NUOVA FINANZA 3/2016

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BIMESTRALE ECONOMICO FINANZIARIO

Poste Italiane Spa - Sped. abb. post. DL 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma1, C/RM/22/2013 del 19/06/2013

Anno 2016 Numero 3 MAGGIO GIUGNO

SANITÀ LA NOSTRA VITA NELLE VOSTRE MANI (a pag. 21)

IL PUNTO A mali estremi, estremi rimedi

LA PIZZA Patrimonio dell’umanità



2 4 6 8 10 12 13 14 16 18

Il Punto Regole saltate Cirino Pomicino Giovani marmotte Made in Italy La scoperta dell’America Terna Paladina dell’ambiente Banca Popolare di Spoleto La grande ripartenza Paradisi fiscali Panama e nuvole Bcc di Roma Credito e sussidiarietà Uniform Italia Scarpe & elmetti Gruppo Gravina Primi in sicurezza Tax credit Un affare di cinema

TERNA LEADER DELL’AMBIENTE pag 8

DOSSIER SANITA’

21 26 28 30 32 35 36 38

L’intervista Stefanelli (BSI) Basilicata Oncologia d’eccellenza Veneto Ai vertici europei Formazione medica Le nuove sfide Malattie coronariche Lo stent riassorbibile Angina refrattaria Un reducer per amico Varici Tecniche mini invasive Forniture ospedaliere Parla Riem (Asfo)

Matteo Del Fante, Ad di Terna

Nuova Finanza Bimestrale Economico - Finanziario Direttore Editoriale

Francesco Carrassi Direttore Responsabile

Pietro Romano Direzione Marketing e Redazione

Katrin Bove Germana Loizzi

Editore Kage srl 00136 Roma - Via Romeo Romei, 23 Tel. e Fax +39 06 39736411 www.nuovafinanza.com - redazione@nuovafinanza.it Per la pubblicità: nuovafinanza@nuovafinanza.it Autorizzazione Tribunale di Roma n. 88/2010 del 16 marzo 2010 Iscrizione ROC n. 23306

COSTUME & SOCIETA’ 55 59 60 62 64 65 67

PIZZA GLOBALE FONDAZIONE GEIGER LA OXFORD DEL CALCIO DEADSTAR BEPPE & PIERO MAZZOCCHETTI PASSIONE, FASCINO, STILE

Stampa STI - Stampa Tipolitografica Italiana Via Sesto Celere, 3 - 00152 Roma Progetto Grafico Mauro Carlini Abbonamento annuo Euro 48,00 Hanno collaborato: Maurizio Abbati, Franco Antola, Nicola Bartolini Carrassi, Domenico Benevento, Katrin Bove, Jacopo Carlesi, Ornella Cilona, Piero Cioffredi, Nicolò Cugno, Doda, Germana Loizzi, Marcello Mancini, Donatella Miliani, Pellegrino Musto, Sandro Neri, Renato Pedullà, Pietro Perugini, Tuccio Risi, Massimo Ruggeri, Carlo Setacci


IL PUNTO del direttore

A MALI ESTREMI, ESTREMI RIMEDI di Pietro Romano

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otto anni dallo scoppio della crisi finanziaria, poi diventata economica, mondiale l’unica certezza è che tutte le certezze sono sparite. Il capitalismo attraversa una crisi profonda ma non è emersa nessun’alternativa credibile. Emergono invece qua e là analisi, teorie, proposte con spunti interessanti e trovate perlomeno discutibili. La ripresa, concordano gli economisti, si deve fondare sulla innovazione e gli investimenti. E’ difficile, però, che possa fondarsi sulla diffusione globale dell’uso di Twitter più sofisticati o con la realizzazioni di automobili volanti. L’americano Robert Gordon (docente alla Northwestern University, di suo è appena arrivato nelle librerie “The Rise and the Fall of American Growth”) sostiene che, essendo stata soddisfatta la gran parte dei bisogni umani dalle invenzioni del passato, c’è meno posto per invenzioni tanto radicali quanto utili e lo spazio rimane per invenzioni ancora più radicali ma dalla dubbia utilità, di fatto incapaci di trasformarsi in autentico volano di sviluppo. Da qui il suo allarme: “Siamo di fronte al rischio di una stagnazione secolare”. I tassi d’interessi, prossimi allo zero, ma più facilmente negativi, sembrano già anticipare il vaticinio di Gordon. Prendiamo l’Eurozona. Da un lato i tassi negativi non stanno sorreggendo un boom di investimenti, perché cascano in un terreno arido che la negatività carica di contenuti psicologi altrettanto negativi che smorzano gli istinti animaleschi alla base dell’attività

imprenditoriale. Dall’altro annullano le capacità di spesa dei risparmiatori e azzoppano le possibilità di intervento degli investitori istituzionali, fondi pensione in testa, che non hanno più risorse aggiuntive per nuovi interventi. Con un effetto leva sul pessimismo di investitori e consumatori: un domani, con tassi zero o negativi, che cosa ci troveremmo di rendita previdenziale, è la domanda sulla bocca di tutti? In Europa, poi, sul fronte previdenziale sta emergendo un altro problema, non da poco. In Italia lo ha sollevato il demografo Gian Carlo Blangiardo, docente a Milano Bicocca, autore tra l’altro di “L’immigrato. Una risorsa a Milano”, quindi non un pericoloso sovversivo. “Si tratta dell’effetto invecchiamento importato – ha spiegato Blangiardo – che esploderà nel 2030 quando avremo molte persone non nate in Italia che raggiungeranno l’età della pensione. Parliamo di circa 200mila persone all’anno che diventeranno anziane e avranno diritto alla pensione. Il fatto è che si tratta di soggetti che hanno iniziato, ammesso che abbiano iniziato, tardi a contribuire. I loro assegni saranno estremamente bassi, sotto i limiti della decenza”. A quel punto lo Stato o l’Inps dovranno intervenire. Ma il lavoro precario potrà creare gli stessi problemi anche a molti italiani. Chi verrà privilegiato, allora? Ennesima benzina sul fuoco di possibili futuri dissidi inter-etnici. Al momento, ennesimo generatore di incertezze e di paure. Mentre gli economisti e i demografi si interrogano sui prossimi decenni,

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però, bisogna mettere insieme il pranzo con la cena per domani, se non per oggi. E in Italia. Politica ed economia sottolineano che l’effetto Draghi avrà il potere, quasi taumaturgico, di innescare la ripresa facendo leva sul mini euro e il calo dello spread. Sostenere che il mini euro sia la chiave della competitività per rilanciare le esportazioni italiane è, un po’, una contraddizione: la stessa Italia ufficiale che critica i nostalgici della liretta e delle svalutazioni competitive ama in-

dulgere nelle virtù del mini euro. Bah. Probabilmente né la liretta né il mini euro sono toccasana. Prima di tutto servono mercati. Ma la crisi degli emergenti sta irrobustendo il ruolo dell’Europa come mercato privilegiato di sbocco del Made in Italy (ormai superiore al 60 per cento in valore) e in Europa il mini euro non ha nessun


effetto, ci vorrebbe la liretta. E questo spiega perché in vent’anni la quota italiana sul commercio internazionale si sia ridotta drasticamente. Sullo spread si può fare un discorso parimenti fuori dagli schemi usuali. Prima di tutto la differenza di valutazione tra titoli di stato italiani e tedeschi è un parametro introdotto dai governi tecnocratici del nostro Paese senza un apparente motivo. Un parametro, peraltro, sul quale la politica e le manipolazioni, come la crisi del 2011 insegna, possono incidere molto più del reale stato dell’economia. Nel 2011 tutti gli indicatori economici italiani erano migliori di oggi (dal pil al debito, dall’occupazione all’export) eppure lo spread tra titoli di stato italiani e tedeschi era alle stelle. Perché? La Procura di Trani ha aperto un’inchiesta sul ruolo della Deutsche Bank nel crollo: attendiamone gli sviluppi senza esaltazioni né demonizzazioni aprioristiche. Nel frattempo, tagli drastici prima di tutto agli investimenti e alla spesa sociale hanno permesso che l’Italia, in compagnia della Germania, diventasse l’unico Paese europeo con un avanzo primario. Ma questo avanzo non serve nemmeno a pagare gli interessi, spread o non spread. Insomma, è arrivato il momento di iniettare robuste dosi di competitività al sistema Italia e di aggredire lo stock di debito. E di rilanciare il mercato interno, che rimane, ovviamente, di gran lunga la principale destinazione del Made in Italy. E quella che maggiormente è stata falcidiata dalla crisi. Sul fronte del debito si può lavorare su due direttrici. Una amministrativa. L’Italia deve costituire al più presto un’Agenzia del debito sulla scia della Francia e della

Germania che hanno investito in organismi capaci di attrarre esperti di derivati, giuristi, operatori di mercato. In Italia il rapporto tra Tesoror e grandi banche d’affari che intermediano i titoli di stato è spesso impari. Cerchiamo di capovolgerlo o, perlomeno, di riequilibrarlo. Quanto all’investimento necessario, ebbene si cominci finalmente a tagliare realmente sulle spese di una Banca d’Italia sempre più inutile. Sul fronte operativo è venuto il tempo, improrogabilmente, di porre mano alla rivoluzionaria idea di Paola Savona, Giuseppe Guarino, Michele Fratianni e Antonietta Rinaldi che punta ad abbattere di 400 miliardi di euro, in un colpo solo, il debito pubblico italiano. E’ una proposta choc. Una operazione senza precedenti in nessun Paese. Ma attentamente studiata per dare sette anni di respiro al Tesoro che beneficerebbe di un calo degli interessi perlomeno di 30 miliardi l’anno. Un’operazione che potrebbe essere strutturata giuridicamente e finanziariamente anche da società specializzate a livello internazionale per garantirne il successo. Se il debito può essere affrontato politicamente in Italia, le politiche per la ripresa vanno concordate in Europa. Contro o con il consenso dell’euroburocrazia è tutto da vedersi. Con quanto il nostro Paese ci rimette rispetto alle casse comunitarie, in ogni caso, una eventuale rottura sarebbe tutto a guadagno dell’Italia. La strategia di Draghi ha avuto effetti benefici, ma comincia a girare su se stessa, rischia di diventare asfittica. E’ necessario spostare dalle istituzioni finanziarie a imprese e soprattutto cittadini (privilegiando i contribuenti) l’utilizzazione finale degli interventi finanziari. Ma bisogna fare attenzione. Per evitare che i consumi non rilancino la produzione (ma favoriscano, soprattutto a livello medio-basso, produttori di Paesi terzi) e quindi non si trasformino in volano di sviluppo va superato uno scoglio non da poco. L’Europa è diventato “l’utile idiota della mondializzazione”, per riprendere la magnifica definizione dell’economista francese Renaud Girard apparsa sul quotidiano parigino “Le Figaro”. E’ necessario imporre correttivi arrivando a “un protezionismo ragionevole”. Ne va della sopravvivenza politica dell’Unione. E della sopravvivenza tout court dell’Italia. Dovessero diventare antitetiche, non mi pare ci sia scelta.

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PAOLO CIRINO POMICINO

“LE GIOVANI MARMOTTE” Marcello Mancini*

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on so se la definizione è sua, di o'ministro, o di qualcun altro, però chiamarla "Repubblica delle giovani marmotte" è una sintesi efficace. E non per forza negativa. Semmai ha un connotato di novità e insieme di inadeguatezza. Diciamo che stiamo vivendo una stagione di nuovismo dilettantistico, che Paolo Cirino Pomicino osserva dal bastione dei sopravvissuti della Prima Repubblica con una preoccupazione piuttosto diffusa. Non solo fra i democristiani di lungo corso come lui. - Presidente, che futuro dobbiamo aspettarci? < La qualità della classe politica attuale risente di un ventennio in cui la formazione politica non è esistita. La selezione della classe dirigente è stata più improntata alla cooptazione che ha un metodo darwiniano, per cui alla fine la selezione è stata di stampo cortigiano, e quando vince la cortigianeria, la storia ci insegna che vince la mediocrità>. - Il suo giudizio va nella direzione opposta all'ottimismo predicato dall'attuale classe dirigente. Ma il cambiamento era necessario, per tenere il passo degli altri Paesi europei, non crede? <Dal ‘95 in poi siamo diventati la cenerentola d'Europa per tasso di crescita e livello del debito. Il debito è aumentato del 170 per cento e l'Italia si è impoverita perché non è più cresciuta. Pensi solo che nel decennio dal 1981 al '91, l'Italia è cresciuta nel 27 per cento reale; nel secondo decennio del 18 per cento; nel primo decennio del Duemila siamo cresciuti dell' 1,2 per cento, complice

anche la crisi recessiva. Cosa voglio dire? Che tutte le riforme delle quali stiamo parlando, rispetto agli altri Paesi europei, non è che ci abbiano fatto migliorare in termini economici, sociali e istituzionali. Nelle grandi democrazie europee non c'è stata nessuna riforma costituzionale che dia a una minoranza il governo del Paese. Cosa che purtroppo accade con la riforma di oggi insieme alla legge elettorale dell'Italicum>. - Cioè il cambiamento è andato nel verso sbagliato? <Non si esce dalla crisi riducendo la democrazia ma trasformandola. Se la democrazia parlamentare è in affanno, perché i partiti non ce la fanno, si passa alla democrazia presidenziale . In questa fase c'è stato un approccio superficiale e anche la latitanza degli intellettuali, sul terreno costituzionale e su quello economico>. - Fra gli errori c'è anche il modo di affrontare la crisi del sistema bancario? <Noi non avremmo mai consentito che mentre ci sono quattro banche agonizzanti nella mano destra, con la sinistra si allestisce la forca per farle ammazzare. La disciplina dell'Unione bancaria impedisce allo Stato di salvare una banca, salvo poi dover intervenire quando è fallita: questo obbligo postumo ha significato la sostituzione dello Stato con il mercato. Un errore che i grandi Paesi liberisti non fanno. La Gran Bretagna mica

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aderisce alla disciplina delle unioni bancarie, i poteri ultimi restano nelle mani dello Stato. Questo comportamento o è frutto di una giovinezza non ancora consolidata o di una complicità pelosa: tertium non datur>. - Lei boccia Renzi, dunque? <Renzi è un talento politico ma può prendere una direzione sbagliata. Ricordo un epitaffio sulla tomba di un cardinale: "qui giace un cardinale che fece bene e fece male, il mal lo fece bene e il ben lo fece male".> - Ma insomma, anche dal suo osservatorio di critico ex ministro del Bilancio, ammetterà che la ripresa c'è stata. <Il fatto che sia tornato il segno positivo è un d a t o confortante, però è


anche vero che dopo l'abbattimento dei tassi di interesse e il crollo del prezzo del petrolio, se non avessimo neanche avuto quel piccolo aumento, avremmo dovuto chiamare l'ambulanza. Infatti ancora una volta noi cresciamo la metà della media dell'Eurozona: nel raffronto con gli altri Paesi europei, finiamo per non cogliere le opportunità>. - Per quale motivo, presidente? <Il debito è arrivato a un tale livello - 2mila 200 miliardi - che c'è bisogno di fare una operazione straordinaria sul debito, da non confondere con la patrimoniale, che ha un input recessivo> - Dunque quale è la sua ricetta? <Guardi, bisogna avere la capacità per ridurre il debito e quindi trovare le risorse in quel bacino di 75 miliardi che spendiamo per gli interessi e nel contempo recuperare risorse extrabilancio per fare investimenti. L'occupazione aumenta se aumentano gli investimenti, non basta certo mettere 80 euro nelle tasche delle famiglie e 18 in quelle dei giovani, per far crescere i consumi>. - Può entrare più nel dettaglio, per capire? <Ottanta euro sono costati dieci miliardi all'anno, se avessimo fatto dieci miliardi di investimenti in tempi reali, quindi con una capacità di cantierizzazione rapida, avremmo avuto risultati di gran lunga migliori rispetto a questo tipo di beneficio>. - Nel suo ultimo libro, "La repubblica delle giovani marmotte" appunto, uscito per Utet, lei sostiene che si è imposto un "leaderismo salvifico e straccione" contrabbandato per modernità, perché è mancata una cultura politica di riferimento che c'era invece stata dal dopoguerra agli anni Novanta. Non le sembra che dopo tanti giri inconcludenti si torni a cercare quel tipo di cultura? <Si sta ricercando disperatamente il filo di Arianna scomparso, in particolare a sinistra. Se pensa che uno degli avversari di Hillary Clinton oggi è il socialista degli Usa, perché l'attuale capitalismo finanziario ha prodotto tali differenze e disuguaglianze sociali, che adesso rischia nelle grandi democrazie occidentali, più che lo scontro

fra destra e sinistra, lo scontro fra la grande massa di un'area borderline , con una piccola enclave di ricchezza, che controlla le leve della finanza e dell'informazione> - Perché siamo arrivati a questo punto? <Da noi una latitanza che colpisce è quella degli intellettuali. Una volta avevano la capacità di elaborare, di sollecitare, oggi la classe degli intellettuali sembra diventata l'intendenza napoleonica, cioè segue. Il rischio è che la politica finisca per non avere più quel primato che non significa che ordina, ma quel primato che guida una società inquieta come la nostra>. - Come giudica i cambi di casacca in Parlamento? Penso al caso Verdini: lei crede alla sua buona fede istituzionale quando spiega il voto favorevole per le riforme? <In politica la buona fede e la cattiva fede lasciano il tempo che trovano. Verdini fa una operazione tutta di tipo parlamentare, in un parlamento che ha ripreso le attitudini dello Stato liberale prefascista, quando il trasformismo era la regola, da Depetris in poi. Il trasformismo dello Stato liberale era legato all'assenza dei grandi partiti di massa. Oggi sono scomparsi di nuovo e c'è stato un mulinare di sistemi elettorali diversi. Ebbene, il trasformismo è un arnese tipico di questi parlamenti privi di cultura di riferimento e sostanzialmente nominati. Nella Prima repubblica c'erano gli eletti con le preferenze e culture di riferimento che cementavano: si passava semmai da una corrente all'altra, ma sempre all'interno del partito>. Non mi sembra che Paolo Cirino Pomicino soffra di nostalgia. Credo che più che altro sia convinto che tanti cambiamenti abbiano nuociuto al sistema Italia. Non so se sia realmente così. Un giorno sarà riletta dalla storia anche Tangentopoli e allora potrebbero esserci delle sorprese. Di certo oggi non pare sia stata una buona idea quella di consegnare il Paese ai tecnici, interpretando il vento forcaiolo dell'antipolitica. Lascio a Cirino Pomicino la chiusura con una battuta che fa riflettere: <Siamo l'unico Paese che da vent'anni alla guida dell'economia ha un banchiere d'affari o un banchiere centrale. Noi portammo Guido Carli, e lui pose ad Andreotti una sola condizione, che insieme a lui ci fossero due politici. Andreotti gli disse sì, ma gli chiese anche perché. E Carli rispose: "Perché il governo dei tecnici è un'illusione o è un'eversione">. *Opinionista de La Nazione

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SUMMIT DELL’ECONOMIA A NEW YORK

MADE IN ITALY IN VETRINA Sandro Neri*

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l Time Warner Center di Columbus Circle a Manhattan, affacciato su Central Park, si è svolta la quarta edizione di Italy Meets the United States, il summit dell’economia italiana in America. Una vetrina prestigiosa per le principali imprese del Bel Paese, che si sono presentate a una platea composta da 250 imprenditori, banchieri e investitori provenienti dagli Stati Uniti, chiamati a raccolta da Fernando Napolitano, Ceo di Italian Business & Investment Initiative, l’organizzazione nata nel 2011 per promuovere l’eccellenza italiana all’estero e aiutare le nostre aziende di successo a internazionalizzarsi. «Rispetto alle precedenti edizioni, quest’anno sono aumentati gli ospiti americani in platea spiega Napolitano - hanno seguito i lavori oltre 300 fra Ceo’s di grandi gruppi industriali degli Stati Uniti e circa 100 top executives di banche, venture capitals e istituzioni finanziarie di Wall Street. Un successo per l’Italia che non ha pari in nessun altro angolo del mondo». L’edizione 2016 di quello che sicuramente è il più grande evento riguardante l’Italia al di fuori dei confini nazionali, realizzato in collaborazione con Ernst & Young, grande società di consulenza internazionale che ha fornito numeri e riflessioni sul nostro Paese, è stata battezzata «Influence, Relevance and Growth: Italy’s opportunity and new paradigm», per gettare una luce positiva su un sistema economico e un tessuto imprenditoriale che, nonostante la difficile congiuntura economica, ha molto da dire e da dare. «In Italia - osserva - è in atto un processo di riforme, il Paese è democratico, stabile e credibile. È ora di guardare all’Italia senza pregiudizi». Napolitano, tra i concetti principali emersi c’è quello di opportunità: in che modo l’Italia rappresenta un’opportunità per gli investitori esteri? «La mutata situazione politica internazionale ha anche riportato la nostra penisola al centro di un nuovo scenario geopolitico. L’Italia è già presente negli Stati Uniti con successo attraverso le grandi imprese che esportano il loro know how e la loro cultura, poi ci sono le medie imprese che con inarrivabile capacità imprenditoriale vendono i loro prodotti. Infine, ma non ultime, ci sono le persone, i manager di nascita italiana che occupano posizioni apicali nelle imprese e nelle istituzioni americane in America. Gli americani ne stanno prendendo atto».

