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Sogno di fine estate: Arrigoni e Frangione, di Giuseppe Leone, pag

SOGNO DI UN POMERIGGIO DI FINE ESTATE di MASSIMO ARRIGONI E NICOLA FRANGIONE

di Giuseppe Leone

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Èstata una performance nel segno del teatro della voce quella del 18 settembre 2022, alle ore 18, nella sala Esposizioni dell’ex convento Santa Maria la Vite a Olginate, dal titolo Confessioni analogiche, che Massimo Arrigoni e Nicola Frangione, “entrambi poeti sonori caduti l'uno senza senso, l'altro senza voce”, hanno inscenato con cinque documenti d'archivio in una audioinstallazione composta da cinque registratori a cassetta distanziati tra loro in cinque punti dello spazio a disposizione.

Uno stupefacente ablativo assoluto, svincolato da qualunque legame, senza testo e senza autori, nonché senza attori sulla scena, semplicemente reso possibile dalla tecnologia e dall’ascolto del pubblico. Nessuna trama o intreccio se non quello che le parole, tra storie e memorie, evocano da un passato analogico ormai lontano.

Questi i documenti in scena:

Una segreteria telefonica, contenente 21

audio cassette che documentano l'intera messaggeria registrata nell'arco di un decennio. Una sorta di lungo diario sonoro, narrato in viva voce, nell’assenza di Arrigoni.

Confessioni di Antonius Block, tratto dalla sceneggiatura Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, qui adagiato nel Silentium di Arvo Part.

Voce cevovoce, nel 1980 Frangione taglia e cuce il fonema “voce” trasportandolo in azione ritmica, in gioco linguistico e di parola.

L’intervista, la voce robotizzata è di Rocco Agostino registrata nel 1984, una narrazione drammatica svela la sua dolorosa esperienza.

Incorporalità, interazione fonetica a due voci (Frangione – Arrigoni) una sperimentazione sui rapporti testo musica voce corpo scenico.

Parole, indistinte e confuse, che ora si sovrappongono, ora si precisano, a seconda che chi ascolta si avvicini o si allontani dalle fonti sonore, in questo teatro della voce, dove quel che conta non è più il dire, ciò che quel dire significa, ma l’ascolto di parole che sembrano fluire libere, come da copione futurista; e di Ungaretti, per il quale la parola poetica è “tremante”, è “foglia appena nata”, come se nascesse nel momento in cui il poeta la pronuncia.

E non solo, anche come da lezione del Gruppo ’63 e dello strutturalismo, che sul finire degli anni ’60, finirà per investire tutti i campi del sapere umano: dalla biologia alla linguistica, dalla sociologia alla filosofia, dall’antropologia all’etnologia, dalla psicanalisi al marxismo, dalla letteratura al teatro e all’arte in generale.

E proprio come gli strutturalisti, che amavano commentare le opere d’arte senza tener in alcun conto i rispettivi autori, ritenendo l’opera d’arte figlia solo delle proprie regole e della propria struttura, anche Arrigoni e Frangione propongono un teatro senza autori, dove il testo viene sostituito da una vera partitura di voci, le cui variazioni suggeriscono un andamento di ritmo musicale.

Come in questa loro performance, frutto di un’interazione di generi che ben si contaminano e si amalgamano in un gioco che ha valenza comparatista, avendo all’attivo “una vera storia delle correnti letterarie comuni, di prestiti e di anticipi, di restituzioni, di mediazioni, di immagini, secondo le categorie della storia, della letteratura, dell’estetica, della filologia, della psicologia individuale.

E non solo, Massimo e Nicola, con questa loro azione scenica, finiscono per far mutare pelle anche al pubblico, tanto che il suo profilo non sarà più così voluminoso come al tempo del teatro di corte o dello spettacolo di massa, esso è ridotto a pochi intimi che si muovono attorno all’attore o agli oggetti in scena, mandando in soffitta l’abitudine di starsene in disparte di qua dal sipario.

