessuna piazza o viale o centro storico del nostro Paese può ospitare un traliccio. Abbiamo pensato che invece un obelisco con funzione segnaletica o di advertising fosse la soluzione. Degli impianti tecnici non si può fare a meno, sennò televisioni

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e telefonini non funzionano. Tanto vale ospitare le apparecchiature in strutture belle e utili». La diffusione del led ha consentito il salto di qualità definitivo. Oggi gli obelischi della Calzavara sono bellissimi, si illuminano la sera e diventano punti di riferimento nella città. Commenta l’imprenditore: «La gente si dà appuntamento sotto i nostri obelischi, visibili la notte con infinite possibilità di colorazione, disegni e forme. Le aziende hanno trovato l’evoluzione del cartellone tradizionale e la pubblicità assume una nuova dimensione quasi artistica». Un esempio di creatività italiana sposata alle competenze tecniche. Design e tecnologia insieme. «Siamo i primi stilisti dei pali al mondo», dice orgoglioso Calzavara. E il mondo se ne è accorto: dal Medio Oriente al Sud America arrivano richieste per questi moderni monoliti luminosi. All’Expo di Milano erano sei, altissimi, illuminati la sera graditi ai turisti e quindi anche agli sponsor. L’Expo 2015 è finita, ma i moderni menhir ci sono ancora. Il recente concerto in mondovisione di Andrea Bocelli è stato trasmesso grazie alla strumentazione di Calzavara. Nata nel 1966 a Udine come piccola società nel


settore elettrico, Calzavara Spa si è trasformata in una impresa strutturata e internazionale, alfiere di una nuova etica (ed estetica) dell’imprenditorialità, che alle competenze tecniche e ai risultati finanziari (20 milioni di euro di fatturato nel 2015) unisce l’attenzione all’ambiente e al contesto urbano che accoglie le sue infrastrutture. Si sente un ambasciatore del made in Italy? «Lascerei questa onorificenza a celebrità come Renzo Piano e Giorgio Armani. Noi siamo artigiani al servizio delle eccellenze industriali. Con architetti e designer raccontiamo un nuovo capitolo del libro del made in Italy. Più del 70% dei nostri prodotti sono nati da precise richieste di amministrazioni pubbliche cioè i sindaci delle città e da tower operators, cioè le società televisive e telefoniche che chiedono a noi perché siamo bravi, ma anche perché siamo italiani». Come si diventa stilisti d e l traliccio? «Nel 2004, quando il Comune di Treviso ha deciso di rinnovare l’arredo urbano abbiamo iniziato col camouflage, il mascheramento dei tralicci. Abbiamo

sviluppato una serie di prodotti che non erano le classiche torri per le telecomunicazioni ma erano torri per fornire servizi per il monitoraggio ambientale, la sicurezza, l’advertising e anche centri meteorologici. Questi accrocchi di antenne sono diventate eleganti strutture polifunzionali. I materiali oggi sono i più innovativi e sono sottoposti a durissimi test di resistenza perché il segnale deve essere sempre trasmesso in modo continuativo e ottimale, con temperature che fra i -30° e i +50°. Infine, ma non di secondaria importanza, le nostre infrastrutture sono progettate per integrare moduli di energia rinnovabile per ottimizzare il consumo di energia. Per noi si tratta di un principio etico prima che di di business» *Vicedirettore “Il Giorno”

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a Sicve, Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare, il prossimo 23 ottobre a Roma, inaugurerà il XV° congresso nazionale che vedrà la partecipazione di chirurghi vascolari internazionali. Nuova Finanza, in apertura della rubrica sanità, dedica un intervista esclusiva al presidente della Sicve. Scopriamo insieme, inoltre, cos’è l’OSI “Idee per chi vuole contribuire a costruire una sanità universale, efficace e sostenibile”; questa è Officina Sanità Italia, presentata dall'amministratore delegato di una grande multinazionale bio-medicale. Diamo voce all'imprenditoria femminile, con la storia e l'esperienza di un’affermata imprenditrice romana.

L’importanza della ricerca, soprattutto nella cura e nella scoperta delle malattie rare, è raccontata dal direttore generale del policlinico Umberto 1 di Roma. Il presidente incoming della Sirm fa il punto sulla storia della Radiologia Interventistica, dalle sue origine ai giorni nostri. Un incubatore di progetti, una società al servizio di medici e scienziati, che raccoglie, organizza e realizza idee innovative specie nel cardiovascolare, nuove tecniche rivoluzionarie per la chiusura percutanea del PFO e cure mininvasive per le varici, chiudono, arricchendo ulteriormente la lettura, questo nuovo numero di NF. Katrin Bove

PARLA IL PRESIDENTE SICVE

LA QUALITA’ CONTRO I TAGLI

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tagli alla spesa pubblica hanno inciso sulla qualità dell’offerta sanitaria nel settore della chirurgia vascolare? Innovazione e continuo aggiornamento sono il mantra della chirurgia vascolare. In tutte le discipline mediche ed in particolare nella nostra, ogni giorno la ricerca partorisce un nuovo dispositivo che permette la riduzione dell’impatto fisico dell’intervento sul paziente, la cosiddetta “invasività”. Le nuove tecnologie hanno spesso costi elevati. E’ nostra missione e cura difendere la salute dei malati ed offrire la

migliore strategia terapeutica a tutti: come sancito da una recente sentenza della corte di cassazione a sezioni riunite, è punibile quel medico che non abbia destinato la migliore opzione terapeutica disponibile al paziente. In un momento di tagli alla spesa pubblica è ovviamente difficile tenere l’equilibrio tra queste due forze contrarie, se così possiamo definirle. Ed in effetti questo è un argomento più che attuale: lo scorso marzo la Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare ha organizzato a Matera un Congresso nel quale i chirurghi vascolari italiani e stra-

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nieri si sono confrontati su questo tema. Ne è emerso che la chirurgia vascolare italiana nonostante il difficile momento economico con rimborsi DRG inadeguati ai costi delle nuove tecnologie riesce a garantire ottimi risultati. La Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare ha aderito, con altre Società scientifiche, ad un’iniziativa chiamata Officina Sanità Italia proposta dal Presidente nazionale di Medtronic, nella quale vari attori, tra stake holders , istituzioni ministeriali, le Università ed associazioni di pazienti si uniscono con gli scopi comuni di identificare le norme esistenti e ancora non adeguatamente implementate per migliorarne l’applicazione, costruire alleanze, promuovere il dibattito pubblico su temi economico sanitari e rivoluzionare il sistema sanitario tutto. E’ possibile coniugare riduzione della spesa e qualità del servizio? Si possono realizzare risparmi che, senza incidere sul core dell’attività, possono mantenere più o meno integro il livello degli investimenti? E’ possibile e doveroso, aggiungerei. La chiave di volta è la Best Clinical practice, che è una attitudine che passa anche attraverso il risparmio. Il concetto di risparmio in chirurgia vascolare è più da vedere come un investimento attento ed adeguato della tipologia delle cure. Prendiamo ad esempio l’aneurisma dell’aorta addominale: al momento sono disponibili un trattamento tradizionale di chirurgia aperta, ovviamente più aggressivo con un certo ri-

schio di mortalità poiché implica una anestesia generale con intubazione, l’apertura dell’addome ed una terapia intensiva postoperatoria, ma duraturo e che necessita di meno controlli nel tempo. La seconda opzione è un trattamento mininvasivo, endovascolare, che si effettua in anestesia locale attraverso dei piccoli accessi all’inguine: le complicanze immediate e la mortalità di questo tipo di intervento sono nettamente inferiori ma i controlli nel tempo sono più frequenti e a volte sono necessari interventi di “manutenzione “ delle endoNicola Mangialardi protesi impiantate. E’ quindi ovvio che Come procede la ricerca nel settore? un sessantenne senza importanti fatLa ricerca fa passi da gigante. Siamo tori di rischio sia nella gran parte dei ora in grado di trattare patologie delcasi candidato alla prima opzione l’aorta con tecniche e dispositivi che mentre un ottantenne con gravi cofino ad una decina di anni fa erano morbidità cardiorespiratorie meglio si considerate fantascienza. Dalle endogioverà di un trattamento mini invaprotesi standard dell’aorta addomisivo. nale, che già avevano rappresentato Insomma, abbiamo dovuto fare nostro uno sconvolgimento totale nella storia il concetto di medicina personalizzata, della chirurgia vascolare siamo in poche implica scelte differenti per diffechi anni passati ad endoprotesi capaci renti pazienti, perché il meccanismo di curare in maniera mininvasiva tutta funzioni in maniera perfetta e senza l’aorta, dal torace all’addome costruite sprechi di risorse.

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su misura per preservare l’irrorazione degli organi. Le innovazioni non riguardano solo i dispositivi ma anche i farmaci: sono stati introdotti per il trattamento delle trombosi nuovi anticolagulanti, con minori effetti collaterali. Inoltre la ricerca sulle cellule staminali promette di offrire una nuova possibilità per i malati che non possono beneficiare né di trattamento medico né di trattamento chirurgico per il salvataggio dell’arto. Quali sono i punti di eccellenza

della sanità italiana nel settore? I punti di forza sono l’innovazione e la capacità di stare al passo coi tempi: la chirurgia Vascolare Italiana è stata fra le prime ad intuire che le tecniche mininvasive per il trattamento delle arterie avrebbero rappresentato realmente la nuova strada da seguire e continua ad accogliere con competenza le nuove possibilità offerte dalla ricerca. Dando uno sguardo alla produzione scientifica internazionale ed ai programmi dei congressi i nomi italiani la fanno sempre da padrone ed ovviamente tutto questo testimonia come la ricerca sia uno dei nostri cavalli di battaglia. Un altro punto di forza è la capacità di coordinarci e rispondere in maniera efficace ad eventi che oserei definire cataclismatici: la recente tragedia del terremoto nel centro Italia ci ha coinvolti non solo sul piano umano ed affettivo ma anche sul piano professionale. Come Chirurghi con i colleghi dei centri romani, del reatino, di Ascoli e de l’Aquila, abbiamo prontamente trattato le lesioni vascolari di diversi pazienti politraumatizzati. La Chirurgia Vascolare rappresenta uno dei punti cardine nei centri deputati alla gestione del politrauma. Come Uomini la nostra Società, assieme al Collegio dei Primari Ospedalieri, ha deciso di contribuire ai fondi per la ricostruzione dei paesi terremotati. Quali sono i punti di forza delle sue proposte per la società?

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Come presidente della Società mi sto impegnando su più fronti per difendere la qualità della Chirurgia Vascolare a livello nazionale, tenendo conto che tutte le realtà, dalla più piccola alla più grande, hanno un margine di miglioramento. L’inclusività e la voce alle chirurgie vascolari di tutto il paese sono un modus operandi della mia presidenza, come si vedrà nel Congresso Nazionale SICVE che abbiamo preparato e che si terrà a Roma dal 23 al 25 Ottobre. In questa sede saranno sotto i riflettori i più giovani di tutti i reparti di chirurgia Vascolare d’Italia. La validazione delle linee guida della società a livello ministeriale, credo sia un obiettivo fondamentale da raggiungere perché assicura da una parte una possibilità per il paziente di ricevere cure definite per situazioni specifiche dall’altra, per il medico, di operare in maniera serena nelle scelte. Un altro punto è l’omogeneizzazione del livello delle cure nelle varie istituzioni ed in tutti i distretti, con congressi e corsi di aggiornamento di cui la Società si fa promotrice. Ancora, siamo entrati a gamba tesa nella promozione e nella finalizzazione del progetto IT.DRG, per l’adeguamento del sistema dei rimborsi ai costi delle procedure nuove delle quali abbiamo parlato prima. Non da ultimo la Società crede fermamente nei giovani: ci stiamo impegnando a che la rete formativa degli specializzandi in chirurgia Vascolare venga allargata ed implementata anche sul territorio.


