NUOVA FINANZA MAG./GIU/2015 N.3

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BIMESTRALE ECONOMICO FINANZIARIO

Poste Italiane Spa - Sped. abb. post. DL 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma1, C/RM/22/2013 del 19/06/2013

Anno 2015 Numero 3 MAGGIO GIUGNO

EXPO 2015 FACCIAMO DUE CONTI

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IL PUNTO L’inutile risparmio

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BORSA Le società quotate

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ATTUALITÀ Dario Argento si confessa



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Il Punto Il risparmio (in)utile Expo 2015 Scommessa quasi vinta Agro-alimentare Armonia in Borsa Cern Obiettivo Big Bang Crisi La carta del dialogo Finanziamenti La ricetta IBL Ricerca Cioccolata benefica Bcc Roma La banca di prossimità Banco Desio Il successo del territorio Industria Pasta Maffei

BCC ROMA IL NUOVO CDA

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Nuova Finanza

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IL PUNTO del direttore

L’ INUTILE RISPARMIO DEGLI ITALIANI

di Pietro Romano

Il risparmio? E’ il nostro petrolio”, era il leit motiv che dominava l’Italia di qualche decennio fa. E il Paese era orgogliosamente secondo solo al Giappone nella propensione ad accantonare denaro, magari trasformato in beni immobili. Eventi lontani di un’Italia in bianco-e-nero? Non proprio. Tanto che, crisi o non crisi, ancora oggi, in Europa, se si detraesse dall’enorme debito pubblico l’altrettanto ingente risparmio privato, l’Italia sarebbe tra i primi della classe e non il solito Pinocchio da spedire dietro la lavagna governo dopo governo. Ai tempi della discussione dei Parametri di Maastricht, però, la classe dirigente italiana era rimasta “assente in classe”, invece di tutelare specificità e punti di forza del proprio Paese. Non rammentando una lezione che doveva arrivarle dai secoli passati: i soldi, senza l’accompagnamento della forza o l’uso accorto della diplomazia, servono a poco. Come già avevano provato sulla propria pelle Firenze e Genova, Venezia e Napoli. Per sentirsi appagati, ai nostri negoziatori era bastato, per dirla con l’adagio rinascimentale, “sedersi dalla parte della saliera” ai tavoli dei potenti internazionali. Una prassi purtroppo tradizionale per la classe dirigente italiana, che ha sempre arrecato divisioni e danni al Paese Al cospetto di una contabilità internazionale dalla quale dipende ormai da un paio di decenni la vita quotidiana di tutti noi, che appunto non tiene conto del risparmio privato ed eleva agli altari laici solo quello pubblico, ci si trova quindi di fronte a un arduo dilemma: serve ancora il risparmio (privato) all’Italia

e agli italiani? Domanda paradossale, ovviamente, perché, più il welfare si restringe, più c’è bisogno di risparmio per le incertezze che può riservare il futuro. Pratica, però, diventata più facile a dire che a realizzare. Prima di tutto, manca il lavoro, autonomo o dipendente che sia, primaria fonte di reddito: il numero degli occupati, alchimie contrattuali a parte, rimane ai più bassi livelli europei. Né crescono i redditi degli scarsi occupati. Risparmiare, insomma, è difficile. Eppure, le sorprese non mancano. E’ vero che gli italiani avevano affrontato i primi scorci della crisi, quando si pensava che la ripresa fosse dietro l’angolo, proprio riducendo il risparmio, quando non erodendo il proprio tesoretto. Tanto che la propensione era passata dal 12 per cento del reddito di metà Duemila al 7 per cento nel 2012. Ma questa tendenza prima si è arrestata e, poi, lentamente ha cominciato a invertirsi, recuperando anche qualche frazione. Nel complesso, rimane nei portafogli degli italiani una massa di capitale elevata, ma

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che, sempre di più, somiglia al tesoro del deposito di Zio Paperone: buona per tuffarcisi. Tra rendite negative e rischi crescenti, infatti, sorge spontanea la domanda se valga la pena o meno di sacrificarsi per risparmiare. Un quesito che va allargato al sistema Paese. Gli italiani investono perlopiù in strumenti che non puntano a creare ricchezza, diretta o indiretta, nel nostro Paese. A dispetto degli oltre 1.200 miliardi di euro affidati ai fondi comuni e degli oltre 9mila miliardi di consistenza dell’universo del risparmio gestito, a esempio, uno dietro l’altro i gioielli del Made in Italy leader mondiali nel bello e/o nella tecnologia stanno emigrando, trascinandosi dietro, con il know how, dirigenti e ricercatori, dipendenti e indot-


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to, effetto moltiplicatore negli investimenti e nel commercio. Una tendenza apparentemente non destinata a esaurirsi con la vendita di Pirelli a un colosso chimico cinese: il 61 per cento delle segnalazioni alla Consob di posizioni rilevanti in società quotate alla Borsa italiana proviene da soggetti esteri, con in testa la semipubblica People’s Bank of China. Altro che rispetto delle regole del mercato. Intanto, quelle parvenze di “fondi sovrani” creati dall’Italia, invece di s o s t e n e re l’ammoderna-

mento e i grandi gruppi trainanti, investono in micro aziende che fanno marmellate o buste per riparare le valigie dalle intemperie. E sugli investimenti in infrastrutture, materiali o immateriali, ci si divide tra potentati lasciando l’Italia in deficit di competitività economica e benessere civile. Quale strada, allora, si pone oggi di fronte ai risparmiatori? Destinare una parte crescente del reddito ai consumi avrebbe potuto rilanciare l’economia ancora venti anni fa, quando la parte più consistente della spesa era “autarchica”. Ma, in tempi di globalizzazione, l’invasione di merci esteri ha spezzato questa catena virtuosa. Il singolo risparmiatore, però, può poco o punto. Serve mettere il risparmio al servizio dell’economia reale. Creare sviluppo, occupazione, reddito. Favorire gli investimenti a medio-lungo termine, prima di tutto con un’accorta politica fiscale, diventa un impera-

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tivo categorico per il legislatore, che finora ha, invece, penalizzato i gestori italiani. Mentre in Francia e in Germania il risparmio previdenziale non viene tassato, in Italia le Casse dei professionisti subiscono un prelievo del 26 per cento e i Fondi pensione del 20 per cento. Ed è solo un esempio. La conseguenza è che molti operatori con passaporto tricolore sono stati spinti a trasferirsi all’estero. Una società di risparmio gestito di diritto italiano, rispetto alle quattro o cinque autorità con le quali deve confrontarsi un concorrente estero, se ne ritrova12. Eppure non sembra che manchino in Italia gli scandali, nonostante questa siepe di controlli, né che gli altri Paesi più elastici siano diventati il regno delle truffe. Tra tante rottamazioni annunciate, una rottamazione legislativa in questo settore non sarebbe superflua. Anche perché, se i soldi in un sistema economico avanzato servono a far camminare le idee, la miriade di Pmi e di start up italiane dimostra che non mancano le idee nel nostro Paese. E nemmeno i soldi. Mancano le politiche per trasformare le idee in carburante per la crescita e la ripresa. Autentiche. E che, quindi, non possono che passare per il lavoro, sempre più qualificato, sempre più frutto di investimenti nell’educazione, la formazione, la modernizzazione. Una competizione di sistemi nella quale l’Italia non può sclerotizzarsi in ideologizzazioni novecentesche, liberismi e statalismi che, così com’erano, sono tramontati con l’ormai lontano Novecento. Dopo avere arrecato danni enormi all’Italia e agli italiani.


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POSSIAMO VINCERE LA SCOMMESSA

UNA “BOTTA” DI CONTI SULL’EXPO Sandro Neri*

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l sentiment è quello che il premier Matteo Renzi ha fatto suo, la mattina dell’inaugurazione: « La scommessa non è ancora vinta, ma ci possiamo riuscire. Mi piace pensare che oggi inizia il domani di un Paese che ha voglia di futuro e di abbracciare il mondo». E il futuro a cui l’Expo di Milano spalanca le porte ha il sapore della ripresa e delle ricadute che, sul piano economico, si attendono dai sei mesi della kermesse, iniziata il primo maggio su un sito espositivo di oltre un milione di metri quadrati, con la presenza di 145 Paesi. A misurare l’effetto-Expo, da qui al 31 ottobre, quando l’evento arriverà a conclusione, sarà, almeno in prima battuta, il termometro del turismo. Sono circa 9 milioni gli italiani che al momento hanno già deciso di visitare l’Esposizione universale. E i primi duecentomila si sono riversati nell’area espositiva in soli due giorni. Numeri che rendono Federalberghi fiduciosa sull’attendibilità delle previsioni fatte alla vigilia. E cioè 20 milioni di visitatori attesi, per una spesa turistica indotta pari a 3,5 miliardi, secondo i calcoli del « Certet » dell’ Università Bocconi di Milano. Già 11 i milioni di biglietti venduti, soprattutto all’estero; un milione solo in Cina e negli States, 300 mila in Argentina. La vendita dei biglietti ha registrato una crescita esponenziale in breve tempo. Tanto da far dire a Giuseppe Sala, commissario unico dell’Expo 2015, già all’indomani dell’inaugurazione, che « c’è stato uno straordinario riscaldamento del Paese». La sfida è ancora tutta da giocare. Ma la partita sembra avviata all’insegna dell’ottimi-

smo. Per il presidente degli albergatori, Bernabò Bocca, «2,6 milioni di persone hanno deciso che pernotteranno a Milano o in aree limitrofe, scegliendo nel 37 per cento dei casi l’albergo quale struttura ricettiva. Altri 3,9 milioni effettueranno una visita in giornata e 2,3 milioni, pur sicuri di esserci, sono ancora indecisi se soggiorneranno o meno. Sono numeri che evidenziano l’importanza per il nostro Paese di eventi di portata come questo, l’Expo può veramente offrire una spinta importante per la ripartenza del turismo». L’auspicio è che il richiamo dell’Esposizione universale, la prima organizzata sul suolo europeo dopo decenni, generi un effetto cascata. Iniziato, assicura Confesercenti, già ora, con una crescita nei comparti del food e della ricettività turistica . In particolare nella provincia di Milano. Il numero di imprese registrate nei comparti dell’alloggio, tra il marzo scorso e lo stesso mese dell’anno precedente, nella ristorazione e nel servizio bar è aumentato del 2 per cento, per un totale di 8.122 attività in più. Stando alle rilevazioni dell’Osservatorio Confesercenti, a crescere è soprattutto la ristorazione (+5.493 imprese, +3%). Nell’area della metropoli le imprese del settore sono 558 in più rispetto all’anno scorso (+6,6%), mentre le attività di ricezione crescono del 10,6% (+119). «L’Expo, con l’attesa che ha saputo generare - è l’analisi di Andrea Painini, presidente di Confesercenti Milano - ha portato ad un aumento dell’offerta ricettiva territoriale, alberghi ma anche bed and breakfast, nella città e nelle zone limitrofe. Il tema del-

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l’alimentazione, poi, ha dato ancora maggior impulso all’interesse per il food, e ha portato alla nascita di nuove attività in particolare nelle vie dello shopping più rinomate di Milano e nelle zone più vicine». In realtà, l’Esposizione universale sembra dare forza a una tendenza che non è solo milanese. I ristoranti aumentano in quasi tutte le regioni italiane. La Lombardia è quella che registra la crescita maggiore nel periodo esaminato (+998 imprese), seguono il Lazio (+817) e il Veneto (+492). Il comparto dell’alloggio mostra altrettanto dinamismo: in 12 mesi si conta a livello nazionale un aumento del 2,4%, per 1.467 di alberghi, hotel e bed&breakfast in più, con una crescita diffusa su tutto il territorio nazionale. A livello regionale, è il Lazio a registrare l’aumento maggiore del numero di imprese (+242), seguito da Puglia (+199) e Lombardia (+157). «Dopo le contrazioni registrate negli anni scorsi, la ristorazione prova a ripartire. Il fenomeno food è ormai dilagante e l’Expo ha impresso un’ulteriore accelerazione. Ma le difficoltà rimangono tante», spiega Esmeralda Giampaoli, presidente di Fiepet, l’associazione di categoria che riunisce i pubblici esercizi di Confesercenti. «Rimanere sul mercato non è semplice: quasi 6 imprese su 10 chiudono entro tre anni. È l’effetto di quasi un decennio di deregolamentazione, che ha aumentato il tasso di competitività, ma ha anche aperto la porta ad un’imprenditoria improvvisata e poco professionale che ha considerato questo un settore rifugio».

