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Imperia Tognacci: La meta è partire, di Tito Cauchi, pag

IMPERIA TOGNACCI LA META È PARTIRE

di Tito Cauchi

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IMPERIA Tognacci, autrice romagnola di San Mauro Pascoli, in questa ultima sua impresa, La meta è partire, mette a frutto buona parte del suo patrimonio letterario finora adoperato; quanto al titolo esso ricalca un verso di Giuseppe Ungaretti: “Qui la meta è partire”, come indicato nell’esergo. Fonde insieme arte versificatoria e vena narrativa, costituendo un poema. In copertina Psiche apre al sogno di John William Waterhouse, una fanciulla con scrigno in mano. Chi ne abbia contezza sa che le opere della Nostra, improntate sulla sua vasta cultura, anche per formazione, sono intrise del mito classico rivisitato nella realtà quotidianità; coerentemente le note critiche, che qui seguono, rispondono a queste caratteristiche.

Francesco D’Episcopo intitola la propria prefazione “Poema cosmologico”, avendo rilevato nell’attività professionale e nella produzione di opere di Imperia Tognacci, il suo senso della vita. Centrale diventano l’Amore e la Poesia, fra le quali lei agisce come moderna sacerdotessa, attingendo alla “memoria” in cui i soggetti dialogano nel segno del confronto e del bene verso l’umanità.

Marina Caracciolo, nell’introduzione, confermando quanto su esposto, spiega che protagonisti del dialogo sono il Poeta, Psiche che fa da guida, ed Eva, ai quali si aggiungono la Ragione, Calliope e divinità e personaggi dell’Oltretomba. Il tutto finalizzato al trionfo della vita sulla morte, al superamento dei limiti del tempo; mirando, la poesia, a indicarci la via del Bello e del Vero. Infine conclude assicurando che è “Una fede che non può che albergare in sommo grado proprio nell’animo e nel pensiero dei veri poeti.”

L’opera si sviluppa in undici capitoli dei quali il primo e l’ultimo sono anticipati da un esergo, rispettivamente di Apuleio, riguardante Orfeo e Psiche; e di Euripide, sulla morte. Le due note critiche di cui sopra, focalizzano esaurientemente il nucleo centrale del poema. Al lettore è lasciato il piacere di godere dei versi sciolti e scorrevoli, in una misura ordinata, ora piani, ora alati, a volte sognanti nel giardino lussureggiante; contenuti sempre legati alla realtà e perciò l’opera ci invita a stazionare su alcuni momenti topici, per riflettere. Il tutto è legato e quasi avulso da ogni dimensione temporale e spaziale, sebbene vi siano inseriti temi reali sociali, senza forzature, quale quello molto serio delle migrazioni; come pure della memoria e dell’ansia che prende gli scrittori (donne e uomini).

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Il poema prelude un Eden fin dall’inizio. Forse commetterò qualche forzatura. Ho avuto l’impressione di trovarmi dinanzi alla “Primavera” del Botticelli, dove Imperia Tognacci si sdoppia: in una voce esterna narrante e una interna in cui prende corpo il sogno. Anzi, la Nostra si moltiplica in più voci. Dirò fin da subito che il transfert, conseguente in ciascun autore, qui pare riflettersi

in un gioco di specchi, dove a mutare è solo il nome. “Io sono sogno che grida all’onda: / ‘Accarezzami, avvolgimi’. / Resta spenta, mitica lampada. / Senza fine sia il mio sogno!”

Per esempio, la figura dello scoglio, da una parte rappresenta una barriera, un frangiflutti; insomma metaforicamente si mostra come uno scudo; nondimeno può suggerire un connubio continuo, segno del desiderio di una tenera carezza e di una sferzata insieme. D’altronde il mare per sua natura non resta immobile. In una sorta di dialogo serrato, serrato come il battito del cuore durante una corsa, di alta tensione, si appalesa Calliope, la musa della poesia, che chiarisce al Poeta, il senso di cosa debba intendersi per poesia nei tempi in cui viviamo. Con un salto temporale la Nostra si muove entro il suo ambito quotidiano descrivendo gli oggetti in casa, come un “pennino spuntato”, un quadro in cui è rappresentato il teatro di Taormina; le sembra di avvertire un boato dell’Etna insieme all’aroma del caffè del mattino come se rinascesse, simile alla mitica Araba Fenice.

L’Eden si risveglia, dopo lo smarrimento in cui tutto taceva, e Zefiro soffia dolcemente ridestando Eva: “Eros, nascosto / tra le nebbie dell’Olimpo, / ora è nel sole.” Nell’incantevole giardino il Poeta le confessa: “Con te voglio naufragare/ nell’universo e rinascere/ ascoltando di Liszt le note”. Osserviamo qui la commistione del mito e del biblico, con il moderno. E per tutta risposta la donna gli si abbandona.