Che ruolo hanno giocato le istituzioni americane in questa iniziativa? «Un contributo fondamentale in termini di relazioni, supporto e intelligenza è stato dato dalla rete diplomatica italiana e dal Dipartimento di Stato americano, con cui negli anni ho costruito un rapporto di fiducia reciproca. L’anno scorso abbiamo ricevuto un vero e proprio endorsement dall’Ambasciatore degli Stati Uniti d’America, che ha dichiarato a nome

Fernando Napolitano, Ceo di Italian Business & Investment Initiative

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dei cittadini americani che il Governo degli Stati Uniti riconosce come meritoria e valida la nostra attività, e ha fornito la residenza privata dell’Ambasciatore per presentarci agli industriali e ai politici italiani». Per quanto riguarda invece la situazione italiana, le opportunità sem-

brano limitate, soprattutto per i nostri giovani più brillanti, che cercano miglior fortuna all’estero. «Con Best Program, il programma bilaterale italo americano che conferisce borse di studio a studenti italiani sotto i 35 anni e che comprende un anno di studio e stage a Santa Clara, in California, oltre al supporto costante di tutor e mentor dedicati, diamo fiducia e opportunità ai nostri giovani più dotati. Il programma può arrestare la fuga di cervelli, perché i finanziamenti sono destinati solo a chi apre una startup in Italia. Non ci limitiamo a supportare soltanto chi vuole iniziare, ma anche chi ha già lanciato un’attività. Due volte all’anno presentiamo gruppi di startup italiane alle comunità finanziarie di New York e San Francisco, rispettivamente la più importante piazza finanziaria e il maggiore hub tecnologico del mondo. In quattro anni hanno partecipato oltre 250 start up che hanno ricevuto finanziamenti per oltre 100 milioni di dollari». Quali sono i più importanti valori italiani da trasferire all’estero? «In primo luogo la stabilità, l’Italia è un Paese stabile e, ripeto, democratico. Secondariamente l’education perché le nostre università, Bocconi in primis e poi i Politecnici, producono ragazzi preparati. Abbiamo eccellenze che gli americani ci riconoscono e delle quali giustamente siamo fieri, Si riassumono nel termine food fashion furniture, cioé cibo, moda e arredamento. Ma le tre F non sono sole: la prima categoria che esportiamo è il farmaceutico, poi energia, componenti meccanici, con un

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mercato di 60 milioni di consumatori, siamo la 3° economia in Europa, l’8° al mondo». Qual è il prossimo appuntamento? «Il 18 novembre per la prima volta il Summit sarà in Italia. Significa passare da uno a due appuntamenti all’anno. Vogliamo portare gli americani da noi. Abbiamo scelto Firenze affinché i nostri ospiti internazionali possano godere di una delle meraviglie italiane. E’ un progetto impegnativo e ambizioso, il cui successo significherebbe un ritorno dell’Italia nelle rotte del business internazionale». La sintesi del suo impegno? «Siamo aperti a raccogliere le migliori energie e le migliori forze che ci aiutino a lasciare ai nostri figli un Paese migliore. Le racconto un caso emblematico: a New York abbiamo un buon rapporto con Nova, l’associazione che raduna i giovani Mba italiani. Questo è un caso da seguire con attenzione, perchè i nostri ragazzi che hanno raggiunto il più alto livello di formazione sono andati in America e non sono intenzionati a tornare. L’Italia non si può permettere questa emorragia di capitale umano. Con tutto il rispetto, esportiamo Mba e importiamo badanti e disperati: un bilancio tragico. Ho ricordato ai ragazzi di Nova il concetto, americano, di “give back” cioè di restituire qualcosa al territorio dove siamo nati, cresciuti e abbiamo studiato. Ho spiegato loro che nella mia carriera nulla mi ha dato maggiore soddisfazione che servire il mio Paese». *Vice Direttore de Il Giorno


LEADER NEL RISPETTO DELL’AMBIENTE

TERNA, PALADINA DELLA SOSTENIBILITÀ

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a oltre un decennio Terna ha intrapreso un percorso volontario in materia di sostenibilità ambientale, ponendo la propria attività e la relazione con i territori su un piano in cui convivono sviluppo, rispetto per l`ambiente, tecnologia e profitto: elementi che possono e devono essere sinergici e che sono sempre più apprezzati da investitori e stakeholder. Obiettivo della Società proprietaria della Rete di Trasmissione Nazionale di energia elettrica in Alta Tensione, è quello di promuovere l'innovazione tecnologica, la sostenibilità e una forza lavoro di livello mondiale per lo sviluppo infrastrutturale delle reti elettriche, concepite, progettate e realizzate in linea con le esigenze e nel rispetto del territorio, in modo da garantire la massima efficienza energetica. Questo approccio porterà verso una sempre crescente integrazione delle rinnovabili, nel pieno rispetto dell`ambiente come nel caso del futuro elettrodotto “Sorgente-Rizziconi”, che rafforzerà il collegamento tra la Sicilia e la Penisola, e che da solo renderà possibile eliminare ogni anno oltre 675 mila tonnellate di CO2 in atmosfera, grazie anche alla demolizione di 170 km di vecchie linee e di 550 sostegni. Nel Piano Strategico dell’Azienda, presentato a Milano il 17 febbraio scorso dalla Presidente Catia Bastioli e dall’Amministratore Delegato Matteo Del Fante, non sono state ignorate le tendenze sociali e ambientali più rilevanti, che contribuiranno a delineare il futuro contesto economico: la decarbonizzazione dell'economia e la riduzione delle emissioni di CO2,

temi che hanno acquisito ancor più slancio anche grazie ai risultati ottenuti in seguito alla conferenza COP21 di Parigi. Attenzione per l’ambiente, però, significa non solo una riduzione delle emissioni di CO2, ma anche un cambiamento culturale verso un rispetto sempre maggiore per il territorio. In tale contesto, Terna sviluppa le proprie strategie basandosi sui principi etici della trasparenza e della sostenibilità, consapevole che una buona gestione degli impatti sociali, economici e ambientali può preparare meglio le sfide di domani. Questo impegno di Terna per l’ambiente e per le persone trova conferma nel riconoscimento di Industry Leader del settore Electric Utilities nel prestigioso Dow Jones Sustainability Index, l’indice più riconoscibile dell’impegno di un’azienda verso una crescita sostenibile, che anche per gli investitori rappresenta un segnale della capacità di creazione di valore nell’orizzonte di lungo termine. Testimonianza della creazione di valore sono la capitalizzazione di

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Borsa, ormai intorno ai 10 miliardi di euro, e la crescita degli investitori attenti agli aspetti etici (SRI – Socially Responsible Investors) che rappresentano il 10% circa del capitale detenuto da investitori istituzionali identificati. A gennaio 2016, inoltre, Terna è l’unica azienda italiana ad essere entrata nella Gold Class del “RobecoSAM Sustainability Yearbook 2015” che, per il settore Electric Utilities, contava solo tre imprese al mondo. Il gestore della Rete Nazionale in questi anni ha impresso una forte accelerazione sul fronte dell’impegno economico per potenziare la rete elettrica, anche per favorire l’integrazione delle energie rinnovabili: i circa 10 miliardi di euro d’investimenti dal 2005 a oggi hanno consentito di connettere alla rete già 28 GW, di cui 18,9 GW di fotovoltaico e 9,1 GW di eolico. Ricordiamo a

Matteo Del Fante, Ad di Terna


tale proposito il luglio scorso, mese in cui si è registrato il record di consumi elettrici in Italia, quando il fabbisogno nazionale è stato coperto da una produzione da fonte rinnovabile sopra il 40%. Il sistema elettrico nazionale ha risposto in modo efficiente anche in quell’occasione, confermando la piena integrazione e la gestione in sicurezza dei circa 600mila impianti rinnovabili collegati alla rete, nonostante la loro natura variabile e intermittente. La crescita delle fonti rinnovabili è una risorsa fondamentale nella lotta ai cambiamenti climatici: oggi questa prospettiva passa anche e soprattutto per gli investimenti sulle reti energetiche che possano garantire efficienza e sicurezza di un modello incentrato su centinaia di migliaia d’impianti distribuiti nel territorio italiano. La tutela del paesaggio e la riqualificazione del suolo sono ulteriori capisaldi della politica ambientale di Terna: di un anno fa, infatti, la firma di un Protocollo d’Intesa con Legambiente che poneva una maggiore attenzione all’integrazione territoriale e ambientale delle opere elettriche previste nel Piano di Sviluppo. Terna ha rimosso nel corso degli ultimi 6 anni 600 km di vecchie linee, dismesso 1.700 tralicci obsoleti permettendo di recuperare un’area maggiore a 2.400 campi di calcio, e grazie all’installazione di 800 sostegni “monostelo” lungo le principali linee elettriche italiane, ha permesso di ridurre in ogni singolo caso di 15 volte l’area di ingombro al

suolo rispetto ai tradizionali tralicci troncopiramidali. Ne è un esempio la linea elettrica ”Chignolo Po-Maleo’’ che ha ricevuto un importante riconoscimento per la sostenibilità ambientale e la costante attenzione per il territorio, aggiudicandosi una menzione speciale all’interno del “Premio per la sostenibilità delle opere’’ per la metodologia applicata alla localizzazione della linea elettrica. La realizzazione di linee elettriche eco-sostenibili passa anche attraverso alcune soluzioni progettuali con spiccati accorgimenti ambientali, tali da consentire l’inserimento armonico delle nuove stazioni elettriche nel contesto paesaggistico attraverso interventi di ingegneria ambientale. E’ del giugno scorso la presentazione del progetto “Smart Islands” di Terna, quando è stato firmato un Protocollo d’Intesa tra Terna e il Comune dell’Isola del Giglio, il primo del suo tipo, con l’obiettivo di dotare il territorio dell’Isola di un sistema elettrico all’avanguardia in quanto più efficiente, smart, meno inquinante e più sostenibile. Il primato europeo di Terna nelle soluzioni Smart per la rete consentirà di ottenere importanti benefici dal punto di vista ambientale con un “sistema ibrido” che grazie all’introduzione d’impianti fotovoltaici e sistemi di accumulo, permetterà il dimezzamento del gasolio bruciato e l’abbattimento delle emissioni di CO2 fino a 4.000 tonnellate ogni anno. (ReEc)

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BANCA POPOLARE DI SPOLETO

LA GRANDE RIPARTENZA Germana Loizzi

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ata alla fine dell’Ottocento, la Banca Popolare di Spoleto, quotata a Milano dal 1996, dal primo agosto del 2014 è entrata a far parte del gruppo bancario Banco Desio. Al 31 dicembre scorso contava su una rete distributiva di 126 filiali con 915 dipendenti, grazie, anche, al conferimento degli sportelli della Capo Gruppo in Toscana e Lazio avvenuto il 1 aprile 2015. Il 2015 è stato l’anno della ri-partenza nella storia dell’istituto umbro. Prima di tutto ha segnato il ritorno all’utile: 6,4 milioni (nonostante il versamento di 5,1 milioni a Fondo di risoluzione, Sistema di garanzia dei depositi e Fondo di solidarietà) a fronte di una perdita netta di 35 milioni nel 2014, esercizio di soli cinque mesi. Il totale delle masse amministrate al 31 dicembre del 2015 risulta di circa 5,3 miliardi, segnando una crescita complessiva di 1,8 miliardi rispetto al fine esercizio 2014. La raccolta diretta ammonta a 3,4 miliardi (+0,8 miliardi in un anno), la raccolta indiretta a 1,9 miliardi (in crescita di un miliardo). Gli impieghi verso clientela si attestano a 3,3 miliardi (in aumento di un miliardo), le attività finanziarie risultano pari a 0,4 miliardi, il patrimonio netto ammonta a 256,3 milioni, registrando un incremento di 83,1 milioni rispetto al consuntivo 2014. Al 31 dicembre 2015 il coefficiente pa-

dimostrano i risultati del primo trimestre. L’utile netto nei primi tre mesi dell’esercizio in corso risulta di 3,7 milioni, il patrimonio netto di 258,7 milioni e i fondi propri di 249,9 milioni. La raccolta complessiva è stata di 5,3 miliardi di cui 3,4 miliardi di raccolta diretta. Sulle prospettive della Banca Popolare di Spoleto “Nuova Finanza” ha ascoltato il presidente, avvocato Stefano Lado. Ritiene arrivato al capolinea l’abbaglio d’inchiesta, com’è stato definito, che ha riguardato la Banca Popolare di Spoleto? Il primo incontro riteniamo che abbia avuto l’esito dovuto con la richiesta di archiviazione da parte della Procura. I querelanti hanno fatto opposizione nei termini e confidiamo che anche questa opposizione venga rigettata. Può delineare, sia pure a grandi linee, le mosse strategiche che muoveranno i passi della Banca Popolare di Spoleto nel breve-medio termine? Rafforzamento della Rete Commerciale per acquisire nuova clientela guardando con attenzione al futuro e alla sua digitalizzazione. Esistono ipotesi di crescita per la Banca Popolare di Spoleto? Nell’immediato siamo concentrati a proseguire con determinazione opStefano Lado, Presidente portunità di crescita

trimoniale Common Equity Tier 1 è risultato pari al 9,5 per cento, contro l’8 per cento al 31 dicembre 2014. Anche il Tier 1 è risultato pari al 9,5 per cento mentre il Total Capital Ratio è risultato pari al 9,8 per cento (a fronte dell’8,9 per cento al 31 dicembre 2014). Il risultato della gestione operativa alla fine dell’esercizio risulta pari a 63,4 miliardi con un incremento di 51,8 milioni di euro. La Banca Popolare di Spoleto ha cominciato bene anche il 2016, come

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commerciale sia per Banca Popolare di Spoleto che per il Gruppo. Ovviamente osserviamo i movimenti in atto nel mercato bancario. Quali sono i rapporti tra la Banca Popolare di Spoleto e le altre banche che operano nelle regioni del centro Italia? I rapporti con le banche a livello personale sono buoni ciò non toglie che la concorrenza soprattutto dei grandi gruppi impone dei sacrifici. Come giudica la riforma delle Popolari? Personalmente esprimo un giudizio positivo anche se non potrà avere impatti sulla Banca Popolare di Spo-

leto in quanto non più Popolare. Quest’anno la Banca Popolare di Spoleto ha riconosciuto il dividendo. Lo stacco della cedola è un episodio che si può qualificare una tantum oppure fa parte di una politica destinata a ripetersi nei prossimi anni? La speranza di distribuire dividendi è nella filosofia del nostro Gruppo, inoltre è un segnale di attenzione nei confronti degli azionisti e per Banca Popolare di Spoleto è una conferma della validità del nostro progetto industriale. Si è vociferato di fusione tra Banca Popolare di Spoleto e Banco Desio:

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è un progetto fattibile, anche se magari lontano nel tempo? Attualmente non è stata ipotizzata la fusione di Banca Popolare di Spoleto in Banco Desio. Ricordo che nel territorio vi è un forte attaccamento alla Banca e noi non possiamo che coltivare tale valore. Ho letto il 5 maggio scorso sulla Nazione dell’Umbria che la Banca Popolare di Bari aveva preso in considerazione l’acquisizione della Banca Popolare di Spoleto e la notizia ci coglie di sorpresa pur essendo motivo di orgoglio per noi, ma non abbiamo mai preso in considerazione, a soli due anni dall’acquisizione, tale ipotesi.