Il problema è come trasformare l’Expo di Milano in una reale occasione di sviluppo per il Paese. I segnali positivi, anche se circoscritti in alcuni ambiti, non mancano. L’Ufficio Studi del Gruppo Tecnocasa, che ha monitorato l’impatto dei lavori per l’Expo sul mercato immobiliare, indica Milano come l’unica grande città che a livello di compravendite ha dato segnali di ripresa prima di tutte le altre realtà metropolitane. Nell’ultimo anno i valori immobiliari di Milano si sono ancora ribassati, -5,5%, e questo ha contribuito alla ripresa delle compravendite. «Nella seconda parte del 2014 le nostre agenzie hanno segnalato alcune richieste di acquisto di immobili da affittare nel corso dell’Expo », fa sapere Tecnocasa. «Si è registrato un certo interesse per immobili in affitto per i dipendenti da parte delle società incaricate di svolgere i lavori di preparazione dell’evento. Si riscontra, inoltre, un discreto fermento sul mercato dei locali commerciali. Infatti su Milano si attendono quasi 20 milioni di visitatori e si prevede una spesa turistica di 3,5 miliardi di euro, 1,2 miliardi dei quali solo per la ristorazione. Questo ha comportato un notevole interesse per immobili da destinare a questo settore nelle zone più centrali di Milano ». Infine, la scommessa più grande. Quella del rilancio dell’industria agroalimentare, una delle eccellenze dell’economia italiana, con un ruolo da protagonista in un’Esposizione universale che ha per tema «Nutrire il pianeta, energie per la vita». Quanto l’Expo di Milano, nella sua veste di piattaforma

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internazionale di discussione e di con2020, è alla nostra portata». Di più: fronto, potrà fare sui fronti degli «Dobbiamo essere consapevoli che atscambi commerciali e delle intese fra torno all’agroalimentare possiamo coPaesi è fondamentale per assicurare la struire uno dei veri punti di svolta piena riuscita della kermesse, al di là dell’economia italiana». Il Piano deldella definizione di strategie globali sui l’agroalimentare italiano partirà a giugrandi temi della sostenibilità, di un gno da Chicago. «Bisogna lavorare corretto utilizzo delle risorse e di insiste Martina - in tutti quegli Stati un’economia più equa. L’export dei prodotti agroalimentari italiani crescerà in media, nei prossimi anni, del 5,5-6 per cento, quindi un punto in più della media complessiva. La previsione è del viceministro Carlo Calenda, che all’Expo di Milano ha inaugurato il padiglione Cibus, la vetrina che ospita 450 aziende e 1.000 marchi italiani. «Questo settore è raggiunto da una domanda dall’estero superiore a quella degli altri e può giovarne tutto il Paese, Sud compreso, grazie a una ricaduta sul territorio ben distribuita», ha osservato, sottolineando come questi sei mesi saranno una grandissima occasione Il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi per l’agroalimentare italiano. Il made in Italy parte in vantaggio, ma non può crogiolarsi sugli allori. Lo ha più volte ricordato dove la domanda di food italiano è allo stesso ministro alla Politiche Agritissima. E ci sono delle fiere che poscole, Maurizio Martina, che proprio sono fare la differenza in questo sull’Expo 2015 ha mantenuto la delega lavoro». a lui affidata dal precedente governo. Sul settore, e più in generale nel com«Dobbiamo spingere i processi di inparto agricolo, l’Expo ha acceso un ternazionalizzazione sull’agroalimenfaro da mesi. L’agricoltura, stando a tare perché l’obiettivo che ci siamo uno studio del Censis, realizzato in coldati, 50 miliardi di euro di export al laborazione con la Confederazione ita-

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liana agricoltori, è percepita dagli italiani come un valore da difendere e da rimettere al centro dello sviluppo. Tanto che l’86 per cento degli italiani consiglierebbe a un figlio di farsi agricoltore e gli stessi giovani vedono nei campi una prospettiva di lavoro. Sono 17mila gli «under 30» che hanno avviato un’impresa agricola a partire dal 2010. Il che significa che, su 100 start-up, 15 sono state create da giovanissimi. «Nelle nostre aziende siamo in grado di creare in cinque anni oltre 100.000 posti di lavoro - osserva il presidente della Cia, Dino Scanavino - se sarà restituita centralità al settore primario e se soprattutto ci sarà una forte integrazione di filiera e una visione dell’agricoltura come motore di ricerca, come produttore di turismo, come attore della tutela e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale del Paese». La ricerca rileva che un italiano su due coltiva un orto, e tra i giovani la quota è persino più elevata (51,2%), anche se in buona parte lo fa saltuariamente (34,9%). In cinque anni sono nate quasi 117 mila nuove attività, di cui 106 mila in ambito agricolo e quasi 11 mila in quello agroalimentare. I due settori insieme hanno rappresentato l’area di attività prescelta dal 10,1 per cento degli imprenditori che hanno avviato un’azienda negli ultimi tre anni. *Caporedattore de “Il Giorno”


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IL FUTURO DELLA AOP

“ARMONIA” PRESTO IN BORSA

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a AOP Armonia, tra le maggiori AOP del Mezzogiorno, La quarta gamma è un settore in espansione, voi avete la nasce dall’unione di tre Organizzazioni di Produttori, maggior parte della vostra produzione concentrata nella Piana Poma, Idea Natura e Terramore che hanno unito esperienza, del Sele, pensate di potenziare la produzione? professionalità e know how, per accrescere notevolmente la La nostra produzione di eccellenza, ha il suo core business nella propria efficienza ed incisività commerciale. La superficie coltivata piana del Sele, dove, prima le fragole, poi pesche e nettarine, ed dalle 3 OP è prossima ai 3000 ettari e divisa principalmente tra infine kiwi e rucola, hanno dato l’imprimatur al nostro marchio. Marche, Campania, Calabria, Basilicata e Puglia. Attualmente però Calabria, con le clementine e Basilicata pesche In un mercato in cui la domanda è concentrata nelle mani di e nettarine, sono cresciute sensibilmente in termini di conferimenti pochi gruppi d’acquisto e le cui dimensioni si fanno sempre più e cresceranno ancora. Inoltre anche Puglia e Marche si sviluppegrandi, l’aggregazione tra agricoltori è divenuta una scelta ranno come produttori di uva, ciliegie e platicarpe. Il tutto per necessaria per chi vuole perseguire competitività e redditività dare sempre maggiore risalto al made in Italy dove la qualità del garantendo elevati standard qualitativi. Ne parliamo con il prodotto è sicuramente la più alta nel mondo in questo settore, direttore generale di AOP Armonia Antonio Bene. con particolare riferimento ai prodotti BIO. Dottor Bene, com’è nata l’idea di unire tre grandi Organizzazione Il Ministro Martina sostiene, che il sistema agroalimentare di produttori ortofrutticoli? italiano vale il 17% del Pil nazionale, lei ritiene che il Governo Armonia, per la verità è nata nel 2009, ma la nuova visione di abbia fatto il massimo mettendo a disposizione 2 miliardi una AOP moderna, in linea con le direttive reali dell’UE, al di euro per il prossimo triennio 2015-2017 e come ritiene che passo con la crescente richiesta di prodotti di alta qualità e di tale somma possa aiutare, in concreto, i produttori agricoli? servizi in linea con le aspettative di una GDO sempre più Gli aiuti dello stato devono avere come principale riferimento esigente, si è andata forando nel 2014. Infatti, nelle riunioni che gli investimenti nelle produzioni agricole che si consorziano retenevo nella OP Terramore, in qualità di consulente aziendale, almente per concentrare l’offerta e realizzare economie di scala con i soci Esposito, Papace e Zoccoli, emergeva con sempre effettive e non di facciata. Premiando quindi le realtà che maggiore evidenza che era necessario unire le forze produttive e fondono i loro interessi commerciali e produttivi, evitando di ficommerciali delle varie aziende agricole, per sostenere le pressioni nanziare aggregazioni di carta che esistono solo per accedere ai del mercato. A queste riunioni si sono unite, ben presto le OP contributi. Una particolare attenzione va rivolta alla possibilità POMA ed IDEA NATURA, fondatrici di ARMONIA, attradi accedere a nuove tecnologie per la produzione agricola, a proverso gli amministratori Volpe, Mellone e Caggiano, ed nata muovere moderne strutture aziendali, e a creare infrastrutture questa splendida aggregazione, che vale circa 35 milioni di euro che rendano la logistica meno onerosa. di fatturato, di cui sono Per concludere qual è il fiero di far parte. suo sogno nel cassetto Quali sono i progetti per AOP Armonia? futuri: puntare a nuovi I fornitori e le banche mercati oltre confine, o hanno sinora salutato aumentare il mercato con favore il progetto di in Italia? industrializzazione del La nostra clientela priprocesso agricolo in atto maria è la GDO in ITAin Armonia, con una traLIA, ma abbiamo una sparenza informativa grossa fetta, quasi il 40% sempre più evidente. Per di estero in Francia e questo non nascondo il Germania ed è essensogno di poter, nel medio zialmente sull’estero che termine, riuscire a quosi rivolge il nostro protare in borsa la prima getto di espansione del Nella foto da destra: Domenico Zoccoli, Carmine Papace, Felice Volpe, Consiglieri; Antonio Bene, AOP d’Italia. fatturato. (Re.NF) Direttore Generale; Paolo Mellone, Presidente Cda; Demetrio Esposito e Pietro Caggiano, Consiglieri

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DAL CERN DI GINEVRA

“OBIETTIVO BIG BANG” dall’inviato Valeria Caldelli

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INEVRA - Era partito sette minuti prima dal Sole, percorrendo 150 milioni di chilometri e superando qualsiasi barriera. Gli occhi grandi del Cern lo hanno intercettato e la sua traiettoria è stata inchiodata sullo schermo in un lampo prima che scomparisse chissà dove. I ricercatori lo hanno riconosciuto subito per il modo in cui correva: è un ‘muone’, una delle 17 particelle elementari finora conosciute con cui è fatto il nostro universo. Lui, figlio di ‘pioni’ e nipote di ‘protoni’, è un po’ ciccione e pesa ben 200 volte di più del cugino elettrone, che è snello e non muore mai. Una ‘buffa’ famiglia quella della materia che ci circonda, piena di scontri, dissidi, unioni e divorzi per molta parte ancora misteriosi. Il gigantesco rivelatore Atlas, cuore del Cern, grande come la cattedrale di Notre Dame e pesante 7mila tonnellate, né più né meno come la Torre Eiffel, da cento metri di profondità ‘spia’ l’intero universo della materia per capire di cosa è fatta, quali sono le sue origini e quale la sua destinazione. Ci ha già accompagnati nella scoperta del Bosone di Higgs, l’architrave su cui poggiano le altre 16 particelle elementari, e da un paio di mesi ha iniziato una nuova avventura. Alla fine di marzo è infatti tornato a funzionare Lhc, il più grande acceleratore al mondo di particelle, un cerchio di 27 chilometri nel sottosuolo del Cern, composto da 1300 magneti superconduttori al cui interno è riprodotta una temperatura di 272 gradi sotto zero, un grado in meno rispetto a quella del nostro universo, e nel cui nucleo viaggiano le particelle alla stessa velocità della luce riproducendo scontri simili a quello del primordiale Big Bang. E ora la sfida si è fatta più dura. Fino a ieri, infatti, la macchina funzionava immettendo un’energia di 4 tev per ogni fascio di particelle, da marzo, dopo due anni di lavori, la potenza è stata quasi raddoppiata: all’incirca 7 tev. Se per ottenerla dovessimo usare normali batterie da 1 volt e mezzo ce ne vorrebbero così tante che, tutte in fila, arriverebbero fino alla stella Vega, tra le più lontane della galassia. Così tanto vale la sfida per superare le Colonne d’Ercole e raggiungere il mondo sconosciuto. “Questa è una macchina del tempo che ci permette di avvicinarci al momento del Big Bang. Noi conosciamo perfettamente la quantità di energia e di massa che c’è nell’Universo. Così, per un tempo brevissimo e un volume piccolissimo, riusciamo a ricreare con Lhc le stesse condizioni del momento della sua nascita. Non proprio di quel momento, per la verità. Fino ad oggi siamo andati indietro nel tempo fino a un milionesimo di un milionesimo di secondo dopo il Big Bang. Con la nuova