Si presagisce un viaggio nelle parole che indicano movimento. Imperia Tognacci affida al Poeta l’interrogativo riguardante il mistero che, forse, sta “Nel primo vagito del mondo”; e Psiche lo sollecita a lasciarsi andare al sogno insieme con Eva, poiché ci portiamo tutta l’interiorità dai millenni trascorsi. Siamo tormentati nella ricerca “di armonizzare i battiti dei cuori” e sebbene ne siamo coscienti, vorremmo trarre un conforto ai nostri fremiti. Il Poeta decide di prendere il “treno”, mentre Eva lo invita a stare con lei: “non cambieremo la rotta/ per il canto delle sirene.” Anche in questo caso abbiamo una commistione tra moderno e classico.

È come constatare che Eva è in ciascuna donna e che Eros è volubile perché si comporta come un Narciso. Eva dice di volersi liberare dai catenacci, ma perde la rotta, alla maniera di come Ulisse ha ritardato il ritorno a Itaca. Psiche spiega ancora una volta che l’Eva che il poeta cerca è già in lui. Sembra vivere un bel sogno, ma “La luce fredda dei lampioni/ ti porta dentro sentore di solitudine.” (p. 39), in un alternarsi di sogni e realtà, ma ai sogni non bisogna rinunciare. Sembra che la voce narrante, come corifeo, intervenga quale sibilla o quale Pizia dall’oracolo ambiguo, spiegando al Poeta che “Psiche non segue il tuo passo. / La tua anima è sepolta, poeta, / sotto la terra di sospiri/ e di vane parole. / (…) / Presagio di sventura il morso/ nel frutto della superbia.” Riferendosi a Proserpina nel regno dei morti, si commenta il dissolversi degli umani che siano “senza ancoraggio”.

Imperia Tognacci sembra avvertire che il serpente biblico continua a esistere sotto varie sembianze, circostanze e illusioni. Versi drammatici, strazianti, si presentano quando viene narrata la circostanza in cui si ode, in mezzo alla folla, una voce venuta a mancare che pare riconoscere e non si vuole dubitare che non sia essa (a pag. 48). Si ha la consapevolezza della propria sofferenza che si tenta di spegnere abbracciati al cuscino, con il sacrificio di avere perduto l’Eden. Nella solitudine e nel silenzio della notte, le evocazioni sono maggiormente pressanti. Così: “ricerchi, poeta, / le tracce di orme sepolte” che sembra riconoscere nei luoghi vissuti; riconoscere le impronte delle mani sul portone. Così: “Galeotto fu l’oscurarsi della luce, / nella stanza del primo valzer. / Si spalancava la porta interiore/ al frenetico vibrare del cuore.” (p. 52). Sono troppe le lacrime versate per le proprie pene e soffriamo per le ingiustizie odierne verso i nuovi schiavi dalle “schiene curve”.

Abbiamo perduto il senno, siamo accecati, disorientati dalle masse che acclamano i

nuovi Barabba; così tu poeta: “Come onda di mare/ che stenta a trovare la sua meta, / avanzi tra solitarie folle, / ammaliate dal miraggio dei social” (p. 56). Nel labirinto della vita non abbiamo il filo che seguì invece Teseo. Siamo frastornati da voci indistinte che reclamano il proprio imperio, così il “cellulare”, così l’evocazione della “notte del Getsemani”: siamo catturati da enigmi. Il poeta smarrito, senza ispirazione, viene esortato a riprendersi, dopo essere stato ridotto come “stoppie incenerite”, come un campo incenerito (ristuccia, come dicono in Sicilia). Psiche osserva l’abbandono del poeta alla “noia mortale”, o come barca ha “le cime legate alla bitta”, o fa l’inutile fatica del mitico Sisifo, lo invita a liberarsi della zavorra per rivedere la sua Eva. “Salvami, Psiche, / cammino, ma non sono miei/ questi passi: mi portano/ dove io non sono.” (p. 64). Mentre “Bacco s’inebria/ in concerti di voci stonate”, speriamo nel prodigio che i semi riprendano a germogliare, nella poesia e nell’amore.

Tornando alla realtà si prende coscienza di una casa desolata, segnata da un orologio a pendolo che non oscilla più, ove Eva invita il Poeta a starle accanto. Desolazione anche per i nuovi “schiavi bruni” sfruttati dal lavoro. Psiche mette in guardia dalla tecnologia telematica, dalle convenienze sociali. Anche la voce narrante mette in guardia dalle vane glorie, nonché dalle tante lacrime versate, ricordando che ciò che cerchiamo l’abbiamo già con noi, ma non ce ne rendiamo conto. Dobbiamo prendere coscienza che siamo solo “frammenti d’infinito”, parte dell’armonia universale.