PANAMA, MILIARDI NASCOSTI

LOTTA ALLA FUGA DEI CAPITALI Renato Pedullà*

L

’argomento è ormai trito e ritrito. Dopo l’uscita della lista “Falciani” e l’introduzione in Italia della Voluntary Disclosure, la tematica dell’elusione, dell’evasione e del trasferimento di enormi ricchezze nei paradisi fiscali, sembrava trattata, analizzata e sviscerata in ogni sua forma. Ma in realtà quello che è uscito fuori dall’indagine effettuata, di concerto, da circa 400 giornalisti economici di tutto il mondo – 100 redazioni diverse – è un fatto più unico che raro, sia per le modalità dell’indagine, sia per l’entità della mole dei documenti analizzati, sia per l’impatto mediatico dei risultati, sconcertanti, scoperti. L’obiettivo dell’ICIJ ( International Consortium of Investigative Journalists) era quello di scoprire e dimostrare che il problema dell’evasione e del riciclaggio non fosse un problema di ogni singolo paese ma che invece fosse dell’intero Sistema. Come già evidenziato in un precedente articolo ( N.4/2015 Nuova Finanza) , l’Italia da parte sua ha fatto un grande passo avanti, nella lotta alla fuga dei capitali nei paradisi fiscali, con l’adozione della “ Voluntary Disclosure”, procedura con la quale si è dato a tutti gli evasori fiscali, l’opportunità pagando tasse e sanzioni, di mettersi in regola con le leggi fiscali dello Stato. Ma la pubblicazione dei Panama Papers è tutt’altra cosa, se non fosse altro per l’entità delle ricchezze nascoste delle nazioni, che si stima in 7.600 miliardi di

dollari, una cifra enorme superiore al PIL di Germania e Regno Unito messi insieme. La risposta a mio parere, immediata, ma ancora non convincente, a questo scandalo è una nuova piattaforma comune “ di regole e raccomandazioni” cui fanno parte l’ONU, la Banca Mondiale, l’OCSE, ed il Fondo Monetario Internazionale. L’indagine effettuata dall’ICIJ, ha dimostrato che lo Studio legale panamense Mossak Y Fonseca, ha potuto contare negli anni in un sistema complesso di connivenze. Da quando fu fondato nel lontano 1976, questo “ prestigioso” studio legale ha costituito più di 250.000 società anonime, di cui circa la metà registrate ed omologate nelle Isole Vergini, territorio dipendente dal Regno Unito. Alla scoperta di questo gigantesco “ buco fiscale mondiale”, è seguita una risposta, dei capi di governo nell’ultimo G20 di Washington, vaga, generica e con analisi ormai logorate e mai attuate, che hanno fatto ancora una volta rilevare la debolezza della governance globale nei confronti di fenomeni come l’evasione e il riciclaggio di denaro di fonte illecita. Il risvolto più triste di questa inchiesta

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è che la ricchezza scoperta nei paradisi fiscali, potrebbero generare non meno di 190 miliardi di dollari l’anno, in risorse da destinare alla collettività in cultura, educazione, sanità ed infrastrutture. Da qui il convincimento, che fin quando non si giungerà alla fatidica” armonizzazione fiscale“, le società e le persone si sposteranno sempre più verso il paese fiscalmente più vantaggioso e meno aggressivo. Ancora oggi, nel vecchio continente rimangono tante diversità, ci sono paese europei, come per esempio l’Irlanda ( prelievo fiscale al 30%), che risultano molto vantaggiosi per società e persone fisiche. Esistono ancora paesi come la Lituania, dove l’aliquota massima non supera il 21% e nei paesi UE, la Slovacchia, Cipro e l’Estonia si attestano su circa il 30%, mentre l’Italia si attesta ben solida, ancora con un elevato prelievo fiscale al 43,5 %. Sono convinto che dopo la scoperta del coinvolgimento allo scandalo dei vertici politici di Stati come la Cina, la Russia e l’Inghilterra, i vari Governi di comune accordo, dovranno mostrare da che parte stare, se con i cittadini, le società, i Trusth, le fondazioni e altre entità potenzialmente opache dei paradisi fiscali, o con quella vasta comunità che cerca di rendere più vivibile, sana e confortevole, la vita alla popolazione di tutti i continenti, soprattutto di quelli più poveri e malagiati. *Dottore Commercialista in Roma


I COMITATI LOCALI DELLA BCC DI ROMA

CREDITO E SUSSIDIARIETÀ

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entidue milioni di euro erogati per ben 27mila interventi di beneficenza e promozione a favore del territorio: questi i numeri che negli ultimi 15 anni hanno caratterizzato l’azione dei Comitati Locali dei Soci BCC Roma. Si tratta di un prezioso lavoro di collegamento tra la Banca e le aree in cui opera, ha ricordato il Presidente Francesco Liberati nel corso della riunione dei Comitati tenutasi lo scorso 9 aprile presso il Museo dell’Ara Pacis: “La responsabilità sociale per noi non è un fatto formale e vuoto, ma concreto e pieno di contenuti” I Comitati Locali dei Soci BCC Roma si confermano come prezioso collegamento, diretto e capillare, tra la Banca e i territori di riferimento, svolgendo un prezioso lavoro di sostegno a iniziative morali, sociali e culturali, in un dialogo fitto e costruttivo aperto ad associazioni, enti, parrocchie, pro loco e mondo del volontariato. Lo ha ribadito aprendo la riunione il Presidente BCC Roma Francesco Liberati, che ha ricordato come negli ultimi 15 anni siano stati erogati attraverso i Comitati contributi per un importo complessivo di oltre 22 milioni di euro, per ben 27mila mi- Il Presidente Francesco Liberati cro interventi sul territorio. Numeri significativi - ha proseguito Liberati - che ci consentono di compenetrare il territorio, attivando relazioni con le forze vive e moralmente impegnate che ne sono lievito e ricchezza sociale. Il legame della Banca di Credito Cooperativo di Roma con le proprie comunità, insomma, non è soltanto una prescrizione normativa, ma una scelta testimoniata da un costante e convinto impegno, ribadito di anno in anno. Attualmente sono operativi 23 Comitati Locali, che coprono tutte le aree in cui è presente la Banca: gli ultimi ad essere stati attivati sono i 3 dell’area dell’Alta Padovana, dove BCC Roma ha recentemente iniziato ad operare dopo l’acquisizione della ex BCC Padovana. I soci

componenti sono in totale 77. Più nel dettaglio, nel 2015 sono stati erogati 1.311.834 euro per 1.754 iniziative a sostegno di progetti di utilità sociale attraverso il Fondo per la Beneficenza e la Mutualità, che viene annualmente alimentato per decisione dell’Assemblea dei Soci con la destinazione di una parte degli utili della gestione. Inoltre, sono stati effettuati 848 interventi di sponsorizzazione sociale per un totale di 870.832 euro, in gran parte a favore di associazioni culturali e sportive, pro loco, circoli. Complessivamente, dunque, lo scorso anno sono stati erogati dai Comitati contributi per 2.602 iniziative in favore della collettività per 2.182.666 euro. Molti componenti dei Comitati sono giovani, alcuni appartenenti al Laboratorio Giovani Soci della Banca, ed è aumentato il numero della componente femminile, caratteristiche queste che verranno rafforzate ancora nel futuro, ha detto il Presidente Liberati. I Comitati dovranno continuare a gestire con efficacia le risorse assegnate, dando continuità a quello che per la nostra Banca è da quasi vent’anni un importante volano di immagine, promozione e impegno sociale. “Possiamo affermare con orgoglio - ha rimarcato il Presidente - che l’impegno per rafforzare la Banca non ci ha impedito di alimentare la solidarietà e ribadire la nostra propensione alla responsabilità sociale, propensione che per noi non è un fatto formale e vuoto, ma concreto e pieno di contenuti”. Il nostro sviluppo, ha concluso Liberati, nasce anche dal piccolo contributo dato ad un’associazione di volontariato che ha centinaia di iscritti, dal sostegno a una manifestazione popolare dove il nostro marchio è al centro dell’attenzione, da una raccolta di beneficenza a favore di un centro anziani. Per questo la rete sociale alimentata dai Comitati rimane strategica anche per il futuro. (Re.NF)

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ACCORDI DI UNIFORM ITALIA

DALLE SCARPE ALL’ELMETTO

Franco Antola

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a posta in gioco, in termini di business, è imponente: la fornitura agli eserciti di mezzo continente africano del vestiario completo, dalle scarpe all'elmetto. Un affare colossale che potrebbe aprire prospettive del tutto nuove, anche sul versante del trasferimento del know how, dell'innovazione, della formazione professionale e degli investimenti per nuovi poli produttivi in Africa. Il motore del progetto, che nelle scorse settimane ha visto una significativa accelerazione, la Uniform Italia srl, con i suoi stabilimenti di Brugnato (La Spezia), Ancona e in Romania. Il primo passo dell'azienda, leader in Italia nel settore del confezionamento delle divise per le forze armate, è la creazione di una joint venture con Simpotex Angola, la società di stato cui fa capo tutto l'import export del paese centroafricano. Il progetto, che ha l'avallo del ministero della Difesa, è stato presentato alla Spezia, con la partecipazione di altri rappresentanti istituzionali e dei vertici della Marina militare. La firma per il via operativo all'accordo dovrebbe essere imminente. A illustrare caratteristiche e potenzialità del progetto, l'ad di Uniform, Arnaldo Usai. In gioco non ci sono solo aspetti strettamente commerciali. Uniform è infatti coinvolta con il trasferimento di capacità industriale, competenze produttive e gestionali nello specifico settore della vestizione delle forze armate. La concorrenza ovviamente non manca, come ammette lo stesso Usai, e viene soprattutto da Cina e Portogallo. Il progetto più immediato passa attraverso il coinvolgimento da parte di Simportex, di uno stabilimento in Luanda che

diventerebbe il polo per la produzione esclusiva dell'abbigliamento militare angolano (le forze armate contano circa seicentomila uomini). Attraverso la cessione del know how (è prevista, allo scopo, la creazione di una società compartecipata) e l'ammodernamento del settore manifatturiero locale, l'obiettivo è lo sviluppo di una capacità produttiva in grado di rispondere alla domanda proveniente dalle quindici nazioni della Southem African Development Community (Sadc), una sorta di consorzio fra Stati africani di cui l'Angola coordina tutti i corpi speciali. Ad occuparsi della formazione del personale delle aziende locali sarebbe proprio Uniform. Il protocollo firmato ha ovviamente forti implicazioni politiche ed è per questo sostenuto in prima persona dal ministro Roberta Pinotti e, a livello parlamentare, dal senatore Massimo Caleo, vice presidente della commissione ambiente del Senato, oltre che, localmente, da istituzioni e organizzazioni sindacali. Sia Italia che Angola sono convinti della bontà della partnership, di cui si è parlato anche in occasione della recente visita alla Spezia di una qualificata delegazione africana. L'ad di Uniform, Usai, osserva come quella in gioco "non è solo una semplice commessa ma un progetto di scambio di tecnologia e sapere. Ogni anno l'Angola investe un milione di dollari per le uniformi e ad essa fa capo la governance delle forze speciali dei paesi che fanno parte della Sadc. In questo contesto lo stabilimento di Luana potrà diventare strategico". L'ambasciatore della Repubblica dell'Angola Florencio Mariano Da Conceicao De Almeida, richiamando la forte spinta

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alla modernizzazione del paese, dopo la sanguinosa guerra civile del 1975-2002, sottolinea i molti aspetti positivi dell'intesa ormai alle porte. "La collaborazione con Uniform - dice - sarebbe importante per il settore militare, ma anche per quello civile, passando dalle divise per l'esercito e la Polizia ai capi civili per compagnie aeree. Seguendo il progetto si partirebbe con il soddisfacimento del fabbisogno interno, senza avere più l'obbligo di importare le uniformi, per poi arrivare a esportarle nei Paesi limitrofi, andando a coinvolgere un bacino potenziale di 150 milioni di persone". E nel futuro potrebbero non esserci solo divise militari. "L'Italia - assicura De Almeida - è un partner strategico per noi: l'auspicio è che sempre più aziende italiane possano venire a trasferire le loro conoscenze in Angola, in tutti i settori. Oggi il gruppo Inalca opera nella filiera della carne, Uniform potrebbe entrare a far parte di quella dell'abbigliamento. E stiamo cercando un partner per la filiera del pesce". Nelle foto la firma dell'accordo fra Uniform Italia e il Gruppo Alsawari dello sceicco del Qatar Faisal Al Thani alla presenza dell'ex ministro ministro Federica Guidi (accanto a lei l'ad dell'azienda Italiana Arnaldo Usai)

Una fase della produzione in uno degli stabilimenti Uniform

LO SBOCCO IN QATAR Non c' è solo il fronte angolano nello scacchiere internazionale di Uniform. Dagli emirati arabi arriva infatti la notizia di un memorandum d'intesa sottoscritto tra l'azienda italiana e il Gruppo Alsawari dello sceicco del Qatar Faisal Al Thani. L'accordo è stato firmato alla presenza dell'ex ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, poi dimessasi dall'incarico governativo, ed è preliminare alla costituzione di Uniform Qatar, una joint venture per la produzione di vestiti e uniformi militari e civili in Qatar e nei mercati di Medio Oriente, Africa del Nord, Europa e altre regioni. L'investimento è valutato in 35 milioni di euro. Nel dettaglio, il memorandum stabilisce che il capitale di Uniform Qatar sarà al 40% di Uniform e al 60% del gruppo Alsawari; Uniform contribuirà con la sua expertise industriale, commerciale e tecnica nel settore manifatturiero mentre il gruppo Alsawari si occuperà della parte burocratica e di relazione con le autorità del Qatar. Non solo. E' prevista nel futuro la costruzione di una fabbrica per la produzione in Qatar. La vendita e la distribuizione degli indumenti, delle uniformi e degli accessori avverrà in tutti i Paesi della regione MENA. Tutto lascia pensare che l'accordo porterà ad un significativo aumento delle commesse per lo stabilimento di Brugnato, con importanti ricadute sui livelli occupazionali.

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IL GRUPPO GRAVINA

LA SICUREZZA NON È UN LUSSO Germana Loizzi

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a sicurezza non è un lusso. Né l’insicurezza il frutto di manie ossessive. Complice la caduta di secolari barriere educative, la diffusione delle droghe e l’immigrazione incontrollata, le persone e i beni privati sono sempre più a rischio. E se i numeri non sempre riportano l’idea dell’emergenza è perché molti cittadini sono sfiduciati e nemmeno denunciano più i reati. E se l’emergenza è comunque tenuta sotto controllo è merito principalmente di una branca della sicurezza colpevolmente sottaciuta: la vigilanza privata. Un settore che in Italia fattura 1,3 miliardi e occupa oltre 50mila ad-

detti professionalizzati. Un settore nel quale si va distinguendo sempre di più la romana ITALPOL, leader nella Capitale e presente in diverse realtà italiane. Una eccellenza che illustra a “Nuova Finanza” Giulio Gravina, direttore generale del gruppo, che guida con il fratello Francesco, fondato oltre quarant’anni fa dal padre Domenico, che oggi ne è presidente. Può farci uno spaccato di Italpol? Il gruppo ha un fatturato di circa cento milioni l’anno con un organico di oltre 2mila addetti altamente professionalizzati, tra personale armato e non. Dispone di oltre 150 veicoli ra-

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diocollegati, gestisce più di 3500 apparati di allarme per la piccola utenza e oltre 220 sistemi di sicurezza complessiva per la grande utenza, con migliaia di sistemi di videosorveglianza integrata. Utilizziamo anche dodici cani, Pastori tedeschi bene addestrati. Dove siete attivi? Il nostro gruppo è leader a Roma. Ma lavora in tutto il Lazio, Lombardia e Campania. Sta studiando l’espansione in Sardegna, Toscana e altre regioni. E, in realtà, offre i suoi servizi su tutto il territorio nazionale, soprattutto ai grandi gruppi. Nostri clienti sono, a esempio, Ferrovie dello Stato, Ericsson,


Ambasciata americana, Telecom, Alichiature sempre più sofisticate e uomini talia, ecc. Con loro operiamo da general sempre più addestrati e qualificati. In contractor: direttamente dove siamo questo momento solo gli istituti più presenti, altrove in joint venture con evoluti, dotati di elevate competenze altre società primarie e di grande affistrategiche, manageriali ed economiche, damento. di conseguenza più competitivi, sono In quali settori operate? E con quali in grado di resistere alla congiuntura modalità? negativa. Italpol ha una presenza a 360 gradi. Crisi a parte, che riguarda un po’ Opera nella vigilanza, fissa e mobile, tutti, a chi addebitare questa situanei servizi di ricezione, nel trasporto, zione? custodia e conteggio di valori, nelle telesorveglianza, nell’investigazione, nei presidi di osservazione e sicurezza, nel security engineering, nella consulenza. Offre una consulenza integrata che in sé rappresenta un servizio aggiuntivo al cliente il quale può porre le sue richieste a un solo interlocutore. Nel nostro gruppo opera un’azienda indirizzata esclusivamente alla progettazione di tecnologie dedicate alla sicurezza. La crescente richiesta di sicurezza starà facendo prosperare aziende come la sua… Per il settore, invece, non è Giulio Gravina, direttore generale un buon momento. Si registra una flessione dell’occupazione e una crescita della cassa inteA decenni di disinteresse della legislagrazione. A causa della crisi economica zione, della politica, dell’amministrae del taglio ai bilanci, pubblici ma zione pubblica. Solo nel 2011, con il anche privati, il nostro settore sta atDecreto Maroni, finalmente ci si è actraversando momenti difficili. Proprio corti di noi. Ma è un po’ tardi. Non è mentre servono investimenti cospicui facile competere con concorrenti che per rispondere alle nuove esigenze tecsono dei colossi e fatturano anche nologiche e alla necessità di apparecqualche miliardo di euro. E parlo pure

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di competitori spagnoli. Gli istituti oggi sono di fatto degli organi di polizia sussidiaria ma fino al 2011 dovevano richiedere una licenza per ogni provincia in cui operavano. Un’assurdità che ha favorito la frammentazione e il nanismo nell’epoca della competizione globale e delle frontiere aperte. E quando, finalmente, le nuove norme hanno preso atto di questa realtà, e dello svantaggio competitivo accumulato dalle imprese italiane, l’accelerazione è stata molto brusca. Le imprese hanno dovuto aggiornarsi e adeguarsi in tempi molto rapidi e non tutte ne avevano le potenzialità, manageriali ed economiche. Ma un settore come il nostro, così vicino alle esigenze dei cittadini e così collaborativo con le Forze dell’Ordine, meriterebbe maggiore attenzione, non solo per l’occupazione e il volume d’affari che garantisce. Sotto quale forma? Riconoscendoci per aziende che offrono servizi importanti e significativi per la collettività. Mi è piaciuto che il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, abbia impartito direttive agli enti pubblici perché scelgano i fornitori di servizi anche in base alla qualità oltre che al prezzo. Speriamo che alle parole seguano i fatti. Così come speriamo che al nostro settore vengano affidate sempre più mansioni ausiliarie, dopo il successo sperimentato negli aeroporti italiani.