potenza immessa nella macchina scorceremo ancora la distanza arrivando fino alla metà del milionesimo di milionesimo di secondo. Un arco temporale che sembra piccolo ma che ha prodotto cambiamenti straordinari nella formazione dell’Universo”. Ce lo spiega Sergio Bertolucci, vicedirettore generale e direttore della ricerca del Cern, mostrandoci uno dei magneti superconduttori, 45 tonnellate della tecnologia più avanzata e sofisticata ad oggi conosciuta. Al loro interno le particelle compiono 11.000 giri di 27 km in un secondo e in 20 minuti raggiungono la potenza massima per la collisione. L’ urto dei due fasci di protoni produce nuova vita, facendo schizzare decine di altre particelle, dai pioni agli elettroni, dai neutroni agli antiprotoni, tutte con caratteristiche e parentele diverse tra loro, ma appartenenti alla stessa famiglia allargata del nostro Universo, quasi come in un albero genealogico. I rivelatori lungo i 27 km di percorso, un centinaio di metri sotto i nostri piedi, sono lì pronti a captarle, fissandole in immagini. Atlas, il più potente, con una macchina digitale scatta 40 milioni di foto al secondo, in quello stesso secondo le guarda tutte e ne sceglie mille, le più promettenti, da inviare ai ricercatori. Mille foto al secondo

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per scoprire l’ignoto, trovare nuove certezze o aumentare i dubbi, aprire porte chiuse e magari chiuderne altre. Perché in verità quel Big Bang che ci ha spiegato molte cose della nostra storia, lascia anche tante perplessità. “I problemini non mancano, a partire dal fatto che al momento noi conosciamo soltanto il 4 per cento della materia di cui è composto l’universo”, racconta il vicedirettore del Cern. “Sappiamo poi che esiste una forma di materia che non emette, né assorbe luce e di cui ci siamo accorti attraverso fenomeni di tipo gravitazionale. E’ una materia che c’è, ma non si vede, di cui non conosciamo niente e che per questo abbiamo chiamato materia oscura. Si calcola che la sua quantità sia intorno al 26 per cento. Il restante 70 per cento è composto di ‘dark energy’, di cui ugualmente non sappiamo niente. Semplicemente ci siamo accorti, una decina di anni fa, che l’Universo sta accelerando la sua espansione, anziché diminuirla, come avviene dopo un qualsiasi scoppio e come ci aspettavamo che avvenisse dopo il Big Bang. Esiste dunque una ‘dark energy’ che produce questa espansione e che non è inclusa nel Modello Standard, disturbandoci molto”. La scienza, si sa, obbedisce al principio del dubbio e i fisici si

definiscono i suoi ministri. L’esplorazione del nostro Universo è dunque soltanto all’inizio. Finora abbiamo scoperto che è nato da un puntino infinitamente piccolo e che prima del Big Bang, 13,7 miliardi di anni fa, non esistevano né lo spazio, né il tempo. Sappiamo poi che così come è nato, l’Universo avrà una fine, anche se non conosciamo né quando, né come. Abbiamo la certezza dell’esistenza di altri miliardi di galassie con cui non potremo mai interferire e nessuno esclude la possibilità che siano popolate da esseri viventi. Siamo anche riusciti a scovare le particelle elementari di quel minimo 4 per cento di materia che conosciamo. Ma è ancora troppo poco. Cosa viene dopo? “Nei prossimi 15-20 anni con Lhc approfondiremo ciò che già sappiamo e nello stesso tempo andremo a cercare oltre i confini della fisica attuale”, spiega Bertolucci. “E’ come se avessimo in mano una carta geografica: da una parte ci muoviamo all’interno di quella carta, verificando ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, dall’altra è cominciata l’indagine fuori dai limiti conosciuti, con gli occhi ben attenti a cogliere le sorprese”. La nuova fisica, quella che muoverà i primi passi in campi inesplorati, si chiama Supersimmetria e presuppone l’esistenza di un mondo che, appunto, è simmetrico al nostro, in cui ad ognuna delle particelle a noi ormai note ne corrispondono altre uguali e contrarie. Non opposte, ma contrarie, come in uno specchio. Al Cern stanno già lavorando in questa direzione e all’acceleratore con potenza raddoppiata ora chiedono la risposta alle loro domande. “Se l’ipotesi della Supersimmetria risultasse vera”, azzarda il vicedirettore, “si riuscirebbe a spiegare la materia oscura perchè esisterebbero particelle che ne giustificherebbero l’esistenza. Prima di tutto, comunque, andremmo a cercare le caratteristiche del Bosone di Higgs. Potremmo scoprire, ad esempio, che ne esistono più di uno e questo andrebbe d’accordo con la Supersimmetria, la quale ha bisogno di 5 Bosoni di Higgs”. Già pronte, dunque, le domande per Lhc. A partire da quella materia oscura che disturba tutti i sogni dei fisici perchè nessuno ha mai capito che accidenti sia. C’è poi l’altro rebus della scomparsa dell’antimateria. Dov’è finita? E quante sono le dimensioni attraverso le quali possiamo leggere il mondo? Prima erano tre, poi è stata aggiunta la quarta, il tempo. Però potrebbero essercene altre, a noi finora sconosciute. Saranno 20 anni di avventura quelli iniziati a marzo. Ma già si sta pensando al dopo, ad un’altra macchina del tempo, questa volta con un percorso di 100 km, molto più potente, che ci porterà molto più vicina al Big Bang.

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CORPI INTERMEDI

DIALOGO CONTRO LA CRISI Ornella Cilona

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ialogo sociale e competitività economica: un binomio indissolubile per uscire dalla crisi. E’ questo il nuovo messaggio lanciato dalla Commissione europea a inizio anno, ben diverso dall’indifferenza (e a volte anche ostilità) che nutre il primo ministro italiano Matteo Renzi nei confronti di sindacati e associazioni imprenditoriali, organizzazioni di categoria e ordini professionali. La tesi di Bruxelles è che le buone relazioni industriali favoriscono lo sviluppo economico e la creazione di posti di lavoro. Poiché, tuttavia, il conflitto in quasi sette anni di recessione ha preso il posto della collaborazione fra le parti sociali, c’è bisogno di un intervento dell’Ue che ristabilisca le basi di un dialogo. Questa rinnovata strategia è apparsa evidente in due recenti e importanti iniziative organizzate nelle scorse settimane dalle istituzioni comunitarie. La prima è stata la conferenza “Una nuova partenza per il dialogo sociale”, tenutasi nella capitale belga. “La crisi”, si legge in una ricerca sulle relazioni industriali nel 2014, realizzata dalla Direzione generale Occupazione e Affari sociali della Commissione Ue e presentata in occasione della conferenza, “unita ad alcune tradizioni nelle relazioni industriali, ha influito negativamente sul dialogo sociale, provocando un crescente conflitto fra le parti sociali. La qualità del dialogo è pertanto divenuta un tema centrale di discussione”. Lo studio mette in luce come la recessione abbia accelerato cambiamenti significativi nella negoziazione collettiva, primo fra tutti la diminuzione, in modo

lento ma costante, del numero dei dipendenti coperti dalla contrattazione collettiva. Dal 2002 al 2012, infatti, il tasso di copertura dei contratti collettivi è sceso dal 68 per cento dei lavoratori europei al 61 per cento. La principale conclusione della ricerca è che i Paesi europei che meglio hanno reagito alla crisi sono stati quelli dove il tessuto delle relazioni industriali è più vigoroso. “Il verdetto è senza ambiguità” scrive la Commissione Ue “gli Stati con istituzioni forti di dialogo sociale sono tra le economie maggiormente competitive e in salute, con una situazione sociale migliore e più resistente rispetto agli altri. Una ‘via alta’ alla competitività internazionale, che sfrutta il potenziale di risoluzione dei problemi proprio del dialogo sociale, è dunque possibile. Questa strategia non si basa soltanto sul costo del lavoro ma anche su fattori non legati al salario come la qualità e l’affidabilità dei beni e dei servizi e una forza lavoro qualificata e in possesso di elevati titoli di studio”. Lo studio europeo mette, inoltre, in evidenza l’influenza che il coordinamento delle politiche economiche a livello comunitario sta avendo anche sull’andamento del dialogo sociale nei 28 Paesi

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dell’Ue. Le raccomandazioni specifiche (“Country Specific Recommendations”) che la Commissione europea invia agli Stati membri in primavera contengono, infatti, proposte di riforma anche su temi che tradizionalmente erano appannaggio esclusivo delle parti sociali nazionali. Il decentramento della contrattazione collettiva, a esempio, è ritenuto da Bruxelles una misura efficace per al-

lineare la produttività alle retribuzioni, tanto da essere spesso una delle raccomandazioni avanzate ai governi nazionali. Poiché tali raccomandazioni sono parte del complesso pacchetto di governance economica comunitaria denominato “semestre europeo”, gli Stati devono tenerne conto nel proprio programma nazionale di riforme. A volte tali riforme devono essere decise


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in tempi brevi dai governi, che non hanno quindi il tempo di consultare sindacati e imprenditori. Il risultato, paradossale, è che la Commissione europea da un lato insiste sull’importanza del dialogo sociale e dall’altro, con le procedure previste dal semestre europeo, di fatto lo svilisce. La Presidenza lettone dell’Ue ha dedicato al tema del dialogo sociale un se-

condo importante convegno internazionale, svoltosi a Riga poche settimane dopo la conferenza di Bruxelles, nel quale sono intervenuti, tra gli altri, il primo ministro Laimdota Straujuma, il ministro del Lavoro, Uldis Augulis, e i presidenti del sindacato Lbas e dell’associazione degli imprenditori LDDK della Repubblica baltica. “L’Unione europea”, ha affermato Straujuma nel suo

intervento, “ha un programma ambizioso per stimolare la crescita e l’occupazione e noi abbiamo bisogno di accelerare il processo di riforme per rafforzare la ripresa. Noi crediamo che queste riforme negli Stati membri dell’Ue non possono essere fatte senza il coinvolgimento delle parti sociali”. Non a caso, è lettone anche il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, incaricato di seguire il dossier dell’euro e del dialogo sociale. Riga punta, infatti, a seguire l’esempio della Germania, che, grazie anche a una collaborazione sociale fruttuosa, è divenuta la locomotiva d’Europa. In Italia, al momento, sarebbe impensabile una conferenza ad alto livello sul dialogo sociale con la presenza sullo stesso palco di Matteo Renzi, Giuliano Poletti e i leader delle associazioni imprenditoriali e dei sindacati. Il premier, infatti, ha mostrato in più occasioni una forte insofferenza nei confronti delle parti sociali, confondendo (o facendo finta di confondere) riti stantii con il confronto, tanto da varare una profonda riforma del mercato del lavoro (Jobs Act) e da smantellare il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), senza tenere conto del

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loro parere. Nettamente diversa, al di là delle valutazioni politiche, è, invece, la posizione della Presidente della Camera, Laura Boldrini. A fine febbraio, nel corso di un incontro con le organizzazioni imprenditoriali agricole, Boldrini ha riaffermato l’importanza del dialogo sociale, ribadito poi in un interessante intervento sul “Sole 24 Ore”, e dei corpi intermedi (ribadito poi in un interessante intervento sul “Sole 24 Ore”) in quanto hanno “un ruolo centrale per il nostro Paese, in particolare perché quel ruolo è nella nostra Costituzione e dobbiamo rispettarlo se vogliamo rispettare la Costituzione”. Il futuro prossimo sembra dare più ragione a Boldrini che a Renzi. Nei prossimi mesi, infatti, il dialogo sociale europeo parlerà sempre più in italiano. In autunno, un nostro connazionale sarà nominato alla guida della Confederazione europea dei sindacati (Ces), che raggruppa 90 organizzazioni nazionali dei lavoratori in 39 Paesi del Vecchio continente. Per la successione a Bernadette Ségol, attuale segretaria generale, è stato, infatti, designato Luca Visentini, ex segretario della Uil Friuli Venezia Giulia ed attuale membro della segreteria Ces. Visentini dovrà dialogare con un’italiana, Emma Marcegaglia, che da luglio 2013 è presidente di Business Europe, l’associazione imprenditoriale con sede a Bruxelles cui aderiscono 39 organizzazioni in 33 Paesi dell’Europa, da poco confermata nel ruolo. A dimostrazione che, ai vertici delle associazioni di rappresentanza (e dei portatori di legittimi interessi) a Bruxelles, “italians do it better”.