INIZIATIVA PER IL SERVIZIO SANITARIO

L’OFFICINA SANITÀ ITALIA

U

n pensatoio operativo che sviluppo di un nuovo sistema “Savede collaborare medici e lute” ovvero un sistema moderno, acistituzioni, industrie e unicessibile e in grado di mantenere apversità per contribuire concretamente propriatezza ed equilibrio finanziario. allo sviluppo di un nuovo sistema saClaim di OSI è “idee per chi vuole lute moderno, accessibile e in grado costruire una sanità universale, effidi garantire qualità ed equilibrio ficace e sostenibile” e ogni parola è nanziario. E’ Officina Sanità Italia, state scelta con cura. Il nome "Offiiniziativa promossa da Medtronic ma aperta a tutti. Medtronic è da oltre 60 anni leader nel campo delle tecnologie medicoterapeutiche, della ricerca, dello sviluppo, della produzione e della distribuzione dei sistemi biomedicali. Presente in oltre 160 Paesi, la multinazionale statunitense conta oltre 460 sedi e 80 impianti di produzione per un totale di 90mila dipendenti con 50 centri di ricerca&innovazione e oltre 53 mila brevetti. Investe annualmente due miliardi di dollari in ricerca e 80 milioni di dolLuciano Frattini lari in attività filantropiche. cina" vuole richiamare il concetto di In Italia fattura un miliardo con oltre lavorare su progetti concreti, magari 2500 addetti. Dal giugno 2010 ne è partendo da ciò che di buono già esipresidente e amministratore delegato ste, migliorandolo. Luciano Frattini. Officina Sanita' ha l'ambizioso obietQuali scopi si propone Officina Sativo di lavorare per individuare quelle nità Italia? E con quale programma aree di intervento che rendano posvuole raggiungere i suoi obiettivi? sibili i risparmi realizzabili spoenOfficina Sanità Italia vuol contridendo in maniera più efficace. Oggi buire in modo concreto e fattivo allo

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si può calcolare un buon 20 per cento di inefficienze nel sistema sanitario, tra i 20 e i 25 miliardi di euro: riuscire a ridurre queste inefficienze anche solo di un terzo, significherebbe garantire al nostro Servizio sanitario nazionale 6/7 miliardi all’anno di risorse aggiuntive. Questo è il nostro obiettivo. Quali sono gli attori di Officina Sanità Italia? E con quali ruoli? Gli attori? I protagonisti del mondo sanitario: Societa' scientifiche, Rappresentanti di cittadini e pazienti, università, istituzioni e ricercatori che lavorano insieme. In prima fila quindi rappresentanti di quelle Società scientifiche che hanno a cuore la propria missione di cura del paziente, consapevoli però delle limitate risorse del Ssn, alleate di quelle Associazioni dei pazienti che intendono garantire ai cittadini un adeguato livello di assistenza sanitaria. C’è poi la ricerca, rappresentata dalle istituzioni accademiche che contribuiscono all’operatività dei progetti, attraverso adeguati sistemi di monitoraggio e verifica dei risultati delle azioni intraprese. E ancora l’industria che vuol contribuire alla riduzione degli sprechi assegnando il giusto valore alle tecnologie in modo che esse possano


essere accessibili e utilizzate con appropriatezza, eliminando sovra-costi e utilizzi inadeguati. Per aiutare le istituzioni, sia nazionali che regionali, ad avere il coraggio di avviare le riforme previste, anche se potenzialmente "impopolari", e sviluppare progetti innovativi di gestione della Sanità, con il fine di rendere sempre più efficiente il Ssn. Allora lei ritiene che si possano realizzare effettivi risparmi nella sanità italiana? Ma in che modo? E pure salvaguardando la qualità? Secondo l’analisi della Fondazione Gimbe sono sei le categorie di sprechi e queste erodono oltre il 20 per cento della spesa sanitaria. La gran parte di queste categorie riguarda la riorganizzazione della rete ospedaliera, il miglioramento dell'appropriatezza delle cure mediche, un più efficiente

sistema di approvvigionamento. E' su queste aree che Officina Sanità Italia intende porre la propria attenzione. La Cassazione ha affermato che il medico è obbligato a fornire la cura più adatta al paziente, a discapito del prezzo. Che significa questo per il mercato sanitario? Il tema è complesso, dal punto di vista medico e giuridico, ed è in evoluzione. In Parlamento si sta lavorando sulla responsabilità medica, per offrire un quadro più chiaro agli operatori della sanità e ai giudici. Ci sono alcuni elementi da tenere in considerazione: l’evoluzione costante delle tecnologie sanitarie disponibili, e i relativi costi, e la necessità di garantire che siano fornite al maggior numero di persone possibile le cure più efficaci. Ma anche la necessità di tenere sotto controllo la spesa, es-

Dossier realizzato in concorso con

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sendo la Sanità tra le principali centrali della spesa pubblica. La soluzione si ha quando l'innovazione tecnologica, oltre che portare beneficio a un sempre maggior numero di pazienti, riesce anche a ridurre i costi di gestione degli stessi. Tipico esempio, le innovative tecniche chirurgiche mini-invasive, che abbattono drasticamente i tempi di intervento e di recupero, oltre che ridurre i rischi operatori per i pazienti. È questa la vera sfida dell'industria del Dispositivo medico: sviluppare nuove tecnologie che possano curare sempre meglio sempre più pazienti, ma che nel contempo possano ridurre i costi di gestione di queste patologie, affinché i risparmi ottenuti, possano essere reinvestiti per curare un maggior numero di pazienti. Katrin Bove


AL POLICLINICO UMBERTO I DI ROMA

SCOMMESSA SULLE MALATTIE RARE Domenico Alessio*

U

na malattia si definisce rara quando la sua prevalenza, ovvero il numero di casi presenti in un determinato momento storico e riferito ad una popolazione che viene presa in considerazione, non supera una determinata soglia. Nell’Unione Europea questa soglia è fissata allo 0,05% della popolazione, ossia 1 caso su 2.000 abitanti. L’Italia si attiene a tale definizione. La bassa prevalenza non significa però che le persone con malattia rara (MR) siano poche. Si parla infatti di un fenomeno che colpisce milioni di persone in Italia e addirittura decine di milioni in tutta Europa. Del resto, il numero di malattie rare conosciute e diagnosticate oscilla tra le 7.000 e le 8.000, ma è una cifra che cresce con l’avanzare della scienza e in particolare con i progressi della ricerca genetica. Infatti la maggioranza di queste malattie hanno origine genetica. In Italia l’Istituto Superiore della Sanità, su indicazione del Ministero della Sanità, ha individuato, con il Decreto ministeriale 279/2001 (Regolamento di istituzione della rete nazionale delle malattie rare e di esenzione dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni sanitarie), 583 patologie considerate rare. Non tutte le patologie a bassa prevalenza infatti presuppongono l’esonero dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni sanitarie, ma solamente quelle presenti nell’elenco allegato al D.M. 279/2001. Il decreto prevede che siano erogate in esenzione tutte le prestazioni appropriate ed efficaci per il trattamento e il monitoraggio della malattia rara accertata e per la prevenzione degli ulteriori aggravamenti. In considerazione

dell’onerosità e della complessità dell’iter diagnostico per le malattie rare, l’esenzione è estesa anche ad indagini volte all'accertamento delle malattie rare ed alle indagini genetiche sui familiari dell'assistito eventualmente necessarie per la diagnosi di malattia rara di origine genetica. Molte MR sono complesse, gravi, degenerative, cronicamente invalidanti; circa un terzo di esse riduce le attese di vita a meno di 5 anni, mentre molte altre non incidono significativamente sulla durata della vita, se vengono diagnosticate in tempo e trattate appropriatamente; altre condizioni, infine, permettono di svolgere una vita qualitativamente normale, anche in assenza di trattamento. Le MR possono colpire le abilità fisiche e/o mentali, le capacità sensoriali e comportamentali. Le disabilità ad esse correlate limitano le opportunità educative, professionali e sociali e, indirettamente, possono essere causa di discriminazione. I pazienti affetti da MR che si rivolgono ai nostri Centri raccontano tutti gli stessi problemi: ritardo e mancanza di diagnosi, assenza di informazione sulla loro malattia, mancanza di riferimento verso professionisti qualificati, mancanza di disponibilità di assistenza di qualità e benefici sociali, scarsa coordinazione dell’assistenza al paziente, ridotta autonomia e difficoltà di reintegrarsi nel lavoro, ambienti sociali e familiari. Raccogliendo questa richiesta di aiuto, la scommessa del Policlinico Umberto I è stata quella di strutturare una “Rete Assistenziale” in grado di assicurare a questi pazienti con “malattia rara” una migliore presa in carico assistenziale e terapeutica, coniugando la ricerca scientifica, la formazione e l’informazione,

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con il coinvolgimento delle Associazioni dei pazienti e i Servizi territoriali di competenza evitando disuguaglianze dell'accesso alle cure e ai farmaci, coordinando, in particolare a livello Regionale, azioni politiche forti a beneficio dei malati rari e delle loro famiglie. Inoltre, per rispondere alle sempre più frequenti richieste di assistenza, è stato attivato lo “Sportello Malattie Rare-Ambulatorio di prima valutazione” dove dalla sua istituzione sono state effettuate circa 4500 prime visite per pazienti con sospetta diagnosi di Malattia Rara e 12000 contatti con triage telefonico. L’assistenza per questi pazienti prevede da parte dei Centri specialistici presenti all’interno del Policlinico la totale presa in carico, dall’aspetto psicologico a quello terapeutico con il coinvolgimento di tutti i Dipartimenti Assistenziali, dei Servizi Territoriali competenti e le Associazioni dei pazienti. Attualmente i pazienti affetti da malattie rare a cui viene prestata assistenza da parte del Policlinico supera le 11.000 unità e circa il 40% di essi non sono residenti nella regione Lazio; il 35% di questi proviene dalle regioni del sud-Italia e il 10% dalle regioni del nord-Italia , a dimostrazione questa che il Policlinico Umberto I è riconosciuto come un Centro di Riferimento Nazionale per le Malattie Rare. Con il DCA 387/2015, la Regione Lazio ha riconosciuto questo lavoro svolto negli anni assegnando al Policlinico Umberto I, 17 Centri di Riferimento, riconoscendone le competenze sia per l’età pediatrica che adulta per 334 malattie rare, con un incremento rispetto alla precedente organizzazione di ulteriori 78 patologie. Tra le malattie rare quelle maggiormente rappresentate all’interno dei nostri Centri, tutti coordinati dal Prof. Mauro Celli, sono la neurofibromatosi, l’osteogenesi imperfetta, le malattie metaboliche ereditarie, la Sclerosi laterale amiotrofica, il cheratocono, la trombofilia e la Sindrome di Ehlers Danlos.