IL TAX CREDIT CINEMATOGRAFICO

INVESTIRE NEL CINEMA, UN AFFARE Pietro Perugini*

A

nche se la vostra azienda svolge un’attività quanto mai lontana dal mondo del cinema, investire in un’opera cinematografica potrebbe essere una buona strategia. Innanzitutto per pagare meno tasse, grazie al credito d’imposta garantito anche a chi è completamente estraneo alla filiera cinematografica. Ma non solo: per avere anche un ottimo ritorno pubblicitario accompagnato magari da un buon guadagno. Vediamo perché. La legge finanziaria per il 2008 (n. 244/2007) ha introdotto in Italia un sistema di agevolazioni fiscali (c.d. tax credit), disciplinate dai decreti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 7 maggio 2009 e 21 gennaio 2010 e successive modificazioni ed integrazioni (da ultimo, la legge finanziaria 2016). Dette agevolazioni fiscali si rivolgono in una duplice direzione: interna ed esterna agli operatori del settore cinematografico, potendosi così individuare due tipologie di tax credit, il c.d. tax credit interno ed il c.d. tax credit esterno. Del primo, può usufruire direttamente

il produttore cinematografico: in breve, esso consiste in un credito di imposta pari al 15% da calcolarsi sul costo complessivo del film entro un ammontare massimo e previo rispetto di certe condizioni di spesa. Del tax credit esterno possono invece beneficiare tutti i soggetti che producono reddito di impresa fiscalmente residenti in Italia purché “esterni” al cinema: e cioè imprese che (i) non svolgono attività in alcun modo inerente a quella cinematografica o audiovisiva ovvero (ii) non appartengono allo stesso gruppo societario della produzione cui l’investimento è destinato. Dette imprese, in ragione dell’investimento effettuato, accederanno ad un credito di imposta (alla possibilità cioè di compensare debiti fiscali relativi ad Ires, Irpef, Irap, Iva, contributi previdenziali ed assicurativi) pari al 40% dell’apporto eseguito (se l’apporto fosse pari ad € 100.000,00, il credito di imposta di cui beneficiare sarebbe pari ad € 40.000,00). L’importo massimo annuo del beneficio fiscale consentito per ogni azienda, per ciascun periodo di imposta, è pari ad un milione di euro (investimento massimo annuo € 2,5 milioni), tenuto conto che gli apporti complessivi degli investitori esterni, per ciascun film, non devono superare il 49% del costo di produzione. Per espresso dettato normativo, il rapporto tra produttore ed investitore si instaurerà attraverso la stipula di un contratto di associazione in partecipazione o di cointeressenza agli utili (ai sensi degli artt. 2549 e 2554 c.c.) della

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durata obbligatoria minima di 18 mesi, in forza del quale: a) il produttore (associante): - avrà il potere di gestione dell’affare; - risponderà da solo delle obbligazioni assunte verso terzi per la realizzazione del film; - sarà obbligato al rendiconto nei confronti dell’investitore; b) l’investitore (associato): - apporterà la somma pattuita; - in virtù dell’apporto effettuato, avrà diritto a percepire una quota, contrattualmente determinata, dei proventi derivanti dallo sfruttamento economico dell’opera cinematografica. L’azienda “esterna” che avrà stipulato il suddetto contratto e che, quindi, avrà investito in un’opera cinematografica godrà di importanti benefici che, in sintesi, possiamo così riassumere: - potrà fruire di un credito d’imposta di entità rilevante (40%) che opera come una sorta di “ammortizzatore”, riducendo in modo considerevole i rischi di subire perdite dall’operazione; - avrà diritto di percepire una percentuale dei proventi derivanti da tutti gli sfruttamenti economici del film (non solo quindi dagli incassi cinematografici ma anche dalle vendite dei diritti alle emittenti televisive, dall’home video, da internet, ecc.); - potrà utilizzare prontamente il credito fiscale: esso viene infatti concesso entro 60 giorni dal deposito


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della modulistica per la richiesta da parte del produttore (che deve avvenire entro 90 giorni dalla consegna del montaggio definitivo del film); potrà fruire in via immediata del credito d’imposta che, una volta maturato, è facilmente monetizzabile con la compensazione sul modello F24 di imposte, contributi, Iva, ecc.; godrà di una tassazione agevolata del 5% sugli eventuali utili successivi al recupero dell’apporto; inoltre il credito di imposta è un ricavo non tassabile; non assumerà alcuna obbligazione nei confronti di terzi, essendo il produttore l’unico responsabile della produzione del film; pur non gestendo la produzione del film, avrà diritto a ricevere una puntuale rendicontazione dell’affare; l’estrema flessibilità del contratto di associazione in partecipazione consentirà, infine, di pattuire clausole che possano tutelare più specificamente l’investitore, tra cui percorsi privilegiati di recupero prioritario sugli incassi o possibili way-out.

Ma i vantaggi non finiscono qui. Oltre a rappresentare un’indubbia opportunità di investimento, il tax credit costituisce un formidabile veicolo di comunicazione di prodotti, servizi e di marchi di impresa. Il brand dell’azienda che investe apparirà infatti nei titoli di testa ed in

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tutto il corredo pubblicitario del film e verrà ad essere legato a tutta la comunicazione del film stesso. Potranno inoltre essere concordate con il produttore numerose attività di marketing (la distribuzione di materiale pubblicitario alle anteprime e alle proiezioni stampa, l’invito dei dipendenti alle anteprime, serate evento brandizzate, operazioni di cross advertising o cross promotion) ovvero di product placement (che, come noto, consiste nel collocamento di un marchio o di un bene di consumo all’interno delle scene di un’opera cinematografica a fronte del pagamento di un corrispettivo). A tale ultimo riguardo va precisato che l’attività di product placement può essere cumulata con l’investimento ai sensi del tax credit esterno, purché, in tale ipotesi, l’investimento nel film sia superiore al 10% del costo del film stesso. *Avvocato


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ontinua il nostro viaggio nel settore della Sanità. Questo numero di Nuova Finanza apre con l'intervista all'amministratore delegato di una tra le più importanti multinazionali del settore biomedicale. Sul tema della Ricerca Scientifica abbiamo coinvolto due grandi istituti italiani, con i contributi di due centri IRCCS oncologici, dal nord al sud Italia. Si parla dell'importanza della formazione professionale dei giovani medici con autorevoli commenti di grandi luminari. Parliamo ancora del prezioso contributo della chirurgia vascolare ed endovascolare per la nostra salute, e soprattutto della "cultura

della prevenzione" di queste patologie. Si discute di varici, curate con una delle tante tecniche mini invasive oggi disponibili, di un nuovo dispositivo benefico per la cura dell'angina refrattaria e di un altro passo avanti per la cura delle malattie coronariche con uno stent riassorbibile. In chiusura un intervista esclusiva al nuovo presidente dell' Asfo, Associazione Fornitori Ospedalieri, per approfondire il sottile legame tra salute, etica e lavoro. Con l'auspicio di ottenere un maggior coinvolgimento sociale su tematiche che reputiamo di fondamentale importanza per i nostri lettori e non solo. KB

LE NOSTRE INTERVISTE

INDUSTRIA DELLA SALUTE

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affaele Stefanelli è amministratore delegato di Boston Scientific Italia da luglio 2013. Dottor Stefanelli, Boston Scientific ha annunciato di avere ottenuto il marchio CE per il nuovo stent vascolare a rilascio controllato di farmaco Eluvia e di averne intrapresa la distribuzione in Europa e negli altri Paesi in cui il marchio CE viene riconosciuto. Quali ricadute scientifiche, sanitarie e industriali può avere per l’Italia questa innovazione? -Analizziamo i tre aspetti, uno ad uno. Cominciamo dall’impatto scientifico. Ogni innovazione può essere in qualche

modo paragonata a una locomotiva, aiuta gli “uomini di scienza” ad andare oltre quanto scoperto e a generare nuove innovazioni incrementali, è una sorta di nuovo punto di partenza. Pensiamo, a esempio, all’ evoluzione dei materiali, alla loro lavorazione, allo studio di polimeri adeguati per un idoneo rilascio del farmaco. Sono tutte conoscenze trasversali tra diversi ambiti scientifici e totalmente trasferibili a favore del progresso della scienza nel suo insieme. Detto ciò, l’impatto fondamentale di Eluvia è sicuramente sanitario: Eluvia potrebbe salvare 180-360 mila persone dalla “claudicatio intermittens” e 3600-7200 Italiani da un’am-

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putazione. Basi per queste stime: le stenosi e occlusioni dell’arteria femorale superficiale sono il risultato di una malattia vascolare periferica che interessa ben il 3% della popolazione mondiale e che espone il paziente al rischio di complicazioni gravi tra cui infezioni e, addirittura, amputazioni dell’arto inferiore. I benefici clinici sono inevitabilmente connessi ad un miglioramento di efficienza economica del sistema sanitario e a risparmi, stimati in due miliardi di euro, sulla base di studi statunitensi, mancandone in Europa, per il nostro Paese, dovuti principalmente alla prevenzione dei re-interventi. L’allungamento della vita media della popolazione comporta una maggiore necessità di prodotti biomedicali? E si può arrivare, in futuro, a una sensibile riduzione del costo dei “medical devices”? In effetti, con il prolungamento della vita media e il conseguente aumento della popolazione globale, il problema della spesa sanitaria è sempre più pressante sui governi. Ricordiamo che questa spesa assorbe circa l’80% dei budget regionali. In questo ambito, sebbene la spesa globale per dispositivi possa aumentare, il costo per persona per anno diminuisce, progressivamente, per tre motivi fondamentali. Il primo. Il “technological boom” non ha fine. Quelli che oggi sono trattamenti innovativi, saranno sempre meno costosi nel tempo in quanto “superati” da tecnologie più innovative. Per questo è importante ammortizzare nel breve termine il costo di Ricerca & Sviluppo, perché dopo un breve lasso di tempo questo vantaggio competitivo sarà velocemente perso. Alcuni dispositivi medici, nel tempo, diventano commodities, come parte del normale ciclo di vita di un prodotto. Lo si vede anche in mercati più “consumer”: i primi cellulari avevano costi proibitivi, oggi fanno parte del quotidiano di chiunque. Per tornare all’ambito dei dispositivi medici, un buon esempio è offerto dallo stent coronarico. I primi stent metallici “nudi” – ovvero non ricoperti - furono commercializzati negli anni ‘80; allora i costi per sviluppare, produrre e diffondere nel mercato la tecnologia erano elevati; da qui un alto prezzo di vendita. 20 anni dopo, nel secondo millennio, Boston Scientific ha lanciato il suo primo stent medicato, Taxus, nel 2004. Oggi, dopo 10 anni, gli stent sono quasi

una commodity e il prezzo si è drammaticamente ridotto a circa un quarto. Per questa ragione, una delle principali aziende competitor ha abbandonato il mercato, proprio perché non interessata a commercializzare commodities con margini irrisori. La tecnologia nel nostro settore evolve molto rapidamente e molte delle innovazioni di oggi saranno, domani, quasi beni “comuni”, almeno fintanto che il progresso continuerà e sarà sostenibile anche per le aziende. Vi è un continuo progresso sia nella scienza dei materiali che nelle tecnologie di produzione, per cui anche queste voci riferite ai costi di produzione avranno un impatto decrescente nel tempo. Per esempio, il recente utilizzo della stampa 3D consente all’industria produttrice una grande adattabilità e molti risparmi. Considerata la forte riduzione della spesa sanitaria, come pensa si possano conciliare la crescente innovazione tecnologica spinta e la sostenibilità economica dei nuovi ritrovati?

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Eccellente domanda. Direi che la risposta si potrà, forse, trovare nella nuova Direttiva per gli acquisti, che pare incentivare una prospettiva più olistica e porre l’accento sugli esiti del trattamento per il paziente. Nel febbraio 2014 il Parlamento europeo ha infatti approvato la Direttiva 2014/24/EU sugli appalti pubblici. La Direttiva punta a migliorare l’approvvigionamento, promuovendo la qualità e l’innovazione e tenendo conto al tempo stesso non solo dei costi, ma dell’impatto economico a lungo termine. Essa è stata appena recepita anche dal nostro governo. Per garantire la sostenibilità economica dei nuovi ritrovati, è importante questo approccio innovativo al public procurement. Nello specifico, Boston Scientific intravede grandi spazi di efficientamento della spesa pubblica considerando il costo del device lungo l’intero ciclo di vita del prodotto. Questo potrebbe aiutare a valorizzare elementi come la longevità delle batterie dei defibrillatori impiantabili. Si consideri che, in Italia, ogni anno vengono eseguiti più di 45mila impianti di pacemaker o defibrillatori;

tuttavia, uno dei parametri che non sempre viene correttamente considerato e valorizzato è quello relativo alla longevità di questi dispositivi, intesa come durata della loro batteria. A fronte del progressivo invecchiamento della popolazione, è importante disporre di dispositivi più longevi, in quanto consentono di ridurre il numero delle sostituzioni e, conseguentemente, il rischio di complicanze. La longevità del dispositivo è un elemento di valutazione strategico per le strutture sanitarie che effettuano gli impianti, ma l’argomento tocca concretamente e da vicino anche i pazienti. E’ provato, infatti, che il 70% dei pazienti impiantati necessita di almeno una sostituzione nel giro di pochi anni e il 40% di almeno due. Una maggiore longevità dei dispositivi comporta, quindi, un minor numero di sostituzioni con vantaggi evidenti non solo in termini di riduzione dei rischi, ma anche economici. Diviene quindi evidente la difficoltà imposta dal cosiddetto “strabismo decisionale”, implicitamente imposto a chi amministra la spesa pubblica. Qui, oltre al necessario controllo dei costi nell’immediato aspetto che caratterizza un Sistema sanitario focalizzato esclusivamente sulla riduzione (lineare) della spesa pubblica spetta anche il compito di considerare la valorizzazione dell’impegno in Ricerca & Innovazione in fase di acquisizione del bene, come stimolo alla qualificazione dell’offerta e garanzia della qualità di vita dei cittadini. A proposito di innovazione, quali sono i fattori trainanti delle politiche aziendali nella ricerca e lo sviluppo del suo Gruppo nel nostro Paese? Direi che, per Boston Scientific, porre il paziente al centro delle decisioni non è soltanto uno “slogan”, ma un vero mandato. In ogni decisione, consideriamo sempre l’impatto delle soluzioni proposte sui pazienti, per essere coerenti alla mission aziendale: “Boston Scientific trasforma la vita dei pazienti mediante soluzioni mediche innovative che migliorano la salute delle persone in tutto il mondo”. Fortunatamente, in questo esiste un punto di potenziale sinergia con gli stakeholder istituzionali, perché abbiamo obiettivi comuni: è costante per entrambi la ricerca di soluzioni che garantiscano le migliori performance diagnostico-assistenziali, a partire da quei settori terapeutici che interessano fasce rilevanti della popolazione, incidendo significativamente sulla spesa. Si pensi, ad esempio, all’ambito cardiovascolare.

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Ritiene che i risultati in termini industriali della Ricerca & Sviluppo finanziata dalle imprese potrebbero essere accresciuti da interventi pubblici a livello normativo, sia pure a costo zero? Certamente. Ricerca e innovazione sono i “prerequisiti” per mettere a disposizione di medici e pazienti soluzioni diagnostiche e terapeutiche sempre più efficaci. Dall’altro lato, buoni risultati finanziari sono i “prerequisiti” per ricerca e innovazione, poiché i fondi allocabili in R&D derivano dal fatturato. Boston Scientific nel 2015 ha investito a livello globale il 12% del fatturato per R&D, ovvero poco meno di un miliardo di dollari. Più guadagniamo, più possiamo investire. Non esiste innovazione senza ricerca, e la ricerca non è possibile se l’azienda non ha un sano guadagno. Sulla base di questa equazione, esistono una serie di manovre che colpiscono il nostro settore che andrebbero a nostro avviso riconsiderate, perché disincentivano le multinazionali a inve-

stire nel nostro Paese. Si considerino, a titolo di esempio, il meccanismo del payback e le gare al prezzo più basso, accompagnate dalla rinegoziazione dei contratti. Colgo l’occasione per ricordare che, se e quando il payback venisse applicato, le aziende del settore si troverebbero a devolvere allo Stato una somma pari a 354 milioni per il 2015, retroattivamente, e 471 milioni, stimati, nel 2016. In merito alle gare e alle rinegoziazioni, si consideri che nel nostro settore si è osservata una riduzione dei prezzi di vendita del 25% negli ultimi sette anni. In altri termini, le imprese sono costantemente sotto la pressione di dover diminuire i prezzi per poter garantire i volumi di vendita, ma questo modello non è sostenibile per l’innovazione tecnologica. Come azienda, siamo in costante dialogo con le Istituzioni sia per spiegare l’impatto devastante di tagli esasperati, sia per proporre la definizione di nuovi approcci che consentano di sfruttare al meglio le potenzialità del nostro sistema. Ka.Bo.

BOSTON SCIENTIFIC: L’AZIENDA Boston Scientific (quotata al New York Stock Exchange: BSX) è una società internazionale che sviluppa, produce e distribuisce dispositivi medici in tutto il mondo. Il Quartier Generale è a Marlborough (MA-USA), mentre sedi distaccate sono a Parigi e a Singapore. E’ tra le prime 15 aziende del mondo nel settore dei dispositivi medici, con un fatturato 2015 di 7.477 milioni di dollari e 25.000 dipendenti. Da oltre 35 anni, Boston Scientific è tra le aziende leader nella produzione di dispositivi per "procedure minimamente invasive”, settore che attraverso l’innovazione scientifica e tecnologica offre un’alternativa alla chirurgia tradizionale. L’Azienda opera prevalentemente nei settori: Aritmologia ed elettrofisiologia; Cardiologia interventistica e strutturale; Interventistica periferica; Endoscopia; Urologia e cura del Pavimento Pelvico; Neuromodulazione. Boston Scientific investe a livello globale il 12% del fatturato per R&D (dato 2015). Ha al suo attivo più di 16.000 brevetti concessi e oltre 6500 in corso di definizione, è presente

in 100 paesi, ha 18 stabilimenti di produzione e Centri di formazione all’avanguardia per medici in Germania, Francia, Cina, Giappone, USA. L’Azienda è presente nel nostro Paese come Boston Scientific S.p.A, con sedi a Milano e Genova. Nel 2015, ha registrato un fatturato di 205.6 milioni di Euro, pari a circa il 3,6% del fatturato mondiale e al 15,1% del fatturato Europa. Le divisioni a maggior fatturato sono : Aritmologia; Elettrofisiologia; Cardiologia Interventistica e Strutturale. I dipendenti sono 279; il 48% è costituito da donne, molte delle quali in posizioni manageriali, un fattore che testimonia l’attenzione dell’azienda al mondo femminile. Boston Scientific è attualmente fornitore di 630 Ospedali in Italia, di cui 450 pubblici (73% del fatturato) e 180 privati (17% del fatturato). Il 10% del fatturato viene effettuato tramite distributori e service. L’Azienda è iscritta all’associazione di categoria Assobiomedica.