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IBL, CARTA VINCENTE

LA RATA BASSOTTA Germana Loizzi

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l Gruppo IBL Banca è l’unico gruppo bancario italiano specializzato nel settore dei finanziamenti tramite la cessione del quinto dello stipendio o della pensione. La sua quota di mercato per flussi erogati è più che raddoppiata in 5 anni, passando dal 6,8% nel 2009 al 14% nel 2014, così ha conquistato il secondo posto della classifica Assofin, diventando leader di settore. Nato nel 1927 con il nome di Istituto di credito agli Impiegati, lo stesso si è trasformato in banca nel 2004 ed è diventato gruppo bancario nel 2008. Svolge la propria attività attraverso un canale diretto rappresentato da filiali bancarie e negozi finanziari di proprietà e uno indiretto comprendente una rete di business partner terzi. Il Gruppo IBL Banca presidia e gestisce internamente e direttamente l’intera catena del valore relativa ai prodotti di finanziamento offerti, a partire dal contratto con il cliente fino alla raccolta della liquidità necessaria e al processo di recupero dei crediti. Questo consente di ottenere rilevanti economie di scala. Oggi è presente su tutto il territorio nazionale attraverso un canale distributivo diretto di 46 unità territoriali, di cui 18 filiali IBL Banca e 28 negozi finanziari IBL Family, Mario Giordano, Ad IBL Banca ed una rete indiretta composta da 57 partner tra banche, intermediari finanziari, mediatori creditizi e agenti. Il Gruppo IBL Banca conta oggi su 440 dipendenti con un’età media di 38 anni ed una struttura organizzativa snella e dinamica. I finanziamenti a fronte di cessione del quinto dello stipendio (CQS) o della pensione (CQP) si caratterizzano per essere uno strumento regolamentato dalla legge dello Stato italiano (DPR 5/1/1950 n.180) e

sono rivolti ad una clientela retail specifica formata da lavoratori dipendenti e pensionati. Si tratta di un settore protetto che richiede un’importante specializzazione degli operatori e presenta elevate barriere all’entrata in relazione ad uno stringente quadro normativo di riferimento ed alla necessità di un’approfondita conoscenza del segmento di mercato. Il prestito contro cessione del quinto richiede una copertura assicurativa obbligatoria contro il rischio decesso e perdita di impiego del cliente e dei vincoli sui trattamenti di cessazione dei rapporti di lavoro. Questi elementi limitano il rischio di mancato recupero del credito da parte di IBL Banca. Negli ultimi anni IBL Banca ha progressivamente incrementato le attività sul canale Web, puntando in particolare su azioni di “lead generation” e di Direct Marketing che costituiscono un driver primario per la crescita del Gruppo. Grazie al vantaggio competitivo derivante da una lunga esperienza nel settore ed una costante attenzione al cliente, IBL Banca ha consolidato nel tempo la sua posizione sul mercato raggiungendo, al 31 dicembre 2014, oltre 364 mila clienti sul fronte finanziamenti, appartenenti alle Mario Giordano, Amministrapiù importanti Presidente IBL e aziende prizioni Pubbliche vate. Nel corso del 2014, su 239 mila richieste, sono stati erogati oltre 27 mila finanziamenti per cessioni del quinto e prestiti con delega per un montante lordo complessivo pari a circa 750 milioni di euro, con un incremento di circa il 17% sul 2013. Il Gruppo più recentemente ha ampliato la sua offerta con prodotti di raccolta, in particolare conti deposito, con prodotti assicurativi e con altri prodotti finan-

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ziari, anche tramite lo sviluppo di partnership con primari operatori terzi. Per quanto riguarda i risultati relativi al passato esercizio, al 31 dicembre 2014 l’utile lordo consolidato si è attestato a 76,6 milioni di Euro, quasi il doppio (+ 92,5%) rispetto ai 39,8 milioni di Euro del 2013. Analogamente l’utile netto consolidato, in crescita a 50,5 milioni di Euro è più che raddoppiato rispetto ai 22,9 milioni di Euro del 2013 (+105% sul 2013). Nel corso dell’esercizio in esame il margine di interesse consolidato è cresciuto a 58,2 milioni di Euro (in aumento del 70,2% rispetto ai 34,2 milioni di Euro del 2013), mentre il margine di intermediazione consolidato è risultato pari a 128,3 milioni di Euro (in crescita del 52,6% rispetto agli 84,1 mi-

lioni di Euro nel 2013). A livello consolidato gli impieghi per finanziamenti alla clientela retail sono stati pari a 1.618 milioni di Euro (+30,5% rispetto ai 1.240 milioni di Euro del 2013) e la raccolta diretta da clientela retail si è attestata a 1.282 milioni di Euro, rispetto ai 930 milioni di Euro del 2013 (+37,8%). Il totale dell’attivo ha raggiunto i 4.668 milioni di Euro contro i 2.890 miliardi di Euro della chiusura dell’esercizio 2013 (+61,5%). Nello specifico la raccolta consolidata è salita a 4.375 milioni di Euro. Al 31 dicembre 2014 il patrimonio netto di pertinenza del Gruppo è risultato pari a 138,2 milioni di Euro (+46,7% rispetto ai 94,2 milioni di Euro di fine 2013). In miglioramento nel 2014 anche i principali indicatori di reddit-

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tività, con il ROE che si è attestato a 57,6% rispetto al 32% del 2013. “L’esercizio 2014 si chiude con una crescita a due cifre delle masse amministrate e un forte miglioramento della marginalità. Questi risultati sono in linea con il piano industriale di crescita del Gruppo e il consolidamento del nuovo modello operativo. Il nostro modello di business, sia sul fronte dei finanziamenti tramite cessione del quinto sia in relazione alla nostra offerta di conti deposito, si conferma unico e innovativo nel settore, e ci ha permesso nel corso dell’anno appena chiuso di ottenere ottimi risultati e confermarci tra i principali operatori del settore”, ha dichiarato Mario Giordano, Amministratore Delegato di IBL Banca.


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ATENEI DI PISA E SIENA, S. ANNA E CNR

LA CIOCCOLATA FA BENE AL CUORE

È

buona e fa tanto bene al cuore. Non solo al cuore dove albergano i sentimenti, ma proprio al muscolo con i due ventricoli che pompano sangue e che, ahime’, ogni anno è responsabile di una grande quantità di vittime, piu’ di qualsiasi altra malattia. Insomma, la cioccolata, proprio lei, la dea dei golosi, può diventare come una medicina anche se dopo averla ingerita, o meglio gustata, anziche’ storcere il naso ci si possono leccare i baffi. Parola di medici, biologi e agronomi che hanno lavorato gomito a gomito per ‘inventare’ una cioccolata le cui naturali sostanze antiossidanti sono state arricchite tanto da poter agire positivamente nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Una cioccolata anti-infarto, dunque, che sarà presentata all’Expo’ di Milano, già fornita di nome e di marchio europeo. Si chiama ‘Toscolata’ in onore alla regione dove sono avvenuti gli studi interdisciplinari che hanno coinvolto la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, l’Università di Pisa, quella di Siena e il Cnr di Firenze. Dal progetto, finanziato dalla regione Toscana, sono nate per ora due varietà di cioccolata, una ottenuta con l’inserimento nella ricetta della mela ‘Panaia rossa’ e l’altra con l’aggiunta di olio extravergine d’oliva. Entrambe sono prodotte da un’azienda artigianale di Arezzo

che ha già in cantiere una nuova formula con le ciliegie e un’altra con la farina di castagne. Tutte bontà deliziose per la gola, ma anche preziose per il nostro cuore, secondo il concetto fatto proprio dalla Scuola Sant’Anna che non solo l’appetito, ma anche la salute vien mangiando. “Non è una medicina, ma un prodotto alimentare e in quanto tale deve essere buono”, sottolinea Luca Sebastiani, agronomo dell’Istituto di Scienze della vita e responsabile di questo gruppo di ricerca della Scuola Sant’Anna. “In piu’ funziona nella prevenzione delle malattie cardiovascolari”. E scusate se è poco.... Per convincere chiunque che il gusto inconfondibile del cacao non è stato minimamente oltraggiato in queste nuove produzioni arricchite di antiossidanti è stata fatta la prova di assaggio ed è stato un successo. Nessuno si stupisca, dunque, se i ricercatori sono stati sommersi di richieste da parte di volontari che si vogliono sottoporre alla sperimentazione clinica. Le ‘cavie’ saranno ‘costrette’ a mangiare 40 grammi di cioccolata al giorno per otto settimane al termine di ogni merendina ci sarà un prelievo di sangue per controllare le cellule ematiche cir-

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colanti. La dottoressa Rossella Di Stefano, del dipartimento di Patologia Chirurgica Medica Molecolare dell’Università di Pisa spiega che se queste cellule aumenteranno, come è atteso, allora la Toscolata avrò fatto il suo effetto accrescendo le nostre difese contro infarto, ictus e ischemie. I 30 volontari, tutti con fattori di rischio cardiovascolare, quali il fumo, il colesterolo e la pressione alta, hanno già cominciato la sperimentazione, i cui risultati si conosceranno ad ottobre. Mentre è in corso lo studio sulla cioccolata, un altro risultato della ricerca sta dando i suoi effetti positivi. La Scuola Superiore Sant’Anna è infatti diventata l’araldo nel campo degli studi su una nuova alimentazione che, senza mortificare il nostro gusto, fornisca però le sostanze necessarie a mantenere la salute e a combattere le malattie. Duecentomila piantine di pomodoro nero, ortaggio ad alto contenuto di antociani, una sostanza dal fortissimo potere ossidante, stanno infatti per essere immesse sul mercato e distribuite in tutta Italia. Anche il ‘SunBlack’ è nato alla Scuola San-

t’Anna nell’ambito di un progetto che ha visto protagoniste anche l’Università di Viterbo, di Pisa, di Modena e Reg-

gio Emilia. “Questo pomodoro ha un’azione efficace contro i radicali liberi”, spiega il rettore della Sant’Anna, Pier-

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domenico Perata, coordinatore del PlantLab dell’ Istituto di Scienze della Vita. “Per il momento le piantine sono a disposizione soprattutto dei coltivatori privati, ma dal prossimo anno prevediamo una produzione in larga scala che permetterà di distribuire il pomodoro nero nei negozi e nei supermercati”. La prossima meta della Scuola Sant’Anna in fatto di alimentazione sarà l’aumento del contenuto di iodio negli ortaggi. “Lo iodio è importantissimo per la tiroide. La sua mancanza o carenza crea danni cerebrali gravi nei bambini e grossi problemi negli adulti. Purtroppo lo iodio in natura si trova solo nel pesce. Il nostro tentativo è quello di poterne invece ingerire una quantità adeguata attraverso le verdure”, spiega il professor Perata. E aggiunge: “Niente di quello che stiamo studiando ha comunque a che fare con gli Ogm. Ciò che facciamo è ottenuto da incroci naturali, cioè da mutazioni che hanno dietro di loro caratteri esistenti in natura e non modificati artificiosamente”. Valeria Caldelli