Vicino a queste, in cui il numero dei pazienti seguiti supera le 400 unità troviamo le malattie cosiddette rarissime come alcune ipercolesterolemie familiari, la sindrome di De Barsy e la sindrome di Myhre solo per elencarne qualcuna, la cui incidenza è inferiore a 1:1.000.000. Il più alto riconoscimento del lavoro svolto è stato da parte del Ministero della Salute che a giugno 2016 ha riconosciuto al Policlinico Umberto 1 l’endorsement ai fini della partecipazione alle reti di Riferimento Europee (European Reference networks – ERNs) a 13 dei 17 Centri accreditati dalla Regione Lazio, assegnando così alla grande struttura ospedaliera roDomenico Alessio mana una competenza, nel campo delle malattie rare non più solo regionale o nazionale ma anche europea attraverso la nomina di altrettanti professionisti che partecipano al tavolo europeo, con specializzazione in pediatria, ematologia, neurologia, dermatologia, immunologia, oculistica e reumatologia. Questo permetterà una fattiva collaborazione con gli altri Centri degli Stati membri dell'Unione Europea, assicurando uno scambio di conoscenze tra i professionisti delle cure sanitarie che superi i confini di un singolo Paese facendo in modo che i medici acquisiscano le nozioni specialistiche più recenti. Ciò consentirà a questi ultimi di prendere decisioni su come adattare i trattamenti e i percorsi di cura, sulla base di informazioni più solide con un miglioramento dei risultati clinici e della qualità di vita delle persone affette da un malattia rara. Anche avendo raggiunto questi obiettivi la scommessa sulle malattie rare da parte del Policlinico Umberto I proseguirà con politiche sanitarie atte ad assicurare idonei percorsi diagnostici, terapeutici e assistenziali con il coinvolgimento sempre maggiore delle Associazioni dei pazienti e delle unità territoriali competenti e un incremento delle attività di formazione e informazione sia a livello regionale che nazionale. *Direttore Generale Policlinico Umberto I di Roma

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UN ULTRA-SPECIALITÀ CLINICA

RADIOLOGIA INTERVENTISTICA Maurizio Cariati*

L

a Radiologia Interventistica nasce nel 1963 a Portland, negli Stati Uniti, per l’estro di Charles Dotter, considerato il padre della branca: egli eseguì casualmente la prima dilatazione di un’arteria iliaca, senza intervento chirurgico, nel tentativo di superare una stenosi, cioè un restringimento, mediante un catetere: involontariamente effettuò così la prima angioplastica. Il giorno successivo il paziente ringraziò Dotter, perché dopo il suo “intervento”, la claudicatio agli arti inferiori, di cui era affetto, si era risolta e pertanto riusciva a camminare senza dolore. La prima paziente, trattata intenzionalmente da Dotter e da Melvin Judkins, la sua assistente, nel gennaio 1964, fu Laura Shaw, una donna di 82 anni, affetta da un’ulcerazione al piede, che aveva rifiutato di sottoporsi all’intervento di amputazione; dopo l’angioplastica l’ulcera guarì e così ebbe inizio la straordinaria storia della Radiologia Interventistica. L’origine della Radiologia interventistica italiana iniziò a Roma, nel 1972, quando venne effettuata la prima embolizzazione arteriosa in un Carabiniere, vittima di un conflitto a fuoco e giunto al pronto soccorso del Policlinico Umberto I, con un’importante emorragia intestinale. Si utilizzarono dei coaguli ottenuti dal sangue del paziente stesso, introdotti nell’arteria lesionata con un catetere; l’emorragia fu bloccata, si evitò l’intervento chirurgico e gli fu salvata la vita. Il progresso tecnologico, sia nel settore delle apparecchiature, dove l’invenzione

della tomografia computerizzata, dell’ecografia e l’acquisizione digitale delle immagini angiografiche hanno radicalmente trasformato la diagnostica radiologica, sia nello sviluppo dei materiali, dove l’avvento degli stent e la miniaturizzazione dei cateteri, ha consentito l’incremento esponenziale dei settori di applicazione. Il quaderno del Ministero della Salute n.12, definisce la Radiologia Interventistica (RI), come “un’ultra-specialità clinica della Radiologia, focalizzata sulla diagnosi e sul trattamento mininvasivo, guidato dall’imaging, di numerose patologie che, grazie allo sviluppo tecnologico avvenuto negli ultimi anni, rappresenta uno dei campi più in evoluzione della medicina”. Le procedure di RI si possono dividere in minori e maggiori a seconda della complessità; le procedure maggiori sono, a loro volta, divise in endovascolari ed extravascolari: le prime sono rivolte al trattamento della patologia vascolare, con l’ausilio di cateteri e stent, introdotti nell’arteria o vena e portati, sotto guida radioscopica, fino alla lesione da trattare. L’avvento nei primi anni ’90 delle endoprotesi aortiche, ha consentito il trattamento degli aneurismi dell’aorta in modalità mininvasiva, cioè senza la necessità di un intervento chirurgico tra-

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dizionale, bensì attraverso piccoli fori nelle arterie femorali; questo ha permesso il trattamento degli aneurismi in pazienti altrimenti non operabili. Nel contesto delle patologie cerebrovascolari ischemiche acute, è di grande importanza il trattamento endovascolare dello stroke, cioè la ricanalizzazione delle arterie che si sono improvvisamente ostruite e hanno determinato l’ictus. E’ fondamentale, per avere maggiori possibilità di successo, la rapidità della diagnosi e del trattamento, che consiste

nella rimozione endovascolare del trombo, sia aspirandolo con cateteri specifici, che retraendolo con dispositivi metallici (stent-retriever). La RI ha un ruolo di primaria importanza nella valutazione e gestione terapeutica delle complicanze vascolari della patologia diabetica: è noto che i pazienti diabetici abbiano, con alta frequenza, deficit vascolare agli arti inferiori, complicanza tra le più invalidanti e respon-


The global solution for endovenous treatment

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sabile di ulcerazioni e gangrena, che possono condurre all’amputazione. La RI ha rivoluzionato il trattamento delle emorragie vascolari, con l’ausilio di materiali e dispositivi embolizzanti che, condotti attraverso microcateteri del diametro di 5 o 6 decimi di millimetro, possono fermare l’emorragia o chiudere un aneurisma cerebrale che si è rotto, salvando così la vita al paziente. Le gravi emorragie, provocate da traumi che determinano lesioni vascolari o parziale rottura di organi interni, quali fegato, milza e rene, sono oggi, in primis, gestite da radiologi interventisti che, nella quasi totalità delle situazioni, possono risolvere il quadro, senza la necessità di procedere ad un intervento chirurgico in emergenza, a volte quasi impossibile per le condizioni del paziente. Tra le applicazioni più comuni della RI vi è il trattamento del varicocele, sia maschile che femminile; il varicocele è la dilatazione della vena spermatica e del plesso pampiniforme (nel maschio) o della vena ovarica (nella femmina), evitando anche in questo caso l’intervento chirurgico. Anche il trattamento endovascolare dei fibromi uterini è realtà ben nota da quasi 20 anni, nonchè procedura ben tollerata dalla paziente che, con questa modalità, può risolvere la sua sintomatologia ed evitare l’isterectomia. La Radiologia Interventistica ha assunto un ruolo fondamentale e ben consolidato nel trattamento dei tumori, accanto alla terapia chirurgica, farmacologica e alla Radioterapia, dove le procedure di RI si integrano con le terapie tradizionali. E’ di fondamentale importanza il trattamento dei tumori epatici, che si esegue attraverso la chemioembolizzazione: si giunge a ridosso delle lesioni tumorali con microcateteri, si inietta il chemioterapico nell’arteria diretta alla lesione e successivamente si embolizza, cioè si chiude il ramo arterioso che rifornisce la lesione, per provocare la necrosi del tumore. Il settore delle procedure extravascolari è vasto; tra queste vi sono i trattamenti termoablativi nelle patologie oncologiche,

quali ablazioni dei tumori epatici, polmonari e renali. Un campo di applicazione della Radiologia Interventistica è il sistema biliare, con i trattamenti terapeutici e palliativi delle stenosi sia benigne che neoplastiche delle vie biliari, nonchè la rimozione dei calcoli dalle vie biliari intraepatiche e dal coledoco. Altro settore è il sistema osteoarticolare: osteoporosi e conseguenti fratture vertebrali incidono in percentuale importante dopo i cinquant’anni, soprattutto nel genere femminile. La vertebroplastica, cioè il consolidamento dei cedimenti vertebrali da trauma od osteoporosi, è una terapia effettuata da oltre 15 anni; essa consiste nell’introduzione di cemento plastico, attraverso un ago, nel corpo della vertebra fratturata, per ottenerne la stabilizzazione e la risoluzione della sintomatologia. Questa procedura è ben tollerata dal paziente, che può ritornare alla propria attività in tempi assai ridotti e minima ospedalizzazione. In Italia vi sono, secondo un recente censimento effettuato dall’ICIR, Italian College of Interventional Radiology, 139 centri di Radiologia Interventistica, distribuiti nelle strutture ospedaliere, in gran prevalenza pubbliche. La formazione del Radiologo Interventista è lunga e difficile; altrettanto complessa è la formazione del personale non medico, sia tecnico che infermieristico, che svolge l’attività nelle sale di RI. E’ di fondamentale importanza che tutti i componenti dell’equipe siano in grado di svolgere, alla perfezione, la propria attività. E’ certamente auspicabile che, in un futuro prossimo, si possa disporre di equipe di RI altamente professionali in tutte le strutture ospedaliere. *Incoming President Italian College of Interventional Radiology SIRM - Direttore Radiologia Diagnostica e Interventistica, Ospedale San Carlo Borromeo - ASST Santi Paolo e Carlo - Milano

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L’ARTEMISIA LAB

SANITÀ DAL VOLTO UMANO Mariastella Giorlandino

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ettant’anni fa le donne in Italia votavano per la prima volta. Una tappa storica per l’emancipazione femminile e, anche se oggi ci sono donne imprenditrici, donne sindaco e donne in Parlamento, la strada da percorrere è ancora lunga. Viviamo in una società imbrigliata nelle intricate maglie di retaggio maschilista. Sradicare regole e sovrastrutture alla base della nostra cultura non è facile. Ma dobbiamo provarci con pervicacia. Tutte le donne lo meritano. In un Italia martoriata dalla burocrazia e col cuore spesso avvelenato dalla corruzione e dal malcostume, fare impresa è proprio un’impresa. Pensiamo solo a quanti permessi, domande, cavilli e scartoffie bisogna affrontare per realizzare i propri sogni imprenditoriali. Aprire un’attività ri-

mane una chimera e nel mirino sono senza dubbio le attività private, soprattutto quelle mediche. Io ho cominciato oltre quarant’anni fa in un Paese nel quale erano poche le imprenditrici donne ed eravamo tutte pioniere. Ho iniziato la mia avventura proprio nel settore sanitario, un ambito storicamente in mano agli uomini. Dopo un percorso lastricato di difficoltà e un dedalo di regole burocratiche, negli anni sono riuscita a costruire una rete di centri clinici diagnostici e terapeutici all’avanguardia dislocati nel Lazio e con una missione: conquistare la fiducia dei romani attraverso la dedizione e l’impegno nell’offrire un servizio di medicina d’eccellenza. Il mio obiettivo è sempre stato quello di mettere