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ONCOLOGIA IN BASILICATA

CROB, I POLI DI ECCELLENZA

I

l Centro di Riferimento Oncologico di Basilicata è Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico per la disciplina di oncologia dal 10 marzo 2008, tra i tre poli oncologici a carattere scientifico del Mezzogiorno. Dalla città di Rionero in Vulture e dalla storia delle Comunità del Vulture-Melfese con cui rivendica l’indissolubile legame di appartenenza, il Crob è patrimonio della Basilicata e di tutti i cittadini lucani e nel perseguire, con standard di eccellenza, le finalità di ricerca prevalentemente clinica e traslazionale in campo biomedico, farmacologico e dell’organizzazione e gestione dei servizi sanitari unitamente a prestazioni di ricovero e cura di alta specialità, intende confrontarsi sul piano della qualità, della ricerca e dell’assistenza con le più accreditate strutture italiane ed europee impegnate nel campo dell’oncologia. L’Irccs Crob, polo hub della rete oncologica regionale, dall’11 giugno 2015 è Clinical Cancer Center accreditato dell’Organizzazione Europea degli Istituti contro il Cancro (Oeci), ed è ospedale women friendly riconosciuto dall’Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna (ONDa) che ha attribuito all’Istituto il massimo riconoscimento dei tre bollini rosa. Il 21 marzo scorso il Crob è approdato a Palazzo Montecitorio dove è stato insignito dalle mani del ministro alla Salute, Beatrice Lorenzin, del premio “Amministrazione, cittadini, imprese” assegnato dall’associazione nazionale Italiadecide alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini, del ministro della Funzione Pubblica Marianna Madia. La commissione che ha attribuito il premio è presieduta dal dirigente pubblico e privato Vito Gamberale il quale ha parlato del Crob come di “un virtuoso esempio del nostro Mezzogiorno, una struttura piccola, ma assolutamente simbolica come efficacia, impegno e risultato. Ha una significativa incidenza di ricercatori e una grande e avanzata attenzione

al paziente: questo significa che il Sud può essere uguale al Nord”. “E’ un Irccs del Sud Italia dove si fanno grandissime cose e ha un impact factor notevole” ha poi commentato il ministro Lorenzin. Tra le motivazioni del premio: il riconoscimento dell’Autorità Nazionale Anticorruzione che ha certificato la totale trasparenza delle operazioni relative agli obblighi di pubblicazione e il progetto “Assistenza specialistica oncologica in telemedicina e Teleconsulto Infermieristico”. Si tratta di un progetto che dà attuazione ad una delle direttrici fondamentali seguite dall’Istituto: quella della umanizzazione delle cure. Il progetto di telemedicina, infatti, consente al paziente oncologico, che è un paziente fragile, di essere seguito dove risiede dagli stessi specialisti che lo hanno avuto in cura presso l’ospedale tramite videoconferenze e la condivisione di informazioni, anche multimediali, per mezzo del web ed in alta qualità con i medici di medicina generale, gli operatori dell’Adi, della riabilitazione e gli specialisti ambulatoriali. Inoltre, facendo proprio lo slogan del Forum sulla sanità digitale “meno file più files” è stato avviato il progetto di informatizzazione del rischio clinico e qualità “Un percorso verso l’eccellenza”. Grazie ad un percorso di sanità digitale il progetto tende al miglioramento continuo sia della sicurezza, per il paziente, per i visitatori e per gli operatori, che della qualità delle prestazioni, delle performance e della soddisfazione di tutti i portatori di interessi a partire dagli utenti. Con questo progetto la direzione dell’Istituto ha tracciato una rotta verso una salute universale, equa e sostenibile sul consolidamento della “via digitale” alla sanità. Un altro risultato impor-

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tante è stato appena raggiunto. Infatti, lo scorso 13 aprile il Registro Tumori regionale tenuto dall’Irccs Crob è stato accreditato dall’Associazione Italiana Registri Tumori (AIRTum). Il Registro Tumori di Basilicata a differenza di molti altri Registri Tumori italiani è un registro di popolazione generale, ovvero, raccoglie i dati relativi a tutti i tumori maligni dei residenti in Basilicata. Il primo anno di pubblicazione dei dati è il 2015, e la pubblicazione dei dati 2012 fa del Registro Tumori di Basilicata uno dei più aggiornati a livello nazionale. Guardando al prossimo futuro la direzione dell’Istituto sceglie quale azione strategica lo sviluppo di un esplicito sistema di sicurezza dell’assistenza sanitaria attraverso

le attività promosse dal Dipartimento della Clinical Governance in conformità al manuale “Proposta di modello di accreditamento delle strutture ospedaliere” pubblicato da Agenas a supporto delle Regioni nel processo di adeguamento ai nuovi requisiti di accreditamento. La volontà della direzione è ancora quella di sostenere e diffondere un clima di fiducia e promuovere una cultura proattiva dei rischi e del miglioramento continuo della qualità, tale da porre il Crob come punto di riferimento privilegiato della domanda di salute dei cittadini, garantendo loro sicurezza e qualità nell’offerta dei servizi sanitari. Direttore Generale Giuseppe Nicolò Cugno

LA RICERCA AL CROB Le attività scientifiche del Crob sono condotte da circa 60 ricercatori nell’ambito di 4 linee di ricerca corrente rispettivamente dedicate: ai tumori solidi, alle neoplasie ematologiche, alle grandi tecnologie diagnostico/terapeutiche e agli aspetti epidemiologici e della qualità di vita e delle cure. All’interno di esse sono stati sviluppati oltre 100 progetti, mentre sono 3 i programmi di ricerca finalizzata (due proposti da giovani ricercatori) coordinati dall’Istituto e selezionati nell’ambito di bandi competitivi nazionali. Nel periodo 2008-2015 sono state attivate oltre 260 sperimentazioni cliniche, con un arruolamento complessivo di circa 4.300 pazienti, fra questi: studi di fase 1, alcuni importanti trials che vedono l’Istituto come centro coordinatore e la collaborazione alla stesura di linee guida nazionali e internazionali. I laboratori di ricerca occupano un’area di circa 1600 mq e sono dotati di strumentazioni d’avanguardia, in particolare nel campo della citofluorimetria multiparametrica, della diagnostica citogenetico-molecolare e della genomica, con disponibilità di tecnologie NGS. I ricercatori del Crob hanno ad oggi pubblicato più di 500 articoli scientifici quintuplicando nel 2015, con circa 400 punti di impact factor prodotti e 97 lavori, i risultati ottenuti nel 2008 anno del riconoscimento in Irccs. Numerose sono state le collaborazioni con Università e Istituti di Ricerca. Particolarmente prestigiose quelle recentemente attivate con la Cornell University di New York e la Harvard Medical School di Boston. I dati ministeriali sottolineano come il Crob si posizioni al di sopra della media dei 49 Irccs italiani per quanto riguarda importanti parametri di valutazione dell’attività scientifica, quali il numero di citazioni per articolo (il citation index pesato) e l’Impact Factor per ricercatore. 5 sono i progetti finanziati dal Ministero della Salute in “Conto Capitale” per tecnologie innovative. 2 sono operativi e riguardano l’HiFu (High intensity Focused ultrasound) per il trattamento di lesioni tumorali localizzate, e la Tomosintesi per la diagnosi precoce delle neoplasie mammarie. Sono inoltre in fase di realizzazione 3 nuove piattaforme tecnologiche dedicate allo studio delle cellule tumorali circolanti (la cosiddetta “biopsia liquida”), ad analisi morfologiche avanzate in microscopia confocale e alla creazione di un network nazionale di genomica computazionale per la medicina personalizzata nell’ambito degli Irccs oncologici italiani. Direttore Scientifico Pellegrino Musto

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ONCOLOGIA IN VENETO

IOV, AI VERTICI EUROPEI Piero Cioffredi

“U

n segreto ben tenuto”. Così gli auditor della Organization of European Cancer Institutes (OECI) hanno definito l’Istituto Oncologico Veneto (IOV) IRCCS in occasione della peer review del settembre 2014 per il conferimento del prestigioso certificato di “Comprehensive Cancer Center”, di cui lo IOV potrà fregiarsi fino al 2020. Poche parole che ben riassumo la vicenda di questo polo specialistico, voluto dalla Regione nel 2005 e cresciuto così rapidamente da essersi già ritagliato un ruolo di spicco nel panorama nazionale e continentale. Lo ha fatto senza clamore. Nessuna poderosa campagna di comunicazione, ma un lavoro quotidiano, orgogliosamente a testa bassa, che lo ha portato ai vertici nazionali per produttività scientifica (+37% negli ultimi 3 anni, con un Impact factor normalizzato 2016 superiore ai 1.000 punti) e qualità dell’assistenza. Dell’apprezzamento di quest’ultima danno un preciso riscontro le devoluzioni, in crescita, del 5 per mille (il CF dello IOV è 04074560287), che nel 2014 sono state pari a 1 milione 436 mila euro, facendo dello IOV una delle istituzioni venete più amate, con quasi 30 mila scelte. Del resto, l’Istituto è in piena attività: nel 2015 ha registrato 2.354 interventi chirurgici, 4.479 accessi in Day hospital/Day surgery, 2.621 dimissioni da ricovero ordinario, 77.858 visite, 42.265 prestazioni di radiologia, 18.057 prestazioni di senologia, 46.531 trattamenti di radioterapia. Nel fornire tali prestazioni lo IOV privilegia, secondo una prassi ormai consolidata, un approccio di tipo multidisciplinare, con numerosi team già attivi. La sede dello IOV, l’ospedale Busonera di Padova, costruito nel 1935 per il trattamento medico e chirurgico della tubercolosi polmonare, fin dalla fondazione dell’IRCCS è oggetto di importanti ristrutturazioni per adeguamenti normativi e funzionali. Al terzo piano sono state ricavate le sale operatorie, al secondo arriveranno a breve le degenze oncologiche – previsti 43 posti letto – oggi nell’edificio Radioterapia, situato preso la vicina Azienda Ospedaliera. ll Day Hospital oncologico è stato rifatto due anni fa allestendovi la “stanza rosa”: «Lo IOV – spiega il Direttore Generale, dott.ssa Patrizia Simionato – ha sempre riservato una speciale attenzione alle patologie oncologiche femminili e

alle esigenze delle pazienti, valorizzando la loro centralità rispetto ai team di specialisti che le prendono in carico. Grazie alle molteplici iniziative a misura di donna – tra le quali grande curiosità sta riscuotendo la sfida di partecipare alla prossima maratona di New York di 12 nostre pazienti e 3 medici della Breast Unit – l'Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna ha assegnato allo IOV, per la quarta volta consecutiva, i tre “bollini rosa”, massimo riconoscimento». Nel DH l’obiettivo primario della direzione è ridurre l’attesa per la somministrazione della chemioterapia. «Si è appena conclusa la fase sperimentale del nuovo modello organizzativo: ora la poltrona viene assegnata già alla prenotazione. Imminenti sono pure l’ampliamento del parcheggio, l’installazione di una nuova segnaletica esterna e interna e il rifacimento del sito internet». L’impegno del continuo adeguamento del Busonera non ha impedito allo IOV – unico IRCCS oncologico pubblico del Veneto – di divenire il riferimento fondamentale per la definizione delle linee di programmazione regionale. Dal 2013, in particolare, lo IOV è sede del coordinamento della Rete

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Oncologica Veneta (ROV) che raggruppa le 23 oncologie della regione e ha già predisposto 10 Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali (PDTA), su un totale di 15, per altrettante patologie oncologiche. Accanto alla cura, l’altro pilastro dello IOV è ovviamente la ricerca, senza la quale, come recita lo slogan dell’Istituto, non può esserci cura. La già ricordata produttività scientifica al top si è tradotta in un aumento, in controtendenza, del finanziamento di ricerca corrente del 33,5% nell’ultimo triennio. L’attività di ricerca si sviluppa secondo quattro linee (cancerogenesi e modelli pre-clinici; medicina oncologica personalizzata e terapie innovative; approccio multidisciplinare alla malattia oncologica avanzata; appropriatezza, percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali e programmi di rete) che rappresentano un continuum che inizia in laboratorio e si posiziona poi sull’interfaccia clinica/laboratorio, sull’approccio razionale alle neoplasie avanzate e, infine, sulla verifica dei risultati dei PDTA attuati. «Le linee – spiega il Direttore Scientifico dello IOV, prof. Giuseppe Opocher – raccordano strettamente il lavoro del-

l’oncologo molecolare e dell’oncologo clinico e sono le premesse per cogliere le grandi sfide dell’oncologia: la genomica dei tumori e l’immunologia del cancro. Due temi, questi, apparentemente distanti ma in realtà fortemente interconnessi e che, in un futuro prossimo, ci permetteranno di praticare un’oncologia di precisione. Ogni tumore, infatti, dal punto di vista molecolare è diverso da un altro e richiede un approccio clinico e un trattamento tagliati su misura». L’istituto Oncologico Veneto è preparato a questa sfida perché dispone di oncologi sperimentali e immunologi di grande professionalità, tradizione e visibilità internazionale sui fattori causali esogeni ed endogeni dei tumori. È, inoltre, presente un folto gruppo di oncologi medici e chirurghi di consolidata esperienza clinica e sperimentale sul tumore di mammella, ovaio, tratto gastroenterico, rene e vie urinarie, sistema nervoso centrale e del melanoma. La Familial Cancer Clinic studia il rischio genetico del tumore, un’attività di oncologia traslazionale che vede il risultato dell’analisi del DNA trasferito alle modalità di trattamento e follow-up del paziente. «Nel 2013 – prosegue Opocher – è stata avviata un’intensa attività di raccordo tra il ricercatore clinico e quello biomedico favorendo, attraverso la leva del 5 per mille, la formazione di progetti di oncologia traslazionale a ponte tra le due professionalità. Abbiamo diversi progetti sulla genomica, grazie ai quali l’obiettivo di fornire a ogni paziente, al momento della prima vista oncologica, la carta d'identità molecolare del tumore, non è più così lontano». Avanguardistico è pure il progetto sull’analisi del DNA circolante e delle cellule tumorali circolanti come fonte di informazioni fondamentali per prevenire le metastasi e adeguare il trattamento. Nell’immunologia del cancro, la sfida raccolta dallo IOV è sulla caratterizzazione di biomarcatori in grado di predire la risposta a un particolare farmaco immunologico, oltre che sul trattamento di molte diverse neoplasie: il primo trial mondiale sul trattamento con farmaci immunologici del tumore “triplo negativo” della mammella è coordinato da oncologi dello IOV.

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MEDICI, PREPARATI ALLE NUOVE SFIDE

LA FORMAZIONE È STRATEGICA Carlo Setacci* Domenico Benevento*

L

a professione medica è al centro di grandi mutamenti sociali ed economici, con il ruolo di mediazione tra aumentata domanda di salute e l’esigenza di ridotta offerta sanitaria. L'attuale contesto socio-culturale è caratterizzato da: - modifica del rapporto con il paziente in cui, oltre al medico, sono coinvolti altri stakeholder quali le organizzazioni sanitarie, i decisori politici e le altre professioni sanitarie. - tecnologizzazione delle prestazioni di cura con significative ricadute economiche. - grandi transizioni epidemiologiche, demografiche e culturali della medicina con conseguente necessità di ridefinire la prassi medica e il patto sociale con la collettività. La professione medica in questo contesto manifesta inadeguatezze legate alla sua formazione, al rapporto medico-paziente, al paziente stesso con trasformazione della figura tradizionale di "beneficiario" che diventa utente consapevole e titolare di diritti. La medicina è una vocazione in cui la conoscenza, le competenze cliniche e le decisioni del medico sono messe al servizio della tutela e del ripristino del benessere umano. L'obiettivo della formazione dei giovani medici è quello di colmare il divario tra abilitazione alla professione e il suo esercizio pratico. Il medico dovrà saper interpretare i bisogni del paziente, contribuire a ridefinire una nuova identità professionale autonoma e responsabile: do-

vrà confrontarsi con le problematiche del post-welfarismo, in quanto qualsiasi atto medico dovrà essere deciso con il criterio della convenienza clinica, sociale ed economica; dovrà considerare l'organizzazione parte in-

una professione adeguata ai tempi; sino ad ora si è considerato il medico quale figura professionale invariante, pensando di conseguenza alla formazione come suo aggiornamento. La formazione medica italiana è fra

tegrante della sua operatività e il suo agire dovrà essere orientato alla cultura della responsabilità sia in ordine agli obiettivi da raggiungere che ai mezzi da impiegare. Definire una nuova formazione, nell'attuale contesto, significa pre-figurare

le migliori e questo è un dato oggettivamente acquisito: i nostri medici sono sempre più spesso reclutati all'estero con risultati di carriera eccellenti, il nostro Servizio sanitario nazionale (Ssn) è fra i migliori del mondo, la ricerca clinica è al top

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globale e modelli formativi delle professioni dell'area sanitaria danno risultati così positivi e altre professioni tecniche si propongono di imitarli. Tuttavia anche un modello perfetto è perfettibile, la figura del medico di

medicina generale, come parte essenziale del corpo docente per l’esame di stato, si configura come garanzia di pluralità della formazione in grado di assicurare un ruolo moderno al giovane medico, indicando la strada migliore in termini di indicazioni

cliniche, di appropriatezza prescrittiva e sostenibilità delle risorse. La formazione rappresenta oggi uno strumento strategico al fine di definire il ruolo e l'identità del medico; è opportuno ripensare il modello nozionale, definendo un’altra tipologia di professionista, disegnando un modello formativo più appropriato, per adeguarlo ai cambiamenti di riferimento, pertanto mentre fino ad oggi la formazione medica era appannaggio delle sole università, da ora in poi deve essere configurata come rete formative attraverso l’individuazione di ospedali di insegnamento di assoluta eccellenza e parametrabili con i criteri dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario (Anvur), utilizzando però quanto già previsto dal Decreto interministeriale 68/2015 che solo un anno fa ha riordinato i percorsi formativi delle scuole di specializzazione di area medica. In particolare, l'articolo 3, comma 4, del suddetto Decreto interministeriale, prevede l’obbligatorietà della rete formativa con l'unica precisazione che le strutture e i docenti del Ssn, indicati dalle Regioni, siano valutati secondo indicatori di performance e di qualità come le sedi universitarie. Rimane forte il dubbio che, in tale prospetto formativo, il medico in formazione specialistica possa essere utilizzato per supportare carenze di organico e creando sperequazioni economiche, assicurative e formative, come affermato recentemente dal Consiglio universitario nazionale (Cun).