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BANCA DI CREDITO COOPERATIVO

SOSTEGNO A FAMIGLIE E IMPRESE

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inquemila soci, riuniti in Assemblea alla Fiera di Roma, hanno approvato il 19 aprile scorso il Bilancio 2014 della Banca di Credito Cooperativo di Roma (con un utile di 25,9 milioni), rinnovando contestualmente le cariche sociali. Subito dopo il nuovo Consiglio di Amministrazione ha confermato Francesco Liberati Presidente per il triennio 2015-2017. Un triennio, ha detto Liberati “molto importante per dare seguito alla storica missione della Banca a sostegno di famiglie e piccole imprese che operano nei nostri territori di riferimento (Roma, Lazio, Abruzzo). A ciò si affiancherà l’impegno nel processo di autoriforma dell’intero Credito Cooperativo, nel quale BCC Roma - la più grande BCC italiana - ha rilevanti specificità di cui tenere conto. Il mio impegno sarà appunto quello di affrontare questa sfida tutelando quelle peculiarità localistiche e mutualistiche che ci contraddistinguono da sempre e a cui non intendiamo rinunciare. Siamo infatti convinti che il Credito Cooperativo rimanga una presenza essenziale all’interno dello scenario bancario nazionale, assicurandone la pluralità. In questa

16,9%, a fronte di dati di sistema che hanno evidenziato una diminuzione, rispettivamente, del 6,6% e dell’1,9%. Ha rivestito poi una notevole importanza l’operazione di aumento del capitale sociale cui i 30 mila soci hanno contribuito significativamente. Grazie anche alla redditività conseguita nel triennio, il patrimonio ha toccato quota 747 milioni e, con un Total Capital Ratio del 17%, la Banca risulta tra le più patrimonializzate della categoria e tra le più solide banche medie del Paese. “Per l’immediato futuro - ha concluso il Presidente Liberati - BCC Roma conta di sostenere famiglie e imprese con nuove risorse, che sono previste nella misura di oltre 700 milioni per il solo 2015. Lo faremo con lo stile di sempre, confrontandoci con soci e clienti al di là di meri numeri di rating, ma facendo tesoro della Francesco Liberati nostra approfondita riconfermato Presidente capacità di conoscenza diretta dei territori nei quali operiamo. È una cifra distintiva che continuerà a caratterizzarci, congiuntamente all’esercizio di una sana e prudente gestione che ha permesso di consolidare il nostro assetto negli anni di una crisi economica di lunga durata che solo ora sembra lasciare spazio a un cauto ottimismo”.

fase che tende al gigantismo bancario e alla spersonalizzazione dei rapporti, il Credito Cooperativo offre un modello relazionale e localistico di cui famiglie e mondo delle piccole e medie imprese non possono fare a meno. Detto questo, è fondamentale che si superino alcune criticità, aumentando le dimensioni minime delle singole BCC, a volte troppo piccole per competere adeguatamente sul mercato, con processi di aggregazione”. L’esercizio 2014 ha visto BCC Roma chiudere un triennio positivo in cui, nonostante il difficile contesto generale, ha conseguito un significativo rafforzamento organizzativo, patrimoniale e commerciale. In particolare, gli impieghi sono aumentati nel triennio del 14,5% e la raccolta diretta del

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BANCO DESIO

IL SUCCESSO DEL TERRITORIO Germana Loizzi

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tefano Lado, 55 anni, avvocato, è Vice Presidente del Banco Desio e Presidente della Banca Popolare di Spoleto. I dati del bilancio 2014 del gruppo Desio, anche se a perimetro non omogeneo, sono indubbiamente molto buoni. Quali le ragioni di questo successo? Le ragione del successo registrato nello scorso anno coincidono con il supporto che il Banco Desio, anche di fronte al perdurare di una congiuntura economica negativa, ha continuato a dare all’economia del territorio in cui è presente. Il dato più evidente in tal senso è quello relativo agli impieghi: contro una media di -3% del sistema bancario italiano quelli del Banco Desio sono aumentati del 3,2%. A livello di gruppo, poi, si registra l’importante incremento del 38,5% per effetto dell’avvenuta aggregazione della Banca Popolare di Spoleto dal 1° agosto dello scorso anno. Questo aumento degli impieghi, accompagnato da una generale riduzione del costo della raccolta, ha generato un aumento del margine d’interesse. Al livello dei ricavi da servizi l’incremento è arrivato anche grazie all’interesse della clientela, assecondato dal gruppo che è in grado di mettere a disposizione della stessa un ventaglio molto ampio di prodotti d’investimento, per un significativo trasferimento delle masse dal risparmio amministrato al risparmio gestito. Arrivati a oltre un terzo dell’esercizio in corso, si può ragionevolmente prevedere l’andamento del gruppo? Essendo una società quotata a Piazza Affari non possiamo anticipare nessun dato. I dati fino a oggi annunciati al mercato sono molto soddisfacenti e questo ci fa ben sperare anche per la seconda metà dell’anno. Il primo trimestre 2015 si è chiuso con un utile netto di pertinenza della capogruppo di circa 13,8 milioni di euro. Altro elemento da sottolineare è quello della solidità patrimoniale, che può essere sintetizzata dai coefficienti patri-

moniali: al 31 marzo 2015 il Common Equity Tier del gruppo (che attesta la dimensione del patrimonio di elevata qualità) si è attestato al 10,33% e il Total Capital Ratio al 12,04%, a fronte di limiti minimi di Basilea 3, rispettivamente del 7% e del 10,5%, comprendendo la riserva di conservazione del capitale. Nel gruppo ha ormai un ruolo significativo la struttura che faceva capo alla Banca Popolare di Spoleto. Che cos’è cambiato alla Banca Popolare di Spoleto dopo l’intervento del Banco di Desio e della Brianza? E come sta andando la ormai parte umbra del gruppo? L’operazione, fortemente voluta dall’amministratore delegato di Banco Desio, Tommaso Cartone, sta procedendo molto bene. Una volta entrati nel capitale, nello scorso mese di agosto, abbiamo messo in linea i tassi perché la raccolta era cara mentre il tasso medio sugli impieghi non era correlato al mercato ed alle articolazioni di rischio. Inoltre abbiamo operato sul Centro informatico ottenendo subito economie di scala per almeno 2 milioni di euro. Per il prosieguo l’obiettivo è dare un nuovo impulso alla rete e rinegoziare i canoni di locazione delle filiali come già abbiamo fatto a livello di gruppo da quando si è insediato Tommaso Cartone. Dopo l’acquisizione e l’integrazione della Spoleto come si articolerà operativamente il gruppo? Come avevamo già dichiarato al momento dell’annuncio dell’operazione l’obiettivo rimane lo stesso: Banco di Desio e della Brianza sarà l’insegna del gruppo nel Nord Italia mentre Banca Popolare di Spoleto sarà quella per l’Italia Centrale. Banco Desio e Banca Popolare di Spoleto resteranno quindi due marchi separati con al centro il cliente. Da qualche

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Stefano Lado, Vice Presidente del Banco Desio e Presidente della Banca Popolare di Spoleto


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settimana inoltre abbiamo completato il conferimento di 32 sportelli che da Banco Desio sono diventati Banca Popolare di Spoleto. L’ingresso della Spoleto nel gruppo Desio quali ripercussioni potrà avere sull’economia dell’Umbria? Vogliamo continuare a supportare il territorio fatto di bellissime realtà imprenditoriali, capaci di puntare non solo sui mercati italiani ma anche su quelli internazionali. Per farlo ci piacerebbe aumentare il dialogo con gli imprenditori locali e rappresentare per loro un punto di riferimento su cui contare per le ulteriori sfide imprenditoriali. L’energia degli imprenditori umbri è da supportare totalmente e non esiteremo a farlo. Le imprese italiane, soprattutto le piccole, lamentano difficoltà nell’accesso al credito. E’ una sensazione reale? E, nel territorio un tempo presidiato dalla Spoleto e ora dal gruppo Desio, che cosa fate, o farete, in particolare per venire incontro alle necessità delle imprese e delle piccole in particolare? Quando si parla di difficoltà dell’accesso al credito bisogna anche parlare del merito di credito delle imprese. E’ giusto, come abbiamo fatto, continuare a impegnarci a fianco delle

realtà meritevoli. Per farlo nel corso degli ultimi mesi abbiamo stretto alcuni accordi con alcune associazioni territoriali confindustriali proprio per garantire il giusto sostegno. Dal suo osservatorio privilegiato, come valuta l’attuale situazione economica italiana in generale e umbra in particolare? Si intravedono certamente dei segnali positivi, ma purtroppo il quadro rimane ancora molto precario. Il dato della disoccupazione a livello giovanile e i consumi che ancora stentano a decollare sono un chiaro segnale di questo andamento non netto. Questa situazione comunque era inevitabile perché tutte le crisi economiche hanno un’onda lunga. Come valuta la riforma delle banche popolari realizzata dal governo? E anche se la Spoleto è solo impropriamente una popolare ipotizza che possa essere coinvolta nel risiko che la riforma è destinata a innescare e che non potrà non coinvolgere anche le più piccole popolari, che potrebbero guardare alla Desio come un centro di attrazione? Confermo che Desio potrebbe essere un punto di attrazione per le popolari di minori dimensioni, ma ad oggi siamo ancora impegnati a perfezionare l’integrazione con la Spoleto.

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UNA SOLIDA REALTÀ INDUSTRIALE

MAFFEI, LE MANI IN PASTA Katrin Bove

L

a qualità. E’ questa la sintetica ricetta per uscire dalla crisi, quasi una parola d’ordine, applicata a Barletta, la città della Disfida, di Pietro Mennea e del…pastificio Maffei. Un’azienda che ha moltiplicato le sue vendite proprio quando, dal 2011 in poi, la crisi mordeva più ferocemente, costringendo le famiglie italiane a tagliare anche dove nessuno l’avrebbe ipotizzato: il carrello della spesa. Un’espansione anticiclica delle vendite fotografata da due cifre: dagli 8,4 milioni di chili di pasta fresca del 2011 l’azienda pugliese è salita ai 14,6 milioni del 2014, marcando in quattro anni “neri” per i consumi un incremento record superiore al 73%. La storia A casa Maffei la pasta è un arte e l’arte di tenere le mani in pasta il fondatore dell’azienda, Savino Maffei, l’ha appresa nel forno del nonno oltre mezzo secolo fa, assieme alla passione per la pasta fresca fatta a mano e al rispetto delle tradizioni produttive. Valori alimentati negli anni dalla ricerca continua sul prodotto e dall’innovazione dei processi che hanno condotto l’azienda a rinnovarsi tecnologicamente e a sfidarsi di continuo, pur rimanendo fedele alla qualità, all’eccellenza del prodotto e alla soddisfazione massima del cliente. Punti fermi che hanno permesso al pastificio Maffei di diventare una solida realtà industriale nel mercato italiano della pasta fresca, producendo e commercializzando pasta fresca di semola di grano duro, pasta fresca all’uovo e gnocchi freschi di patate. La vocazione appresa in famiglia è stata perfezionata da Savino Maffei in mare. Era giovanissimo quando cominciò a lavorare

sulle navi passeggeri. Su una grande madia, nella cucina di bordo, impastava farine e lieviti con cui nutriva la speranza degli italiani che emigravano in Australia per cercar fortuna. Lui, invece, la fortuna l’ha cercata e trovata in Italia, nel centro storico della sua Barletta, dove nel ‘60 aprì un laboratorio che sfornava orecchiette e cavatelli, grazie ad una macchina comprata in occasione di una fiera. Il salto di qualità data al 1982, quando Savino Maffei ebbe l’idea di lanciare il prodotto sottovuoto ma fresco. Fu il primo in Italia: «Il mercato non esisteva — spiega — e oggi siamo tra primi nel Paese, nella produzione di pasta fresca di semola, con una quota di mercato del 20%». Il pastificio Maffei conta oltre 90 dipendenti che nel 2014 hanno prodotto 14,6 milioni di chili di pasta fresca. Ma è ancora lui, il fondatore, a selezionare le materie prime: «Uno dei più bei ricordi della mia infanzia è il piatto di pasta che la mamma ci preparava la domenica — racconta —. Quel profumo, in tavola, di sugo tirato. E le orecchiette che acquistavamo da Rosina, la pasciuta matrona che le produceva con i rapidi movimenti delle dita, più veloce e precisa di una macchinetta». I prodotti Il pastificio Maffei è un’azienda che distribuisce in tutta Italia, con una quota di poco superiore al 2% destinata all’esportazione. Il cavallo di battaglia sono le Specialità pugliesi, che portano il nome di “Bari vecchia”, il quartiere del capoluogo famoso per la produzione di orecchiette venduta davanti alla porta di casa, ma ormai lo sguardo è rivolto alle molteplici contamina-