Uno spettacolo, o altrimenti detto teatro da camera che, anziché fare della scena e della sala due mondi chiusi, senza comunicazioni, diffonde i suoi bagliori visivi e sonori, su tutto il pubblico, fino a fare uno spettacolo totale. Ora, chiamare semplicemente con il nome di attori artisti come Massimo Arrigoni, che si definisce poeta sonoro e noto ignoto commediante, interprete di un teatro come poesia, musica, istallazione, editoria; e Nicola Frangione, che si dichiara artista interdisciplinare, dalle arti visive alla grafica editoriale, dalla perfor-

mance art alla poesia sonora e visiva, è davvero rimpicciolirne la figura. Non si rende davvero giustizia né a loro, né alla causa per cui si battono nel tentativo ideale di ricreare l’emozione e la partecipazione proprie dell’antica ritualità della liturgia drammatica, ormai dimenticata e assente da secoli nella vita del teatro europeo del Novecento.

Certo, sono nobili le tematiche di questo teatro di Arrigoni e Frangione, ma ancora più nobili quei loro fini di recuperare un’idea del teatro che si è perduta, come preconizzava Artaud che lo voleva legato alla vita spirituale e culturale di un popolo come quello balinese, non adulterato dalla tradizione accademica, né umiliato dalle ragioni commerciali, come è da tempo quello europeo.

Da qui, l’urgenza di un teatro che non sia al di qua degli avvenimenti, la cui risonanza in noi sia profonda, e domini l’instabilità dei tempi, perché la lunga abitudine agli spettacoli di evasione ci ha fatto dimenticare l’idea di un teatro serio, che, sconvolgendo tutti i nostri preconcetti, ci trasmetta l’ardente magnetismo delle immagini e agisca su di noi come una terapeutica spirituale la cui azione lasci per sempre la sua impronta.

Un’idea di teatro senza dubbio forte, salvifica, questa di Arrigoni e Frangione, drammatica, in un mondo che decade e che si avvia senza accorgersene al declino; un’idea, che essi lanciano come una scommessa, coscienti che non sia poi così facile arruolare per quest’impresa uomini capaci di imporre questo concetto superiore del teatro.

O forse un sogno. Anche. Un sogno di un pomeriggio di fine estate, con due artisti, anzi solo uno, perché Frangione non è potuto essere presente per problemi di salute, e altri pochi intimi in ascolto.

Giuseppe Leone

Pag. 9: Foto spettacolo. Ex convento Santa

Maria la Vite, Olginate Lecco), 18 settem-

bre 2022. Pag. 10: Massimo Arrigoni Pag. 11: Nicola Frangione

LA PARETE DI ROCCIA

La parete di roccia splende al sole accecante nell’ora mattutina. Mostra al cielo le innumeri ferite infertele dal tempo: fenditure, crepe, dirupi e qualche nicchia dove sola e libera l’aquila fa il nido. Ciò che serba nel suo cuore profondo la parete di roccia non rivela: forse serba il segreto arduo del mondo; di ere primordiali ormai remote il misterioso abbaglio e l’avventura. Passano bianche nuvole nell’alto, mosse da un vento che seco le porta veloce, all’assalto delle cime. La parete di roccia le contempla e a tratti un’ombra svaria sul suo volto ammaliato da un sublime incanto. Pare stupire, tesa nell’ascolto di una voce lontana che a lei sale tra la fuga dei pini e degli abeti. Rotola un masso. Per aeree scale. Si moltiplica l’eco del rimbombo, alla corsa che a valle lo conduce in un fiume di schegge.

Nel mattino, legata al suo immutabile destino, come ravvolta da un aereo manto, inseguendo il miraggio che la tiene (sono i ruscelli le sue bianche vene) la parete di roccia è tutta luce.

Elio Andriuoli

Napoli

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