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Carlo Setacci

La formazione post laurea è un periodo unico e irripetibile nella vita di un medico. Ne plasma la professionalità e ne definisce le competenze “core” che lo guideranno nell’esercizio della professione. È auspicabile che l'Osservatorio della medicina specialistica determini rapidamente requisiti, standard di docenza, di struttura e di casistica e, soprattutto, indicatori di performance che consentano di identificare le sedi universitarie meritevoli di rimanere attive e le parti del Ssn adeguati per la rete formativa, evitando di spingere per l’uscita degli specializzandi dal circuito universitario dove si acquisiscono non solo le "conoscenze e abilità manuali", ma anche la "capacità critica" per affrontare quarant'anni di professione in un mondo in continua evoluzione. * Il professor Carlo Setacci è presidente del Collegio dei professori ordinari di chirurgia vascolare. *Il dottor Domenico Benevento è docente di scuola di specializzazione in chirurgia vascolare - Siena.


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MALATTIE CORONARICHE, PASSO AVANTI

LO STENT RIASSORBIBILE Prof. Francesco Versaci*

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o stent coronarico, inventato da Julio Palmaz nel 1987 è stato definito dalla prestigiosa rivista IP Worldwide Magazine una delle dieci invenzioni del XX secolo che hanno contribuito a cambiare il mondo. Questo dispositivo medico ha rappresentato una delle maggiori innovazioni nel trattamento interventistico dei pazienti affetti da cardiopatia ischemica. Inizialmente utilizzato come “impalcatura di salvataggio” in caso di complicanze durante angioplastica con palloncino si è dimostrato un ottimo supporto per migliorarne il risultato immediato riducendo il rimodellamento negativo del vaso trattato e l’incidenza di restenosi a distanza. L’idea di essere utilizzato come piattaforma per veicolare farmaci inibenti la proliferazione di tessuto mio-intimale ha ottimizzato l’efficacia della procedura. La tecnologia ha creato negli ultimi anni dispositivi sempre più sicuri, facilmente impiantabili che hanno modificato strategie ed indicazioni al trattamento dei pazienti affetti da malattia coronarica ed ha fatto divenire questo device il dispositivo più utilizzato in medicina: ogni anno sono circa 4 milioni gli stent che vengono impiantati in tutto il mondo, 200.000 lo scorso anno solo Francesco Versaci in Italia. Una delle più rilevanti innovazioni apparse di recente nel campo della cardiologia interventistica percutanea è rappresentata dagli stent coronarici completamente riassorbibili, per i quali è stata ipotizzata la possibilità di una “terapia di riparazione vascolare”. Tale device infatti, la cui struttura di sostegno è costituita come per i fili di sutura chirurgici riassorbibili, da materiale polimerico (acido poliL-lattico - PLLA) anziché da una lega metallica, fornisce un

supporto vascolare temporaneo, durante il quale il rilascio di farmaco anti-proliferativo riduce la reazione iperplastica neointimale, per poi scomparire completamente nell’arco di circa 2 anni. Il completo riassorbimento della struttura di sostegno, ha mostrato sia un rimodellamento positivo della parete vasale con guadagno di lume tardivo, che il recupero della funzione endoteliale con conseguente ripristino delle caratteristiche di pulsatilità e vasoreattività del segmento vascolare sottoposto all’impianto. Nonostante i risultati iniziali degli studi condotti su questa nuova tecnologia siano stati incoraggianti, alcune problematiche tecniche sono emerse con la pratica clinica, legate principalmente ad imperfezioni “strutturali” dei primi modelli di stent riassorbibili. Nell’ambito di questa evoluzione tecnologica della cardiologia interventistica coronarica, un notevole interesse è riposto sullo stent riassorbibile coronarico DESolve (Elixir Medical Corporation, Sunnyvale, California - USA), che per le caratteristiche innovative rispetto ai modelli precedenti può essere considerato lo scaffold riassorbibile di seconda generazione. Quest’ultimo stent bioriassorbibile è costituito da un polimero derivato da acido poli-L-lattico (PLLA) e caratterizzato dal rilascio di farmaco antiproliferativo Novolimus, appartenente alla famiglia degli “analoghi della rapamicina” (Sirolimus), molecole già ampiamente utilizzate negli stent a maglia metallica per prevenire i fenomeni di iperplasia neointimale, modulando i processi di crescita, proliferazione, motilità e quindi sopravvivenza cellulare. In figura: lo stent riassorbibile DESolve: la struttura costituita

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da materiale polimerico permette la degradazione ed il successivo completo riassorbimento dello stent preservando l’integrità della coronaria trattata. Importanti caratteristiche innovative di questo innovativo dispositivo sono: la capacità di “auto-correzione” di piccoli difetti di malapposizione delle maglie per una più completa apposizione alla parete del vaso, il mantenimento di un adeguato supporto vascolare per il periodo critico iniziale di guarigione della lesione, con contemporaneo riassorbimento pressoché totale nel corso del primo anno post-impianto. Il meccanismo di degradazione del polimero avviene inizialmente mediante idrolisi, con successiva metabolizzazione in anidride carbonica ed acqua con completamento del riassorbimento (ridu-

zione della massa) superiore al 95% a 2 anni. Tale profilo di riassorbimento garantisce il mantenimento di un’integrità strutturale dello scaffold per i primi 3-4 mesi con il mantenimento di un’adeguata forza radiale ma allo stesso tempo consente un rimodellamento positivo della parete dei vasi, con aumento del calibro luminale già a sei mesi, meccanismo fondamentale della “terapia di riparazione vascolare”. In alcuni studi comparativi tra modelli differenti di scaffold bioriassorbibili il DESolve ha dimostrato caratteristiche di maggiore distensibilità ed espansione delle maglie, con un’elevata soglia di postdilatazione in assenza di rottura,

Lo stent riassorbibile

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con risultati sovrapponibili a quelli di uno stent medicato di ultima generazione. Il concetto di uno scaffold completamente riassorbibile è molto attraente per il cardiologo interventista: i potenziali vantaggi rispetto agli stent medicati tradizionali sono una maggiore integrità anatomica e funzionale del vaso trattato grazie alla scomparsa a distanza del corpo estraneo dall’interno della coronaria. La tecnologia ha indubbiamente fatto notevoli progressi offrendoci soluzioni sempre più innovative e lo scaffold DESolve ne è un esempio. I dati iniziali sembrano davvero molto promettenti e se supportati da una maggiore evidenza clinica derivata dei numerosi studi in corso potrebbero aprire nuovi scenari per l’uso di scaffold riassorbibili come ad esempio nelle sindromi coronariche acute dove una piattaforma costituita da maglie più sottili, con una superficie di copertura maggiore come quello degli stent riassorbibili potrebbe essere una valida soluzione per evitare l’embolizzazione distale di materiale trombotico oppure l’utilizzo in particolare nei pazienti giovani dove il rischio di nuove procedure è più elevato. *Direttore Unità Complessa di Cardiologia Ospedale “A.Cardarelli” di Campobasso e “F.Veneziale” di Isernia.



UN NUOVO DISPOSITIVO BENEFICO

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REDUCER ANTI-ANGINA

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'angina refrattaria è una condizione patologica debilitante che si verifica quando le arterie coronarie non forniscono un adeguato apporto di ossigeno, veicolato dal sangue, al muscolo cardiaco. Questa condizione dolorosa diviene nel tempo poco controllabile nonostante il trattamento con terapie standard di rivascolarizzazione (angioplastica, by-pass ) o somministrazione di farmaci per cui il paziente si trova in una condizione “no option”. L'angina refrattaria affligge milioni di pazienti in tutto il mondo, e li costringe a condurre una vita caratterizzata da severe restrizioni alle normali attività quotidiane, in conseguenza dei sintomi disabilitanti di cui soffrono. Oggi l’industria mette a disposizione un nuovo dispositivo, nato dall’intuizione di un medico israeliano, Dr. Banai del Tel Aviv Medical Center e poi sviluppata dalla società canadese Neovasc. Tale sistema denominato Reducer è un dispositivo che, mediante la puntura a livello del collo della vena giugulare interna, viene impiantato all'interno del seno coronarico che rappresenta il maggiore sistema di scarico venoso del cuore; la tecnica di impianto risulta pertanto minimamente invasiva e di facile attuazione poiché del tutto simile a quella di angiolplastica coronarica. Il sistema Reducer è costituito da una mesh metallica di acciaio 316 L foggiata a forma di clessidra posizionata a sua volta su un catetere a palloncino (sempre a forma di clessidra) che ne permetterà il rilascio controllato sul sito scelto dall’operatore. L’impianto del Reducer nel seno coronarico ha lo scopo di ridurre il flusso sanguigno di scarico del cuore e contemporaneamente fà aumentare la pressione a monte con la conseguenza di una vasodilatazione del microcircolo e maggiore disponibilità di ossigeno per gli scambi nutritivi. L’aumento dell’ossigeno a disposizione a livello delle zone ischemiche miocardiche farà si che migliorerà di conseguenza Il sistema Reducer la sintomatologia an-

ginosa del paziente. Il Reducer è realizzato con una maglia tubolare in acciaio di elevato livello tecnologico specifico per impianti chirurgici (acciaio 316L), senza soluzione di continuità e punti di saldatura; la sua struttura è ottenuta utilizzando un taglio laser ad alta definizione. E' disponibile in una singola misura in grado di adattarsi alle diverse strutture e dimensioni anatomiche che caratterizzano la maggior parte dei pazienti. I benefici derivanti dall'utilizzo del Reducer sono confermati da numerose pubblicazioni di studi controllati relative a questo sistema. Tra queste è molto importante ricordare quella del febbraio 2015 relativa allo studio COSIRA (studio fase 2, multicentrico, randomizzato, a doppio cieco, "sham-controlled) pubblicata sul New England Journal of Medicine. Lo studio si poneva come obiettivo primario quello di valutare la sicurezza e l'efficacia del dispositivo Reducer. In particolare si menziona che sono stati trattati 104 pazienti in un periodo che va dal 2010 al 2013, 52 per braccio di controllo (sola terapia medica) e 52 per il braccio di trattamento mediante impianto del Reducer, in una popolazione omogenea con classe di partenza CCS III e IV (Canadian Cardiovascular Society Angina Score – classificazione da classe I a IV , con la classe più alta che definisce la peggiore situazione patologica con limitazione assoluta di qualsiasi attività fisica). Il follow-up a sei mesi ha evidenziato un significativo miglioramento dei sintomi e della qualità di vita in pazienti comportando per un 35% dei pazienti sottoposti a trattamento il miglioramento di due classi CCS (rispetto al 15% del gruppo di controllo) ed il miglioramento di almeno una classe CCS per il 71% del gruppo sottoposto a trattamento (rispetto al 42% del gruppo di controllo). (Re.NF)

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LA CURA DELLE VARICI

TECNICHE MINI INVASIVE Prof. Massimo Ruggeri*

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o m e definit o dall’Organizzazione mondiale della Sanità per Varici si intende “la dilatazione sacculare delle vene che spesso sono tortuose”. Le varici possono presentarsi a carico di qualsiasi distretto venoso configurando diversi quadri patologici: plesso pampiniforme (varicocele), plesso emorroidario (emorroidi), vene esofagee (varici esofagee); con maggiore frequenza esse interessano le vene degli arti inferiori. Le vene varicose rappresentano ad oggi una delle malattie più diffuse a livello mondiale con una incidenza annuale di circa il 2,6% nelle donne e dell’ 1,9% negli uomini, una prevalenza del 10¬33% nelle donne e del 10-22% negli uomini. Nell’85% dei casi esiste una predisposizione familiare. La patologia colpisce maggiormente la popolazione femminile con un rapporto 3 a 1 per l’influenza degli ormoni sessuali sulle alterazioni parietali delle vene alla base della patologia stessa; le popolazioni occidentali ed in genere i soggetti che presentano altri fattori di rischio come l’obesità, alterazioni posturali, piede piatto, o costretti ad attività lavorative che prevedono un prolungato ortostatismo o sedentarietà. Manifestazioni

cliniche della malattia varicosa possono essere in differenti combinazioni e differenti stadi: teleangectasie, ovvero capillari intradermici dilatati con calibro < 1 mm, vene reticolari ovvero vene sottocutanee verdastre con diametro tra 1 e 3 mm; ipodermite, eczema venoso, edemi e ulcere varicose presenti negli stadi più avanzati della patologia; associati alla più tipica sintomatologia caratterizzata da dolore che si accentua con il mantenimento della stazione

eretta, con le elevate temperature e nelle donne in correlazione alle differenti fasi del ciclo mestruale; pesantezza degli arti soprattutto serotina ed assente dopo il riposo in posizione declive delle gambe; crampi specie notturni sono tipici della malattia varicosa pur essendo un sintomo aspecifico; prurito

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spesso associato nelle fasi più avanzate all’eczema venoso. Tutti sintomi che spesso vengono riassunti nella più comune definizione della sindrome delle gambe senza riposo. Per una corretta diagnosi della malattia varicosa occorre effettuare un attento esame clinico con raccolta dei dati anamnestici e dei dati relativi alla sintomatologia riferita dal paziente. L’esame strumentale, quindi, di prima scelta, gold standard per la conferma della diagnosi è l’Eco Color Doppler Venoso degli arti inferiori. Un esame non invasivo, a basso costo, facilmente ripetibile, completo per la diagnosi ed il followup della patologia. Permette di acquisire tutte le informazioni necessarie sullo stato della parete delle vene in esame, la continenza dell’apparato valvolare, la presenza e la caratterizzazione del reflusso, il diametro delle vene, la presenza di complicanze come la trombosi di un vaso; utilizzato quindi per la conferma della diagnosi della malattia varicosa e per la più corretta programmazione, in base ai dati anatomo-funzionali, dell’intervento correttivo da effettuare. Il trattamento delle vene varicose prevede diverse tecniche conservative o chirurgiche in base alla fase della malattia. Lo scopo è alleviare la sintomatologia, rallentare la progressione della patologia, la cura estetica delle manifestazioni cutanee, la prevenzione delle recidive e soprattutto la prevenzione delle più temibili complicanze come le varico-flebiti e/o la


trombosi venosa profonda o la formazione di ulcere varicose. Spesso il trattamento è combinato e prevede oltre all’intervento chirurgico una serie di provvedimenti medici atti a rafforzare e prolungare il risultato ottenuto su una patologia che ha andamento cronico. E’ bene, infatti, rafforzare il concetto che la medicina e la chirurgia permettono di trattare le manifestazioni cliniche e sintomatologiche della patologia e non la predisposizione alla stessa. La scelta della terapia deve tener conto di fattori quali lo stadio della patologia, l’età della paziente e la presenza di eventuali comorbidità. La terapia medica si avvale di strumenti quali la correzioni di eventuali alterazioni posturali, la cura del sovrappeso, e quindi la correzione dei fattori di rischio; di terapia farmacologica allo scopo di alleviare i sintomi; di terapia elastocompressiva con l’utilizzo di calze a compressione graduata utili nella prevenzione e nella cura delle complicanze e nell’alleviare i sintomi della malattia stessa. Il trattamento chirurgico permette di raggiungere i migliori risultati funzionali ed estetici prevenendo le complicanze e le recidive di malattia. Ormai riservati a casi particolari i più tradizionali ed invasivi interventi chirurgici come lo Stripping, la chiva, la crossectomia si sono fatte strada acquisendo progressivamente maggiore valenza in termini di risultati immediati ed a distanza, tecniche mini invasive come l’intervento di termoablazione

con Radio Frequenza con il sistema ClosureFastTM(VNUS®, Closure Fast, Covidien, Dublin, Ireland). L’esperienza presentata nei maggiori e più recenti trials clinici pubblicati nella letteratura internazionale si affianca alla più personale esperienza fatta negli ultimi 3 anni su circa 400 casi con l’utilizzo della Radio Frequenza per il trattamento della malattia varicosa legata all’incontinenza della Vena Grande safena. Un intervento eseguito in regime ambulatoriale, su pazienti con età media di 30 anni e un range tra i 16 e gli 84 anni, con uniche controindicazioni la presenza di processi flebo-trombotici in atto o stato di gravidanza. Effettuato attraverso puntura percutanea eco guidata o mini accesso alla vena, in anestesia locale con la tecnica della tumescenza (iniezione sottocutanea di soluzione fisiologica fredda con aggiunta di anestetico locale), con una durata media di intervento di circa 10 min. Il vantaggio maggiore percepito dai pazienti è la ripresa immediata delle normali attività quotidiane; il post operatorio prevede infatti, come unica indicazione l’elastocompressione per circa 20 giorni, senza necessità di effettuare terapia anticoagulante. L’assenza di incisioni chirurgiche all’inguine, come quelle previste nello stripping e

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di traumatismo cutaneo sono elementi essenziali alla base della totale assenza di complicanze quali ecchimosi-ematomi, dolore post operatorio. In tutti i casi presi in esame i risultati hanno mostrato un completo miglioramento clinico con remissione della sintomatologia ed un basso tasso di recidive. Il continuo aggiornamento delle tecniche mini invasive ci ha portato ad utilizzare gia’ per diversi casi un nuovo strumento nel trattamento mini invasivo delle varici ovvero il Veno sealTM .Si tratta di una embolizzazione della vena safena interna mediante cianoacrilato che a parità di risultati ha come ulteriore vantaggio di non prevedere la tumescenza, non necessitando di alcun tipo di anestesia e utilizzando un accesso percutaneo eco guidato alla vena. * Responsabile UOC Chirurgia Vascolare Ospedale San Camillo De Lellis Rieti


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PARLA RIEM, PRESIDENTE DELL’ASFO