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zioni enogastronomiche che il nostro Paese ispira. E così in menu appaiono i maccheroni calabresi, le tipiche trofie liguri, le gustose tagliatelle all’uovo e i recenti gnocchi freschissimi di patate, oltre ai formati speciali e alle linee realizzate per le grandi insegne della distribuzione. Un viaggio esperienziale ed emozionale nell’Italia della freschezza e delle eccellenze, un Paese che, di per sé, è sinonimo di pasta in tutto il mondo. L’innovazione La terza fase nella storia del pastificio Maffei parte nel 2006, con un intenso processo di sviluppo sostenuto da notevoli investimenti nel ciclo produttivo che, in soli cinque anni, permette il raddoppio della produzione. Il 2010 è l’anno della specializzazione nella pasta fresca all’uovo e nella pasta fresca di semola e del conseguente raddoppio dei volumi del marchio, che permette di raggiungere la quota del 15% nel segmento Private Label. Nel 2012 viene inaugurata la sesta linea di produzione, dedicata agli gnocchi realizzati attraverso un sistema di lavorazione a freddo, che non prevede la fase di pastorizzazione e non causa shock termici. Sempre nel 2012 nasce la Sfoglia all’uovo extrafine, dodici sfoglie sottili, ruvide e trafilate al bronzo, fatte con uova fresche italiane. Lo stabilimento ora è suddiviso in tre aree ben distinte e indipendenti (per la pasta di semola, per la pasta all’uovo, per gli gnocchi), ognuna rispettosa di severi standard di qualità e sicurezza. In queste aree sono in attività otto linee di produzione, l’ultima delle quali dedicata all’impasto per pizza e focaccia, una novità assoluta, un inno alle origini culinarie della terra di Puglia. La qualità L’azienda vanta, inoltre, 9 silos della capacità di 800 quintali ciascuno, uno dei quali dedicato Savino Maffei alla semola proveniente esclusi-

vamente da fornitori italiani, grazie alla quale il pastificio Maffei propone un prodotto private label per una pasta fresca 100% italiana, assicurandosi in questa fetta di mercato una posizione significativa. Maffei è il primo produttore italiano di Pasta Fresca di Semola a ottenere la certificazione UNI EN ISO 22005:2008, che stabilisce i principi e i requisiti di base per l’esecuzione del sistema di rintracciabilità dell’alimento e della filiera, aggiungendosi alle certificazioni già in possesso: BRC e IFS. Il pastificio Maffei propone, inoltre, un metodo di tracciabilità 100% italiano su tutta la filiera. Questa procedura, tecnologicamente programmata e sistematizzata, rassicura clienti e consumatori sulla provenienza delle materie prime, i percorsi di consegna e destinazione, la sicurezza della catena di produzione, l’autentica eccellenza del Made in Italy da destinare alle nostre tavole. Tra mood e food Nel 2013 è arrivato anche il restyling completo del logo e del packaging di tutte le linee di prodotto al fine di rafforzare la visibilità del marchio nel panorama sempre più aspramente competitivo e accrescerne la riconoscibilità sul mercato. E in nome della contaminazione che oggi domina universi apparentemente lontani, da quest’anno il pastificio Maffei sposa la contaminazione tra Mood e Food facendo incrociare la matita dello stilista Marco Coretti e l’eccellenza della pasta fresca italiana. E il primo risultato è un beneaugurante “fiocco rosso”, cromia rivelatrice del meglio italiano, da automobili ruggenti ad abiti affascinanti, accoppiato a un estino evocativo della tradizione produttiva del pastificio. Un packaging esclusivo e unico che celebra il Made in Italy e sposa la filosofia del brand tra passato e futuro.

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COSTUME & SOCIETÀ FIRENZE UNA SPINTA DI MODERNITÀ (a pag. 58)

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FIRENZE, 150 ANNI DOPO

di Marcello Mancini

(Editorialista de “La Nazione”)

A

lzi una mano chi sa che Firenze è stata Capitale d’Italia. Che il Parlamento era in Palazzo Vecchio e la dimora del Re a Palazzo Pitti. Briciole nell’universo, eppure svolta gigantesca per una delle eccellenze italiane più amate nel mondo. Che 150 anni fa seppe trovare l’incoscienza necessaria per trasformarsi in una città moderna. La storia è questa. Era la fine dell’Ottocento - ricevuto il testimone da Torino nel 1865, lo consegno’ definitivamente a Roma nel 1871 -, la furia del cambiamento rottamo’ il centro storico e seppellì anche testimonianze che sarebbe stato meglio conservare, con la scusa che il ghetto - così si chiamava il quartiere dove si trova oggi la centralissima piazza della Repubblica - doveva essere ripulito da ladri e prostitute. In realtà le vestigia custodivano anche testimonianze romane e medievali

che andarono irrimediabilmente perdute. Era la Firenze di Dante, che scomparve e fu inghiottita dalla nuova vita, come racconta la lapide che domina la piazza. Solo che non tutto andava considerato “secolare squallore” e, con il senno di poi, avrebbe meritato una maggiore attenzione. La rivoluzione urbanistica fu così sorprendente che i fiorentini rimasero scioccati, forse è per questo che per i successivi 150 anni non si sono azzardati a toccare un mattone. D’altra parte era una necessità, perché borghesi e notabili piemontesi - che qui chiamavano, con garbo fiorentino, buzzurri - trovassero case e uffici, ospitalità per ministeri e infrastrutture, adeguate a una citta’ che dalla dimensione settecentesca granducale si trasformava in centro rappresentativo dello Stato unitario appena realizzato (1861). Dovettero far fronte, i fiorentini, a una invasione di nuovi concittadini che in pochi mesi fecero raddoppiare la popolazione residente, che nel 1859 era di 113mila abitanti. Fra il

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1865 e il 1870 furono costruiti più di 50mila ambienti abitabili. Cosi Firenze divento’ il simbolo moderno della civiltà e dello sviluppo, diremmo oggi una città europea, ben prima di altre capitali del Vecchio continente. Prese le sembianze della Firenze che vediamo ai giorni nostri, segno che la connotazione urbanistica che seppero darle gli amministratori dell’epoca molti dei quali fecero anche parte del governo nazionale - era funzionale e pronta ad affrontare il Novecento. Il problema è che poi non si è saputa adeguare ai fulminei stravolgimenti che la seconda metà del cosiddetto “secolo breve” ha imposto, specialmente nel settore dei trasporti. È rimasta una città rinascimentale, cioè a misura d’uomo, e l’assalto del traffico del tempi moderni l’ha assediata di rischi, anche strutturali. I monumenti e i palazzo storici hanno sofferto inquinamento e vibrazioni senza che nessuna amministrazione, dal dopoguerra agli anni Novanta, abbia saputo trovare rimedi. La nascente onda


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ambientalista ha bloccato ogni spinta allo sviluppo verso l’unica direttrice possibile, a nord ovest. Per anni la rete di trasporti si è fermata concettualmente ai progressi che seppero imporre i fiorentini e i toscani dell’Ottocento. Cioè le ferrovie, che il Granduca Leopoldo II incoraggio’ con la sua lungimiranza. Nel 1850, completata la Siena-Empoli, la Toscana raggiunse 220 chilometri di strada ferrata, la più estesa d’Italia. Oggi, con grande fatica e fra difficoltà di impatto ambientale e giudiziarie, i treni dell’alta velocità dovrebbero attraversare Firenze con un percorso più rapido e funzionale, ma passare nella pancia della città non è una cosa semplice, dunque i lavori sono in ritardo e il futuro non è così certo. La città è disseminata di cantieri, proprio come 150 anni fa: sottosopra per i lavori della Tav e per due linee della tramvia, soluzione discussa ma inevitabile per alleggerire l’assedio delle auto e dei bus. Eppure allora non stettero a pensarci troppo, quando si trattò di buttare giù e ricostruire, a costo di far arrabbiare i fiorentini di fine Ottocento più di quanto non lo fossero già per aver dovuto digerire l’arrivo della capitale che, non a caso, il barone Bettino Ricasoli definì una “tazza di veleno”. Rogne e spese: a Firenze la presero male. La gente aveva un diavolo per capello e imprecava, allo stesso modo dei fiorentini del 2015: ora ce l’hanno con i lavori della tramvia e con le ruspe, così come ce l’avevano, in quegli anni di trasformazioni, con i picconi. Quando, come scrivevano i cronisti dell’epoca, “ogni ventiquattr’ore spariva qualcosa di vecchio e appariva qualcosa di nuovo”. Solo attraverso le pagine de La Nazione, l’unico giornale presente

e testimone già nel 1865, i fiorentini riuscivano a sapere che cosa stava succedendo davanti al proprio naso: perché le mura sparivano e al loro posto prendevano forma gli immensi viali di circonvallazione, che si incontravano al piazzale Michelangelo in una geniale terrazza con l’incomparabile vista sulla città. Come ha scritto Zeffiro Ciuffoletti nel libro “La città capitale: Firenze”, fu un parto traumatico e doloroso, ma non un aborto”. Insomma, anche se i fiorentini brontolavano - ma questo fa parte del loro Dna - quella della capitale fu un’opportunità che restituì a Firenze, certo insieme a grattacapi e debiti postumi, la gloria dei secoli passati. Capitava, allora, di incontrare per le strade Giosuè Carducci, Luigi Capuana, Edmondo De Amicis, Massimo D’Azeglio, Alessandro Manzoni. Un traffico di cultura dal quale affiorò la fantasia di un irrequieto impiegato del Senato Toscano, che si chiamava Carlo Collodi, il quale, quasi per caso, scrisse il libro che oggi vanta più traduzioni nel mondo dopo la Bibbia: la storia di Pinocchio. Firenze che aveva consegnato al nome del suo giornale, La Nazione, le aspirazioni unitarie dell’Italia, rappresentò in altri nobili settori la nascita di una nuova comunità: la lingua italiana (con la presenza dell’Accademia della Crusca) e la cucina, dove imperava il celebre Pellegrino Artusi, l’antenato di tutti i master chef, che da qui dettò il “Ricettario”, fondendo le varie tradizioni regionali. Nella stagione del cambiamento di noi, protagonisti del Duemila, ci sarebbe molto da imparare da chi seppe rottamare senza rimpianti, anzi, trovando nella logica della ricostruzione, una spinta di modernità. Furono aiutati dal coraggio e dall’incoscienza, evidentemente virtù... Capitali.