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al centro il paziente non solo nelle cure ma soprattutto ascoltandolo. Ho cercato tutta la vita il meglio dentro di me per poterlo offrire agli altri. Penso sia fondamentale evitare ai pazienti lunghe liste di attesa e, allo stesso tempo, non gravarli di costi esorbitanti. Non credo a chi promette esami a basso costo: sotto certi prezzi, se devi garantire professionalità e tecnologia, non si può andare. La sanità pubblica non offre servizi gratuiti, questa è la verità. I cosiddetti ticket raggiungono in certi casi cifre astronomiche. In alcune Regioni prenotare una semplice mammografia in tempi accettabili è una missione impossibile. Gli appuntamenti vanno a sei mesi e oltre, con un costo che a volte si avvicina a quelli della sanità privata. In tv e sui giornali si sprecano


i messaggi che incentivano alla prevenzione. Ma in un momento di crisi come questo, ticket e costi aggiuntivi nella sanità pubblica come possono permettere la prevenzione? Troppo spesso non si riesce nemmeno a curarsi e si rimane prigionieri di lunghissime file d’attesa. Le malattie non aspettano. E la morte non fa distinzione di classe sociale. D’altro canto, è vero anche che non esiste un’impresa privata a costo zero per i suoi clienti. Nei miei centri, che hanno sempre un occhio attento al portafoglio, ai pazienti è garantito l’uso di una diagnostica d’eccellenza, nessuna lista d’attesa e risultati in tempi brevi, in giornata. I miei centri clinici diagnostici dislocati sul territorio comunicano tra loro grazie a un sistema informatico integrato capace di scambiarsi informazioni, diagnosi e terapie da un centro all’altro al tempo di un click. I nostri specialisti sono scelti tra i migliori professionisti del settore. A esempio con il professor Renato Lauro abbiamo ideato un nuovo percorso dedicato alle malattie metaboliche e alla diabetologia. E non solo. In nome della prevenzione, Artemisia conduce campagne informative e offre controlli gratuiti per tutte le donne. Tra la Festa della donna e la Festa della mamma abbiamo effettuato 2.500 “pap test” gratuiti grazie ai quali siamo riusciti a diagnosticare tre tumori all’utero, prendendoli in tempo. In occasione della Festa del papà, invece, sono stati numerosi i controlli gratuiti per la

prevenzione dell’infarto. Negli studi medici di Artemisia Lab, inoltre, i pazienti trovano un centro ecografico e tutte le diagnosi prenatale, la Moc, la risonanza magnetica, l’ecografia, la radiografia generale, la mammografia digitale e ancora, ortopedia, laserterapia, oculistica e medicina estetica. Tutto il personale dei miei centri è attento soprattutto ai bambini, alle fasce più deboli e ai meno fortunati. Artemisia Onlus, nata nel 1996 con lo scopo di proteggere le gravidanze a rischio, da oltre un ventennio promuove attività di assistenza gratuita a miMariastella Giorlandino gliaia di coppie cui assicura ascolto e consusmettere l’amore per la bellezza anche lenza. Ma oltre alla cura del corpo all’ambiente dei miei centri diagnopenso sia fondamentale anche la cura stici. Penso che dare una dimensione dell’anima e della mente. L’Associadi calma e serenità, anche solo dal zione Artemisia Onlus, infatti, si impunto di vista squisitamente estetico, pegna per le fasce più disagiate attrasia per i miei pazienti un valore agverso centri di ascolto per mobbing, giunto. Il primo centro Artemisia aprì bullismo e stalking grazie allo sporle sue porte nella Capitale nel 1970. tello Spasmos. E in un momento in Oggi le sedi di Artemisia Lab in tutta cui la famiglia è messa così duramente Roma sono nove. Il mio prossimo alla prova, sono tanti i progetti coobiettivo è quello di espandermi anraggiosi nati proprio per sostenere la che fuori dai confini del Lazio. Ma la famiglia, dal progetto Coesione a parola d’ordine rimarrà la stessa: esDopo di noi. sere un punto di riferimento per le Ho sempre avuto la passione per l’arte persone, tutte. e l’architettura. Ho cercato di tra-

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GASPARDONE E LA SUTURA DIRETTA

NOBLESTITCH: TECNICA RIVOLUZIONARIA Achille Gaspardone*

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irca un terzo degli ictus e degli attacchi ischemici cerebrali transitori (TIA) non hanno una eziopatogenesi chiaramente identificabile e vengono perciò definiti criptogenici. Sulla base di studi osservazionali condotti nei primi anni ’90, di isolate evidenze aneddotiche e, più recentemente, di studi controllati e di meta-analisi, la pervietà del forame ovale (PFO) è stata identificata come una potenziale via attraverso la quale formazioni trombotiche formaAchille Gaspardone tesi nel circolo venoso o in situ possono embolizzare in modo paradosso nella Tale tecnica consiste nel posizionamento circolazione arteriosa sistemica causando di un dispositivo occludente ai due ischemia cerebrale (Figura 1). lati del setto interatriale creando così Il trattamento dei pazienti con PFO una neo-parete a livello del setto inteed eventi ischemici cerebrali è stata ed ratriale (Figura 2). Sono stati proposti è tuttora oggetto di una intensa didiversi dispositivi nel corso degli anni scussione critica nella letteratura scienche pur differenziandosi nella tecnica tifica dovuta in larga parte all’incertezza di impianto e di rilascio, nel disegno patogenetica della patologia. Di fatto strutturale e nel materiale si basano sono state proposte terapie agli estremi sullo stesso principio e cioè di posizioopposti che vanno dalla sistematica nare ai due lati del setto interatriale chiusura percutanea del PFO mediante una endoprotesi attraverso il PFO. dispositivi occludenti (“ombrellini”) Tale endoprotesi, che può avere dialla sola terapia empirica con antiagmensioni diverse in base alla grandezza greganti (singola o doppia), anticoadel PFO, viene nel giro di 6-12 mesi gulanti o nessuna terapia. endotelizzata ed incorporata nella strutLa chiusura del PFO mediante dispotura settale. Con queste tecniche l’abositivi occludenti, da circa 20 anni, si è lizione completa dello shunt destro-sidimostrata una tecnica sicura ed efficace nistro è ottenibile in circa il 90-95% con un basso rischio di complicazioni. dei casi con un rischio di complicanze

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maggiori nei centri ad alto volume<1%. Il limite maggiore di tale tecnica, al di là delle complicanze periprocedurali(embolia gassosa sistemica) e dell’efficacia funzionale, è la necessità di posizionare una endoprotesi, cioè un corpo estraneo generalmente metallico, a volte anche di dimensioni rilevanti (fino a 35 mm), all’interno del cuore con rischio potenziale di malposizionamento ed embolizzazione del dispositivo stesso, alterazioni strutturali del setto interatriale e degli apparati valvolari, difficoltà di ri-attraversamento del setto interatriale per la presenza di una struttura metallica rigida, nuovo sviluppo di aritmie cardiache per ingombro della protesi, endocardite con necessità di una profilassi antibiotica, necessità di una doppia terapia anti-aggregante per 3-12 mesi e potenziale rischio di allergia al materiale endoprotesico (nickel). Chiusura del PFO mediante sutura diretta: Noblestitch una tecnica rivoluzionaria Recentemente la procedura di chiusura del PFO è stata completamente rivoluzionata dall’introduzione di una tecnica innovativa mediante sutura diretta del septumsecundum e del septum primum a cuore battente (Figura 3). In sintesi, sotto controllo fluoroscopico ed ecocardiografico, un filo di sutura viene passato, mediante un ago ma-


novrato dall’esterno, nel septumse cundum e nel septum primum ed i due setti avvicinati e legati tra di loro chiudendo così l’apertura del PFO (Figura 4). Tale tecnica è stata applicata con successo e senza complicanze in circa 100 pazienti (dei quali un terzo in Italia) facenti parte a un registro europeo. I vantaggi di tale tecnica innovativi sono evidenti ed importanti: 1. Non necessità di lasciare in situ un dispositivo metallico; 2. Non necessità di una terapia anti-aggregante; 3. Riduzione del rischio aritmico per assenza di ingombro; 4. Ridotto rischio di endocardite; 5. Assenza di allergie (nickel, farmaci, etc); 6. Integrità del setto interatriale che può essere a g e vo l m e n t e riattraversato FIG. 1 per eventuali altre procedure interventistiche (ablazione, valvuloplastica, etc); 7. Assenza di rischio di embolie gassose sistemiche durante la procedura (la proce- FIG. 3 dura infatti non necessità di posizionare cateteri in atrio sinistro); 8. In caso di impossibilità di chiusura del PFO mediante sutura, possibilità di convertire facilmente la procedura alla tecnica tradizionale mediante endoprotesi; 9. Possibilità di eseguire la procedura sotto controllo fluoroscopico senza monitoraggio ecocardiografico transesofageo e quindi solamente in anestesia locale senza necessità di una sedazione generale con supporto anestesiologico; 10. Possibilità di ripetere la procedura più volte senza ledere il setto interatriale.

I dati preliminari del registro europeo, recentemente presentati a Francoforte, indicano che tale tecnica è fattibile in circa l’80-90% dei casi con un alta prevalenza di chiusura del PFO che è pressochè immediata e in assenza di complicanze periprocedurali e a breve termine. Come tutte le innovazioni tecnologiche nelle loro fasi iniziali, tale tecnica presuppone una curva di apprendimento che appare temporalmente superiore alla tecnica tradizionale in quanto più complessa da un punto di vista interventistico. Questo aspetto può rendere più lunghi i tempi procedurali con una maggiore esposizione radiologica ed un utilizzo superiore di mezzo di contrasto rispetto alla tecnica FIG. 2 tradizionale. Inoltre il sistema, pur nella sua ingegnosità, è suscettibile di significativi miglioramenti per renderlo più affidabile, di calibro inferiore e FIG. 4 di semplice uso. Tuttavia, malgrado queste limitazioni tecniche e procedurali, l’idea di poter chiudere a distanza mediante un semplice filo chirurgico un buco dentro il cuore battente senza lasciare alcun dispositivo al suo interno, è sicuramente vincente e costituisce un modo assolutamente rivoluzionario di approcciare la problematica del PFO e, probabilmente nel prossimo futuro, anche di altre patologie cardiache. *Direttore Cardiologia ASL ROMA 2, Ospedale S. Eugenio

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L’INSUFFICIENZA VENOSA CRONICA

MALATTIA PIÙ DIFFUSA AL MONDO Domenico Alberti* L'insufficienza venosa cronica (CVI) una sintomatologia più importante e è una patologia a carico del sistema che può risultare invalidante negli stadi venoso caratterizzata da degenerazione più avanzati della patologia venosa della parete vasale e perdita dell’elasti(ipodermite, eczema venoso, edemi e cità parietale, cui consegue la dilataulcere varicose). In genere, in tali sizione e la tortuosità del vaso interestuazioni patologiche, il paziente avsato. verte dolore che si accentua con il L'insufficienza venosa può riguardare mantenimento della stazione eretta qualsiasi distretto con quadri clinici prolungata. I pazienti flebopatici sofdifferenti: le emorroidi nella patologia frono per le alte temperature e spesso del plesso venoso emorroidario, il valamentano edemi alle caviglie; per conricocele nella patologia del plesso pampiniforme. Le vene varicose rappresentano, ancora oggi, una delle malattie più diffuse al mondo. I dati epidemiologici riportano che l'insufficienza venosa cronica colpisce il 2.6 % delle donne e l’1,9% degli uomini. La gravidanza, l'obesità e la stazione eretta prolungata sono fattori di rischio, così come l'assunzione di estroprogestinici. La sintomatologia varia dalle forme più lievi, che si presenIl professore Alberti con il figlio Aldo, Chirurgo Vascolare a Milano tano sotto forma di teleangectasie, ovvero tro molti soggetti con sindrome varicapillari intradermici dilatati con cacosa possono essere totalmente asinlibro inferiore ad un millimetro, visitomatici. bili come vene reticolari sottocutanee Una diagnosi corretta della patologia verdastre con diametro compreso tra varicosa può essere attuata attraverso uno e tre millimetri, a situazioni con