SANITÀ, PIÙ EFFICIENZA DALLE PMI

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assimo Riem, 56 anni, da oltre un quarto di secolo impegnato nell’attività imprenditoriale, è presidente dell’AsFO, di cui è stato tra i fondatori, da gennaio, succedendo a Vittorio Della Valle. L’Associazione nasce nel ’99 dalla volontà di un gruppo di imprenditori laziali per tutelare egli interessi delle piccole e medie imprese fornitrici di beni e servizi sanitari nei confronti del sistema pubblico. In pochi anni diventa l’associazione maggiormente rappresentativa nel Lazio nel settore delle forniture ospedaliere. Via via ha assunto un ruolo sempre più da protagonista nelle sfide che interessano il comparto sanitario in Italia con lo scopo di aprire un tavolo di dialogo con gli interlocutori istituzionali a tuti i livelli. Dal 2014 ha assunto l’attuale denominazione. Presidente Riem, il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, ha richiamato le istituzioni alla necessità di arrestare la, a suo parere, dilagante corruzione nel settore della sanità. Concorda con lui? La corruzione purtroppo è un male italiano che non riguarda solo la sanità, non entro nel merito della questione poiché si tratta di un argomento che andrebbe approfondito essendo in possesso di dati specifici, credo tuttavia che con le sue affermazioni Cantone facesse riferimento in particolare alle gare di appalto complesse e relative a prestazioni eterogenee, che sono proprio Massimo Riem quelle alle quali le piccole e medie imprese che noi rappresentiamo purtroppo hanno poca chance di partecipare . Posso solo dire che AsFO , da anni, porta avanti la battaglia per fare in modo che ci siano maggiori condizioni di trasparenza ed efficienza da parte della Pubblica Amministrazione in tutte le fasi delle procedure di approvvigionamento. Siamo e restiamo a disposizione di tutte le istituzioni : Anac,

Ministero della Salute, Regione, per aprire tavoli di comunicazione e gestire i rapporti con le imprese nella massima chiarezza. La riforma del Codice degli appalti è stata finalmente approvata, anche se sono demandati a futuri provvedimenti attuativi punti molto importanti. Che ne pensa complessivamente? Non abbiamo ancora avuto modo di approfondire il nuovo Codice in tutti i suoi aspetti, ma direi che meritano apprezzamento le disposizioni finalizzate all’effettivo accesso al mercato delle gare pubbliche delle piccole e medie imprese sia attraverso il ricorso obbligatorio alla suddivisione delle gare in lotti funzionali, il cui valore deve essere adeguato alla platea di concorrenti per consentire di formulare offerte valide e calibrate, sia sotto l’aspetto del prezzo che sotto quello, fondamentale in sanità, dell’appropriatezza e qualità delle prestazioni che si possono ottenere attraverso un buon ricorso alle forniture di dispositivi medici offerto dal mercato. Importante è l’articolo 83 comma, relativo ai requisiti di capacità economico-finanziaria, tecnica e organizzativa degli operatori, che indica come gli stessi debbano essere: “attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto, tenendo presente l’interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali offerenti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione”. Naturalmente bisognerà vedere come questi principi si coniugheranno con l’impianto fattuale delle gare generate dal nuovo codice. I tagli draconiani alla sanità pubblica che conseguenze stanno avendo sulle forniture ospedaliere e sull’intera filiera? AsFO da tempo suggerisce la possibilità di ricorrere agli acquisti

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tramite accordi quadro con l'individuazione, in primis, da parte delle strutture centralizzate regionali del prezzo massimo per ogni singolo lotto/prodotto e dei requisiti di capacità e competenza dei fornitori, per passare poi alla fase successiva di confronto competitivo tra le imprese selezionate e di aggiudicazione in base all'offerta economicamente più vantaggiosa per il singolo ospedale. In questo modo si garantirebbe un prezzo uniforme , calcolato in base alle necessità della finanza pubblica e ottenuto dall'analisi dei prezzi di riferimento disponibili presso la banca dati del Ministero, e si darebbe allo stesso tempo a tutti gli operatori, comprese le micro e piccole imprese del settore, la possibilità di partecipare alla gara e ai medici l'occasione di poter utilizzare il dispositivo ritenuto più affidabile, senza che la loro scelta comporti un aggravio di costi. Razionalizzare la spesa nella sanità è diventato una sorta di mantra. Ma ra-

zionalizzare si coniuga sempre con risparmiare? E, soprattutto, con fornire il meglio al miglior prezzo? Il sistema cerca di massificare e razionalizzare in maniera sempre più cinica e questo ha fatto in modo che si rimanesse bloccati in alcuni ambiti e si tenesse sempre meno conto delle esigenze del singolo, inteso come paziente ecome impresa, puntando sul risparmio. Alcuni bandi bloccano tutti quei beni destinati alla ricerca e all’innovazione, sfavorendo l’inserimento e la promozione sul mercato di prodotti che rappresentano il futuro e potrebbero aprire nuovi sbocchi verso nuovi ambiti. Bisogna tener presente che, come non esiste un paziente simile a un altro poiché necessita di cure ed attenzioni specifiche, lo stesso principio è valido per le imprese. Che vanno tutelate e devono sentirsi in grado di poter competere sul mercato in un sistema organizzato e ben gestito dove siano rispettati criteri uguali per tutti,

Dossier realizzato in concorso con

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evitando così che si creino egemonie di potere da parte dei più forti sfavorendo e scoraggiando le medie e piccole aziende. Quale ruolo possono avere i piccoli distributori di forniture ospedaliere nella modernizzazione e nell’efficientamento del servizio sanitario nazionale? Un ruolo sempre più importante perché rappresentano una forte realtà e credo che la politica dovrebbe farsi carico a livello etico e morale, oltre che fattivamente, della questione, creando le condizioni per attivare una filiera distributiva di risorse sul territorio e facendo in modo che ci siano meno dislivelli tra le imprese e far sì che partecipino tutte, dalla più grande alla più piccola, perché più player ci sono nel mercato, più si creano le condizioni per far girare l’economia. Un benchmarking competitivo ma al tempo stesso più efficiente. Tuccio Risi




COSTUME & SOCIETÀ LA PIZZA PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITÀ (a pag. 56)

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COSTUME & SOCIETÀ

GIÙ LE MANI DALLA PIZZA di Donatella Miliani

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otonda, a tranci, a fette, a spicchi, in piedi o a tavola, fuori o a casa, la pizza è il cibo italiano di maggior successo nel mondo (anche se gli americani sono convinti di averla inventata loro! In realtà fece la sua prima apparizione negli Usa con l’arrivo degli immigrati italiani nel tardo XIX secolo a San Francisco, Chicago, New York City, e Philadelphia). Di sicuro è uno dei prodotti gastronomici «Made in Italy» più conosciuti al mondo, uno dei più importanti simboli del nostro Paese ma anche uno dei più «falsificati». L’arte della pizza, che ben ci rappresenta nel mondo, è una conoscenza tradizionale e un bene immateriale che merita il riconoscimento da parte dell’Unesco. A sostenerlo è un gruppo nutritissimo di soggetti istituzionali ma anche di personaggi famosi in tutti il mondo che, capitanati dall’ex ministro delle politiche agricole Alfonso Pecorario Scanio «paladino dell’iniziativa» con la sua Fondazione Univerde e l’Associazione piazziuoli napoletani, sta spingendo perchè la pizza napoletana (dal 4 febbraio 2010 ufficialmente riconosciuta come Specialità tradizionale garantita della Comunità Europea) venga proposta dall’Italia all’Unesco nella «Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità». Candidatura che sarà valutata, per questioni tecniche, nel 2017. Per la Commissione designatrice «l’arte dei pizzaiuoli ha svolto una funzione di riscatto sociale, elemento identitario di un popolo, non solo quello napoletano, ma quello dell’Italia. E’ un marchio di italianità nel mondo». E questa candidatura evita il rischio «scippo» da parte degli americani che proprio di recente avevano lasciato pensare ad una candidatura della «pizza american-style». «Ci rivolgiamo – dice Pecorario Scanio che ha raggiunto quota un milione di firme di sostenitori – ai tanti italiani e non che amano il prodotto gastronomico più conosciuto del pianeta. Occorre ottenere per l’arte della pizza il prestigioso e meritato riconoscimento».

E a chi pensa che la primogenitura della pizza sia scontata, Pecorario Scanio è pronto a svelare ‘pericolosi’ quanto curiosi aneddoti. «Una giornalista del principale quotidiano giapponese – racconta – dopo aver ascoltato la mia proposta mi ha candidamente confessato che nel suo Paese, fino a poco tempo fa, tutti erano convinti che il delivery fosse l’americano ‘pizza Hut’. Figuriamoci! Replicai io tra i sorrisi della gior-

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nalista che poi mi spiegò come da diverso tempo ormai anche in Giappone per fortuna hanno aperto e stanno aprendo sempre più autentiche pizzerie italiane e la differenza si vede, anzi si degusta...». Parliamo di firme. Un milione di persone sono tantissime. «Sì, a dimostrazione che la nostra iniziativa è sacrosanta – sottolinea –. Di queste, 750mila sono state raccolte in Italia, 150mila proprio in Giappone e le altre 100mila in giro per il mondo». Qualche celebrità? «Tantissime, italiane e straniere.da Jimmy Ghione che è stato testimonial fin dall’inizio e poi Claudio Bisio, Albano, Panariello, Ilary Blasi, Renato Pozzetto, Lucio Alberto Savoia, Franco Manna, Roberto Moncalvo, Gianluca Galletti, Eugenio Bennato, Vittorio Sgarbi, Monica Cirinnà, Roberto Maroni, Sergio Chiamparino, Giancarlo Caselli, Luigi de Magistris,Piero Fassino, Domenico De Masi, Totò di Natale e Fabio Quagliarella ma anche l’intera squadra del Pisa. E ancora, Lidia e Joe Bastianich, Bud Spencer e tanti nostri ambasciatori e consoli da quelli all’ONU e New York fino ai nostri rappresentanti a Londra,Berlino,Sydney,Parigi,Unesco e ancora in Sudafrica,Qatar,Taiwan. Gilberto Gil ex ministro della cultura del Brasile, Claudia Roth vicepresidente del Bundestag tedesco e un’ampia galleria di celebrities anche hollywoodiane. Impossibile citarli tutti. Pensi che abbiamo avuto anche una benedizione per l’iniziativa da Papa Francesco...». Insomma una platea molto trasversale: attori, parlamentari italiani e stranieri, ministri, sportivi, intellettuali, magistrati... «Chi ama la pizza italiana non ne fa certo una questione politica. La pizza unisce, non divide, da nord a

sud». «Fatte ‘na pizza c’a pummarola ‘ncoppa vedrai che il mondo poi ti sorriderà» diceva del resto un napoletano doc come Pino Daniele. Già Napoli, città in cui nel 1889 il pizzaiolo Raffaele Esposito creò la pizza Margherita dedicata alla regina di Savoia. Da allora sono passati 126 anni e la pizza Margherita continua ad essere la preferita da un consumatore su due. In Italia il comparto rappresenta un tesoro da 12 miliardi l’anno che dà lavoro a oltre 200mila persone. E poi diciamolo, chi non ha salvato una serata con una fantastica pizza napoletana? Sì, difendiamola... Nella foto in alto: A Parigi per il milione di firme raccolte nella sede dell'Unesco con l'ambasciatore Vincenza Lo Monaco, il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo e presidente pizzaiuoli Sergio Miccù.

12 MILIARDI L’ANNO Un affare da 12 miliardi l’anno, che per il sistema Paese non sono proprio bruscolini. Un’industria che non si ferma mai. E sforna, è proprio il caso di dirlo, due miliardi di dischi di pasta variamente conditi nell’arco di 365 giorni, 366 negli anni bisestili. Per la pizza non c’è festa che tenga. Anzi, produzione e vendita s’impennano proprio in occasione delle festività e delle vacanze. Duecentomila sono gli addetti alla filiera della pizza (classica o, nella versione poco amata dai puristi, al taglio), cui se ne aggiungono altrettanti nella filiera della surgelazione, che sta prendendo sempre più piede e spesso utilizza prodotti di altissima qualità, Dop e Igp comprese. A servire la pizza sono 51.500 esercizi tra pizzerie (27mila in tutto di cui oltre la metà con il servizio al tavolo), ristoranti (12.500) e panetterie/rosticcerie (13mila). Eppure l’Italia non è il posto al mondo dove si mangia più pizza. Il record spetta agli Usa con 13 kg pro capite, seguiti a grande distanza dal nostro Paese (7,6 Kg), incalzato dal Canada (7,5 Kg), e da Spagna (4,3 Kg), Francia e Germania (4,2 Kg).

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LA STORIA DELLA FONDAZIONE GEIGER di Jacopo Carlesi

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hi pensa che nessuno investe più nella cultura dovrebbe fare un giro a Cecina, sul litorale toscano, e forse si ricrederà. Da questo territorio parte infatti una storia curiosa: quella di una famiglia italo-svizzera che, innamoratasi di questa parte della Toscana, ha deciso di destinare parte del proprio patrimonio al sostegno della nobile causa. Frutto di tale decisione è la Fondazione Culturale Hermann Geiger, nata nel febbraio del 2009 con il preciso scopo di diffondere e promuovere attività culturali gratuite che potessero arricchire il territorio e non solo. Una realtà che rende omaggio al farmacista e omeopata svizzero Hermann Geiger, cui si deve un’importante attività imprenditoriale in campo farmaceutico, estesa nel corso di quasi tutto il Novecento a un ambito di diffusione internazionale. Sono stati proprio la nipote Sibylle e il marito, impegnati da tempo in iniziative legate alla filantropia e all’elevazione della persona umana, a volere la Fondazione sul territorio toscano. Così hanno preso vita, nel corso degli anni, numerose iniziative: dalle mostre fotografiche ai festival letterari, passando per conferenze, mostre di arte contemporanea ed esposizioni di taglio etnografico e storico. Ultima di una lunga serie, la mostra dedicata agli acquerelli di Hermann Hesse, inaugurata lo scorso

26 marzo, che porta alla ribalta un aspetto poco conosciuto della vita dello scrittore premio Nobel per la letteratura nel 1946 e autore di capolavori come Siddharta e Narciso e Boccadoro: la passione per la pittura. Nelle sue attività la Fondazione Geiger ha trattato infatti argomenti non consueti, come la cultura delle popolazioni native, nelle mostre dedicate ad esempio agli Inuit e ai Lakota Sioux, la salvaguardia dell’ambiente e la diffusione della cultura del riutilizzo dei materiali per creare nuove forme d’arte, come nelle esposizioni delle opere di Jean Tinguely, Sayaka Ganz o Brian Dettmer. In tutto ciò la Fondazione ha sempre cercato di rivolgersi a un pubblico molto ampio, per inviare un messaggio universale: spingere la coscienza comune verso un maggiore impegno alla fruizione e alla diffusione della cultura in tutte le sue forme. Sebbene il raggio di azione della Fondazione Geiger abbia il proprio punto di origine nella sede di Cecina (piazza Guerrazzi, 32), in Toscana, l’ambito territoriale delle sue attività non ha aprioristicamente confini regionali né nazionali. Lo sguardo di interesse si estende ad azioni, interventi, sinergie e collaborazioni che possano coinvolgere interlocutori di livello in qualunque parte del mondo.

IL GELATO FESTIVAL

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tto città, tre diversi Paesi europei, cento diversi gusti proposti proprio per l’occasione. Il Gelato Festival riaccende i motori e si prepara ad una settima edizione ancora più ricca e interessante. L’obiettivo è quello di far conoscere la tradizionale produzione artigiana in tutte le sue declinazioni e creare un’occasione che consenta ai presenti di capire quanta attenzione e professionalità c’è dietro ad un prodotto di qualità. Nove tappe, più una finale, in ognuna delle quali saranno premiati i migliori gelatieri in concorso, grazie a una speciale giuria di cui faranno parte anche i tanti visitatori che avranno acquistato la Gelato Card. Una tessera che darà diritto ad assaggiare tutti gli 8 gusti eccezionali in gara, più gli altri 6 fuori concorso unici e originali offerti dagli sponsor, ma anche a far parte della giuria popolare e partecipare alle iniziative collaterali organizzate di tappa in tappa nello Spazio eventi, che varieranno dalle lezioni tenute da chef

stellati e maestri gelatieri, con la descrizione degli ingredienti utilizzati, l’analisi storica dell’evoluzione del gelato nei gusti e nella tutela del prodotto artigianale, fino alle iniziative delle più prestigiose imprese del settore. Si comincia il 21 aprile dal Piazzale Michelangelo di Firenze, dove si tornerà a conclusione del tour per la finalissima, in cui si sfideranno i vincitori delle varie tappe, dal 1 al 4 settembre. In mezzo anche tre tappe internazionali: Londra, Berlino e Valencia, oltre a quelle italiane, come Parma, Roma, Napoli, Torino, Milano. “Un mix tra le grandi capitali europee e le principali città italiane, il Gelato Festival 2016 è pronto per partire! Grazie alla fiducia delle principali aziende, dei professionisti e degli opinion leader del settore - spiega Gabriele Poli, ideatore del Festival - quest'anno il tour sarà ancora più ampio, ricco di contenuti, di sapori e di divertimento”. Maurizio Abbati

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A PISA LA OXFORD DEL CALCIO di Ornella Cilona

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onciliare la vita da studenti con quella da atleti diventa finalmente possibile. All’ombra della Torre Pendente è nato il Pisa Football College, la prima scuola internazionale di calcio tutta italiana. Ideato dall’imprenditore Fabio Petroni, presidente del Pisa Calcio e fondatore del gruppo britannico Terravision, il College accoglierà giovani delle scuole medie e superiori, anche stranieri, intenzionati a praticare attività calcistica ad alto livello. Per loro niente più lezioni perse a causa di gare e allenamenti. Finalmente potranno inseguire il loro sogno senza dover rinunciare allo studio. “Anche nello sport perdiamo giovani talenti perché siamo incapaci di offrirgli un futuro coerente con le loro attese e le loro competenze”, afferma Fabio Petroni, romano, 55 anni, laurea con lode in economia, che nel 2002 si trasferì a Londra per fondare il gruppo Terravision, oggi leader nel settore del trasporto turistico per i viaggiatori in transfer dagli aeroporti delle maggiori città europee ai rispettivi centri urbani e viceversa. Nel 2015 gli inconfondibili pullman Terravision hanno trasportato 4,8 milioni di passeggeri in Gran Bretagna, Olanda, Portogallo, Italia e Malta; il fatturato del gruppo lo scorso anno ha raggiunto i 35 milioni di euro. Pisa, che secondo una ricerca dell’Università Milano Bicocca è la città per la quale gli italiani spenderebbero di più per trasferirvisi, possiede un eccellente sistema scolastico e universitario, con docenti e strutture di alto livello. “Il nostro obiettivo è educare i ragazzi allo sport, inserirli nel tessuto sociale e aiutarli a crescere sotto ogni profilo, primo fra tutti quello culturale e linguistico – assicura Petroni – Il Pisa Football College offrirà ai propri allievi la possibilità di

frequentare le ottime scuole locali e di alloggiare presso famiglie pisane, sul modello residenziale inglese dell’host family”. Accanto al normale ciclo scolastico, il percorso formativo prevede un corso full immersion di lingua inglese, una intensa preparazione atletica e l’apprendimento delle tecniche e delle tattiche calcistiche, con sedute tri-settimanali di allenamento, tutte in inglese, e partecipazione a tornei di calcio e partite amichevoli. Il direttore tecnico del College pisano sarà Alessandro Birindelli, ex difensore della Juventus e dell’Empoli, oggi dirigente calcistico e allenatore. Ad affiancare ogni studente due tutor: uno per lo studio e un per lo sport. Il “responsabile didattico” aiuterà i giovani a sfruttare le loro potenzialità, integrando l’insegnamento in aula con lezioni personalizzate e ottimizzando i tempi degli impegni scolastici con quelli sportivi. Specifici programmi di tutoraggio saranno destinati in particolare agli allievi la cui fascia di età è prossima all’inserimento universitario (tra i 16 e i 18 anni), offrendo così l’opportunità di proseguire gli studi presso l’Università di Pisa. Il “responsabile sportivo” guiderà una squadra dotato di elevate competenze tecniche calcistiche, ma anche formative e pedagogiche, per favorire la preparazione atletica degli allievi, attraverso un percorso comprendente allenamenti in palestra e in campo, insegnamento del lavoro di squadra, schemi di gioco e interventi sull’avversario, sviluppo del possesso di palla, in grado di rafforzare coraggio, disciplina, creatività e autostima. Per gli allievi è prevista anche la possibilità di partecipare a programmi di studio e di preparazione atletica all’estero. Il