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LA MALEDIZIONE DI MACBETH

di Valeria Caldelli

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’è la Tv nel futuro prossimo di Dario Argento, l’incontestato ‘re del thriller’ conosciuto in tutto il mondo per i suoi effetti-sorpresa di matrice psicologica e di gusto ‘horror’. Puntate da brivido ci aspettano dunque sul piccolo schermo, mentre l’annunciato film ‘The Sandman’, serial killer che strappa gli occhi alle sue vittime, subirà qualche ritardo. La coproduzione canadese, americana e tedesca che coinvolgerà anche la rock star Iggy Pop resta confermata, ma i tempi del primo ciack sono slittati ai mesi autunnali e Dario Argento non ama girare durante i rigori invernali. “In Canada fa molto freddo in quel periodo e questo sarebbe un disagio sia per me che per gli attori. Preferisco rinviare alla primavera prossima”. Spiega. E intanto si gode i successi della Lucia di Lammermoor, varata per la sua regia al teatro Carlo Felice di Genova, e del Macbeth, nato un paio di anni fa a Novara e recentemente andato in scena sul palco del teatro Verdi di Pisa. Anche se purtroppo proprio l’opera verdiana gli è costata tre costole, rotte a causa di una caduta nel periodo delle prove. “E’ la maledizione di Macbeth”, sibila raccontando di essere scivolato appena sceso dal treno, nella stazione della città toscana. D’ altra parte è noto che chi tocca il re scozzese, simbolo di avidità e potere, ha una spada di Damocle sulla testa. Molti attori, e persino il pubblico ne sono stati colpiti nei secoli. Basti pensare a Vittorio Gassman che nel 1983 ebbe un infortunio a Firenze sempre durante le prove del Macbeth, tanto che la rappresentazione

dovette essere cancellata. E, ancora peggio, qualche anno prima il regista americano Roman Polanski stava proprio girando un film sulla stessa tragedia shakespeariana quando venne uccisa la moglie, Sharon Tate, all’ottavo mese di gravidanza. Che sia un caso?

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“Non che sia superstizioso, ma, insomma, qualcosa c’è”, risponde Dario Argento, dolorante, seduto a Pisa al bar del Teatro Verdi, dove lo abbiamo incontrato. “Si dice che siano le streghe presenti nel dramma a portare sfortuna. Io però le ho rappresentate giovani, belle, nude e fisicamente attraenti...Niente orpelli, la strega non può essere vestit a ” . Loro, co-


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munque, le streghe, non si sono lasciate convincere e qualche sortilegio lo hanno fatto lo stesso, lasciando Dario Argento un po’ ammaccato per tutto il periodo delle prove. Ma un maestro del brivido come lui non poteva certo lasciarsi intimorire dalle minacce di qualche creatura maligna. Così, nonostante le costole rotte, ha proseguito fino alle due rappresentazioni finali del Macbeth che lo hanno ripagato con grandi applausi. Un successo, quello dell’opera verdiana da lui proposta, che adesso è esploso anche in Germania. Le opere liriche come i film. Perché pensa che il sangue e le sorprese attirino il pubblico? “Ho sempre creduto che una certa tensione nel guardare uno spettacolo sia positiva. Io cerco solo di dare una scossa elettrica che faccia pensare e riflettere. Cose strane, bizzarre, inaspettate permettono di non lasciarsi andare troppo. Voglio che i miei film diano emozioni al di fuori del quotidiano. Io non mi ispiro mai a fatti di cronaca, ma a suggerimenti del mio intimo. Sono un grande appassionato di Freud e credo molto nella psicanalisi. E’ proprio perchè parlo un linguaggio universale che i miei film hanno successo in tutto il mondo”. Che rapporto ha con se stesso? “Io penso di essere diviso in due: da una parte ci sono io, da quell’altra c’è Dario Argento, che è quello che fa, che crea, che inventa. Io, invece, sono una persona normalissima, che ha una tendenza alla solitudine. Mi piace pensare e stare da solo. Amo molto anche viaggiare e viaggio spesso, preferibilmente da solo, anche durante le vacanze. Questo perchè in questo modo non c’è bisogno di condividere emozioni: parlare tanto

di qualcosa ne fa perdere gli aspetti misteriosi”. Ma lei non ha mai paura di niente? “Ho paura dei fantasmi della mia coscienza nera, però ho anche il privilegio di saper dialogare con la parte oscura di me stesso, di conviverci senza sconvolgimenti. Quando ero più giovane e giravo i miei film a volte ho temuto che questo vaso di Pandora si rompesse e che quello che c’era dentro mettesse paura anche a me. Invece no, non è mai successo. Poi ci sono le paure quotidiane, quelle banali, di tutti. A me, ad esempio, fanno impressione i corridoi lunghi. Quando ero piccolo abitavo con i miei genitori in una casa molto grande, che aveva un corridoio lungo e molto buio. La mia stanza era l’ultima, in fondo al corridoio, e ogni volta che lo percorrevo io sentivo delle presenze…”. E’ nata da lì l’idea dei thriller? “Certamente è nata da certe emozioni che ho avuto da piccolo e soprattutto da alcune letture. Ero adolescente quando ebbi le febbri reumatiche e restavo per lungo tempo da solo in casa. Allora, per trascorrere le giornate, andavo a ‘pescare’ nella biblioteca di mio padre ed ho letto di tutto. Un giorno mi capitò tra le mani un libro di racconti di Edgar Allan Poe e quel giorno per me si è aperta una porta attraverso la quale ho visto un mondo che non avevo mai visto. Il mondo del trascendente, della pazzia, dei fantasmi, delle reincarnazioni, dei morti viventi....E tutto questo è rimasto impresso nella mia mente”. Sono le creature della notte. Lei di notte che cosa fa? “Di notte? Di notte si fanno pensieri. A volte si dorme”. De P aol

De P aola Giov

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È stata celebrata la giornata contro l’omofobia e, attualmente nel nostro paese, un personaggio sicuramente interessante a riguardo potrebbe essere Edoardo Tarantino, un commissario di polizia gay che opera a Roma e che, più di ogni altro, rompe sicuramente tutti gli stereotipi legati all’omosessualità. Il libro, presente al salone di Torino è stato scritto da Lucia Piera de Paola e Giovanni Cucci. Edito da TEKE EDITORI Roma

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IL COMMISSARIO TARANTINO

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YO MY U ARE DES TINY

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ALESSANDRO APREDA,

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lessandro Apreda è un giornalista, direttore di numerose testate di successo, e scrittore. Poliedrico e ricco di interessi, Alessandro è nato nel 1975: nel pieno dello sbarco degli anime (cartoni animati) giapponesi in Italia, ha vissuto da spettatore, come molti della nostra generazione, la nascita della tv commerciale e delle tante mode che negli ultimi anni sono tornate a far tendenza, anche con il rilancio di numerose propertiy e franchise dell’epoca. Dai Dvd e modellini proposti da RCS con Gazzetta dello sport, al ritorno di personaggi che hanno lasciato il segno, tra sigle di cartoni animati, fumetti e tormentoni televisivi e cinematografico. Alessandro che tipo di bambino sei stato? Compagnone, sempre in giro con gli amici, o solitario diviso tra tv e fumetti? Diciamo una via di mezzo. Ore e ore attaccato a videogiochi, TV e fumetti, ma ho dato il mio contributo alla grande causa del mercurocromo per ginocchia sbucciate, giocando sotto casa a pallone o quello che c’era. Una volta abbiamo trasformato il parchetto in un campo da golf a 9 buche, perché ai tempi andava molto Lotti... Sei molto legato all’immaginario della tua infanzia: lo hai dimostrato creando un blog di grande tendenza, che risveglia il ricordo del target 35/40 anni, e scatena la curiosità delle nuove generazioni con un piglio curioso e un approccio innovativo e vivace. I mitici anni ’80 sono in te. Che cosa ti ha lasciato quel decennio e come è nato il tuo blog? Tantissimi ricordi, quelli dell’infanzia, per forza di cose indorati dal tempo. Il blog è nato come tutti i blog che spuntavano ovunque a metà anni Zero: come passatempo. All’inizio parlavo soprattutto di videogiochi e viaggi. Gli anni 80 sono arrivati dopo, un po’ alla volta, come tutte le altre passioni che ho riversato nel blog. Quando scegli un argomento da trattare, parti dalle tue esperienze dirette, emozionali? Se si, è incredibile come queste coincidano con un pubblico che si riconosce ed identifica con precisione matematica con te e il tuo vissuto… L’approccio personale per me è l’unico possibile. Non puoi trattare in maniera distaccata, oggettiva un argomento, anche perché ormai non ha più senso farlo: per quello c’è Wikipedia. Se racconti i ricordi, se parli di sensazioni, per forza di cose fi-

nisci per scendere su un terreno comune in cui chi legge riesca a identificarsi. Da quando è iniziata l’avventura del blog, che idea ti sei fatto della generazione anni ’80. Dobbiamo rimpiangere quegli anni? I tuoi lettori sono nostalgici, rammaricati, eterni Peter Pan? L’esser stato esposto ogni giorno a decine di serie animate diverse, per anni, ha creato nella mente di chi è nato in quel periodo un immaginario coloratissimo. I cartoni, le serie TV americane tamarre, le pubblicità dei giocattoli su Topolino... tutto convergeva verso un mondo di fantasia che, inevitabilmente, noi tutti ci portiamo dietro. Gli “antristi” (i lettori dell’Antro) nostalgici? Non credo. Come tutte le persone intelli-

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“GENERAZIONE 40” genti, sanno che l’infanzia è sempre un periodo magico per tutti. Solo che la nostra, a differenza delle generazioni precedenti, ha avuto quel periodo magico in anni in cui la fantasia era stimolata da centinaia di input nuovi e frizzanti. E ogni tanto, con la consapevolezza che ti dà solo il senno di poi, è bello dipingersi in faccia un sorriso affacciandosi su quel mondo. Il blog è nato come un hobby. per poi diventare un piccolo grande fenomeno, mentre il lavoro ha premiato il tuo talento molti anni prima. Sei stato alla direzione di una rivista leader del settore, Digital Japan, accompagnata dal successo di Horror Mania. Anche queste erano tue passioni: hai avuto la fortuna di vivere per lavorare e non il contra-

di Nicola Bartolini Carrassi rio? Sì, ho avuto la doppia fortuna di trovare lavoro quasi per caso, seguendo una delle mie passioni (i videogiochi), e di potermi poi dedicare sulla carta stampata ad altri settori come quelli che hai citato: l’animazione giapponese, l’horror. Va detto che quando ho iniziato, quindici anni fa, la situazione lavorativa era radicalmente differente e l’avvento di Internet aveva aperto le porte della stampa specializzata anche a chi, come me, non viveva a Milano o Roma. Dal tuo esordio come direttore/curatore e ideatore di testata ad oggi come è cambiato il mercato dei magazine in edicola? Su questo ha influito internet?. E personalmente tu che cosa preferisci tra cartaceo e digitale? C’è stata una contrazione, vuoi per la concorrenza di Internet, vuoi per la crisi. Una stretta a tenaglia che ha lasciato sul campo anche testate storiche e creato problemi a grandi quotidiani e gruppi editoriali. Sono un grande fruitore di contenuti digitali, tra libri, fumetti e quotidiani. Credo però che la stampa cartacea abbia ancora molto da dare prima di passare la mano: il piacere che ti dà leggere un volume a fumetti e riporlo in libreria è difficile da emulare con un tablet. Siamo un po’ la ‘generazione di mezzo’, a cavallo tra analogico e digitale. Tu stai praticamente usando i nuovi media digitali per emozionare e intrigare i tuoi lettori con immagini e ricordi da un passato analogico. È quasi un paradosso. Vero :) E tu pensa quando si parla di qualcosa di assolutamente, cocciutamente analogico come i nastri delle vecchie cassette musicali, e lo si fa scrivendo o commentando tramite cellulari con una memoria in grado di contenere migliaia di brani... La tua esperienza da blogger è stata premiata da un notevole successo e seguito. E dal digitale, dove parlavi di analogico, ecco il passo indietro (?), alla carta stampata, al profumo dell’inchiostro, al piacere di sfogliare e leggere emozioni. Ci racconti del tuo libro? Anche quello è nato più o meno per caso. L’editore del libro leggeva l’Antro e mi ha proposto di scrivere un libro sugli anni 80. Un libro che raccontasse così come li ho vissuti io, ad altezza di ragazzino, fenomeni e tormentoni del decennio, dai telefilm al Commodore 64. Il titolo non poteva che essere “Per il potere di Grayskull”

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Il pubblico del web e gli acquirenti del tuo libro coincidono, oppure, tolto lo zoccolo duro, hai raggiunto e raggiungi due target diversi, dividendoti tra blog e carta stampata? Molti dei ragazzi che leggono il blog hanno comprato il libro, ma Per il potere di Grayskull è finito anche in mano a chi dell’Antro non sapeva nulla e magari se l’è trovato davanti per caso in libreria o su Amazon. Gli store digitali, in questo senso, permettono di scoprire sempre cose nuove che possano interessarti. O almeno questo è quello che succede sempre a me... :) Quali sono i tuoi piani a breve e lungo termine? Sul lavoro e nella vita privata… Non faccio mai piani a lungo termine, ma per quelli a breve... No, in genere non faccio mai manco quelli. Seguo l’ispirazione del momento, come dicono tutti i disordinati :D In tutto questo, ci sono anche i videogiochi. Come e perché? I videogiochi c’erano agli albori, tra le prime cose che ricordo, mi hanno trovato un lavoro, mi hanno accompagnato ovunque. Ci sono dei periodi in cui, causa tempo, gioco meno, ma non smetterò mai di farlo. Videogiocatori lo si resta dentro, a vita.