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un attento esame clinico con raccolta dei dati anamnestici e con un eco color doppler, esame strumentale di prima scelta. Il trattamento delle vene varicose prevede diverse tecniche, conservative o chirurgiche, in base alla fase della malattia. Nelle fasi iniziali l’obiettivo è di alleviare i sintomi e rallentare la progressione della malattia nonché l’eventuale cura estetica delle manifestazioni cutanee. Invece nel trattamento chirurgico, oltre all’abolizione delle varici, deve proporsi la prevenzione delle recidive e delle più temibili complicanze come le varico-flebiti e/o la trombosi venosa profonda e/o la formazione di ulcere varicose. Spesso il trattamento è combinato e prevede, oltre all’intervento chirurgico, una serie di provvedimenti medici atti a rafforzare e prolungare il risultato ottenuto su una patologia ad andamento cronico. E’ bene, infatti, consolidare il concetto che la medicina e la chirurgia permettano di trattare le manifestazioni cliniche e sintomatologiche della patologia ma non l'eziologia della stessa. Nessun intervento chirurgico può dare certezza di guarigione se il paziente non modifica il suo stile di vita. La scelta della terapia deve tener conto di fattori quali lo stadio della patolo-


gia, l’età del paziente e la presenza di eventuali co-morbidità. La terapia medica prevede la correzione delle alterazioni posturali e, in generale, quella dei fattori di rischio ed anche la cura del sovrappeso. Si avvale della terapia farmacologica e della elastocompressione che antagonizza l'ipertensione venosa. Il trattamento chirurgico permette di raggiungere i migliori risultati funzionali ed estetici. Sono a disposizione diverse metodiche per il trattamento di tale patologia. Le terapie tradizionali invasive sono lo stripping chirurgico, la chiva e la crossectomia. Il più moderno trattamento mininvasivo è la termoablazione con la radio frequenza o con l’uso del laser. Ottimi risultati nei centri più accreditati sono stati raggiunti anche con il sistema ClosureFastTM(VNUS®, Closure Fast, Covidien, Dublin, Ireland), con follow up a 5 anni. Tale tecnica ha il vantaggio di essere praticata con anestesia a tumescenza, non è dolorosa, permette l'immediata ripresa dell’attività e non comporta alcuna sospensione di terapia nel caso di pazienti anziani o con co-morbidità. L’esperienza presentata nei maggiori e più recenti trials clinici della letteratura internazionale conforta quella del nostro centro: negli ultimi 3 anni abbiamo trattato 100 casi con l’uso del laser e della RF in regime ambulatoriale, in pazienti con età media di 30 anni e con un range compreso tra i 16 e gli 84. Sono state considerate controindica-

zioni la presenza di processi flebotrombotici in atto o comprovato stato di gravidanza. L’intervento si effettua attraverso puntura percutanea eco guidata o mini accesso alla vena, in anestesia locale, con la tecnica della tumescenza (iniezione sottocutanea di soluzione fisiologica fredda con aggiunta di anestetico locale) e con una durata media dell’intervento di circa 20 min. Il vantaggio maggiore percepito dai pazienti è la ripresa immediata delle normali attività quotidiane: il post

ramento clinico, con remissione della sintomatologia ed una drastica riduzione del tasso di recidive. Abbiamo utilizzato negli ultimi casi, per il trattamento mini invasivo delle varici, il Venaseal TM che utilizza il principio dell’embolizzazione della vena safena interna mediante l’uso del ciano acrilato, ovvero una colla che evita la tumescenza dell’anestesia locale attraverso una puntura percutanea della vena, tramite la guida dell’ecodoppler. La mininvasività, l'assenza di dolore,

operatorio prevede infatti, come unica indicazione, l’elastocompressione per circa 8-10 giorni. L’assenza di incisioni chirurgiche all’inguine ed il mancato trauma legato allo “stripping” della safena sono elementi essenziali per l’abolizione di complicanze quali ecchimosi-ematomi e dolore post operatorio. In tutti i casi i risultati hanno mostrato un completo miglio-

la possibilità di eseguire tali interventi anche in ambulatorio, rappresentano un traguardo reale, acquisito grazie alla moderna ricerca in termini di strategie chirurgiche e di tecnologie applicate alla moderna flebologia.

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*Direttore di Chirurgia Vascolare e Chirurgia d’Urgenza presso l’ospedale di Viterbo.


CVLAB, ALL’ AVANGUARDIA

INCUBATORE D’EUROPA

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a scuola italiana di cardiologia è tra le più rispettate al mondo. Eppure poca della creatività della ricerca italiana si trasforma in prodotto o impresa. Alcuni tra i principali imprenditori nel settore cardiovascolare e i più importanti investitori italiani hanno unito le forze per dare vita a un incubatore al servizio di medici e scienziati con progetti innovativi nel settore cardiovascolare, CVLab. CVLab seleziona i progetti più innovativi del settore, in partnership con l’inventore, e li porta al livello adeguato per essere messi in contatto poi con i venture capital internazionali. Accanto a CVLab c’è un gruppo composto da Andrea Venturelli, co-fondatore di Invatec, l’azienda bresciana leader nella tecnologia dei palloni a rilascio di farmaco (DCB) ceduta nel 2010 per circa 500 milioni di euro a Medtronic; Michele Denegri, investitore in CID, leader negli stent, e in DiaSorin, leader mondiale della diagnostica in vitro; Aldo Pagani, Ceo di uno dei più importanti distributori di prodotti cardiovascolari; Giovanni Leo, cofondatore di Endosense, società che Andrea Venturelli ha ideato la tecnologia di misurazione della forza di contatto nell’ablazione trans catetere, poi venduta nel 2013 a St. Jude Medical; Claudio Giuliano e Claudio Rumazza, partner di Innogest, il principale fondo di venture capital italiano; e Jean Claude Laborde, cardiologo interventista francese che ha contribuito a lanciare innovazioni quali CoreValve, CardiaQ, 4Tech. A monte di CVLab c’è la presa d’atto che in gran parte d’Europa le opportunità di innovazione difficilmente riescono a concretizzarsi fino a diventare solide realtà commerciali. «Negli Stati Uniti, l’ecosistema è più portato a trasformare progetti medici in prodotti e imprese», spiega a Nuova Finanza Andrea Venturelli. «In Italia il medico è dedito soprattutto all’attività

clinica e di ricerca e non ha tempo da dedicare alle ramificazioni imprenditoriali della sua attività. Così, se ha una buona idea finisce il più delle volte per tenerla nel cassetto. Noi siamo attrezzati per offrire uno sviluppo concreto a quei progetti rimasti nel cassetto. Ci proponiamo come partner dei medici per valutare in chiave di mercato le loro idee e i loro brevetti, e portare i progetti più promettenti allo sviluppo imprenditoriale. Anche perché a livello internazionale i capitali pronti a essere investiti su progetti ben strutturati in ambito medicale non mancano affatto, però richiedono società che siano già avviate e solide sul piano del proof of concept, regolatorio e brevettuale. CVLab aiuta i migliori ad arrivare a quel livello di maturità che attrae naturalmente i capitali». CVLab sta cominciando a vedere vari progetti da qualche mese, un trend da oltre un centinaio di progetti all’anno. L’obiettivo è avviare al percorso di incubazione due o tre progetti all’anno. Il percorso di sviluppo si compone di aspetti industriali, brevettuali e regolatori da maturare in un tempo massimo di 18 mesi. Il progetto tipo ricercato da CVLab possiede un alto potenziale di mercato, affronta esigenze cliniche non ancora soddisfatte, asseconda le esigenze di riduzione dei costi, aspetto oggi fondamentale in ambito sanitario, e ambisce a diventare standard di cura cardiovascolare entro 4-8 anni. CVLab considera progetti in ambito terapeutico (es. dispositivi impiantabili), diagnostico e nel digital health cardiovascolare. CVLab prende in gestione il progetto e lo conduce insieme al proprio network di specialisti attraverso le fasi necessarie per completare la prototipazione, il piano regolatorio, il business plan, gli eventuali test sugli animali e il rafforzamento brevettuale, sopperendo in questo modo alla frequente man-

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canza del tempo pieno che sarebbe altrimenti necessario che gli inventori dedicassero. In pratica CVLab prende in consegna dal medico l’idea, ne prova la fattibilità e la consolida fino al punto in cui l’innovazione è pronta a dare vita a uno spin off e ad attirare l’interesse degli investitori biotech e medtech. «In questo senso non siamo un incubatore tradizionale. Il nostro investimento è strategico, non finanziario. L’inventore riceve quote di capitale della società che verrà creata per commercializzare l’innovazione e contribuisce con advisor principale alle fasi di sviluppo. Alla gestione operativa quotidiana pensa il team di incubazione di CVLab, che riunisce professionisti con esperienza in campo medico, imprenditoriale e finanziario», racconta Venturelli. «Per avere successo, la maggior parte di questi progetti ha bisogno di un largo spettro di competenze, che difficilmente sono riscontrabili in un individuo o un piccolo gruppo», aggiunge Giovanni Leo. «La forza di un incubatore come CVLab è che può attirare tutte le specializzazioni necessarie e investirle ad hoc nei vari progetti». Perché partire proprio dal cardiovascolare? «Le patologie cardiovascolari sono in crescita con l’aumentare dell’età media

della popolazione e questo comporta maggiore attenzione anche economica verso questo settore», dice Venturelli. «Nel cardiovascolare c’è un potenziale inespresso di innovazione tecnologica che può portare soluzioni concrete in tempi ragionevolmente brevi, ripagando gli investimenti e nel contempo contribuendo a ridurre i budget sanitari destinati alle cure. Inoltre CVLab nasce in un Paese, l’Italia, che è sede di alcuni dei poli di ricerca specialistica più apprezzati al mondo. Come sostiene Jean Claude Laborde, «gli specialisti cardiovascolari italiani sono tra i più creativi nel mondo». Da oggi un progetto tecnologico o clinico di particolare impatto nel cardiovascolare ha maggiori possibilità di diventare un prodotto per la salute del cittadino e l’Italia può contare su una struttura di eccellenze proiettata sulla scena globale». Nei prossimi mesi CVLab sarà presente ai principali eventi del settore cardiovascolare per presentarsi alla comunità medica e incontrare i professionisti interessati. La sede operativa di CVLab è a Milano, a pochi passi alla stazione centrale. Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito web www.cvlab.it. (Re.NF)

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CREDITO & DEMOCRAZIA

I NEMICI DEL “SISTEMA ITALIA” Giuseppe De Lucia Lumeno*

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e banche sono rientrate pienamente nel dibattito economico e politico così come, quello dell’Europa, soprattutto in seguito al referendum della Gran Bretagna che ha sancito la Brexit, è tornato ad essere un tema di grande attualità. Banche ed Europa due realtà, due dimensioni, due entità tra loro poco omogenee dominano le pagine dei giornali, sono temi di discussione largamente dibattuti. Entrambi, sono contraddistinti e, tra loro legati, dalla profonda crisi che, non da oggi, attraversano. Quasi del tutto assente, in questa dialettica tra economisti e politici, è il tema della democrazia. La crisi dell’Europa è frutto di un deficit o di un eccesso di democrazia? E, la stessa domanda, parallelamente, andrebbe posta anche per le banche e per le difficoltà che il sistema creditizio incontra. In realtà, il tema andrebbe allargato alla drammatica crisi di civiltà che il mondo occidentale sta attraversando. La democrazia, quella che abbiamo conosciuto dal Secondo dopoguerra, è ancora oggi un valore indiscutibile? Bisogna avere il coraggio di porsi questa domanda e tentare di dare una risposta fuori da ogni ipocrisia. Con la fine dello scorso millennio, abbiamo assistito ad un mutamento radicale ed estremamente veloce del panorama economico. La globalizzazione

ha ridotto drasticamente la forza della politica, dei parlamenti e dei governi in rapporto a quella dei mercati. È diminuita, se non scomparsa, la capacità di gestire i mercati finanziari che si muovono sempre più autonomamente e a velocità impensabili solo fino ad un decennio fa e di certo, di gran lunga maggiore di quella con la quale

si muove l’economia reale. Se la velocità è il nuovo totem, la politica e quindi la democrazia, con i suoi tempi, è sempre più sentita come un inutile, quanto costoso, orpello. Il discorso non si differenzia nel mondo bancario. Abbandonata del tutto la sensibilità che considerava il ruolo di banche e finanze troppo strategico e delicato per lasciarle nelle mani del libero rapporto tra domanda ed offerta di denaro, tramontata l’idea di funzione pubblica di questo settore, che considerava la delicatezza e la centralità nell’economia del risparmio