Il Poeta non è ancora partito, è rimasto “nudo e solo”. In un gioco di parole dal doppio senso, abbiamo le mitiche Moire che sopraintendono alle morti e ci chiediamo quando sarà il nostro turno. Vediamo sotto i nostri occhi il regno dei morti con il fiume Acheronte, il suo traghettatore Caronte, il Cerbero cane con tre teste, una visione dell’Inferno dantesco. “Né Psiche, né Caronte, / né la ragione, / che alza il suo scettro, / riescono a cancellare/ le orme del passato/ dal cuore non spento.” (p. 80). Il poeta, grazie ai suoi versi, riesce a moderare il traghettatore il quale consente così di avvicinare le due sponde, della morte e della vita, cioè il Poeta e la sua Eva: la meta è raggiunta! ***

Ho indugiato alcune volte sulle metafore presenti, tratte di frequente dalla letteratura classica (greca e romana), biblica (il morso alla mela, Barabba acclamato dalle folle), tratte dal moderno (il biancospino, l’urlo di Munch), altresì dalle cronache sugli immigrati; altri lettori troveranno spazio per ulteriori approfondimenti. Rileviamo che la meta, e quindi il viaggio, si avverte nei verbi e nelle parole indicanti movimento, come scritto in precedenza (onda, fiume, vento, pioggia, salto; anche albe e tramonti). Abbiamo assistito ad alcuni quadretti, come quando ci si affacci dal finestrino del treno o da un oblò di nave. Abbiamo incontrato Psiche e Amore, abbinamento tramandatoci dalle rappresentazioni artistiche; abbiamo in-

contrato Orfeo, il poeta e musico generalmente abbinato al nome della sua sposa Euridice e qui mi sembra la grande assente (almeno nel nome).

La meta si può declinare sia come il fine che sta per scopo, sia come la fine della vita, che ugualmente riguarda il viaggio: un viaggio interiore, oltre il tempo e oltre il luogo. Man mano che procede il poema, avvertiamo che può trattarsi di una intima confessione indirizzata da Imperia Tognacci a chi sa lei. Così il “pennino spuntato” può stare come segno dello sconforto per la mancanza di ispirazione e considerazioni sui mutati modelli creativi; così la pelle scura ci ricorda l’immigrazione di questi tempi. Ho provato a esporre le sequenze narrate, ed è poca cosa. Non vorrei essermi fatto prendere la mano dalla mia conoscenza delle opere precedenti su cui ho avuto modo di sostare (TITO CAUCHI, Imperia Tognacci, Memoria e Mito, Editore Totem, Lavinio Lido RM 2022). Quest’opera, La meta è partire, aggiunge un tassello che arricchisce meritatamente la produzione creativa della Nostra.

Tito Cauchi

Imperia Tognacci: La meta è partire, Genesi Editrice, Torino 2022, Pagg. 92, € 15,00.

GUERRA IN UCRAINA DOPO OTTO MESI

Passano i giorni, le settimane, i mesi e la guerra continua senza tregua nella terra insanguina e sinistrata dell’Ucraina, contesa tra forze opposte, d’aggressione e di difesa. Catene di assurde pretese, minacce, ricatti, torture, morti ad usura, distruzioni che non hanno più una misura; sorrisi di serpenti con il veleno nei denti, bocche aperte di coccodrilli vogliosi di sbranare pesci e… anguille, sono strepiti e sordidezze quotidiane, che portano tristezza e sconsolanza in chi aborre la guerra e gli dèi armati. All’orizzonte spettri d’armi nucleari. Spaventosa la messa in scena dei tristi, per dialogare sul come e dove spadroneggiare in forza di diritti aberranti, fertili nei prepotenti dalle menti torbide, scaltre, che alla gloria del crimine aspirano, come tristi esseri inumani, malfattori a tempo indeterminato, despoti di oggi, terroristi di domani. Nelle oscure e atroci stanze della storia i loro nomi sono già scritti col sangue, ad abominio di vita e imprese nefande, consumate come orridi pasti di sciacalli. La sofferenza della Terra, vittima umiliata e offesa da impositori di leggi maniacali, da spaventare giganti e nani, si manifesta con alzate di mani al cielo e preghiere alla Divina Potestate affinché la soccorra e allontani i mali che la rendono misera e depredata, regno di tenebre nell’ordine del creato.

Antonio Crecchia

Termoli, 25 ottobre 2022

MUSA DORMIENTE

Dormire, per assurdo, con la certezza del risveglio, sognare la notte stellata al di là di nubi opache travalicare confini alla ricerca dell’amata nascosta da cortine di veli per ammirare i contorni dell’inaccessibile Dea che s’offre solo a tratti all’abbraccio rigenerante. Misteriosa Musa che aliti tra respiri e sospiri e riemergi immemore di tempi lassi e grigi e germogli improvvisa tra profumi di mammole e laceranti dolori con occhi velati.

Wilma Minotti Cerini

Pallanza, Verbania

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