Tua moglie condivide con te le stesse passioni, o ti sgrida e ti dà del bambinone? No, fatti salvi i film di Miyazaki, guarda perplessa il resto delle mie passioni. Ma essendo una donna meravigliosa, mi sopporta. Spero a lungo. Alla fine dei conti, ti consideri un ‘nerd dentro’? Dentro, ma anche fuori. Troppe magliette dei super-eroi e di Star Wars per far finta del contrario... Viaggi tantissimo: la tua destinazione preferita continua ad essere il Giappone? C’è qualcosa della cultura nipponica che può contribuire a migliorare la nostra occidentale e viceversa? Ci sono stato 11 volte, e presto arriverà la 12a. È difficile da spiegare, me ne rendo conto, ma nel caos di Tokyo mi sento di casa. Sereno. Dai giapponesi dovremmo apprendere l’educazione e il rispetto per gli altri e le cose altrui. Qualcosa che loro possano apprendere da noi? Il modo di trattare le donne. Ci lamentiamo (giustamente) del maschilismo presente in Italia, ma lì son messi anche peggio. Che cosa ti auguri per il futuro? Di trovare il significato di 42.

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CONCERTO, GLI ULTIMI S

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n prima fila c’era il “popolo di Francesco”. Senzatetto, disabili, profughi seduti, per una sera, nei posti d’onore della Sala Nervi in Vaticano. Un atto d’amore voluto dallo stesso Sommo Pontefice per rendere unico il Concerto per le opere di solidarietà del Papa, dedicato a Dante Alighieri e alla sua Divina Commedia in occasione dei 750 anni dalla nascita del poeta. Undicimila persone, senza distinzione di ceto e di cultura, riunite in una sede unica per qualità architettonica e carica emotiva, soprattutto grazie al mecenatismo di una banca che fa banca in maniera diversa, la Banca di credito cooperativo di Roma, sponsor dell’evento, testimonianza e testimone insieme di come il male sia nel comportamento più che nell’essenza delle cose e la finanza non rappresenti il demonio, tutt’altro, se, come può, punti al bene comune grazie a un corretto utilizzo del libero arbitrio degli uomini e delle donne che ne disegnano e ne realizzano le strategie. La partecipazione della banca come partner di riferimento, è stata destinataria, insieme agli altri sponsor e organizzatori, di un ringraziamento speciale, quello del Santo Padre nell’udienza privata concessa mercoledì 13 maggio, il giorno precedente, appunto, il concerto della Sala Nervi. “La responsabilità sociale deve essere una opportunità di crescita e non un ulteriore costo da sostenere per le aziende, siano esse banche o industrie”, afferma Gabriele Gravina, vice presidente della Bcc di Roma, imprenditore, docente universitario e soprattutto amante e mecenate dello sport e della cultura, che con il

suo gruppo ha sostenuto e collaborato al progetto in Vaticano per le opere di carità di Papa Francesco. “Il ruolo dell’impresa nella società – sottolinea Gravina - è un ruolo centrale, perché l’impresa non è avulsa dal contesto in cui opera e si relaziona con tutto ciò che la circonda. Ecco allora il nostro impegno per il mondo della cultura. Sono fermamente convinto che la cultura migliora il vivere sociale come la vita di ciascuno di noi. Fa crescere positivamente la consapevolezza e l’orgoglio della propria umanità e il desiderio di condividere i valori di bellezza e di verità con chi ci circonda. La cultura crea

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ponti tra tradizioni diverse, inventa collaborazioni, instaura dialoghi”. E a far da ponte tra le diversità sociali in questa occasione – pronube l’Orchestra salernitana “Giuseppe Verdi” diretta dal maestro Daniel Oren - è la “Divina Commedia Opera”, che ha permesso ai versi della commedia dantesca, per tramite dei testi di don Gianmario Pagano e delle musiche di monsignor Marco Frisina, di risuonare per la prima volta in Vaticano. Come ricorda proprio Papa Francesco, la Commedia dantesca “Può essere letta come un vero pellegrinaggio, sia personale e interiore,


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I SONO I PRIMI....IN VATICANO sia comunitario, ecclesiale, sociale e storico. Essa rappresenta il paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare <l’aiuola che ci fa tanto feroci>, per giungere a una nuova condizione, segnata dall’armonia, dalla pace, dalla felicità. E’ questo l’orizzonte di ogni autentico umanesimo”. La Commedia è infatti un viaggio spirituale in cui il poeta, simbolo di ogni uomo, si pone in cerca di Dio che è l’Amore. E se ogni viaggio comincia con un primo passo, l’atmosfera particolare che ha circondato la serata, l’insolita sensazione di gioia diffusa tra i

presenti, simboleggiano egregiamente questo primo passo tanto particolare. Una serata che torna alla mente come una rapida carrellata fotografica. Fiumi di gente che attraversano i colonnati di piazza San Pietro con impresso un sorriso, nonostante le lunghe e chilometriche file per accedere all’interno della città. Aria di festa, gli ospiti speciali sono stati proprio loro, gli “ultimi”, che mai avrebbero solo immaginato di partecipare a un concerto in grande spolvero, nel primo settore completamente dedicato a loro, davanti all’orchestra e al grande direttore Oren. Una grande

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di Katrin Bove felicità che riempie la sala prima delle dolci note musicali, gli sguardi che vibrano, il silenzioso vociare in una meravigliosa espressione d’amore. Questo il sentimento della serata. L’accoglienza calorosa a tutti gli ospiti ha reso la serata piena di armonia, descritta con attenzione dalle parole di monsignor Frisina che ha introdotto e presentato il concerto. È stata un’occasione per condividere la bellezza della fede attraverso la musica, un dono meraviglioso di Dio agli uomini affinché possano avvicinarsi a Lui e aprire il cuore alla lode della sua misericordia. I brani ascoltati rappresentano un viaggio spirituale che dalla visione della nostra condizione umana porterà a incontrare la grazia del Signore. Senza preghiera vera non c’è vera gioia, quella profonda. La gioia è dono di Dio. Lui ci implora di attingere alla sorgente della gioia andando oltre il nostro piccolo orizzonte che spesso c’intristisce. Solo se abbiamo le mani vuote, possiamo attingere a quest’acqua viva. Mani vuote perché danno sempre. A volte sembra di non aver nulla da dare. Ma non c’è cosa più grande che dare il nostro niente: un sorriso nel dolore, l’attenzione all’altro quando vorremmo più considerazione per noi, offrire un po’ di luce quando siamo nel buio. Più gioia nel dare che nel ricevere, la fine dell’evento ha rappresentato il “dare”, omaggiando i nostri “amici” con viveri per la cena e al contrario raccogliendo offerte per l’Elemosineria Vaticana, che andrà come sempre, nel vivo ad aiutare i meno agiati, dovunque si trovano.


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COSTUME & SOCIETÀ

L’OPERA DI PAVESE

C

esare Pavese (+ 1950) fu senza dubbio una delle figure centrali della letteratura e della cultura italiana della prima metà del secolo scorso. Scrittore e raffinato traduttore, nelle sue opere egli affrontò, seppure in forma non sistematica e talora quasi latente, alcuni temi di ampio respiro e di grande interesse per la storia delle religioni, la psicologia e la spiritualità tout court. Tra questi, la questione della “ricorsività mitica”, sorta di legge profonda che, quasi meccanicamente, vincolerebbe l’uomo ad un destino già scritto. Il mito, in questo senso, non solo fonderebbe, ma addirittura determinerebbe la vita. É interessante notare come la ricorsività, principio noto anche in fisica, rimandi ad una concezione ciclica del tempo; d’altra parte, l’orientamento “deterministico” di cui sopra – questa incrollabile credenza nell’ineluttabilità del fato – potrebbe far pensare, in escatologia, alla questione della predestinazione assoluta ed alla “coazione a ripetere” ciò che si è fatto in vita per l’eternità. La fede vissuta nella ricorsività mitica è ben testimoniata lungo tutto il diario dello scrittore piemontese (Il mestiere di vivere, la cui prima edizione risale al 1952). Ad esempio, in un appunto del 04/04/1941, egli scrive che “ciò che si fa, si farà ancora e anzi si è già fatto in un passato lontano”: in ultima analisi, nulla sarebbe veramente accaduto, come insegnano certe teorie della fisica contemporanea. Tale tema, che Pavese trae anche da suoi personali studi etnologici, è strettamente connesso a varie tematiche: tra queste, l’anamnesi, il rapporto tra mito (“vivaio di simboli”) e ricordo (o sogno) “trasfigurato” – per l’atmosfera “sospesa” che ne è carattere comune –, lo stupore infantile, che va riattualizzato dopo la sua perdita (cfr. il tema universale del “paradiso perduto”), il simbolismo. Secondo Pavese conoscere è, platonicamente, riconoscere un preciso archetipo (si pensi al socratico “sapere di non sapere” ed alla santità cristiana quale viva espe-

di Marco Toti

rienza, di fronte alla maestà di Dio, della propria fragilità); e questa attività – questo “incontro aurorale” che genera una profonda commozione – può essere esperita anche nella vita ordinaria, nella fruizione delle piccole cose che, guardate con attenzione, rivelano caratteri inediti e sorprendenti. A compendio di quanto appena detto, si può citare un importante passo del diario di Pavese: “Ci commuoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi, perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva. Naturalmente a quel tempo la fantasia ci giunse come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione (giacché che l’infanzia sia poetica è soltanto una fantasia dell’età matura […]” (Il Mestiere di vivere, 31/08/1942 [secondo corsivo nostro]). É necessario, a nostro avviso, recuperare tutto ciò ad una lettura non meramente poetico-psicologica, ma ad una cifra esistenziale che non esclude il profondo interesse per la spiritualità, seppure non chiaramente definita né praticata (cfr. G. Molinari, “O tu, abbi pietà”. La ricerca religiosa di Cesare Pavese, Milano 2006). La storia della cultura (della letteratura), qui, interseca fruttuosamente l’analisi comparata delle tradizioni mistiche. È noto, ad esempio, come alcuni scritti di M. Proust siano stati interpretati come esperienze “mistiche”; inoltre, in ambito strettamente religioso, secondo Isacco il Siro lo “stupore” (dahash) costituisce l’ultimo livello della contemplazione, ciò che combacia con quanto i sufi islamici esprimono sul medesimo tema (in particolare Ibn Arabî, che ritiene che l’hayra [“sconcerto” di fronte alla divinità] si accompagna al fanâ’ [“estinzione”], ultima stazione spirituale del sufismo); il Buddhismo zen, d’altra parte, insiste molto sullo stupore infantile, da recuperarsi dimenticando se stessi. A tal proposito, eloquenti sono le parole di Cristo sul “diventare bambini” in Mt 18,3-4 e sullo stupore come via per la conoscenza in Platone.

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