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delle famiglie e delle imprese, è facile arrivare alle convinzioni, oggi dominanti, che intrecciano ideologia del mercato unico e ideologia neo manageriale per le quali le banche, seppur con qualche vincolo in più – che spesso, paradossalmente, ne riduce fortemente le potenzialità – non sono altro che imprese come tutte le altre il cui unico scopo è quello di massimizzare il profitto e come tutte le altre vanno gestite, con le stesse tecniche, gli stessi strumenti. Ecco, dunque, facilmente spiegata la tesi di chi continua a sostenere che la causa delle difficoltà delle banche italiane, sia dovuta ad una tipologia di governance ormai superata, a dimensioni eccessivamente ridotte, ad una eccessiva frammentazione degli intermediari sul territorio. Di contro, sempre secondo queste tesi dominanti ma mai dimostrate, la risoluzione alle crisi sarebbe nel modello della grande banca internazionale, dove ciò che contano, non sono certo i risparmiatori o le famiglie o gli imprenditori, ma il solo capitale. Insomma, anche in questo caso, la democrazia non solo non garantisce la stabilità del sistema ma è, essa stessa, causa di crisi e ostacolo al funzionamento delle più appropriate terapie. Nel 2013, il colosso finanziario statunitense Jp Morgan, senza ipocrisia, ma con estrema lucidità, scrisse, in un rapporto ufficiale, che il più grande osta-



colo alla diffusione delle politiche liberiste di austerity in Europa sono le Carte costituzionali che impediscono le necessarie riforme strutturali. In questo rapporto, analizzando le difficoltà di integrazione degli Stati nell’Eurozona, si arriva a sostenere che “ […] quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che i limiti intrinseci avessero natura prettamente economica, con il tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica […] e i sistemi politici […] presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’aera europea”. Il rapporto di Jp Morgan ha il merito di rendere chiara e finalmente esplicita la vera strategia della finanza mondiale: la dismissione delle Costituzioni scritte all’indomani della Seconda guerra mondiale e delle tutele che esse garantiscono per potersi imporre nell’Europa. Siamo convinti, esattamente del contrario. Il mondo finanziario continua a soffrire per mancanza di pensiero politico, per mancanza di democrazia. Il sistema bancario, quello na-

zionale come quello europeo, ha bisogno di più democrazia finanziaria, una democrazia che continua ad essere, un valore assoluto. La governance non può e non deve essere affidata soltanto agli azionisti, ma al contrario è quanto mai necessario, coinvolgere, oggi più che in passato, cittadini, risparmiatori, imprenditori, territori e comunità identificati, fino a poco tempo fa, come i veri azionisti di riferimento delle banche del territorio. Soltanto una maggiore democrazia, un maggior coinvolgimento potrà salvare l’economia reale, la coesione sociale, l’unità dell’Europa e la nostra società occidentale. Continuiamo a pensare che, in una società in cui tendono ad aumentare le disuguaglianze e in cui i cittadini non dispongono di una reale capacità di scelta, non potremmo avere una democrazia sostanziale finché non saranno stati sciolti i nodi della democrazia economica. La democrazia, almeno per noi, continua ad essere un valore assoluto, l’ossigeno di quello che una volta era il “bene comune”. *Segretario Generale di Assopopolari

EVITARE I LICENZIAMENTI

L’

obiettivo della nostra battaglia nella vertenza Natuzzi resta quello di non escludere alcun lavoratore. A volte, però, ci sembra che i vertici del Gruppo, nonostante i proclami, non abbiano a cuore lo stesso risultato. Non si spiegherebbe, altrimenti, perché a distanza di poco più di un mese dalla fine di ogni possibilità di ammortizzatore sociale per i 330 lavoratori messi in mobilità, l’azienda abbia avanzato una proposta che vedrebbe la ricollocazione nello stabilimento di Ginosa di circa un centinaio di lavoratori nell’arco di 18 mesi. Proposta che le organizzazioni sindacali ritengono irricevibile, poiché tutti i lavoratori devono essere ricollocati, al fine di assicurare un futuro ai propri lavoratori, che restano gli artefici del successo del marchio. Lo dichiarano in una nota le segreterie nazionali di FenealUil, Filca-Cisl, Fillea-Cgil, al termine di un incontro al Mise. “L’atteggiamento irresponsabile del Gruppo – prosegue il comunicato – ci costringe ad intensificare le iniziative di mobilitazione. L’azienda ha sempre dichiarato di non voler escludere alcun lavoratore e di tener fede agli impegni presi, ma al momento l’unica certezza è che dal 15 ottobre 330 lavoratori saranno licenziati, e per noi questo è inaccettabile. L’annunciata costituzione della Newco – spiegano - è stata nuovamente rinviata, e la volontà dell’azienda di rilanciare il sito di Ginosa appare tardiva e non efficace. Apprezziamo la rinnovata disponibilità dell’on. Bellanova, ma è il momento che tutti, azienda in primis ma anche governo e regioni interessate, si impegnino per garantire serenità e un futuro dignitoso per 330 lavoratori e per le loro famiglie, anche consentendo loro di trovare sistemazioni esterne al Gruppo. Inoltre – concludono Feneal Filca Fillea – ci aspettiamo davvero che Natuzzi avanzi proposte con una prospettiva a medio-lungo termine, anche in seguito ai recenti annunci di bilanci in positivo. Ci sono quasi duemila lavoratori che continuano ad osservare un orario ridotto, una vera mortificazione per la loro esperienza e professionalità e un disagio sociale insopportabile”.

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IN NOME DEL PADRE di Federica Gramegna

“C

’è chi il padre lo ama, e lo considera un eroe, e chi invece cerca di dimenticarlo. Io appartengo alla seconda categoria. Ogni giorno lotto contro la sua presenza, devastante dentro di me. Eppure dolcissima. Per questo provo a dimenticarlo. Perché, in fondo, non ho mai smesso di amarlo”. Il racconto di Ludovica inizia così, di fronte a una tazza di latte freddo e un cornetto. Abbiamo deciso di vederci di mattina presto, a colazione, perché è uno dei rari momenti in cui riesce a rilassarsi, prima che il vortice della quotidianità prenda il sopravvento. Ludovica ha trent’anni, capelli corti e un brillantino al naso che le illumina il viso. Somiglia a sua madre, ma gli occhi verdi come il fondo del mare hanno la stessa luce magnetica di suo padre. L’uomo che prima di andarsene via di casa, con una ragazza più giovane di vent’anni ─ quando lei ne aveva solo sette ─ sembrava un padre perfetto: lavoro, casa, famiglia. “E invece ─ sottolinea Ludovica con un sorriso che trattiene la tristezza ─ non era diverso dalla maggior parte dei suoi coetanei, che alla soglia dei cinquant’anni subiscono la famigerata crisi di mezza età e perdono la testa per le ragazzine. Lasciano la moglie, dopo averla tradita per anni, e si rifanno una vita con la compagna più giovane che, nel frattempo, è cresciuta e ha maturato la consapevolezza che se mai riuscirà a farsi una famiglia, per lui i suoi primi figli ci saranno sempre”. Per lei il padre c’è stato, ma solo nei ritagli di tempo. Tra un compleanno delle gemelle, le sorellastre, e una recita a scuola. Perché “era più grande” e avrebbe dovuto capire che le bambine erano troppo piccole per pagare il prezzo del suo amore per un’altra. E l’idea della famiglia allargata a Ludovica non è mai piaciuta. Anche perché, dall’altra parte, c’è sua madre che ha scelto di dedicarsi solo a lei ed è rimasta sola. “Per anni, ho cercato di comprendere le ragioni di tutti: di mio padre come uomo, nell’essersi innamorato di un’altra donna, e poi di Giulia, la sua compagna, che forse ha meno colpe di tutti. Quando l’ha conosciuto non sapeva della nostra esistenza. Le bugie di mio padre hanno causato tanto dolore, questo è il motivo per cui, anche oggi che sono una donna, non riesco a perdonarlo. Avevo solo sette anni il giorno in cui se n’è andato e da allora ho iniziato a capire cosa fosse la rabbia. La sento muoversi dentro di me in ogni istante della

mia vita quotidiana. Quando mi guardo allo specchio, perché mi sento debole. Quando ricordo i suoi occhi, perché non sono più i miei. Quando lo immagino con le mie sorellastre, perché nonostante tutto lo amo come loro. E invece avrei preferito rimanere la sola ad amarlo in questo modo”. Ludovica cede al sentimento più forte, l’unico in grado di cancellare ogni macchia. Anche se non riesce ad avere una relazione stabile perché non si fida degli uomini. Oggi prova a non far innamorare di sé, involontariamente, tutti i ragazzi che le ruotano attorno solo per la sua voglia egoistica di sentirsi amata. Ha deciso di fare i conti con il suo abisso, sa che il percorso non sarà facile e nemmeno breve ma vuole provarci. Nel frattempo la tazza di latte si è svuotata e del cornetto rimane solo qualche briciola nel piattino. Ludovica sorride. È un sorriso che, nonostante lei cerchi di nasconderlo, non può non chiedere amore. Alla ricerca di quel legame dirompente che si crea solo tra un padre e una figlia che vorrebbe non avere mai rivali e, al di là di quello che la vita decide per noi, sogna di rimanere figlia per sempre. Ma la vita di un padre può spezzarsi, in una macchina che si scontra con un tir alle tre del mattino, quando sua figlia ha solo cinque anni. E quella bambina rimane orfana di un amore che non conoscerà mai. Anna ha trentasei anni e di suo padre ha solo tre ricordi. Di loro due

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stesi sul tappeto a giocare “a non mi ricordo cosa”, di quando in macchina lui accelerava per entrare nelle pozzanghere e schizzare l’acqua a più non posso, e l’ultimo, il più dolce, di quando di ritorno dall’Egitto, entrando di soppiatto nella sua camera da letto, le ha messo accanto il suo regalo: una bambola di porcellana con un vestino rosa a pois che oggi Alice tiene orgogliosa sulle mensole colorate della libreria. La storia di Anna è un susseguirsi di amori sbagliati. “Ho sempre idealizzato la figura di un padre che non ho mai conosciuto e che mi è stato raccontato da mia madre, parenti e amici di famiglia. Era un uomo colto, introverso e silenzioso. Avrebbe potuto fare un lungo viaggio in macchina senza nemmeno dire una parola. Io, al contrario, parlo tantissimo. Però, come me, era riflessivo e sognatore. Da quello che mi ha sempre detto mia madre ho il suo stesso temperamento tenace e determinato. E soprattutto testardo. Anche troppo.”.

Per questo Anna è così tanto innamorata dei suoi difetti e non prova a smussarli nemmeno quando è questione di sopravvivenza. Questo è uno degli aspetti che più mi incuriosisce della sua persona. Va fin troppo fiera dei suoi peggior difetti e nonostante le critiche vuole rimanere uguale a se stessa perché la fanno sentire più vicina a suo padre. Quell’uomo bellissimo, con i baffi e gli occhi quasi verdi, “che ho cercato di ritrovare in tutti gli uomini che ho pensato di amare”. Ma in realtà quegli uomini più grandi di lei di “troppi anni” Anna non li amava per quello che erano ma per quello che avrebbero potuto rappresentare e, soprattutto ─ ma questo l’ha capito solo oggi ─ per i padri che già erano. Con i figli nati da relazioni precedenti. “La molla che mi faceva innamorare era l’affetto a senso unico che provavano per le loro ‘principesse’. Il modo in cui me ne parlavano e il fatto che, nonostante me, le mettessero davanti a tutto. Trascurandomi, spesso. Ma la gelosia è sempre stata sopraffatta dalla consapevolezza che fosse giusto che il mio compagno passasse del tempo con sua figlia. Anzi, mi piaceva credere che questa bambina, prima o poi, si sarebbe affezionata anche a me, quando invece mi odiava. Per poi, però, cadere in depressione e sentirmi ingiustamente abbandonata”. È una pericolosa altalena di sentimenti quella che mi descrive Anna, durata tanti anni. Alla fine questi uomini si approfittavano della sua debolezza e nessuno di loro voleva davvero costruire qualcosa di serio. Poi è arrivato un uomo diverso, grande anche lui, ma meno rispetto ai precedenti. “Stiamo insieme da due anni e mezzo e quando l’ho incontrato ho capito subito che con lui sarebbe stato diverso. Lo amo per quello che è e per la prima volta non vedo davanti a me la figura di un padre. È grazie a questo rapporto che ho capito che nelle precedenti relazioni ero sempre in competizione con una figlia che per me non rappresentava nulla, a cui mi legavo e contemporaneamente mi distaccavo con violenza nello stesso istante, e che questo non era amore ma un sentimento insano che mi avrebbe portata alla pazzia”. Anna gioca con il bracciale di fili che ha al polso. Me lo mostra. È il primo regalo che le ha fatto il suo fidanzato. “Vorremmo avere presto un figlio”, mi dice con un sorriso che la fa tornare bambina. Suo padre, ne sono certa, sarebbe fiero di lei.