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Pisa Football College ha concluso accordi di collaborazione, infatti, con il Rangers Football Club di Glasgow e il River Plate di Buenos Aires allo scopo di permettere ai giovani studenti-atleti più meritevoli di effettuare stage formativi in Scozia e in Argentina a luglio del 2017. Al Pisa Football College tre saranno gli aspetti sotto esame: il valore tecnico, quello atletico e l’andamento scolastico. Non si scherza, i responsabili sportivi pretenderanno anche la fotocopia della pagella. Il rendimento tecnico e atletico dei giovani calciatori sarà valutato direttamente dai preparatori del Pisa Calcio. Sono previste borse di studio che ridurranno i costi di iscrizione per i giovani più meritevoli. Il sindaco di Pisa Marco Filippeschi sottolinea l’importanza dello sport per Pisa, testimoniata dal riconoscimento di Città Europea dello Sport 2016. “Non posso che salutare positivamente un’iniziativa che propone una visione del calcio che va ben oltre la vicenda sportiva per divenire valori, formazione, crescita individuale – spiega Filippeschi - Questo è un progetto molto innovativo e coraggioso, che ben si inserisce nel contesto pisano, dove esiste una tradizione di formazione d’eccellenza. Un’iniziativa unica in Italia, che può diventare il punto di riferimento per molti giovani che pongono lo sport alla base del proprio progetto di vita”. Per il rettore dell’Università di Pisa, Massimo Mario Augello, “Studiare nella nostra città significa vivere

Fabio Petroni, Presidente del Pisa Calcio e fondatore del gruppo britannico Terravision

un’esperienza formativa completa. Ogni anno accogliamo più di 10 mila nuove matricole. Quando mi è stato illustrato il progetto sono rimasto positivamente sorpreso. Il Pisa Football College è un progetto coraggioso, ma anche lungimirante, unico, e io credo che si debba sempre provare a volare alto. Sono molto felice che l’Università di Pisa si sia affiancato alla società per questa importante iniziativa destinata a cambiare il modo di vedere il calcio. La speranza è quella di vedere nascere grandi sportivi, ma soprattutto grandi uomini di sport”. Tra i testimonial del College c’è Rino Gattuso, nazionale campione del mondo nel 2006 in Germania, vincitore di due Champions League, un mondiale per club e due scudetti con

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la maglia del Milan, oggi allenatore del Pisa Calcio. “Ringhio” ha debuttato in Serie B a 17 anni e in serie A a 18. “Ai miei tempi era molto difficile restare concentrati in classe e poi fare gli allenamenti – ricorda Gattuso Avevo sempre voglia di saltare le lezioni di ragioneria. Con il Pisa Football College scuola e sport agonistico non saranno in contrasto. Il nostro progetto si rivolge a tutti i giovani calciatori dotati di qualità naturali, forza di volontà e spirito di sacrificio per realizzare i loro sogni”. Il Football College di Pisa può vantare anche un inno nuovo di zecca, scritto e interpretato dalla star internazionale Andrea Bocelli, che da pisano doc ha sposato a sua volta l’ambizioso progetto.


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DEADSTAR, DA AMANDA A MIKA di Nicola Bartolini Carrassi

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l primo incontro tra Deadstar e Mika non è certo stato idilliaco. Durante le selezioni di The Voice versione francese, i due si sono trovati faccia a faccia, Deadstar come concorrente, Mika come giudice. E… Non è certo scoccata la scintilla. Tanto che, l’esibizione di Deadstar è l’unica a non essere stata trasmessa in tutte le sue fasi, come le altre. Certo Deadstar, dopo questo primo incontro, incassato il gelido giudizio di Mika, non ha certo fatto i salti di gioia. Dopo qualche giorno, il suo disappunto si è trasformato in un sorriso beffardo, che, come un grande artista, il cantautore ha trasformato in parole e musica. Così è nata ‘Mika I love U’. Un ultimo appello al cantante inglese, quasi una invocazione né totalmente sfottò né, allora, un omaggio artistico al suo possibile mentore. Deadstar, raccontaci la tua esperienza a The Voice. E' stata bellissima! Abbiamo fatto decine di prove con un'orchestra live di talentuosi musicisti ed una produzione (Bruno Berbères e Matthieu Grelier) che segue gli artisti come se fossero "unici". Matthieu e Bruno sono dei

veri "talent's- scout musicali", la personal coach musicale (Nathalie) ha una grande sensibilità artistica. Sei stato censurato, ma dicci, tu che eri lì, che è successo tra te e Mika? Non so se sono stato censurato so che, con una email della produzione, sono stato informato che non sarei stato mandato in onda e che...per quanto io fossi stato talentuoso ... poteva capitare. Ma, questo si sa, o forse si immagina e basta, "that's the name of the game". Mika non era stato molto gentile con me in video, aveva usato parole dure giudicando non tanto me, quanto una scelta stilistica di un pezzo (La vie en rose) che era molto, troppo audace, per un uomo. Il tuo ‘disappunto’ si è trasformato in una canzone e poi in un video... Ero molto deluso, perchè per quella esibizione avevo lavorato tanto, mi ero fatto fare un "costume" di paillettes, avevo studiato il pezzo con la grande coach vocale Antonietta Franceschini, avevo invitato i miei amici in studio. Nei momenti di crisi io scrivo e, appena tornato da quel viaggio a Parigi, ho scritto su un pentagramma la mia frustrazione, la mia gioia, i miei dubbi, con la mia ironia. C’è da dire, che nonostante tutto fosse pronto, tu sino

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a pochi mesi fa sei stato un po’ titubante, e il brano è stato ‘tenuto nel cassetto’. La canzone è forte, il video anche. Ci ho pensato molto perchè, col senno di poi, le mie idee sulla vicenda sono cambiate molto. Quello che era un video di protesta è diventato altro! Infatti ci hai raccontato che tu, come il pubblico, hai letto le interviste di


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Mika nelle quali il cantante ha parlato delle sue difficoltà al tempo dell’adolescenza, a quanto abbia combattuto contro i bulli per affermarsi, e di come sia stato vittima di pregiudizio omofobico che ha lasciato tutti noi avviliti e indignati! Io non conoscevo bene Mika, mea culpa..e ho conosciuto un artista affermato e strafottente che non mi era piaciuto. Solo dopo ho scoperto la sua storia, ed ho cominciato a capirlo, a comprenderlo, e a immaginare cosa ha potuto vivere non tanto come artista, quanto come persona. Ed ora sono solidale.

La vita è stupenda, perché offre mille opportunità, mille chiavi di lettura a chi sa continuamente cambiare sguardo, opinione; per chi si pone delle domande ed empiricamente sa mettersi nei panni degli altri. Quindi, il passato è il passato, ed ora siamo qui a parlare del tuo video, contenuto in esclusiva in questo dvd. Un vero, reale tributo a Mika. Finalmente una vera dichiarazione di ‘amore’ platonico e di ammirazione per l’esempio che ci sta dando... E già..la vita insegna! Da bravo "buddista" ho trasformato il mio dolore in opportunità. Questo video prima non riuscivo neanche a guardarlo, era lo specchio della mia rabbia. Ora Mika lo ammiro. Hai aderito con slancio alla campagna WEAREONE destinata ad informare ragazzi e genitori, sia vittime che bulli, per contribuire al lavoro che si sta facendo per arginare questa piaga terribile, che sfocia anche nel cyberbullismo e nella discriminazione sessuale. Ho aderito di cuore, perchè il bullismo ahimé tocca tutti. I tempi cambiano, i modi anche, e ci sono ragazzi con vite distrutte da altri compagni, dagli amici, dai fidanzati, che usano loro violenza. Un brano strepitoso con Amanda Lear, declinato in mille note remixate dal grande Boy George. Poi un CD con i più grandi successi di Michael Jackson. E per non fare mancare nulla al tuo eclettico estro, hai anche scritto e interpretato la sigla di The Lady, il web serial più chiacchierato ma anche tra i più visti della rete, realizzato da Lory Del Santo… Definisci queste esperienze e … svelaci cosa stai preparando. Amanda Lear è un personaggio unico, da ammirare con tutte le sue complessità del suo animo, una donna che si è costruita una storia, una vita, una carriera: una di spettacolo per eccellenza. Io AMO AMANDA LEAR! Boy George è un ragazzo semplice, divertente, piu' truccato di una macchina rubata ma geniale. The lady l’ ho scritta per Lory Del Santo che, a modo suo, ha rivoluzionato il modo di intendere le webseries... Grazie Deadstar. Su www.nuovafinanza.it troverete il video, foto inedite e ancora più notizie e materiale su questa operazione tra music biz e charity.

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BEPPE E PIERO, GRANDE MIX

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opo tanti tour internazionali, dischi venduti, performance televisive (l’ultima proprio nella settimana del Festival sul palcoscenico della Vita in Diretta Raiuno) Piero Mazzocchetti torna con un nuovo disco: sette cover e due inediti, diretto dal Maestro Peppe Vessicchio, uno che di musica, voci, generi musicali ma soprattutto talento e tecnica se ne intende e non poco. Il risultato è «Incanto» un album molto elegante, da cui emerge un nuovo genere di crossover fatto di raffinate interpretazioni che più che sulla potenza e sull’effetto dell’acuto o della tenuta della nota punta alla riflessione, all’emozione interiore. «In effetti - dice Mazzocchetti che sta preparandosi al nuovo tour internazionale “Amara terra mia”. Prima tappa a maggio in Georgia - con il maestro Vessicchio abbiamo proprio puntato a questo obiettivo. Tanto che anche il video che accompagna il brano principale è molto semplice, tutto mirato a evidenziare la bellezza dei luoghi, il mare soprattutto della mia terra di origine». Cosa si aspetta da questo disco? «Al di là del discorso commerciale, il

gradimento del pubblico, che devo dire sto già raccogliendo dalle prime uscite, e la cosa mi stimola molto». Il Maestro Peppe Vessicchio, «tutore artistico» della Crossover Academy di Mazzocchetti ma anche produttore dell’album, pubblicato su etichetta Italiana Dischi, svela che la scelta

delle cover è stata ’mirata’. «Si va – spiega – da “Parla più piano” di Nino Rota, con la partecipazione del trombettista Fabrizio Bosso a “Il canario” di Tosti, con la partecipazione del flautista Andrea Griminelli, passando per una rivisitazione swing di “Goodbye Philadelphia” di Peter Cincotti. C’è spazio anche per un Lied di Mahler e “Amara terra mia”, portata al successo da Modugno».

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«Ma era una poesia abruzzese – sottolinea Mazzocchetti che aggiunge – , con Vessicchio è stata fatta una scelta ben precisa: volevamo dare dimostrazione che un album Crossover potesse abbracciare tanti stili musicali. Brani che abbiamo voluto arrangiare in maniera diversa tra loro, alcuni con il Sesto Armonico, formazione da camera che mi ha accompagnato a ‘La Vita in Diretta’ nella settimana del Festival di Sanremo». Il disco è disponibile anche in vinile. «C’è, in questa scelta – spiega il tenore –, un ritorno al passato, a un supporto che ha caratterizzato la storia della musica. E’ un disco per gli amanti della musica raffinata e colta, ma ha anche una sua facciata più leggera». I brani inediti portano le firme di Maurizio Fabrizio, Beppe Vessicchio, Enzo Campagnoli. «Istanti – conclude il tenore – è il frutto di una grandissima maturazione artistica e umana, che mi ha dato la possibilità di affrontare momenti musicali completamente diversi. Abbiamo voluto ricreare un salotto artistico semplice e raffinato, dove ci si può sedere e ascoltare un’ora di musica in totale spensieratezza e tranquillità». Donatella Miliani


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STORIA DI MAZZOCCHETTI Per farlo scoprire agli italiani c’è voluto Adriano Aragozzini che lo impose tra i big al Sanremo del 2007 presentato da Pippo Baudo dove arrivò terzo con «Schiavo d’Amore». Nel resto del mondo, in Germania soprattutto dove il crossover di qualità è amato e apprezzato da tempo invece, Piero Mazzocchetti abruzzese doc, classe 1978, era già (non ha mai smesso di esserlo in veritá) una celebrità. A scoprirlo e lanciarlo all’attenzione del mondo ci avevano pensato campioni come Karl Heinz Rumenigge e Franz Beckenbauer che una sera a Monaco, dove si esibiva al pianobar di un celebre ristorante frequentato dai campioni del calcio, gli fecero spegnere il microfono e l’obbligarono a girare tra i tavoli per ascoltare dal vivo la sua voce, convincendosi così delle sue straordinarie doti. La sua vita da quel momento cambiò radicalmente. Tour internazionali, dischi, stadi da 40, 60mila persone stracolmi e tanti importanti programmi televisivi nelle principali reti tedesche e austriache. Josè Carreas lo invita per 4 anni consecutivi al Josè Carreras Gala. Partecipa per tre anni consecutivi all’Unicef Gala (di cui ha scritto l’inno ufficiale) e con la quale tiene concerti in Brasile, Marocco, Argentina, Francia, Canada e Guatemala. Partecipa a programmi televisivi in Germania insieme ad artisti di fama mondiale come Luciano Pavarotti, Andrea Bocelli, Al Bano, Milva, Whitney Houston, Phil Collins, Eros Ramazzotti e molti altri. Nella sua carriera in Germania, Piero Mazzocchetti ha venduto oltre 15.000 album che in Italia equivalgono a 3 Dischi d ‘Oro ed uno di Platino. Quindi, nel 2007 il «ritorno» professionale in Italia a Sanremo. Quello privato invece, nella sua Pescara, il matrimonio con Rosalinda, il figlioletto Francesco, una scuola di altissimo livello dove insegnare il crossover di eccellenza fino all’ultimo lavoro, al fianco del Maestro Beppe Vessicchio. E l’avventura continua...

Il disco è della Italiana Dischi ed è prodotto dalla CP & Partners

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PASSIONE, FASCINO E STILE

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pagnoli è sinonimo di stile. Lo si capisce subito entrando nel quartier generale di Santa Lucia a Perugia dove Nicoletta, degna erede della celebre bisnonna Luisa la cui storia è stata raccontata recentemente con grande successo di pubblico su Raiuno porta avanti con le stesse capacità e la stessa passione della celebre bisnonna. Bionda, slanciata, affascinante, la presidente e amministratrice delegata del marchio di famiglia fondato dalla capostipite nel 1928 e fatto decollare in Italia e nel mondo prima dal nonno Mario e poi dal babbo Lino scomparso nel 1986, è la prova che certe dinastie si passano naturalmente il testimone del successo. E oggi a incarnare il mito è Nicoletta. Nel piccolo villaggio che ai tempi del nonno arrivò ad ospitare non solo l’asilo per i figli dei dipendenti con tanto di piscina ma addirittura anche delle piccole botteghe in cui chi lavorava qui dentro poteva comprare pane appena sfornato, carne e verdure freschissime, convivono tuttora la modernità nella produzione di capi di alta qualità e che vengono venduti nelle 152 boutique del brand Italia e nelle 52 all’estero, con la storia. L’ufficio di Nicoletta, che da 30 anni guida con successo la casa di moda, è lo stesso che un tempo occupava il padre. «E’ a lui – dice l’imprenditrice – che penso ogni volta che devo prendere una decisione. Che cosa avrebbe fatto papà? Funziona sempre». Oggi guardano a lei, Nicoletta, come un tempo a Luisa Spagnoli. «E’ molto difficile paragonarsi a una figura come quella della mia bisnonna che ai primi del ’900, in un’epoca in cui le donne non si sognavano nemmeno di poter lavorare e non avevano diritto di voto, riuscì a fondare due grandi aziende. E soprattutto creò dal nulla i prodotti che vendeva: dal Bacio perugina alla lana d’angora. Insomma una personalità eccezionale». Però in molti dicono che lei ha lo stesso passo. «Diciamo che anch'io come faceva lei mi occupo un po’ di tutto: disegno i capi, curo i cataloghi, visiono le modelle e coordino i punti vendita. Ogni settimana controllo i dati per capire i gusti delle clienti. E poi ci sono gli affetti. Mio figlio Nicola in primis, oggi studente all’università e già appassionato di moda, ma al passo coi tempi. Si occupa dell’ecommerce che abbiamo lanciato nell’aprile del 2015 e che

Nicoletta Spagnoli

sta andando benissimo anche in Paesi dove non siamo presenti con dei negozi, l’Australia ad esempio. Insomma, come diceva papà la tradizione è importante ma bisogna anche guardare al futuro. E Nicola lo rappresenta...». Il brand sta andando bene. «Vero. Stiamo per aprire il quinto negozio in Iran, altri due a Dubai, uno a Londra e uno negli Usa a Palo Alto. E abbiamo anche lanciato il profumo Luisa, che piace moltissimo». L’azienda ha 810 dipendenti, quasi tutte donne e nel 2015 ha chiuso con un fatturato di 126 milioni di euro. E il trend è in crescita. Lei ha detto che l’azienda è e resterà saldamente in mano alla sua famiglia... Non succederà insomma che la Luisa Spagnoli passi di mano così come accadde per la Perugina, venduta prima a De Benedetti e poi alla Nestlè. «Infatti. Pensi che mio padre Lino, poco prima di ammalarsi, mi confidò un giorno proprio qui – indica la grande scrivania al centro della stanza – di avere in progetto di riacquistare la Perugina. Non fece in tempo...Peccato». DODA

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