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LA SALVEZZA DELL’ARTE di Nicola Bartolini Carrassi

I

l Maestro Gianpistone ha realizzato numerosi cicli pittorici, soprattutto su tele di ampie dimensioni, nei quali ha espresso il proprio amore per la cultura, il viaggiare e le spiritualità dei popoli del mondo in oltre 60 anni di carriera. Ora il suo studio è anche una mostra permanente, aperta a quanti amino l’arte e abbiano il piacere di godere delle sue opere d’arte Maestro, che tipo di bambino è stato? Ero il primogenito di altri sette fratelli. A dieci anni lessi il “Marco Polo” regalatomi da un mio zio materno tornato dalla Cina. Con questa lettura ho subito percepito il desiderio di grandi viaggi. Come andava a scuola, e che cosa avrebbe voluto fare ‘da grande’ (aveva già la passione per la pittura?) A scuola andavo male, era come un rifiuto avevo diverse aspirazioni, tutte collegate fra loro per manualità e creatività. Ricordo di aver costruito tante casette in sughero e cartone per i Presepi. Le davo ad un grande magazzino che le rivendeva. Ero costantemente alla ricerca di compiere e costruire qualcosa. L’elemento sul quale potevo contare era l’uso dei colori, in effetti ricordo con quanto trasporto ho colorato quelle casette. L’ispirazione di un artista passa attraverso l’estro, la creatività, ma anche dal vissuto?

Tutto interviene nella crescita, le sconfitte sono spesso determinanti per realizzare i propri sogni. I suoi quadri parlano di lei, di come vede il mondo, di come ha vissuto? E’ sempre stato determinante il colore per mettere su tela le mie visioni e dall’inizio dei miei grandi viaggi esse si sono moltiplicate. Ci sono stati diversi periodi, che concidono con anni precisi. E’ molto significativo notare, ad esempio nei lavori realizzatti negli anni ’70, una visionaria anticipazione di quella che oggi è l’arte digitale. Dopo il ciclo “Le Cattedrali” ho avuto l’esigenza di occuparmi della condizione umana; è nato così ”l’Entromondo” e sono felice che lei abbia colto in questo ciclo, definito rivoluzionario da Achille Bonito Oliva , Dario Micacchi e Guttuso, l’autentica chiave di volta. Devo comunque dire di aver iniziato a usare tutti i materiali possibili, plexiglass, materiali plastici e colori da me creati con le fluorescine, che facevo venire direttamente dalla Germania e che in Italia nessuno conosceva. Tra le tante opere che ha realizzato nell’arco del tempo, ce ne sono alcune che sono coincise, durante l’ideazione e la realizzazione con momenti significativi della sua vita? Per me la vita è un susseguirsi di grandi difficoltà, mentre nella pittura stabilivo il pocesso doveroso di un compimento. Le tecniche da lei adottate sono state le più svariate. Tra queste ce n’è una che predilige, che riesce a dare corpo al suo linguaggio visivo in maniera completa? Tutte le ricerche contengono nel loro

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divenire, grandi nodi da sciogliere e l’uso diversificato di materiali e tecniche si sviluppano nel loro divenire. Si dipinge per vivere o si vive per dipingere? Personalmente ho vissuto per viaggiare e dipingere. Nel corso degli anni come è stato il suo rapporto con i critici? A volte grande sintonìa, altre incomprensioni e distacco. E con il pubblico? Sempre interesse ed entusiasmo reciproco. Quanto è importante l’uso del colore nelle sue opere? Assoluto e vitale. Abbiamo trovato la collezione dei ‘ritratti’ straordinariamente attuali, nell’impatto visivo. Quale ritratto avrebbe voluto realizzare avendo davanti un soggetto ben preciso da ritrarre (umanista, politico, attrice) Sicuramente umanista, penso a Cesare Zavattini, grande amico ed estimatore, mi piacerebbe Andrea Camilleri, e, del passato, Calvino, con il quale mi ritrovai a sfilare, a San Remo, in Corso Vittorio, in occasione della Liberazione; ero un adolescente pieno di pensieri e speranze. Dove lavora meglio? Nel suo studio, all’aperto? Ci sono state negli anni location diverse più congeniali alla sua arte. Pensiamo ad esempio ai paesaggi del suo primo periodo. I primi anni dipingevo di notte, per non essere disturbato dai passanti, nei luoghi più belli di Roma. Le ore notturne sono state le più proficue, mentre, con i primi grandi viaggi, sono rimasto af-


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fascinato in egual misura, sia dai magnifici paesaggi e civiltà, che dalle fisionomie così diverse fra di loro. La società di oggi è ancora in grado di apprezzare arti come la pittura, la musica, la poesia? Credo fermamente che anche oggi, malgrado un certo imbarbarimento, ci siano persone di grande sensibilità artistica. Spesso, viaggiando, si possono incontrare degli artisti che lavorano per strada. Giovani che hanno creato con la pittura nuovi percorsi e tecniche che vivono ‘fuori dalla cornice’. Cosa pensa dei giovani d’oggi? E dei graffiti, intendiamo quelli ben fatti, quelli che vanno oltre ad una scritta colorata sul muro… L’arte può essere dirompente e impertinente anche sulle mura di un capannone? Assolutamente si e devo ammettere che spesso ho provato grande ammirazione per il loro fare. La sua famiglia. Ha due figlie che la seguono molto, e che hanno una grande ammirazione e rispetto per lei e la sua arte. Che padre è stato e come, l’arte ha fatto parte della vostra vita? La mia famiglia ha sempre frequentato i miei diversi atelier, ricordo con tenerezza la mia piccola Sabina di pochi anni, con me al Gianicolo, io, avendo in una mano la cassetta dei colori e nell’altra il cavalletto con la tela, lei camminava reggendosi ad essa. Trovavo, in certe occasioni, la più piccola Susanna, intenta ad osservare il compimento del dipinto. Un fatto che ricordo con emozione, è il giorno in cui Pier Paolo Pasolini posava in cucina per un ritratto che tuttora ho, mentre la mia prima moglie andava su e giù sotto casa con Sabina in carrozzina.

Se non avesse fatto il pittore, oggi parleremmo con… Molto probabilmente con un uomo pieno di inquietudini e infelice. Ci sono state ispirazioni nella sua vita: quali artisti del passato e presenti hanno influito sul suo lavoro? E se non lo hanno fatto, quali nomi rientrerebbero nella cinquina dei suoi ‘artisti’ della pittura ‘assoluti’? Moltissimi, cito Turner, Goya, Caravaggio, Rembrandt, Guttuso, dimenticandomene certamente tanti. Le sue opere sono state riordinate in decenni, ed è ora possibile ammirarle grazie ad una mostra permanente. Che effetto le fa vederle tutte insieme? Manca qualcosa? E' accaduto che un lavoro, per un motivo o per l'altro, sia andato perduto o distrutto? Ha mai rinnegato una sua opera tanto da farla a pezzi? La mia più grande aspirazione sarebbe poter vedere tutti i miei cicli pittorici, nonché le maschere di cartapesta dei cinque continenti e le centinaia di marionette delle “Mille e una Notte” sfilare davanti a me in una catena indissolubile. Tornando alle opere su tela purtroppo molte sono state rubate e una parte le ho distrutte perché non mi piacevano più. Se poi le tele che portavo avanti non aderivano alla necessaria corrispondenza tra la mia visione e la mia aspettativa finale, allora mi trovavo costretto a distruggerle e molto spesso erano tele di due metri per due. Ricordo di aver dipinto una tela su un'altra tela sottostante. Che cosa non ha ancora dipinto? Questa domanda ha in sé la mia ossessione: non è possibile, non è dato rispondere.

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CON L’ORIENTE NEL CUORE di Pietro Romano

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enticinque anni di viaggi in giro per l’Oriente. Il Vicino, il Medio, l’Estremo, fino a tutta l’Oceania. Un lungo percorso di scoperta raccontato attraverso l’osservazione attenta delle bellezze turistiche, ma soprattutto la riflessione sulle caratteristiche sociali, economiche e politiche di una parte del globo in continuo mutamento. Interessata, proprio in questo arco di tempo, da un’accelerazione storico-economica che ha pochi eguali nella modernità. A descrivere ne “L’Asia ai miei occhi” questa trasformazione, sul campo e dal vivo, è Stefania Tucci, imprenditrice di origine partenopea che si divide tra Roma, Londra e l’Oriente appunto, che ha cominciato a conoscere da giovanissima. Nel suo primo libro l’autrice riavvolge la pellicola di un quarto di secolo, e oltre, di viaggi in alcuni dei luoghi più affascinanti della terra, visti e rivisti a più riprese nel corso degli anni. A cominciare da quando, nel 1989, tutti in una volta visitò Bangkok, Bali e Singapore. Passando per l’ammaina bandiera britannica di Hong Kong. O, di lì a poco, per la prima volta in Australia, scoperta grazie a una sorta di fuga ancora possibile prima dell’Undici settembre, quando si poteva cambiare al volo un itinerario di viaggio senza passare per probabili terroristi. Per oltre 250 pagine l’occhio di Stefania Tucci indaga, curioso, l’umanità varia e assortita che incrocia: dall’imprenditore all’autista, dall’artista al bagnino agli europei espatriati come in cerca di un nuovo Eldorado, altrettanti fili che s’intrecciano in una trama sapiente dove il lettore viene avviluppato finendo per rivivere sensazioni ed emozioni, anche forti, che gli vengono offerti. Un esempio per tutti? Nella descrizione della vita ancora selvaggia di Papua Nuova Guinea, tra danze

rituali e scontri tribali, umori e afrori, amore e violenza. Una descrizione che risale appena a una manciata di anni addietro, ma sembra di secoli fa, ma dove non c’è posto, beninteso, per orientalismi di maniera. Emozioni cui seguono, immediatamente dopo, pagine affilate che l’autrice dedica alla involuzione dello stesso Paese, alle prese con una modernità cialtrona imposta sotto le mentite spoglie della modernizzazione e della civilizzazione, anche con la complicità di predicatori laici, e soprattutto religiosi, del tutto inadeguati al loro compito. Il diario di Stefania Tucci, più che cronologico, è geografico. Benevolmente “viziato”, come l’autrice ammette, da una sua “favorevole predisposizione d’animo riguardo al continente in generale e al Sud-Est in particolare”. L’itinerario si snoda a partire dalla “porta dell’Asia”, il Vicino Oriente: la Turchia, segnata da una crescente islamizzazione della società e dalla stretta autoritaria impressa dal presidente Erdogan, dopo una stagione di oggettivi successi economici, le bellezze archeologiche di Aleppo e Palmira in Siria, oggi perlopiù un triste ricordo, i cedri del Libano (con cui gli antichi Fenici costruivano le loro imbarcazioni) che sempre meno ombreggiano un Paese di grande fragilità, la coraggiosa Giordania divisa tra immensi campi profughi e il fascino di paesaggi come quello di Petra. Si passa, quindi, al Caspio e al Golfo persico: dagli ambienti da “mille e una notte” dell’Iran, dove alle donne è impedito attraverso l’abbigliamento il contatto con gli estranei (i quali però continuano a prendersi certe “libertà”, non c’è burqa che tenga) ai “fuochi perenni” di un Azerbaigian immerso nel greggio, all’Oman, non dimentico erede di un impero sconosciuto.

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Il percorso prosegue per il subcontinente indiano: le “favolose ricchezze e le infinite miserie” dell’India, lo Sri Lanka a forma di lacrima, il “regno incantato” del Buthan. Il cammino continua nella penisola indocinese: l’atmosfera mistica della Birmania buddista, l’inquieta Malesia, la sorprendente apertura alla diversità dei culti di Singapore, la città stato dal gigantesco “polmone verde” di edifici ecosostenibili, la Thailandia, la Cambogia, il Laos, il Vietnam, tra boom economici e fermenti sociali. L’esplorazione coinvolge, poi, la più grande democrazia islamica al mondo, l’Indonesia, con il suo arcipelago costellato di vulcani, la Papua Nuova Guinea appunto e le Filippine. Si giunge così al cuore pulsante del continente asiatico: la Cina, forse la mag-

giore economia al mondo, che vive un’esplosione anche nell’offerta di prodotti culturali, spesso sottaciuta, e alla quale l’autrice dedica giustamente un occhio di riguardo, per il ruolo crescente che Pechino ormai ha nella vita di tutti i noi dal punto di vista economico soprattutto e pure politico. La Corea del Sud, stretta tra un senso di insicurezza per gli attriti con la sua “metà” del nord e un’innata spinta all’innovazione tecnologica. La Mongolia che si fa fatica a pensare abbia generato Gengis Khan e l’isola di Taiwan, una sorta di fortino hi-tech dove la guerra fredda sembra tornata calda. Per approdare, infine, al Pacifico e ai suoi spazi smisurati: la serenità emanata dai templi shintoisti del Giappone, sempre più fiero delle sue grandezze, passate e presenti); la Grande barriera corallina

dell’Australia, ormai consapevole potenza regionale; tradizioni maori ancora radicate in Nuova Zelanda. “Quello che stiamo vivendo è il secolo asiatico”, scrive l’autrice, imprenditrice fattasi viaggiatrice d’eccezione. E un libro così articolato e completo costituisce lo strumento migliore per prenderne atto. Soprattutto analizzandone la complessità, come fa Stefania Tucci nel suo scritto ricco di considerazioni geopolitiche sicuramente “scorrette” ma sempre con il dono dell’originalità. Non è facile tenere insieme afflati privati e giudizi socio-politici su un’area così magmatica. E ancora meno facile è cercare di pesare con sagacia le potenzialità ulteriori, le perplessità, i rischi di queste terre, senza tralasciare nessun aspetto, per aprire una finestra anche sull’Oriente futuro.

A ROMA, BEER FESTIVAL

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oma Beer Festival, giunto alla quarta edizione, si terrà dal 7 al 9 ottobre al Salone delle Fontane dell’Eur. Il Salone Internazionale della Birra Artigianale, dopo le scorse edizioni che hanno raccolto oltre 50mila presenze e le dichiarazioni entusiaste dei più influenti tra gli addetti ai lavori, si attesta tra gli eventi di riferimento per gli appassionati di tutto il mondo. La consolidata partnership tra Publigiovane Eventi e Ma Che Siete Venuti a Fà darà vita, ancora una volta, a tre giornate completamente dedicate alla cultura e alla tradizione brassicola, all’insegna della qualità assoluta, della ricercatezza, della varietà del gusto e dello stile. Non mancheranno occasioni di incontro e dibattito con i maggiori beer taster e addetti ai lavori, ma soprattutto con tutti i birrai, veri protagonisti dell’evento. Un festival adatto sia al nutrito pubblico di appassionati di birra artigianale, sia ai neofiti che vogliono avvicinarsi a questo mondo. EurHop! Roma Beer Festival sarà l’occasione per intraprendere un viaggio attraverso stili, colori e sapori di alcune delle migliori proposte brassicole italiane e straniere. Anche quest’anno la location prescelta è il Salone delle Fontane dell’Eur, un palazzo storico della Capitale noto per la sua meravigliosa architettura razionalista. Al suo interno verranno ospitati più di 45 banchi con birrifici nazionali e internazionali, la cui selezione è curata, come sempre, dallo storico pub Ma Che Siete Venuti a Fà, attivo dal 2001 nella promozione e nella divulgazione del settore.

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INTIMO AVVOLGENTE di Donatella Miliani

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a il nome e il colore della amiamo partecipare a concorsi in passione la splendida Tecui l’etichetta viene svelata solo alla nuta in Pietranico, di Ricfine della selezione...». cardo Iacobone, produttore di vini Insomma, quelli veri? che propongono emozioni sensoriali «Diciamo così... Ci intriga rompere uniche. «», ovvero rosa rossa è infatti gli schemi e confrontarci con trail nome scelto, non a caso, dall’imsparenza». prenditore pescarese che ha saputo Parliamo dei fiori all’occhiello. Il come coniugare il buon vino e la coRosso «Intimo» è un ’campione di municazione attraverso la Rete. «Due razza’. passioni diventate in realtà un me«Ne siamo orgogliosi. E’ un vino stiere, anzi due – dice Iacobone –. I unico, un’interpretazione particolare vini li creiamo con Rosarubra e Torri di Montepulciano Abruzzo e Merlot Cantine, altra Tenuta agricola acquicon una raccolta tardiva che lascia sita di recente nel Teramano. Le noun gusto vellutato in bocca. Il vino stre origini imprenditoriali però afviene travasato in botti di legno e fondano proprio nel settore lasciato riposare fino alla concluIl Maestro Vessicchio e l’imprenditore Iacobone dell’informatica: trent’anni fa è nata sione della fermentazione malolatinfatti la Micso di Pescara, azienda leader e non solo in Italia tica. Successivamente viene travasato e affinato in legno ed acnei servizi Internet». ciaio.A bbinamenti? A stracotti o piatti con tartufo ma può Come si armonizzano interessi tanto diversi, almeno all’apessere gustato anche come vino da meditazione». parenza? E il bianco? «Semplice, nel segno dell’eccellenza, che è la nostra mission «Il nostro Igt Triluna: un bland di uve Chardonnay, Sauvignon nell’uno e nell’altro settore. Il concept è che vogliamo fare le e Malvasia aromatica. Ha gusto morbido, molto studiato, molto cose nel modo migliore e comunicarle altrettanto bene». piacevole. C’è poi il Lomanegra, ovvero l’interpretazione più Torniamo a Rosarubra. preziosa del vitigno Montepulciano d’Abruzzo. Creato da un «Un progetto nato dieci anni fa quando abbiamo acquisito blend di due diverse annate di raccolta, ha come protagonista una tenuta agricola posizionata tra il mare e la montagna peil miglior frutto selezionato e raccolto singolarmente sulle vigne scaresi, un luogo unico e vocato alla produzione, già bio da più vecchie della tenuta». tempo, delle uve. Un’oasi di 30 ettari a 400 metri di altitudine Le novità «L’ultimo nato in casa Rosarubra è una Riserva che si nel territorio di Pietranico, che noi abbiamo portato a una cerposiziona tra Intimo e Lomanegra. Un numero di pezzi limitati tificazione ulteriore, quella biodinamica. Il vino che produciamo e solo su prenotazione che uscirà sul mercato in dicembre». è vivo – sottolinea – perchè la terra è fertile. Insomma, questo E a conferma dell’attaccamento al territorio in cui è nato, Iacoterritorio è fantastico, i vitigni sono favolosi». bone organizza ogni anno il «Rosarubra Wine Festival» che coE in cantina? niuga la visita in cantina e le degustazioni dei vini con una «Domina, come è giusto che sia, l’alta tecnologia». serie di eventi musicali di alto livello in collaborazione con il Premi e riconoscimenti di prestigio non si contanto ormai. Maestro Beppe Vessicchio. Un packaging raffinato e la scelta di distribuire le bottiglie «Quest’anno tra i protagonisti c’é stato anche il celebre tenore solo nei locali: ristoranti, bar, enoteche. A quanto ammonta Piero Mazzocchetti. Serate magiche che saldano il legame della la produzione? nostra azienda con Pietranico e con le emozioni che la sinergia «Siamo arrivati a quota centomila bottiglie che commercializcon la musica d’autore può regalare. Straordinaria l’esperienza ziamo anche all’estero tra cui Cina, Stati Uniti e 18 diversi del concerto all’alba con il Maestro Vessicchio e i Solisti del Paesi europei. A proposito dei Premi ci piace sottolineare che Sesto Armonico».

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IL PIACERE DELLA “CICCIA”

I

l suo motto potrebbe essere «Viva la ciccia», perché Luca Terni, 26 anni trascorsi nella macelleria di famiglia tra tagli di vitello e coltellacci, della carne, quella buona, non può fare a meno. E in fondo quella che, oltre a un lavoro è anche una passione, lo ha portato a partecipare e vincere il ‘talent’ sul miglior macellaio d’Italia di Raidue nel programma Detto Fatto condotto da Caterina Balivo. Lei è figlio d’arte. E’ vero che la chiamano ‘serial griller’? «E’ vero – ride – anche perchè vado in giro a fare catering: grigliate impossibili da trovare altrove...» Si dice che abbia clienti Vip, molto vip? «E’ vero, ma non posso fare nomi: giornalisti, attori, attrici, grandi imprenditori e calciatori. Tra i quali Totti. Lo cito perchè è l’unico del quale ho postato foto su Fb e quindi...». Immagino che le clienti toscane facessero tutte il tifo. «Sì, tutte le mie ‘casalinghe’ - dice - e gli amici ovviamente. Ora? Ho una nuova postazione televisiva come ‘tutor’ e in più abbiamo parlato anche di una gara di Street food in cui potrei entrare in giuria». Un nuovo lavoro? «Diciamo che è una cosa che mi diverte ma il mio lavoro resta quello del macellaio. Seguo il programma nel mio giorno libero: il lunedì». Macellaio, imprenditore del catering Capalbio, c’è altro? «Si tratta di una piccola azienda familiare. La nostra specialità ovviamente è la carne alla brace. Ma io faccio anche i mercati col camioncino...».

Ce la dà una dritta sulla grigliata perfetta? «Intanto la qualità e poi la varietà delle carni. Il nostro catering ha un menù assolutamente toscano: salumi e poi pappe al pomodoro, acqua cotta e soprattutto quando pranzi e ceni in cui gustare bistecche di Chianina che io taglio al momento sfilettandole dalla parte del filetto e controofiletto. Ricavo strisce sottili che cuocio e poi condisco direttamente sul piatto. E ancora salsicce sempre fatte a mano da noi e poi coscie di pollo biologici disossate in cottura allo specchio. Del mailae qualche pancetta sfumata con dell’aceto balsamico». Insomma tanta roba. «Ma tutta digeribilissima. Da accompagnare con vini rossi: Morellino, ma anche vini di Capalbio: Poggio Foco. Naturalmente anche Chianti e Brunello di Montalcino». Il suo piatto preferito? «La Fiorentina di razza Chianina con un buon bicchiere di Poggio Foco di Manciano». Ce l’ha ancora un sogno nel cassetto? «Certo. Nel brevissimo futuro abbiamo in programma un ristorante, a Capalbio. E poi sicuramente anche potenziare il catering per spostarci da qui verso le città: Roma, Firenze ma anche Milano etc». E’ molto seguito sui social? «Sì, mi fa piacere nella pagina facebook «I piaceri della ciccia» stesso nome del camion con il quale facciamo i mercatini. Contattateci, scoprirete un sacco di cose sulla carne...». D.M.

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